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Danilo Breschi

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Danilo Breschi

Il vario liberalismo italiano e la rivoluzione d’Ottobre

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Probabilmente il titolo promette troppo rispetto a quanto può essere mantenuto nello spazio di un breve saggio. Qui sono stati presi in considerazione soltanto alcuni tra i più significativi esponenti del liberalismo italiano; esclusivamente figure di intellettuali, filosofi, giuristi o giornalisti, eccezion fatta per Giovanni Amendola, che da intellettuale raffinato divenne il «leader del liberalismo democratico italiano nei primi anni del regime fascista»1. Sono autori i cui giudizi sugli effetti provocati dalla rivoluzione d’Ottobre fanno emergere alcune considerazioni utili per una riflessione più generale su come la cultura politica liberale si pose di fronte alle sfide interne innescate dal successo bolscevico in Russia: la deriva massimalista e rivoluzionaria del socialismo nostrano e la risposta piccolo e medio-borghese che avrebbe favorito l’ascesa del fascismo, costola del vario sovversivismo sorto a Sinistra nei primi vent’anni del Novecento.

Premessa teorica e metodologica, tanto ovvia quanto necessaria, è che il liberalismo italiano, al pari di altri contesti nazionali, presentava all’epoca – e tuttora – una diversificazione, talora divaricazione, interna di posizioni tra una Destra e una Sinistra, nonché tra filogovernativi e antigovernativi, ossia tra chi considerava come genuinamente – o passabilmente – liberale la classe politica al governo e chi, invece, tale la riteneva poco o per niente, e perciò la incalzava ad esserlo dalle file dell’opposizione, sovente extraparlamentare, quando non ne auspicava la completa sostituzione. Un dato che accomuna gli autori qui passati in rassegna è la prevalenza di posizioni avverse – a diversa gradazione – all’establishment politico dell’Italia pur detta “liberale”, quasi sempre riassunto nella figura di Giolitti. Posizione peraltro prevalente tra le file del liberalismo italiano, come conferma anche il giudizio espresso sul bolscevismo, nella sua versione tanto russa quanto italiana. Si tratta di una posizione che affonda le proprie origini nella travagliata fase relativa all’ingresso dell’Italia in guerra tra 1914 e 1915. Tra interventismo e neutralismo si spacca l’apparente unità del liberalismo italiano, e prevale l’antigiolittismo2. Sarà l’immediato dopoguerra a confermare tale prevalenza. Per alcuni, i conservatori soprattutto, il liberalismo giolittiano

1 Paolo Bonetti, La democrazia liberale di Giovanni Amendola, in Id., Breve storia del liberalismo di sinistra. Da Gobetti a Bobbio, postfazione di Dino Cofrancesco, Liberilibri, Macerata 2014, p. 41. Cfr. Elio D’Auria, Liberalismo e democrazia nell’esperienza politica di Giovanni Amendola, Società Editrice Meridionale, Salerno-Catanzaro 1978. Si veda anche la recente biografia sul leader antifascista di Alfredo Capone, Giovanni Amendola, Salerno Editrice, Roma 2013. 2 Nella vasta letteratura esistente sull’argomento, si vedano i recenti lavori di Luigi Compagna, Italia 1915. In guerra contro Giolitti, Rubbettino, Soveria Mannelli 2015; Giorgio Petracchi, 1915.

si era spento nell’assecondare i processi di democratizzazione senza governarli, per altri, definibili come filo-democratici o più “progressisti”, esso si era ridotto a trasformismo, clientelismo, affarismo e perdita dell’anelito innovatore che avrebbe dovuto essere proprio di chi professava il valore della libertà3 . In questa rassegna, pur necessariamente parziale, ci soffermeremo sui giudizi di alcuni intellettuali liberali a proposito del bolscevismo. Il periodo preso in considerazione è quello a ridosso del fatidico ottobre 1917. Man mano che ci si allontana da quella data, per l’Italia si farà infatti sempre più pressante la questione fascista. Come vedremo, il giudizio sul bolscevismo è in questi autori espresso soprattutto in termini di preoccupazione per lo scenario politico e sociale interno, per la stabilità dell’ordine istituzionale, e ben presto si mescolerà con il giudizio sul fascismo che rapidamente incarnerà agli occhi di molti di loro la più efficace reazione al “pericolo rosso”. Del resto, tra estrema lontananza geografica, difficoltà di comunicazioni e una scarsa e debole tradizione di studi sulla Russia, oltre agli inevitabili interventi di censura e di propaganda, «tutto concorse fin dall’inizio a rendere vaghi e oscuri i quadri della realtà russa che l’Europa venne creandosi»4. Quel che però trova conferma, come vedremo, è l’antigiolittismo quale denominatore pressoché comune tra molti liberali nostrani5 .

In tale prospettiva, non si può non prendere le mosse da Benedetto Croce. Per questo filosofo, come per molti altri pensatori e scrittori suoi contemporanei, il punto di partenza era il Risorgimento e in particolare la sua eredità, da recuperare piuttosto che da conservare, visto che era stata travisata o, peggio, corrotta dall’età giolittiana, come già i contemporanei cominciavano a definire il lungo periodo di governo dello statista piemontese. Nel 1907, in un articolo dedicato al pensiero di Georges Sorel, di cui nel 1909 avrebbe introdotto in Italia le Considerazioni sulla violenza per i tipi della Laterza6, Croce affermava che la costruzione del socialismo doveva «prendere esempio» dalla realizzazione della «unificazione d’Italia» e aggiungeva:

È certo che se i rivoluzionari italiani si fossero accordati, come da taluno si tentò, coi vecchi governi, transigendo sulle rispettive pretese e congegnando riforme e temperamenti, l’unità d’Italia non si sarebbe attuata; e che ad attuarla giovò in primissimo ordine l’educazione mazziniana all’intransigenza. Il proletariato, se vuole imitare davvero la borghesia nell’abbattere una vecchia società, deve avere la forza e la capacità d’imitarla altresì nei metodi severi dell’abbattimento e della riedifi-

L’Italia entra in guerra, Della Porta Editori, Pisa 2015; Antonio Varsori, Radioso maggio. Come l’Italia entrò in guerra, il Mulino, Bologna 2015. 3 Sulla distinzione di stampo crociano – del Croce ormai apertamente antifascista – tra liberali giolittiani, considerati quali autentici liberali, e liberali di Salandra, ritenuti solo dei conservatori, si vedano le riflessioni di Antonio Jannazzo, L’eredità di Giolitti, in Id., Il liberalismo italiano del Novecento. Da Giolitti a Malagodi, Rubbettino, Soveria Mannelli 2003, pp. 11-39. 4 Antonello Venturi, Postfazione a Piero Gobetti, Paradosso dello spirito russo, Edizioni di Storia e Letteratura, 2016, p. 231. 5 «L’ostilità delle masse era tanta e il discredito per la democrazia liberale (cioè l’antigiolittismo) non risparmiava uomini e ambienti di democrazia liberale», in Luigi Compagna, Italia 1915… cit., p. 43. 6 Georges Sorel, Considerazioni sulla violenza, con una Introduzione di Benedetto Croce alla prima edizione, Prefazione di Enzo Santarelli, Laterza, Bari 1970.

cazione. Tali condizioni pone la storia, e con l’osservanza di esse il socialismo è tanto poco pauroso quanto è poco pauroso ciò che è necessario7 .

Croce prendeva dunque a modello l’Unità d’Italia, il modo in cui essa sarebbe avvenuta, ovvero col contributo fondamentale di «rivoluzionari» educati da Mazzini all’intransigente devozione verso ideali di libertà vissuti in modo religioso. Evidenti, poi, nel ragionamento crociano di quegli anni una netta avversione nei confronti del riformismo e una certa inclinazione benevola verso il socialismo rivoluzionario. Non va dimenticato che, parlando di Croce, ci riferiamo a colui che fino alla vigilia della prima guerra mondiale può essere descritto come uno dei principali esponenti dell’opposizione intellettuale al governo e al più complessivo “sistema” giolittiano8. La scelta neutralista segnò un cambio di direzione, poi maturato fino al punto che il filosofo accettò di assumere il dicastero della Pubblica Istruzione nel quinto ed ultimo governo presieduto da Giolitti tra il 1920 e il 19219 .

Nel caso di Croce, oltre alla Grande Guerra, a spezzare il nesso, a lungo fascinoso ed attraente, tra l’idea di libertà e quella di rivoluzione – con cui veniva aggiornato il concetto di “Risorgimento” – avrebbe contribuito non poco il successo dei bolscevichi in Russia. L’avvento al potere di Lenin rilanciò dentro e fuori l’Europa la parola e il concetto di “rivoluzione”, trasfigurati e ricaricati nella loro valenza palingenetica. In tempi non sospetti Croce si era accorto di questa deriva irrazionalistica, che in Italia era stato esito non voluto dell’affermazione del nuovo idealismo. Già in una lettera del 12 aprile 1912 si lamentava infatti con Alessandro Casati della «nuova generazione» di letterati italiani, del fatto che fosse «neurastenica, ed aspetta l’impossibile, e io adempio il mio ufficio che è di richiamarla sul terreno della storia e della pratica. Anche la “Voce” mi ha seccato: speravo che con gli anni migliorasse e si facesse sempre più seria, e diventa invece sempre più ragazzesca»10 . L’irrazionalismo nostrano avrebbe finito per incontrarsi o affiancarsi a quello slavo.

Sui fatti di Russia nel corso del 1917, Croce si mostrava già allarmato ben prima dell’Ottobre11. Grande preoccupazione suscitarono già nel filosofo napoletano i fatti di Torino del 21-25 agosto 191712, che gli suggerirono come fosse concreta la possibilità d’una saldatura tra protesta popolare contro la guerra e politica rivoluzionaria ad opera d’un PSI a guida massimalista. In sostanza, anche negli anni immediatamente successivi, Croce rimproverò sempre molto aspramente al socialismo italiano la scelta filobolscevica, in quanto signi-

7 Benedetto Croce, Conversazioni critiche. Serie Prima, Laterza, Bari 1942, p. 313. Il corsivo è mio. 8 Su natura ed evoluzione del liberalismo crociano, resta lettura penetrante quella di Norberto Bobbio, Benedetto Croce e il liberalismo, in Id., Politica e cultura, Einaudi, Torino 1955, pp. 211-268. 9 Sulle ragioni della scelta infine neutralista di Croce, avverso soprattutto all’irrazionalismo volontaristico che pervadeva un po’ tutto lo schieramento interventista, si vedano le interessanti argomentazioni di Nicola Matteucci, Benedetto Croce e la crisi dell’Europa (1967), ora in Id., Filosofi politici contemporanei, il Mulino, Bologna 2001, pp. 25-53. 10 Benedetto Croce, Lettere ad Alessandro Casati (1907-1952), Istituto Italiano per gli Studi Storici, Napoli 1969, pp. 10-11. 11 Sul giudizio crociano in tema di bolscevismo cfr. Roberto Pertici, Benedetto Croce e il socialismo italiano fra guerra e dopoguerra (1914-1922), “Annali dell’Istituto Italiano per gli Studi Storici”, XXIX 2016, pp. 245-277. 12 Sui quali si rinvia, per notizie generali e bibliografia, a Piero Melograni, Storia politica della grande guerra, 1915-1918, Laterza, Roma-Bari 1977, pp. 337-342.

ficava spingere fino alle estreme conseguenze quell’internazionalismo proletario che era lesivo dell’unità nazionale, peraltro in un momento quanto mai critico per la tenuta dello Stato italiano13 .

