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Franco Andreucci
Franco Andreucci
Il bolscevismo nella mentalità della Sinistra italiana e la nascita del PCI
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Socialismo e comunismo
In occasione del cinquantesimo anniversario della rivoluzione d’Ottobre, Emilio Sereni, allora direttore di “Critica Marxista”, il bimestrale teorico del PCI, oltre a dedicare l’intero numero della rivista (luglio-ottobre 1967) all’evento, scrisse un lungo ed impegnativo saggio su La Rivoluzione d’ottobre e l’Italia. Il saggio aveva un forte carattere dottrinario e, proprio per il fatto di non guardare esclusivamente al rapporto fra la rivoluzione e il movimento operaio italiano, ma di pretendere di misurare l