In una lettera a Giovanni Castellano del 17 novembre 1918, azzardava qualche previsione:

Io credo che il mondo vada verso il socialismo. La disfatta della Germania è la fine dell’ultima possanza che rappresentava l’ideale storico, antidemocratico, autoritario, tradizionalistico: ed è la vittoria della democrazia, e democrazia estrema significa socialismo. D’altronde, la guerra ha creato le condizioni, che ancora mancavano, pel socialismo. Il dubbio non è questo: è invece se il socialismo procederà organicamente o se non vi sarà un periodo anarchico, che ora si dice bolscevistico [sic]. A me pare che questo pericolo sia attenuato da più fatti: 1) che i popoli vincitori non tendono all’anarchia; 2) che la Germania stessa ha forze di resistenza nella sua salda cultura e disciplina, e già par che non voglia sapere di bolscevismo; 3) che Wilson cerca di assicurarsi di ciò, ponendo a condizione del vettovagliamento della Germania, che ubbidisca alle autorità costituite; 4) che l’Intesa è stata tradita dal bolscevisti [sic], ed è creditrice della Russia. E taccio il resto14 .

Nel complesso, comunque, Croce, pur non lesinando critiche ai vertici sindacali e deplorando lo stato d’agitazione permanente in atto in Italia tra 1919 e 1920, non si lasciò andare ad alcun eccesso d’allarmismo e, dalla lettura delle sue pagine, tanto pubbliche quanto private, non si ricava «quella sensazione di essere sull’orlo del baratro e quindi quell’aspirazione a un ordine quale che sia, che si ritrovano in molte testimonianze contemporanee»15. Come avrebbe scritto il 21 gennaio 1920 in una lettera a Carlo Miraglia, con la quale declinava l’invito a contribuire alla nascita di un’associazione anti-socialista a Napoli, per lui il pericolo era «più nella paura che nella realtà»16 .

Fra gli intellettuali italiani tra loro “diversamente liberali”, se così possiamo denominarli, la posizione crociana di cautela ed equilibrio di fronte a una possibile bolscevizzazione della situazione politica e sociale nazionale fu anche, come vedremo, di Guglielmo Ferrero e Francesco Ruffini. Ciononostante, il giudizio crociano sul bolscevismo russo e le sue più ampie conseguenze sul clima politico e culturale europeo fu sin da subito assai severo, e nella sua Storia d’Europa, pubblicata nel 1932, avrebbe ribadito che

il comunismo, che era stato, sotto nome di socialismo, immesso nella vita della politica e dello stato e nel corso della storia, è ricomparso nella sua scissione e crudezza, nemico acerrimo anch’esso del liberalismo, che irride dicendolo ingenuamente moralistico; e, al pari dell’attivismo, col quale si fonde, quel comunismo è sterile o soffocatore di pensiero, di religione, di arte, di tutte queste e altre cose che vorrebbe asservire a sé e non può se non distruggere17 .

13 Benedetto Croce, Tre socialismi, “Il Giornale d’Italia”, 2 ottobre 1918, ora ne L’Italia dal 1914 al 1918. Pagine sulla guerra, Laterza, Bari 1965, pp. 285-289. 14 Benedetto Croce, Lettere a Giovanni Castellano, 1908-1949, a cura di Pio Fontana, Istituto Italiano per gli Studi Storici, Napoli 1985, p. 91. 15 Roberto Pertici, Benedetto Croce e il socialismo italiano… cit., p. 260. 16 Benedetto Croce, Epistolario. Vol. I. Scelta di lettere curata dall’autore, 1914-1935, Istituto Italiano per gli Studi Storici, Napoli 1967, p. 44. Cfr. Raffaele Colapietra, Napoli fra dopoguerra e fascismo, Feltrinelli, Milano 1962, pp. 99-100. 17 Benedetto Croce, Storia d’Europa nel secolo decimonono, cit., p. 308.

Con il bolscevismo e la rivoluzione sovietica, inoltre, si era definitivamente confutato nei fatti l’aspetto utopistico, del tutto irrealizzabile, del comunismo: «l’abolizione dello stato, il “trapasso dal regno della necessità a quello della libertà”, che il Marx teorizzava, non solo non è accaduto e il comunismo non ha abolito (e non poteva, né alcuno potrà mai) lo stato, ma per ironia delle cose, ha foggiato il più pesante degli stati che sia possibile mai concepire»18 . Tra le nuove leve intellettuali dell’immediato dopoguerra, spicca senz’altro la figura di Piero Gobetti. Questi, dichiarandosi liberale, sia pur di nuovo e diverso conio, manifestò profonda ammirazione per l’azione di Lenin e compagni. Furono premesse filosofiche di stampo idealistico a forgiare in misura consistente il pensiero del giovane Gobetti, e a predisporlo per una ricezione entusiastica d’ogni evento che potesse configurarsi, o quanto meno percepirsi, come una rottura radicale dell’assetto politico esistente, e soprattutto un rovesciamento dell’odiato sistema giolittiano. In una parola: come rivoluzione. Stante ciò, risulta evidente come il colpo di mano bolscevico e il tentativo torinese e ordinovista di emularlo nella tarda estate del 1920, assumessero agli occhi di Gobetti i contorni della grande occasione storica di tradurre in termini pratici il proprio afflato idealistico e volontaristico.

Non si dimentichi che, tra i professori di liceo, Gobetti aveva avuto Balbino Giuliano19 . Insegnante di filosofia, Giuliano aveva avuto una formazione di stampo gentiliano20. Più in generale, va aggiunto che “Energie Nove”, la prima impresa editoriale di Gobetti, al pari di molte altre coeve «espressioni di gruppi di studenti o di ex-combattenti […], si situa in un fermento giovanile nazionale suscitato dalla battagliera “Unità” salveminiana»21. Gaetano Salvemini, infatti, fu il maestro dichiarato, il riferimento esplicito che

18 Ibid., p. 312. E così proseguiva: «Con che non si vuol detrarre nulla né alla necessità nella quale i rivoluzionari russi si sono trovati di seguire quella via, e non altra; […] né all’entusiasmo mistico, e sia pure di un misticismo materialistico, che li anima e che solo può farli reggere all’immane pondo che si sono messo sulle braccia e dar loro il coraggio di calpestare, come fanno, religione e pensiero e poesia, tutto quanto riveriamo come sacro, tutto quanto amiamo come gentile. Ma si vuol ribadire con ciò che essi, per ora, hanno bensì assertoriamente negato con le parole e con atti di violenza e metodi di compressione, ma non hanno risoluto […] il problema fondamentale dell’umana convivenza che è quello della libertà, nella quale solamente l’umana società fiorisce e dà frutti, la sola ragione della vita dell’uomo sulla terra […]» (ivi). 19 Di «una particolare, momentanea, influenza sul Gobetti per il fatto d’esser stato suo professore di filosofia al liceo: d’esser stato cioè il maestro da cui per la prima volta il giovane ha sentito pronunciare quelle parole, enunciare quei concetti, porre quei problemi a cui dedicherà in seguito sempre più intensamente la propria intelligenza e la propria vita», ha scritto Paolo Spriano nella sua Introduzione alla raccolta, da egli stesso curata, degli scritti politici gobettiani: Piero Gobetti, Scritti politici, Einaudi, Torino 1969 (prima ristampa della prima edizione del 1960), pp. XVIII-XIX. Balbino Giuliano sarebbe stato anche uno degli iniziali collaboratori della prima creatura editoriale di Gobetti, il quindicinale “Energie Nove”. 20 Cfr. Eugenio Garin, Cronache di filosofia italiana, 1900-1943, Laterza, Bari 1966, p. 43, nota 21 e, soprattutto, la voce appositamente dedicata da Roberto Pertici nel Dizionario Biografico degli Italiani. Vol. LVI, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2001, pp. 770-776. Vedi anche Id., Il “ritorno alla patria” nel sovversivismo primonovecentesco e l’incontro con Mazzini, in Mazzini e il Novecento, a cura di Andrea Bocchi e Daniele Menozzi, Edizioni della Normale, Pisa 2010, pp. 65107 (in particolare pp. 68-69). 21 Piero Gobetti, Scritti politici, cit., p. XIX.

funse da modello per il giovane studente torinese che intendeva ingaggiare analoghe battaglie culturali tramite lo strumento del periodico. Sulla rivista si esaltava Mazzini nella stessa misura in cui si attaccava violentemente Giolitti, accusato d’essere un corruttore, tanto che politicamente questi era sempre e comunque «quello della malavita elettorale»22, secondo appunto l’insegnamento salveminiano. Ma una forte influenza idealistica, indirettamente gentiliana, la si ritrova anche nell’interesse che sin da subito il Gobetti di “Energie Nove” dedicò al problema della scuola, alla necessità d’una sua riforma secondo un vasto programma pedagogico che rispondeva esattamente ai criteri generali introdotti da Croce ma soprattutto da Gentile, il quale avrebbe poi fornito un proprio contributo ad un numero unico della rivista – ottobre 1919 – dedicato specificamente alla scuola, assieme ad Ernesto Codignola, Manara Valgimigli, Francesco Severi e Luigi Galante23. Nel febbraio 1920, sempre con Gentile, sarebbe stato promotore del Fascio di Educazione Nazionale24 .

La rivoluzione bolscevica irruppe nel processo di maturazione intellettuale del giovane Gobetti e ne condizionò lo sviluppo ideologico al punto che egli si applicò con grande fervore al difficile studio della lingua russa, per cui tradusse alcuni testi di scrittori come Čechov, Kuprin e soprattutto Leonid Nikolaevič Andreev – peraltro intellettuale critico degli eccessi del bolscevismo. Inoltre presso la Società di Cultura tenne una serie di conferenze sulla Russia, nelle quali, come ricordava Carlo Levi in uno scritto commemorativo uscito nel 1956, «aveva dato una sua interpretazione della Rivoluzione come espressione di libertà e ne ricercava nella letteratura, nella storia e nella cultura, le tradizioni e gli antecedenti»25. Attestatone già nel 1919 il sostanziale fallimento sul piano economico per limiti intrinseci alla stessa dottrina marxista, l’esperimento bolscevico era apprezzato per le capacità di leadership di Lenin e Trockij, giudicati da Gobetti gli artefici, come ha scritto Marco Scavino, di «uno Stato moderno (e quindi liberale, perché

22 Piero Gobetti, Giolitti, giolittismo e antigiolittismo, “Energie Nove”, serie II, n. 5, 5 luglio 1919, p. 95, ora in Id., Scritti politici, cit., p. 128, dove si legge anche: «Giovanni Giolitti non ha potuto, non potrà mai essere un grande statista, proprio per assenza di indipendenza e di libertà. Egli è solo il capo di una maggioranza parlamentare». A chiosa dell’articolo, Gobetti citava come fonte autorevole e ancora indiscutibile, pur a distanza di quasi dieci anni, il noto e polemico volume curato da Gaetano Salvemini, Il ministro della malavita, Edizioni della Voce, Firenze 1910. 23 Cfr. Paolo Spriano, Introduzione, cit., p. XX. Spriano sottolinea, a ragione, come il tema della riforma scolastica non fosse affatto estraneo anche all’“Unità” salveminiana, ma, al tempo stesso, sottolinea come vi fosse, all’epoca, «un elemento nuovo, gentiliano, nella concezione aristocratica della scuola che Gobetti manifesta», il che non toglie il fatto che poi «l’affinità con Gentile si rivelerà presto un equivoco: e sul più vasto terreno ideale, e su quello specifico, scolastico». Resta comunque degno di nota «questo primo accento gentiliano, pieno, altresì, di passione autobiografica» (ibid., pp. XX-XXI). Di un «gentiliano Gobetti» scriveva nel 1944 anche Aldo Garosci, il quale – come sottolinea Antonello Venturi nella Postfazione a Piero Gobetti, Paradosso dello spirito russo, cit., p. 244 – «attraverso la mediazione di Carlo Levi aveva incarnato la più diretta filiazione torinese del pensiero gobettiano». Vedi inoltre a tal proposito Un liberalsocialista di G.L. [A. Garosci], Eredità gobettiana da respingere e da accettare, “Nuovi quaderni di Giustizia e Libertà”, maggio-giugno 1944, p. 83. 24 Cfr. Dina Bertone Jovine, La scuola italiana dal 1870 ai giorni nostri, Editori Riuniti, Roma 1958, pp. 203-204. 25 Citato in Paolo Spriano, Introduzione, cit., p. XXIII, nota 1.

espressione della volontà di elevazione delle masse)»26. Un volontarismo non più velleitario ma vittorioso.

Ad aggiungersi a quanto stava accadendo in Russia giunse, nel settembre 1920, l’occupazione delle fabbriche, il cui cuore strategico pulsò proprio a Torino grazie all’azione del gruppo socialista filoleninista radunato attorno al settimanale “Ordine Nuovo”, di cui Gramsci era il principale animatore. Lo stesso Gobetti confessò più tardi, nel 1923, da dove sorgessero le fonti d’ispirazione della sua rivoluzione liberale:

Nel 1920 io interruppi le “Energie Nove” perché sentivo bisogno di maggior raccoglimento e pensavo una elaborazione politica assolutamente nuova, le cui linee mi apparvero di fatto nel settembre al tempo dell’occupazione delle fabbriche. Devo la mia rinnovazione dell’esperienza salveminiana al movimento dei comunisti torinesi da una parte (vivi di un concreto spirito marxista) e dall’altra agli studi sul Risorgimento e sulla rivoluzione russa che ero venuto compiendo in quel tempo27 .

Altra conferma di questa svolta si trova in una lettera coeva a quei decisivi eventi, indirizzata all’amata Ada Prospero:

Qui siamo in piena rivoluzione. Io seguo con simpatia gli sforzi degli operai che realmente costruiscono un mondo nuovo. Non sento in me […] la forza di seguirli nell’opera loro, almeno per ora. Ma mi par di vedere che a poco a poco si chiarisca e si imposti la più grande battaglia ideale del secolo. Allora il mio posto sarebbe necessariamente dalla parte che ha più religiosità e volontà di sacrificio. La rivoluzione oggi si pone in tutto il suo carattere religioso. […] Il movimento è spontaneo e tutto altro che diretto a scopi materiali. […] Siamo davanti a un fatto eroico. Certo può darsi che venga soffocato col sangue: ma sarebbe l’inizio della decadenza28 .

Siamo alla definizione di quel che il comunista Spriano ha definito l’«operaismo liberale gobettiano», i cui tratti distintivi sono riassumibili come segue: «l’élite contrapposta alla massa, la volontà di sacrificio agli scopi materiali, la preminenza data al moto spontaneo sulla direzione dei capi»29. L’obiettivo era rifondare lo Stato cercando di sfruttare le energie ideali e morali presenti nella classe operaia in quel dato momento storico, per compiere

26 Marco Scavino, Piero Gobetti, ne La forza dei bisogni e le ragioni della libertà. Il comunismo nella riflessione liberale e democratica del Novecento, a cura di Franco Sbarberi, postfazione di Bruno Bongiovanni, Diabasis, Reggio Emilia 2008, p. 106: «In questo i bolscevichi si stavano rivelando infinitamente superiori a tutte le correnti rivoluzionarie precedenti, astratte e inconcludenti, ferme a un idealismo romantico e di carattere quasi messianico, espressione dell’assoluta vacuità politica e sociale dell’intelligencija russa». 27 Piero Gobetti, I miei conti con l’idealismo attuale, “La Rivoluzione Liberale”, anno II, n. 2, 18 gennaio 1923, p. 5, ora in Id., Scritti politici, cit., p. 445. 28 Piero Gobetti ad Ada Prospero, 7 settembre 1920, in Piero e Ada Gobetti, Nella tua breve esistenza. Lettere 1918-1926, a cura di Ersilia Alessandrone Perona, Einaudi, Torino 1991, pp. 375-376. 29 Paolo Spriano, Introduzione, cit., p. XXVI.

un ricambio radicale di élites30. Di elitismo operaio, pertanto, bisognerebbe parlare, più che di operaismo liberale31 .

Il nemico di Gobetti era la borghesia italiana, a cui imputava di essere stata incapace negli ultimi decenni di partorire dal suo seno una classe dirigente all’altezza dei compiti di uno Stato laico moderno32. Le sofferenze di operai e contadini stavano lì a dimostrarlo, ed è proprio da loro che il giovane intellettuale torinese auspicava una maturazione politica tale da farne i due partiti su cui incardinare la propria idea di liberalismo. Un liberalismo che, come indicava in conclusione il Manifesto inaugurale della nuova rivista “Rivoluzione Liberale”, si costruisse politicamente attorno al «mito della rivoluzione contro la borghesia», ovvero una «rivoluzione antiburocratica», alimentata dalle rivendicazioni autonomiste tanto della classe operaia quanto di quella contadina tenute dialetticamente in tensione creatrice da uno Stato finalmente e compiutamente unificato33 .

Per questo motivo già il 25 luglio 1919, su “Energie Nove”, egli aveva salutato nell’«opera di Lenin e Trotzki» addirittura «la negazione del socialismo e un’affermazione e un’esaltazione di liberalismo»34. Trockij aveva compreso che «una rivoluzione anarchica» sarebbe stata la sola «capace di distruggere i limiti di una schiavitù secolare e di promuovere un’attività sociale», dal momento che «non si poteva affermare nulla fuorché la volontà di

30 «La folla operaia non è diversa affatto dalla folla borghese che hai tu intorno; quella si ubbriaca di barbera, questa di champagne e di svenevolezze. La rivoluzione che oggi si prepara non muterà, non può mutare nulla negli uomini, che saranno seri solo se si faranno tali nella loro intimità. Il solo problema che la rivoluzione può risolvere è dare o meglio preparare in parte una nuova classe dirigente. Si tratta di rinnovare lo Stato, non la nazione. E si può rinnovare lo Stato solo se la nazione ha in sé certe energie (come ora appunto accade) che improvvisamente da oscure che erano si fanno chiare e acquistano possibilità e volontà di espansione»: Piero ad Ada Prospero, 13 settembre 1920, in Piero e Ada Gobetti, Nella tua breve esistenza… cit., p. 385. I corsivi sono nel testo. 31 Sull’elitismo gobettiano, cfr. Norberto Bobbio, Democrazia ed “élites”, in Id., Saggi sulla scienza politica in Italia, Laterza, Roma-Bari 2001 (edizione accresciuta), in particolare pp. 221-234. «La teoria pessimistica di Mosca sembrava fatta apposta per piacere a coloro che non erano disposti a dare un giudizio benevolo sullo sviluppo della democrazia in Italia. In secondo luogo, Gobetti, e sulla sua scia il movimento gobettiano […], furono sempre ispirati da una fiducia illimitata nelle minoranze eroiche, creatrici, battagliere, rivoluzionarie, brevemente negli eretici che, rompendo i vincoli di ogni ortodossia, contribuiscono alla creazione, se pure a lunga scadenza, di nuovi valori, gettano semi che fruttificheranno, sono il sale della storia» (ibid., p. 224). 32 Cfr. Piero Gobetti, Dal bolscevismo al fascismo. Note di cultura politica, postfazione di Pietro Polito, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2015. Il saggio, che raccoglie due articoli usciti ne “La Rivoluzione Liberale”, è pubblicato nella primavera del 1923. Come sottolinea Pietro Politico nella sua Postfazione, «la visione della politica quale emerge dal saggio Dal bolscevismo al fascismo non sembra immediatamente riconducibile a una concezione liberal-democratica della lotta politica. Anzi, per la centralità del concetto di mito risente di una forte influenza soreliana» (p. 39). Ciò detto, Gobetti tenne in quel suo scritto a precisare come «il richiamo a Sorel non ci deve mettere in sospetto di rigoristiche premesse o di misteriose iniziazioni mitiche», come a volerne marcare la distanza ideologica e l’utilizzo soprattutto in chiave polemica nei confronti del «movimento socialista nelle sue degenerazioni riformistiche e utilitarie» (p. 13). 33 Piero Gobetti, Manifesto, “La Rivoluzione Liberale”, anno I, n. 1, 12 febbraio 1922, ora in Id., Scritti politici, cit., p. 240. 34 Ibid., p. 151.

autonomia come tale, la responsabilità»35. Nella prima fase, che secondo Gobetti era stata guidata in prevalenza da Trockij, il popolo russo era insorto e «negando l’egoismo czarista gli individui afferma[va]no l’egoismo proprio», premessa necessaria alla «libertà vera»:

L’arbitrio diventerà poi libertà, necessità, organizzazione sociale: ma deve prima essere arbitrio, volontà, azione, come tale, vuota. L’anarchia è il primo momento, ed anarchia perché tutti gli uomini affermino la volontà loro. Così, negato lo czarismo, incomincia l’esperienza popolare. Il secondo problema di Trotzki […] era di promuovere la formazione di una nuova classe dirigente che durante il movimento anarchico si presentasse come vera erede dello Stato, come ordine nuovo. […] Poi venne Lenin […]. E allora dopo l’anarchia – dopo la dittatura – si prepara[va] la democrazia (agricola). […] Così il ciclo è compiuto e la Russia è rinnovata36 .

È qui facile rinvenire il possibile punto di contatto tra Gobetti e Gramsci: l’attivismo e il volontarismo intesi come i figli più genuini d’un idealismo ben inteso, e dunque corretto rispetto agli insegnamenti di Gentile e Croce37. Basta, a tal proposito, ricordare il celebre articolo con cui Gramsci forniva la propria originale lettura degli eventi dell’Ottobre 1917:

Se i bolscevichi rinnegano alcune affermazioni del Capitale, non ne rinnegano il pensiero immanente, vivificatore. Essi non sono “marxisti”, ecco tutto; non hanno compilato sulle opere del Maestro una dottrina esteriore di affermazioni dogmatiche e indiscutibili. Vivono il pensiero marxista, quello che non muore mai, che è la continuazione del pensiero idealistico italiano e tedesco, che in Marx si era contaminato di incrostazioni positivistiche e naturalistiche38 .

La lezione gramsciana in Gobetti risulta evidente dalla convinzione sempre più ferrea che le sole forze nazionali su cui era possibile impostare e condurre a termine una autentica “rivoluzione liberale” in Italia fossero gli operai del Nord e i contadini del Sud. Tra i riferimenti intellettuali di Gobetti, assai influente fu il ruolo svolto da Luigi Einaudi. Non, evidentemente, nel giudizio sulla rivoluzione russa e i suoi possibili effetti in Italia. Gobetti dava però al liberalismo il significato di dinamismo antiburocratico e movimento teso alla dissoluzione dello stato di cose esistente, così da leggerlo come sinonimo di “rivoluzione”39. Un compito a cui la borghesia italiana era venuta meno. Per comprendere

35 Piero Gobetti, La Russia dei Soviet, “Volontà”, 15 febbraio 1921, ora ibid., p. 201. 36 Ivi. Corsivo mio. 37 Cfr. Giuseppe Amoretti, Gramsci, Società Editrice “l’Unità”, Roma 1945: «Gramsci svolgeva [nei mesi successivi all’occupazione delle fabbriche] un gran lavoro tra gli intellettuali: tra i quali soprattutto uno veniva continuamente a lui: Gobetti»: citato da Paolo Spriano, Introduzione, p. XXVII, nota 1. Nell’autunno del 1920 Gobetti «moltiplica le sue visite alla redazione dell’“Ordine Nuovo”, i suoi contatti con l’ambiente operaio che frequenta il giornale e la Camera del Lavoro» (ibid., p. XXVII). Si veda anche Giancarlo Bergami, Il giovane Gramsci e il marxismo, 1911-1918, Feltrinelli, Milano 1977, in particolare pp. 82-84, 100-120. 38 Antonio Gramsci, Scritti politici. Vol. I., a cura di Paolo Spriano, Editori Riuniti, Roma 1973, p. 131. 39 Un recente lavoro in area angloamericana sottolinea le peculiarità del liberalismo gobettiano, ribadendo come il giovane pensatore torinese cercasse di coniugare il principio-valore della libertà con le masse italiane e, in tal senso, quanto accaduto in Russia gli apparve, sorelianamente, un mito mobilitante. Per altri aspetti, il lavoro in questione intende dichiaratamente attualizzare il tentativo

appieno l’accezione gobettiana di liberalismo, risultano quanto mai esplicative alcune considerazioni svolte dal giovane antifascista torinese proprio in merito alla dottrina politica einaudiana:

E il marxismo non è esso pure, come il liberalismo inglese, una fede formale, un’interpretazione del mondo, un metodo che si oppone validamente ai vari comunisti utopistici appunto in quanto nega le formule moralistiche?... Avendo identificato il movimento operaio con le sue statiche formule collettivistiche, l’Einaudi lo ha discusso come una forma di socialismo di Stato. Ciò gli poteva essere consentito dall’esame di alcuni risultati empirici, ma gli era contestato dallo spirito autonomistico e antiburocratico che presiede al risveglio operaio40 .

A conferma del perdurante riconoscimento del magistero einaudiano, pur nella profonda diversità di vedute sul piano politico concreto e di valutazione del momento storico, si tenga conto che nel 1923 Gobetti giunse a proporre ad Einaudi la stesura d’un volume che potesse costituire una sorta di libro-manifesto e, insieme, un libro-memoria per la nuova casa editrice a cui aveva appena dato vita come ulteriore strumento di lotta contro il fascismo. Ne venne fuori Le lotte del lavoro, una raccolta di scritti editi a cui lo stesso Einaudi premise una breve Introduzione intitolata La bellezza della lotta. Qui l’economista piemontese ricordava quanto segue:

Il socialismo scientifico ed il collettivismo russo, in quanto schemi di organizzazione della società o tentativi di applicare praticamente quegli schemi non mi interessano. Sono al disotto del niente. Invece il socialismo sentimento, quello che ha fatto alzare la testa agli operai del Biellese o del porto di Genova […], fu una cosa grande, la quale non è passata senza frutto nella storia d’Italia. Il collettivismo è un ideale buono per le maniche col lustrino e serve solo a far morire di fame e di noia la gente41 .

Quel che per Gobetti era autonomismo operaio, liberazione dal basso, ad opera della classe fino ad allora subalterna e sottomessa, per Einaudi era l’esatto opposto, ossia ritorno ad un assolutismo statale e burocratico faticosamente rintuzzati nel secolo precedente da un liberalismo politico ed economico non ancora pienamente trionfante, né in Europa né, ancor meno, in Italia. La rivoluzione d’Ottobre mostrava già a pochi mesi di distanza il fallimento di ogni progetto collettivista, che aveva fatto regredire una Russia che, con fatica, si era pur avviata da qualche tempo sulla strada della modernizzazione industriale. Così Einaudi commentava in un articolo del 28 aprile 1919 sul “Corriere della Sera”:

ideologico di Gobetti, e ciò finisce per inficiare non poca parte dell’intera analisi. Cfr. James Martin, Piero Gobetti and the Politics of Liberal Revolution, Palgrave Mac Millan, New York 2008. 40 Piero Gobetti, Il liberalismo di Luigi Einaudi, “La Rivoluzione liberale”, I, n. 10, aprile 1922, ora in Id., Scritti politici, cit., p. 329. I corsivi sono miei. 41 Luigi Einaudi, Le lotte del lavoro, Introduzione di Paolo Spriano, Einaudi, Torino 1972, p. 5. Sul pensiero politico di Einaudi e, in particolare, sul rapporto col socialismo economico e politico, cfr. Gianfranco Pagano, Luigi Einaudi e il socialismo, Bibliopolis, Napoli 1993; Alberto Giordano, Il pensiero politico di Luigi Einaudi, Name, Genova 2006, pp. 58-69, 126-146; Paolo Silvestri, Il liberalismo di Luigi Einaudi o del Buongoverno, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008.

Di questa morte muore oggi la Russia cittadina. Un pugno di visionari, impadronitisi con la forza del potere e sicuro di conservarlo con il torchio dei biglietti e con la guardia rossa armata, si è divertito a scomporre, a guardarci dentro per vedere come era fatto e ad applicare le formulette scolastiche per rimetterlo insieme. […] Quelle miserie sono la conseguenza necessaria della vittoria degli uomini della scienza politica ed economica imparata sui libri sacri del socialismo; sono la forma in cui si attuano i sogni visionari di taumaturgiche ricostruzioni sociali42 .

Forse perché ormai maggiormente preoccupato della nuova minaccia fascista, fattasi concreta con la nomina di Mussolini a Presidente del Consiglio, lo stesso Einaudi del 1923 consentiva una lettura eterodossa del rapporto fra liberalismo e socialismo, se la definizione che egli dava di «liberale» era la seguente:

Liberale è colui che crede nel perfezionamento materiale o morale conquistato collo sforzo volontario, col sacrificio, colla attitudine a lavorare d’accordo con altri; socialista è colui che vuole imporre il perfezionamento con la forza, che lo esclude se ottenuto con metodi diversi da quelli da lui preferiti, che non sa vincere senza privilegi a favor proprio e senza esclusive pronunciate contro i reprobi. I nomi non contano; l’ideale rimane quello che esso è intrinsecamente, qualunque sia la denominazione sua esteriore43 .

La sottolineatura relativa all’uso o meno della forza non era, né è a tutt’oggi, secondario nel segnare il discrimine tra metodo liberale e non, ma la complessiva vaghezza dei contorni della definizione einaudiana lasciava indubbiamente spazio a chi, come Gobetti, avesse anteposto, sempre e comunque, l’esigenza del mutamento, inteso come processo di liberazione da vincoli e privilegi. Un’esigenza accresciuta dopo il 1920 dall’ascesa del movimento fascista e dal rapido concretizzarsi della minaccia da questo rappresentata.

Sotto il titolo L’esperimento russo, Einaudi raccoglieva nel volume edito da Gobetti cinque articoli originariamente apparsi nel “Corriere della sera” tra il gennaio 1918 e il marzo 1919. Basandosi sui molti dati forniti dal corrispondente da Stoccolma dell’“Economist” di Londra, egli riproduceva il riepilogo dei tre ultimi bilanci preventivi del governo bolscevico. Dalla voce delle spese del bilancio si notava, ad esempio, che «la piccola guardia rossa, su cui il governo dei Soviet poggia la sua forza, sta invero trasformandosi in un grande esercito di 3 milioni di uomini, destinato a conquistare il mondo all’ideale comunista»44 . Ma se fallimentare era il bilancio sia economico sia politico di quanto si stava attuando in Russia, a dir poco irresponsabile e pericolosa era, a giudizio di Einaudi, la condotta dei leader del Partito Socialista Italiano:

Quella che non è logica è la condotta dei socialisti odierni, di coloro che dominano nella direzione del partito, se non sulle colonne della “Critica sociale”; essi vogliono la rivoluzione per la rivoluzione, il disastro per il disastro, la distruzione dell’ordine economico esistente a scopo di pura distruzione; e chiamano ciò “realizzazione del socialismo”. Finora, in Russia, ciò che sovra

42 Luigi Einaudi, La dittatura del proletariato e l’interesse dei lavoratori, “Corriere della Sera”, 28 aprile 1919. Sul tema cfr. Roberto Marchionatti, Luigi Einaudi e il comunismo. La critica di un liberale, ne La forza dei bisogni e le ragioni della libertà… cit., pp. 81-101 e in particolare pp. 84-90. 43 Luigi Einaudi, Le lotte del lavoro, cit., p. 6. 44 Ibid., p. 118.

tutto è stato realizzato, ciò che si vede massimamente e ben da lontano è un enorme, gigantesco, spaventevole edificio di carta45 .

In fondo, sin dai suoi esordi, l’esperimento sovietico stava confermando quanto la teoria aveva insegnato da molto tempo ad Einaudi, così come l’osservazione del modo in cui il massimalismo socialista aveva operato nell’Italia d’anteguerra. In un articolo del 1911 per il “Corriere della sera”, egli non aveva esitato ad affermare che «la morte del socialismo nel mondo delle idee è ben certa. Il Capitale di Carlo Marx è un vangelo su cui più nessuno giura, una fortezza le cui mura furono ad una ad una smantellate»46. Non solo: «I socialisti sono venuti al mondo con un ben altro programma specifico; con il programma ben netto e ben reazionario, di distruggere le conquiste di secoli di sforzi compiuti contro la tirannide dei governi assoluti, delle corporazioni medioevali, dei privilegi e delle comunità di classe»47 .

Il 14 novembre 1919 Gaetano Mosca, il teorico della “classe politica” nonché fondatore della scienza politica in Italia, in una lettera all’amico Guglielmo Ferrero esprimeva nei seguenti termini il proprio punto di vista:

Tu sei pessimista e credo che abbia ragione. La situazione in Italia, come più o meno in tutta Europa, continua ad essere grave e le classi dirigenti ancora non l’hanno capito abbastanza. Nelle imminenti elezioni si dilaniano fra di loro invece di stringere le fila contro il pericolo comune. Io credo poi che il pericolo bolscevico sia aggravato dalla psicologia degli ex-combattenti. Fra gli antichi soldati prevale il malcontento e fra gli ex-ufficiali al malcontento si unisce una strana presunzione per la quale essi soli si stimano capaci di guidare la nazione e salvare il mondo, senza avere naturalmente alcuna seria preparazione per il difficile carico che vorrebbero assumere. Negli uni e negli altri è radicata la convinzione che la patria ha contratto un immenso debito verso di loro e che lo deve pagare. Naturalmente questi sentimenti, questi modi di vedere si manifestano con più forza in quelli che durante la guerra cercarono con tutti i mezzi di imboscarsi e più o meno vi riuscirono perché il rammarico per le sofferenze sofferte e la cupidigia per le ricompense sono sempre proporzionate all’egoismo di colui che ha sofferto e che delle sofferenze vuole essere ricompensato, egli infatti applica sempre in questi casi a sé il motto evangelico, per il quale chi dà uno deve ricevere cento. Dopodomani vedremo cosa uscirà da questo guazzabuglio elettorale48 .

Mosca si riferiva, evidentemente, alle elezioni politiche nazionali del 16 novembre 1919, nelle quali si registrò una forte avanzata dei socialisti, che ebbero 156 seggi nei confronti dei 48 precedenti, e dei popolari, che ebbero ben 100 seggi e furono la vera novità eclatante di quella consultazione. Fu sconfitto l’ancora eterogeneo e frammentato schieramento liberale, che si trovò con 235 seggi rispetto ai precedenti 380. Dal canto loro, le formazioni politiche intermedie furono quasi eliminate. Purtroppo mancano le lettere di commento di Mosca e Ferrero ai risultati elettorali, ma nel giudizio espresso in questa lettera lo studioso

45 Ibid., p. 122. 46 Luigi Einaudi, Sono nuove le vie del socialismo?, originariamente apparso nel “Corriere della sera” del 29 marzo 1911, ora ibid., p. 92. 47 Ibid., p. 94. 48 Opere di Gaetano Mosca. Vol. 6. Gaetano Mosca-Guglielmo Ferrero, Carteggio (1896-1934). Tomo I, a cura di Carlo Mongardini, Giuffrè, Milano 1980, pp. 289-290. Il corsivo è mio.

siciliano fornisce una spiegazione esauriente della genesi del fascismo e della sua ascesa, indissolubilmente legata alla paura del «pericolo bolscevico».

Intervenendo l’anno dopo, nel luglio 1920, nel dibattito sul programma presentato dal nuovo governo, Gaetano Mosca sottolineava la gravità della crisi che stava investendo il Paese per opera di una «minoranza audace» che tentava d’usare il malcontento sociale per instaurare la «dittatura del proletariato» e invitava perciò il Presidente del Consiglio ad un’azione energica, volta a dimostrare alla maggioranza della popolazione quanto le forze di resistenza sociale fossero superiori a quelle della dissoluzione49 .

Come acutamente osservato da Alessandro Passerin d’Entrèves, se è vero che Mosca «fu e rimase per tutta la vita» un «conservatore nel senso migliore della parola», è altrettanto indubbio quanto avesse maturato da tempo una posizione inequivocabilmente liberale rispetto ai propri esordi da scienziato della politica e soprattutto alle tesi espresse nell’opera giovanile Sulla teorica dei governi e sul governo parlamentare, pubblicata nel 188450. Nel primo dopoguerra, comunque, la sua posizione si configurava come liberale ma antidemocratica, anzi antidemocratica «appunto perché… liberale», secondo quanto ebbe a dire egli stesso in un’intervista del 190451 .

Dal confronto tra Ferrero e Mosca, così come dal carteggio fra Luigi Albertini e Francesco Ruffini, emerge quel che accomunò parte significativa del vasto ed eterogeneo fronte dell’intellettualità liberale, ossia una sostanziale difficoltà a pensare come naturale e rapidamente praticabile un compromesso operativo e virtuoso fra liberalismo e democrazia. Fu proprio il repentino passaggio dalla minaccia bolscevica a quella fascista, e il concretizzarsi di quest’ultima, a indurre ad un ripensamento complessivo la teoria politica di molti intellettuali che, fino ad allora, erano stati o liberali scarsamente democratici o democratici scarsamente liberali. D’altronde, va detto che la liberaldemocrazia di massa fu pienamente compresa e accettata da ampi strati dell’intellettualità europea soltanto durante o all’indomani del secondo conflitto mondiale e per non secondaria influenza del modello americano, anche in virtù del decisivo ruolo svolto dalla potenza statunitense nella vittoria militare sul nazifascismo.

Esemplare del caso del democratico che non seppe cogliere i molti elementi di liberalismo presenti nel giolittismo – giudicato al contrario un fenomeno di degenerazione insieme politica e morale – è la figura di Gaetano Salvemini, campione dell’antigiolittismo che non intendeva essere né antidemocratico né tantomeno illiberale. Come è stato ben colto da Norberto Bobbio, Salvemini giungerà ad una precisa definizione di che cosa debba intendersi per democrazia soltanto di fronte all’avvento del fascismo, nel momento stesso in cui della democrazia, o meglio del passaggio dal liberalismo oligarchico alla democrazia liberale, si constatava la sconfitta52 .

49 Cfr. “Corriere della sera”, 14 luglio 1920, citato in Francesco Margiotta Broglio (a cura di), Diritti delle coscienze e difesa della libertà. Ruffini, Albertini e il “Corriere”, 1912-1925, Fondazione Corriere della Sera, Milano 2011, p. 433, nota 265. 50 Alessandro Passerin d’Entrèves, Gaetano Mosca e la libertà (1961), ora in Id., Potere e libertà politica in una società aperta, il Mulino, Bologna 2005, p. 152. 51 Ivi. 52 Cfr. Norberto Bobbio, Salvemini e la democrazia, in Atti del Convegno su Gaetano Salvemini: Firenze, 8-10 novembre 1975, a cura di Ernesto Sestan, Il Saggiatore, Milano 1977, pp. 113-138. L’antigiolittismo salveminiano non sarebbe comunque mai venuto meno, come confermato in una serie d’articoli pubblicati ne “Il Ponte” del 1952, nei quali si stabiliva una sorta d’equazione fra gio-

L’antigiolittismo intransigente faceva scrivere a Salvemini – in una lettera indirizzata a Giacinto Panunzio datata 22 ottobre 1920, nella quale azzardava previsioni circa le possibili conseguenze dell’imminente congresso del PSI, che si sarebbe poi effettivamente tenuto nel gennaio successivo: «Se prevalgono i comunisti, e Turati si ritira a vita privata, noi dovremo ritirarci a casa e lasciare che le masse vadano al comunismo. La porca borghesia dei nostri paesi non merita che lavoriamo a salvarla»53. D’altro canto, la scarsa fiducia nei socialisti riformisti rendeva Salvemini insensibile a qualsiasi soluzione che implicasse una coalizione tra giolittiani e socialisti in funzione antifascista. Opzione, quella d’una collaborazione tra giolittiani e turatiani, su cui insistette, come parlamentare e uomo di partito, l’azione di Giovanni Amendola, il quale, da un antigiolittismo di gioventù, risultò nel primo dopoguerra uno dei pochi ad aver compreso come la strada verso una compiuta liberaldemocrazia passasse anche attraverso il riformismo dell’anziano statista piemontese54 . Il fallimento di quest’ultimo non ne cancellava i meriti, ma soprattutto non doveva indurre a ripudiare le istituzioni parlamentari soltanto perché inceppate da un contesto materiale e psicologico in preoccupante ebollizione55 .

littismo e fascismo: cfr. Luigi Compagna, Italia 1915… cit., p. 77. Sulla figura di Salvemini, si veda inoltre il recente lavoro di Andrea Frangioni, anche se per lo più dedicato ai temi della politica estera, Salvemini e la Grande Guerra. Interventismo democratico, wilsonismo, politica della nazionalità, Rubbettino, Soveria Mannelli 2011. 53 Gaetano Salvemini, Carteggio 1914-1920, a cura di Enzo Tagliacozzo, Laterza, Roma-Bari 1984, p. 554. 54 «Amendola aveva capito, dopo qualche esitazione e al contrario del vecchio ceto dirigente, che lo Stato nazionale e liberale, di origine risorgimentale, aveva bisogno, per sopravvivere, di uscire da una concezione oligarchica del liberalismo e di aprirsi agli interessi dei ceti sociali emergenti, diventando davvero la casa comune, garante dei diritti di tutti i cittadini, e “supremo moderatore delle forze sociali”», come asserisce Paolo Bonetti, La democrazia liberale di Giovanni Amendola, cit., pp. 46-47. 55 Cfr. Giovanni Amendola, Una battaglia liberale. Discorsi politici (1919-1923), Piero Gobetti Editore, Torino 1924. Si veda, in particolare, il discorso tenuto alla Camera all’indomani delle elezioni del maggio 1921: «L’on. Giolitti ha tentato un notevole esperimento politico nella vita nazionale. […] Quando l’on. Giolitti giunse al Governo, l’estrema socialista si faceva interprete della reazione violenta contro la guerra che partiva da alcuni strati profondi dell’anima popolare, la quale chiedeva provvedimenti che, comunque, apparissero sanzioni contro i profitti di guerra, contro la ricchezza che si credeva nata esclusivamente dalla guerra; sanzioni, vorrei dire, contro l’ingiustizia sociale connessa alla guerra. L’on. Giolitti andò incontro a questa domanda dell’anima socialista con la mira di dominare e di disarmare la reazione popolare; e presentò alcune leggi di carattere finanziario. Ebbene, onorevoli colleghi, l’on. Giolitti credeva, in tal modo, di giungere a disintossicare l’anima del Paese, a riacquistare il dominio morale della situazione italiana; e di potere, perciò, tranquillamente pagare il caro prezzo che queste leggi rappresentavano per l’economia e la finanza del nostro Paese. Che cosa accadde invece? Accadde che quelle leggi non disintossicarono affatto l’animo del nostro popolo dal veleno della reazione postbellica: infatti, appena chiusa la Camera che le aveva approvate, noi vedemmo profilarsi il più grandioso tentativo rivoluzionario che si fosse mai tentato da parte comunista in Italia – e cioè quello connesso all’ostruzionismo metallurgico ed all’occupazione delle fabbriche: i quali fatti ci avvertirono che le leggi finanziarie non soltanto non avevano raggiunto il loro fine, ma avevano lasciato in piena rivolta l’anima popolare donde partiva l’appello ad una risposta rivoluzionaria alla guerra»: Dopo le elezioni del ’21. Per la “risoluzione” e contro la “rivoluzione”, ibid., pp. 137-138.

Il problema, secondo Amendola, era che lo spirito pubblico dell’Italia postbellica faticava a smobilitare, dopo essersi con altrettanta difficoltà mobilitato per una guerra affrontata con coraggio e dignità ma in cui il Paese era entrato sostanzialmente impreparato:

Vi è una corrente di scetticismo e vi è una corrente di fanatismo, le quali si avvicendano nella storia dei nostri secoli, e che, in questi anni della guerra mondiale, hanno generato tra noi, col loro strano connubio, correnti impetuose, intransigenti, intolleranti di opinione, che hanno diviso il paese, che hanno scavato solchi profondi negli animi nostri, proprio negli anni in cui l’anima nazionale aveva bisogno di unità, di serenità, di compattezza perché era portata al cimento del conflitto mondiale. Questa situazione dello spirito italiano noi abbiamo risentito durante tutto il corso della guerra – cominciando dal 1914, quando il paese fu diviso nei due campi avversi, anzi nemici, dei neutralisti e degli interventisti, fino al periodo della pace durante il quale diverse ed egualmente legittime concezioni dell’interesse italiano hanno diviso irreparabilmente, e fatto quasi nemici uomini che amavano ugualmente il proprio paese, e fino al periodo più recente del dopo guerra, quando, volta a volta, la speranza bolscevica, l’illusione messianica del comunismo e poi la reazione del fascismo hanno dominato siffattamente le energie morali del nostro paese da dividerle in fere [sic] fazioni armate le une contro le altre: le quali credono di colpire il nemico della patria, mentre non fanno altro che indebolire altre parti della patria, peggiorando le condizioni di tutto l’organismo56 .

A differenza di molti intellettuali d’area liberale, Amendola compreso, il democratico-radicale Salvemini non si mostrò particolarmente allarmato dal biennio rosso, ma dopo il gennaio 1921 espresse una forte e crescente preoccupazione nei confronti dei comunisti e della furia sovversiva che a Sinistra sarebbe stata fatta esplodere una volta fallita la parentesi fascista, precaria e necessariamente provvisoria, come ancora per molti anni egli pensò – e sperò – finisse per essere. Scriveva a Bernard Berenson, il 4 novembre 1922, dunque a pochi giorni dalla marcia su Roma e dall’incarico governativo conferito dal re a Benito Mussolini:

Quanti fatti nuovi e dolorosi, cari amici! B.B. ricorderà che nel febbraio del 1919 io gli dicevo a Parigi che in Italia pericolo di rivoluzione bolscevica non ce n’era. E questo pericolo non c’è mai stato: perché non era bolscevismo la inquietudine prodotta dalla guerra e dalla cattiva pace. Ma oggi il pericolo del bolscevismo di sinistra, come controspinta al bolscevismo di destra, mi pare spaventoso. Oggi siamo nella luna di miele. Che cosa sarà in primavera? Quando Mussolini sarà discreditato dalla mancanza del miracolo promesso, e sarà travolto dal Super-Mussolini di Gardone [cioè D’Annunzio], e l’Italia si troverà di fronte alla mancanza di grano e di carbone, che cosa avverrà? Dove trovare allora una organizzazione capace di resistere al bolscevismo di sinistra?57

Dello stesso tenore, persino più allarmata, una lettera di poche settimane dopo, indirizzata ancora una volta a Giacinto Panunzio, il 22 novembre 1922:

Nell’ottobre scorso abbiamo avuto in Italia “un colpo di stato militare dissimulato sotto la maschera di una pseudo-rivoluzione civile”. Il movimento fascista, dopo essere stato antisovversivo nel 1919-20,

56 Ibid., pp. 139-140. 57 Gaetano Salvemini, Carteggio 1921-1926, a cura di Enzo Tagliacozzo, Laterza, Roma-Bari 1985, p. 110.

è diventato antiparlamentare nel 1921-22. E deve sfociare, in un modo o in un altro, nella soppressione del suffragio universale: la lotta contro la proporzionale è il primo passo: la prima Camera del nuovo regime dovrà sopprimere il suffragio universale. […] In tutti i modi, la crisi di politica estera porterà allo sfacelo del fascismo, ad una ripresa del movimento di sinistra con notte di San Bartolomeo antifascista, con uno sfacelo anarchico del paese. Queste sono le mie poco allegre previsioni.

«Che cosa dobbiamo fare noi?» si chiedeva allora Salvemini, che proseguiva il proprio ragionamento nei seguenti termini:

Se ci fosse un movimento di opposizione socialista, in cui potessimo aver fede, il nostro posto sarebbe segnato. Ma questo movimento non c’è. I rivoluzionari comunisti sono rimasticatori [sic] di frasi fatte, e buoni a nulla. Il giorno in cui sentiranno venir meno il giogo fascista, riprenderanno coraggio per cianciare di rivoluzione: ma le masse contadine ed operaie, maltrattate dai fascisti, si scateneranno a far vendette sanguinose; e questo disordine di vendette sarà chiamato bolscevismo dai pappagalli serratiani; sarà chiamato bolscevismo dalla borghesia impaurita; sarà chiamato bolscevismo all’estero; provocherà quasi certamente l’intervento estero, riducendo l’Italia a quel che era la Turchia prima della guerra europea. Che cosa abbiamo a fare con questa gente noi? Nulla, nulla, nulla. Possiamo capire le vendette e sentire che non abbiamo il diritto, e non avremo la possibilità di opporci ad esse. Possiamo prevedere che esauritasi questa fase di vendette, verrà forse per noi l’ora di salvare quel che è salvabile dalla scempiaggine serratiana. Ma metterci con questa gente, no, come non possiamo metterci coi fascisti. Quanto agli unitari, io credo che chi sente lo stomaco forte abbastanza per mettersi in quella compagnia, e chi spera di trascinarli su una nuova via, faccia bene ad entrare in quel partito. Io non ho quello stomaco e non ho quella speranza. Il discorso di Turati è stato abbietto; quello di D’Aragona anche peggiore. Quella gente non domanda che di vendersi a Mussolini, come si era venduta a Giolitti. Si duole di essere stata bastonata, ma è pronta a dimenticare le bastonate, non appena Mussolini offra un po’ di lavori pubblici ai disoccupati, cioè alle cooperative. Che cosa mai sperare da quella gente là? […] Candidature? Elezioni? Non avete ancora capito che nelle prossime elezioni saranno eletti solamente i candidati accetti alle prefetture? Siete ancora così ingenui da credere alle elezioni?58

Ancora una volta, l’antigiolittismo conduceva ad una valutazione così disincantata e cinica delle istituzioni politiche vigenti da considerare l’intero sistema parlamentare come un esperimento fallimentare, almeno per come realizzato dalla classe politica liberale post-risorgimentale. Ovviamente, Salvemini sapeva distinguere la teoria dalla prassi ma nel fuoco della polemica la distinzione finiva incenerita e non si teneva conto di come una prassi autenticamente liberale e democratica sporcasse inevitabilmente la purezza della teoria59 . Sempre Bobbio ha riportato l’attenzione su alcune significative pagine del Diario, vergate il 28 gennaio 1922, esattamente a tre mesi dalla marcia su Roma, nelle quali Salvemini mostrava di aver intuito il punto debole della critica che amava definirsi intransigentemente rivoluzionaria, e dunque anche ostile all’ordine parlamentare vigente:

58 Ibid., pp. 149-151. I corsivi sono presenti nel testo. 59 Per una piena maturazione di questi temi si veda la raccolta – edita in italiano soltanto di recente – di testi di lezioni, conferenze, contributi ad opere collettanee che Salvemini scrisse dal 1934 al 1940 durante il suo esilio americano, docente alla Harvard University: Gaetano Salvemini, Sulla democrazia, a cura di Sergio Bucchi, Bollati Boringhieri, Torino 2007.

È moda, oggi in Italia, fra gli uomini che si immaginano di essere “rivoluzionari” disprezzare la “democrazia” quanto e più che non facciano fascisti, nazionalisti, sognatori di gerarchie e di aristocrazie rigide e chiuse. E questo disprezzo, che sindacalisti, repubblicani, socialisti, anarchici, ed anche uomini come Prezzolini, Gobetti, ecc., dimostrano per la “democrazia” è documento della incultura politica e della incapacità ad analizzare le proprie idee, che è la malattia fondamentale dei “democratici” italiani e non italiani60 .

La presa di distanza da Gobetti era netta, anche se non fu resa pubblica, come non poteva esserlo nel fuoco della comune lotta antifascista. Nonostante ciò, ancora tra 1922 e 1923 la principale preoccupazione salveminiana restava legata al fatto che la caduta – a suo avviso assai probabile – del fascismo potesse provocare come controspinta un “bolscevismo” che, anche se tale nei fatti non era, avrebbe comunque nuociuto alla causa democratico-radicale. Con lo pseudo-bolscevismo dei massimalisti si sarebbe tutt’al più trattato di un’insurrezione dal sapore anarchico, ma soprattutto d’una sommossa innescata da sentimenti d’odio e vendetta per i soprusi subìti nelle campagne e nelle città ad opera dello squadrismo fascista. Eppure questa sollevazione sarebbe stata salutata come una sorta di rivoluzione di stampo bolscevico dai leader massimalisti, secondo quella stessa linea di verbalismo rivoluzionario adottata all’epoca degli scioperi e dei tumulti più o meno spontanei sorti per il caro-viveri nell’estate del 191961 .

L’antigiolittismo fu appannaggio anche del gruppo dei liberal-conservatori gravitanti attorno al “Corriere della sera”. Lo si evince bene dal carteggio tra Luigi Albertini, senatore del Regno e storico direttore del quotidiano milanese, e Francesco Ruffini, insigne giurista e uno dei padri del diritto ecclesiastico italiano. Il 21 aprile 1921, ad esempio, Ruffini rivendicava a sé il ruolo di «solo uomo politico piemontese che non abbia mai parlato a Giolitti (non escluso Einaudi) e che si propone di portare almeno questa verginità nella tomba»62 . In una lettera di quasi un anno prima, sempre indirizzata al direttore del “Corriere della sera”, stroncava le preoccupazioni antibolsceviche di Mosca bollandole come fobie dettate «dalla sua tremarella catastrofica»63, mostrando così quanto diviso fosse anche il fronte intellettuale d’area liberale, e non soltanto quello politico-partitico.

60 Gaetano Salvemini, Memorie e soliloqui (18 novembre 1922-24 settembre 1923), in Id., Scritti sul fascismo, Feltrinelli, Milano 1966, pp. 101-102. 61 Cfr. Roberto Bianchi, Bocci-bocci. I tumulti annonari nella Toscana del 1919, Olschki, Firenze 2001. Per un giudizio a posteriori di Salvemini sul “bolscevismo italiano”, cfr. Gaetano Salvemini, Le origini del fascismo in Italia. Lezioni di Harvard, a cura di Roberto Vivarelli, Feltrinelli, Milano 2015 (1961), cap. XVI, in cui la minaccia viene ulteriormente minimizzata: «Se si controllano i riflessi psicologici della crisi post-bellica con gli indici oggettivi della vita economica e sociale, ciascun ricercatore spregiudicato dovrà pervenire alla conclusione che il cosiddetto “bolscevismo” italiano del 1919-20 non era niente di peggio di un insorgere di agitazione incomposta in larghi settori del popolo italiano, alla quale i peggiori elementi della classe dirigente risposero dando prova di una vigliaccheria e di uno stato di scoraggiamento del tutto sproporzionato alla reale entità del pericolo» (ibid., p. 270). Per un più generale esame, pur sintetico, del rapporto salveminiano con comunismo e marxismo, cfr. Sergio Bucchi, Salvemini e il comunismo, ne La forza dei bisogni e le ragioni della libertà… cit., pp. 301-312. 62 Francesco Margiotta Broglio (a cura di), Diritti delle coscienze e difesa della libertà… cit., p. 324. 63 Ibid., p. 313.

Eppure lo stesso Ruffini aveva ben chiaro, come testimonia la sua prolusione del 1919 presso l’Università di Torino, quanto la guerra avesse «con un brusco colpo di spada invertiti i poli della orientazione politica», tanto da indurre i popoli a rivolgersi speranzosi verso l’Oriente della rivoluzione bolscevica, «promettitrice delle più fantastiche conquiste», mentre in precedenza avevano guardato alle «storiche e gloriose democrazie liberali dell’Occidente» come modelli da imitare64 .

Dal canto suo Albertini, l’esponente forse più autorevole della borghesia liberale che era stata interventista, dato anche il ruolo pubblico di cui era investito per via della direzione del “Corriere della sera”, aveva sperato nei primi mesi postbellici che l’Italia potesse mettere pienamente a frutto la vittoria conseguita. Il suo antigiolittismo d’anteguerra si era radicalizzato, se possibile, a causa della scelta neutralista del vecchio statista piemontese. L’antiparlamentarismo, sia pure da posizioni liberali, restava nelle sue corde, così come l’avversione, condivisa da Einaudi, per una borghesia ministeriale e parassitaria, burocratica e improduttiva, che vedeva risorgere nel dopoguerra. Inoltre, come ricorda il suo maggiore biografo, «nei primi del dopoguerra l’antisocialismo […] torna a costituire un Leitmotiv del “Corriere della sera”», e «di fronte alle agitazioni sociali dei primi mesi del 1919 ritornano, nelle sue discussioni negli editoriali del “Corriere”, i “noi” e i “loro” che in seguito […] finiranno col riassumere le antiche posizioni di difensori e oppositori dello stato costituzionale del 1861»65 .

I nuovi aspiranti distruttori della faticosa costruzione statual-nazionale diventavano così per Albertini i socialisti definitivamente spintisi su posizioni ultra-massimaliste, filo-bolsceviche. Ma non solo, perché la spedizione dannunziana a Fiume avvertiva d’un pericolo proveniente anche da Destra. Scriveva infatti in un articolo del 22 settembre 1919, che il Paese «corre[va] pericoli mortali se v[eniva] consentito di moderare il rispetto delle sue istituzioni con criterio contingente, a seconda che le violino degli ortodossi per fini nazionalistici o degli eterodossi per fini di dittatura proletaria»66 .

Ancora il 22 luglio 1920 Albertini mostrava, almeno pubblicamente, di non nutrire timori eccessivi dal “lato sinistro”: «Non hanno l’anima eroica, no, questi rivoluzionari che non vogliono la rivoluzione, che oggi spingono ad essa il popolo e domani lo trattengono, oggi vogliono spegnere la borghesia e domani urlano perché la borghesia non li difende abbastanza nelle loro imprese»67. Ma a spostare l’ago della bilancia sulla minaccia “bolscevizzante” in quanto la più concreta fu, anche nel caso di Albertini, l’occupazione delle fabbriche nel settembre di quello stesso anno. E il 10 del mese scriveva: «la sensazione che si sia arrivati all’estremo limite è ormai generale. Ma l’ha il governo? Se l’ha, non sciupi

64 Francesco Ruffini, Guerra e riforme costituzionali. Suffragio universale, principio maggioritario, elezione proporzionale, rappresentanza organica (1920), ora in Id., Guerra e dopoguerra. Ordine internazionale e politica delle nazionalità, a cura di Andrea Frangioni, Rubbettino, Soveria Mannelli 2006 (stampa 2007), p. 171. 65 Ottavio Barié, Luigi Albertini, UTET, Torino 1972, pp. 394 e 396. 66 Luigi Albertini, La libertà di Fiume e la libertà d’Italia, “Corriere della sera”, 22 settembre 1919, citato ibid., p. 404. 67 Ibid., p. 409. Sul «doppio fronte (non il doppio gioco!)» della posizione politica propria di Albertini sin dal suo esordio giornalistico, insiste Paolo Alatri, Luigi Albertini, “Belfagor”, n. 1 1953, ora in Id., Le origini del fascismo, Editori Riuniti, Roma 1962, pp. 345-374.

altro tempo: intervenga, dica agli industriali quel che devono fare, si assuma direttamente la responsabilità o della resistenza o della resa»68 .

La scelta giolittiana di non intervento riaccese l’antigiolittismo albertiniano e pose all’attenzione, non solo sua, l’alternativa secca tra conservazione borghese e rivoluzione proletaria:

La guerra mondiale ha molto affievolito le forze di resistenza della borghesia e accresciuto quelle del proletariato, più, naturalmente, nei paesi vinti che in quelli vincitori e più nei paesi poveri che in quelli alleati tanto di noi più forti. Di qui uno smarrimento della classe dirigente che può essere fatale se non ci assistono le supreme risorse della misura e del buon senso e le nostre virtù di adattamento69 .

Da allora in poi, il direttore del “Corriere della sera” avrebbe cominciato a cercare alternative alla vecchia classe dirigente, sempre con l’obiettivo di preservare il patrimonio politico-istituzionale e culturale dello Stato nato dal Risorgimento. In altri termini, Albertini leggeva la crisi del liberalismo italiano come incapacità di leadership e corruzione d’un sistema di governo che aveva il suo perno in Giolitti, che, dopo il discorso programmatico di Dronero dell’ottobre 1919, in cui aveva proposto una patrimoniale progressiva e la nominatività dei titoli, era ormai bollato dalla Destra, liberale o nazionalista che fosse, come «il bolscevico dell’Annunziata», essendo stato insignito dell’omonimo collare, massima onorificenza di Casa Savoia70. Da parte di liberali come Albertini si sarebbe colto a pieno come il quinto governo dello statista piemontese intendesse colpire gli interessi di quella grande industria che nel 1915 gli aveva voltato le spalle e, arricchitasi nel periodo bellico, non intendeva tornare allo status quo ante, sottraendosi ad inchieste sulle spese di guerra od osteggiando provvedimenti come l’abolizione della nominatività dei titoli di Stato, tutte proposte avanzate da Giolitti al momento del suo ritorno al governo nel 1920. Secondo alcune recenti letture storiografiche, le “aperture a sinistra” del quinto governo giolittiano avrebbero dunque preoccupato ambienti come quelli del “Corriere della Sera” ben più di un “pericolo bolscevico” già in via di esaurimento. Ma, con ciò, si condannò al fallimento l’ultimo, estremo tentativo di portare a compimento la parlamentarizzazione del regime monarchico-liberale, tentativo peraltro effettuato nel momento di sua massima debolezza71 .

68 Ottavio Barié, Luigi Albertini, cit., p. 411. 69 Ibid., p. 412. 70 Cfr. Luigi Ambrosini, Il bolscevico dell’Annunziata, “La Stampa”, 6 luglio 1919. A detta di Arrigo Cajumi, Ambrosini era all’epoca l’unico vero giolittiano a “La Stampa”, oltre al proprietario e direttore Alfredo Frassati. Si veda Luigi Ambrosini, Cronache del Risorgimento. Con appendice di nuovi scritti, Prefazione di Giovanni Spadolini, Boni, Bologna 1972, pp. 385-398; ed inoltre Luciana Frassati, Un uomo, un giornale. Alfredo Frassati. Vol. III. Parte Prima, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1982, pp. 853-856. 71 Si veda la tesi di dottorato di Duccio Chiapello, L’autunno di Giovanni Giolitti (1918-1928), Dottorato in “Teoria e storia delle costituzioni moderne e contemporanee” (XXVI ciclo), coordinatrice Isabella Rosoni, tutor Roberto Martucci, Università degli Studi di Macerata, a.a. 2014, cap. I, in particolare pp. 211-225, là dove si esaminano nel dettaglio le crescenti ed infine insanabili tensioni fra governo Giolitti e mondo industriale, causa d’ulteriore alienazione di consensi per lo statista piemontese e per la sua linea politica da parte di settori importanti dell’opinione pubblica liberale. Il lavoro di Chiapello aveva già preso forma di pubblicazione in un volume più sintetico dal titolo Il ritorno del “vero Re”. L’ultima rentrée di Giovanni Giolitti, Aracne, Roma 2012.

Certi giudizi direttamente espressi sul “pericolo bolscevico” confermano però un’autentica preoccupazione per possibili esiti politici “come in Russia”. La minaccia incombente sullo Stato liberale orientò Albertini, in questa sua ricerca di ripristino dell’autorità statale e stabilità governativa, inizialmente a Sinistra, verso una soluzione che vedesse coinvolti Turati e i socialisti riformisti, e successivamente a Destra, verso il fascismo, in corrispondenza del mutamento tattico-strategico operato tra autunno 1920 e primavera 1921 dal movimento mussoliniano: da forza sovversiva a baluardo della conservazione72. Tanto da scrivere nell’editoriale dell’8 aprile 1921 che il fascismo rappresentava «l’espressione più esasperata della coscienza nazionale risorta […], l’ala estrema di un grande partito nazionale che ha voluto il sacrificio della guerra per il bene dell’Italia e non vuole che l’Italia perisca soffocata da una stolida e, presso le genti più civili, ormai superata utopia»73 .

Dalla comparazione dei giudizi espressi nei confronti tanto della minaccia bolscevica quanto di quella fascista, si comprende come per molti assertori dell’idea liberale, spesso anche suoi strenui difensori in chiave antifascista, il giolittismo non fosse nemmeno lontanamente assimilabile ad una forma teorica e pratica di liberalismo. Al più, ne rappresentava la perversione. Tale giudizio, largamente diffuso, finì per creare convergenze di fatto anche là dove le distanze e le divergenze erano abissali. Sotto il mantello dell’antigiolittismo si ritrovarono e si confusero posizioni ideologiche le più diverse, e l’esito fu l’erosione pressoché totale di consenso nei confronti del parlamentarismo, giudicato alla stregua d’una patologia morale nonché politica74 . Un altro dato che sfuggì ad una parte significativa della cultura variamente liberale, come a quella di orientamento democratico-radicale, fu che gli anni Dieci avevano segnalato come in atto fosse un tipo di transizione ben diversa da quella che dall’ottobre 1917 ci si illuse poi potesse – o addirittura dovesse – essere. Interessante a tal proposito quanto constatava, sia pur avvantaggiato dal senno del poi, un allievo di Salvemini. Nel 1930 Carlo Rosselli addebitava agli intransigenti del PSI di non essersi resi conto che nell’Italia antecedente al 1914 «il problema non consisteva nell’avviamento al socialismo, ma nell’avviamento al capitalismo e alla vita moderna»75. Ma dopo l’ottobre 1917 questa errata comprensione non poté che rafforzarsi e addirittura tramutarsi nella persuasione assoluta

72 Cfr. Ottavio Barié, Luigi Albertini, cit., pp. 419 sg. 73 Luigi Albertini, L’appello al Paese, “Corriere della sera”, 8 aprile 1921, ora in Corriere della sera 1919-1943, antologia a cura di Piero Melograni, Cappelli, Bologna 1965, p. 65. 74 Oltre ad Amendola, tra le pochissime eccezioni ci fu Filippo Burzio (1891-1948), liberale antifascista ed intimo amico di Gobetti, ma anche giolittiano convinto, che nel 1921 pubblicò un saggio in lode di Giolitti e della sua politica pragmatica e realistica, senza essere per questo immorale né tanto meno corruttrice: «La politica non è pedagogia, né apostolato, non implica fede in tutto quel che si dice, né in tutto quel che si fa. Fra Rabagas e Mazzini c’è posto per un altro tipo umano. […] Il valore, direi culturale, di Giolitti in questo campo è stato soprattutto negativo: è stato cioè di aver funzionato da reagente dello spirito italiano, precipitando in una opposizione concreta contro la sua forma mentis molti imponderabili sentimentali in cui si concretano le tare nazionali»: Filippo Burzio, Giolitti, “La Ronda”, n. 8-9, agosto-settembre 1921, ripubblicato in Id., Dalla liberazione alla Costituente, Edizioni Palatine, Torino-Parma 1946, p. 187. L’impostazione elitista – o “demiurgica” – di fondo non impedì al liberalismo burziano d’apprezzare sin da subito le virtù liberali del giolittismo e di muoversi in direzione schiettamente liberal-democratica. Cfr. Norberto Bobbio, Democrazia ed “élites”, cit., in particolare pp. 234-241. Cfr. anche Paolo Bagnoli, Le idee di Filippo Burzio, Sansoni, Firenze 1982. 75 Carlo Rosselli, Socialismo liberale, Einaudi, Torino 1973, pp. 380-381.

che si fosse entrati nell’era dell’Avvento, del farsi carne del verbo rivoluzionario tante volte evocato e annunciato a parole. Una persuasione che si diffuse sia tra coloro che si erano posti da tempo in stato di attesa e speranza, sia tra coloro i quali avevano in passato ritenuto alquanto improbabile potesse mai giungere un simile momento di palingenesi sociale e politica. Oppure lo avevano rimosso, temendolo fortemente. All’interno dell’esigua schiera degli intellettuali liberali filo-giolittiani Luigi Salvatorelli spicca come colui che con maggiore acutezza seppe analizzare e comprendere per tempo molti aspetti del nascente movimento fascista. Colse già nei primi mesi del 1920 il velleitarismo del socialismo italiano sovraeccitato dagli eventi dell’Ottobre bolscevico, tanto da parlare d’un «nullismo massimalista» che «reclama il potere ed invoca la rivoluzione; ma teme, in realtà, l’uno e l’altra, e si guarda, quindi, dal compiere una qualunque azione positiva per raggiungere l’effettuazione del suo programma ufficiale»76. Anche per Salvatorelli, che era stato neutralista nel 1915, giungevano al pettine nodi irrisolti formatisi alla vigilia dell’ingresso dell’Italia nella prima guerra mondiale. Le classi dirigenti liberali avevano fallito nell’educazione politico-culturale della piccola borghesia umanistica, che, per il tipo di istruzione classica ricevuta, era tradizionalmente gonfia di retorica e, in quanto tale, era divenuta nel primo decennio del nuovo secolo la facile preda della propaganda nazionalista. L’instabilità del primo dopoguerra era da addebitarsi quasi più a cause interne che esterne, e il massimalismo comunista, «il feticcio bolscevico», risultava come il «legittimo figlio» di quell’ideologia – Salvatorelli la chiama «mentalità» – che era sorta in Italia con lo scoppio della guerra nell’estate del 1914: l’«intesismo italiano», che aveva prodotto «la tedescofobia cieca, le radiose giornate, il guerrafondaismo [sic], e, in parte, il fascismo stesso»77. Scriveva infatti il liberale giolittiano, quasi a cogliere nella deriva antigiolittiana della classe dirigente la responsabilità maggiore:

Bombacci e Gennari non sono se non gli eredi spirituali di coloro che, per spingere l’Italia nel conflitto e per mantenercela, annunciarono alle turbe la guerra a fondo e la distruzione della Germania come la via per giungere infallantemente al regno di Dio. Qual meraviglia che le turbe, percorsa quella via sino in fondo, e di regno di Dio non scorgendo traccia, sognino ora di arrivarci attraverso una qualunque imitazione italica della Russia di Lenin? Dato pure che Lenin, in Russia, non abbia compiuto se non distruzioni, esse non agguaglieranno mai quelle che si vedranno in Italia se continuerà per molto tempo ancora questo urto di forze cieche, che, movendo da opposte parti, percuotono, a colpi alterni, le fondamenta dello Stato e della stessa società civile78 .

A soccombere, infine, per il contagio di questa «malattia della violenza politica» sarebbero state le stesse istituzioni liberali, che si pensava di salvare favorendo la reazione fascista in funzione antisocialista79. La posizione di Salvatorelli, favorevole da tempo ad una convergenza tra forze liberali e forze democratiche, nonché ad un’apertura verso i ceti

76 Luigi Salvatorelli, Nullismo massimalista, “La Stampa”, 10 marzo 1920, ora in Id., Nazionalfascismo (1923), Prefazione di Giorgio Amendola, Einaudi, Torino 1977, p. 29. 77 Luigi Salvatorelli, Radiosomaggismo, “Il Resto del Carlino”, 18 ottobre 1920, ibid., p. 28. 78 Ivi. 79 Luigi Salvatorelli, Antiliberalismo, “La Stampa”, 8 luglio 1921, ibid., p. 68.

popolari per favorirne l’inclusione e così dare nuova linfa all’intera classe politica, rimase minoritaria sul fronte intellettuale – e politico – liberale80 . Per comprendere a pieno l’atteggiamento di gran parte degli intellettuali fin qui presi in esame nei confronti della rivoluzione russa, e soprattutto di ciò che ne apparve come l’immediata conseguenza politica in Italia, se non la sua vera e propria traduzione nostrana, è efficace sintesi quanto ebbe a scrivere Antonio de Viti de Marco nel luglio 1929, nella nota Al lettore di un’antologia che ripubblicava molti suoi scritti usciti nel trentennio precedente. Vi è un passaggio che merita d’essere riportato nella sua interezza, dal momento che conferma la seguente tesi: da parte liberale l’iniziale sostegno, più o meno diretto, più o meno entusiasta, al fascismo fu direttamente proporzionale al grado di paura suscitato dalla minaccia bolscevica e dalla sua possibile importazione in Italia.

Dopo la guerra, che fu per l’Italia uno sforzo gigantesco, del tutto sproporzionato al consolidamento politico del giovane Stato e alla consistenza economica del paese, attraversammo un periodo pauroso di completa anarchia, come se il nostro fosse stato un paese vinto. L’impero della legge era passato dal potere dello Stato all’arbitrio dei singoli gruppi, anzi all’istinto distruttore dei bassifondi e dei violenti di ogni singolo gruppo. I funzionari pubblici erano contro lo Stato che li pagava; i ferrovieri si consideravano quali padroni a titolo privato delle ferrovie che non sapevano esercitare; i postelegrafonici agivano come padroni delle poste e dei telegrafi arrestandone il funzionamento; il deficit dei servizi pubblici e nelle private era[no] diventat[i] uno sport politico e un metodo di intimidazione del pubblico, e, poiché si componevano regolarmente a condizione che fossero pagate le giornate non lavorate, crescevano all’infinito; i senzatetto occupavano le case dei privati; lo svaligiamento dei negozi veniva compiuto impunemente sotto gli occhi della polizia e, molti dicevano, organizzato dalla stessa polizia; e gli operai industriali invasero le fabbriche che non sapevano gestire; le leghe dei lavoratori agricoli invasero le terre che non potevano ripartirsi. Contro il caos sorse il fascismo, organizzazione privata di resistenza, segno non dubbio di vitalità del paese. Con lo squadrismo si ebbero fenomeni tipici di guerra civile. Il partito vincitore ristabilì l’ordine pubblico e sostituì lo Stato, praticamente scomparso; e poi lo plasmò poco a poco a sua immagine: Stato antiliberale e antidemocratico; l’individuo è soppresso di fronte alla volontà assoluta dello Stato, cioè del gruppo governante. Sono due momenti distinti: nel primo il fascismo affronta il socialismo degenerato in bolscevismo; nel secondo è contro coloro che pongono le libertà dell’individuo a base dello Stato. Noi avemmo in comune col fascismo un punto di partenza: la critica e la lotta contro il vecchio regime. La nostra critica, però, intesa a creare nel paese una più elevata coscienza pubblica contro tutte le forme degenerative delle libertà individuali e del sistema rappresentativo, aveva pur sempre di mira la difesa e il consolidamento dello Stato liberale e democratico. Così il nostro gruppo fu travolto81 .

80 Cfr. Marco Scavino, Dal neutralismo alla democrazia liberale. Politica e storia in Luigi Salvatorelli di fronte alla prima guerra mondiale, “Storia e Politica. Annali della Fondazione Ugo La Malfa”, XXIX 2014, pp. 150-159; nonché Gian Biagio Furiozzi, Liberalismo moderato e liberalismo radicale in Luigi Salvatorelli, “Rassegna storica del Risorgimento”, XCIII, fasc. 1, gennaio-marzo 2006, pp. 66-70. 81 Antonio de Viti de Marco, Un trentennio di lotte politiche (1894-1922), a cura di Antonio Maria Fusco, Giannini Editore, Napoli 1994, pp. L-LI (il corsivo è mio). Sulla figura e l’opera di de Viti de Marco, si veda Antonio Cardini, Antonio De Viti De Marco. La democrazia incompiuta (1858-1943), Laterza, Roma-Bari 1985. Cfr. anche Flavio Felice, Il liberalismo radicale dei primi del Novecento in Italia: Maffeo Pantaleoni e Antonio de Viti de Marco, in Storia del liberalismo in Europa, a cura di Philippe Nemo e Jean Petitot, Rubbettino, Soveria Mannelli 2013, pp. 553-581.

La scelta massimalista e filobolscevica del PSI di Giacinto Menotti Serrati e Nicola Bombacci al grido di «fare come in Russia»82, non favorì altro che una radicalizzazione della pregiudiziale antisocialista di molti liberali. Ad essere travolto non fu però il solo gruppo dei cosiddetti liberisti83, ma l’intera tradizione politica e culturale del liberalismo italiano che, stretta nella morsa fatale dell’alternativa secca tra comunismo e fascismo, rimase intrappolata se non strangolata a morte. Si sarebbe riaffacciata nel secondo dopoguerra, ma oramai stremata e senza fiato. Nonostante le residue speranze espresse da un altro liberale antigiolittiano come Guido De Ruggiero sulle possibilità di liberalizzazione del socialismo italiano e, di conseguenza, sulla possibilità di salvezza del sistema84, la paura del bolscevismo favorì una soluzione autoritaria che, ipotizzata come parziale e temporanea, si sarebbe rivelata totale e duratura. In definitiva, tra il 1917 e il 1925 si consumò la fine delle fortune del liberalismo in Italia.

82 «Per poter sormontare vittoriosamente la crisi sociale e politica del dopoguerra, il Partito socialista avrebbe dovuto giungere il più presto possibile al potere. […] Ma soprattutto questi rivoluzionari dicono di voler “fare come in Russia” e ciò si riduce al ripetere, come allucinati, le formule che il successo dei bolscevichi ha messo in circolazione. Invece di partire dai problemi della rivoluzione italiana per cercare di “scoprire” le parole d’ordine che le corrispondono, essi partono da formule già fatte e male assimilate per arrivare alla rivoluzione, e così non metton capo a nulla. […] Nell’Italia del 1919 la classe operaia resta senza programma e senza capi»: Angelo Tasca, Nascita e avvento del fascismo. L’Italia dal 1918 al 1922. Vol. I, Premessa di Renzo De Felice, Laterza, Bari 1972, pp. 2425; i corsivi sono presenti nel testo. 83 Difficile risulta poter inserire il pensiero maturato da Vilfredo Pareto negli anni tra guerra e dopoguerra all’interno di un pur vario, e per alcuni tratti acerbo, liberalismo italiano. Lo conferma, a mio avviso, proprio un articolo in cui l’economista e sociologo delle élites affronta il fenomeno del bolscevismo. Cfr. Vilfredo Pareto, Il fenomeno del bolscevismo, “Il Tempo”, 14 aprile 1919, ora in Id., Scritti sociologici minori, a cura di Giovanni Busino, UTET, Torino 1980, pp. 791-804. Basti dire che per Pareto «il bolscevismo si avvicina alla realtà, quando respinge il mito della maggioranza e quello che vieta l’uso della forza per governare» (ibid., p. 802), a conferma d’un realismo politico spinto fino al limite estremo dell’antiliberalismo e dell’antidemocrazia, posizioni per le quali il sostegno al fascismo non avrà nemmeno bisogno della paura d’una minaccia bolscevica in versione italiana. Pareto associava, inoltre, l’universalismo bolscevico e quello wilsoniano che avrebbe inteso sfociare nella Società delle Nazioni. Universalismo avversato e condannato da Pareto, beninteso. Ancora nel 1921, egli vedeva nelle violenze operaie compiute durante l’occupazione delle fabbriche nel settembre dell’anno precedente, l’eterna vicenda dell’alternarsi di élites al potere: «contrasto tra il potere che sorge e quello che tramonta»: Vilfredo Pareto, Appendice, in Id., La trasformazione della democrazia, a cura di Mario Missiroli, Cappelli, Bologna 1966, p. 140. L’allarme per il fenomeno lo spingeva a chiedere una reazione borghese per ripristinare l’ordine perduto. Diverso discorso andrebbe probabilmente fatto per il Pareto degli anni Ottanta dell’Ottocento, secondo quanto sosteneva già a suo tempo Roberto Vivarelli nel celebre saggio Liberismo, protezionismo, fascismo. Per la storia e il significato di un trascurato giudizio di Luigi Einaudi sulle origini del fascismo, in Id., Il fallimento del liberalismo. Studi sulle origini del fascismo, il Mulino, Bologna 1981, pp. 189-193. Sul rapporto con l’ideologia socialista e il «disincanto nei confronti dell’ideologia vincente negli anni della sua formazione e comunque egemone fra le forze sociali innovatrici del secolo XIX: il liberalismo», si veda il saggio di Pier Paolo Portinaro, Pareto e il canone della critica al socialismo, ne La forza dei bisogni e le ragioni della libertà… cit., pp. 227-243 (citazione a p. 230). 84 Cfr. Guido De Ruggiero, Storia del liberalismo europeo (1925), prefazione di Rosario Romeo, Laterza, Roma-Bari 1995. Preparato tra il 1921 e il 1924, questo classico della storia del pensiero politico liberale fu pubblicato nel 1925 e ristampato integralmente nel 1941 e nel 1943. Sull’antigiolittismo di De Ruggiero, accenni illuminanti nella suindicata prefazione di Rosario Romeo.

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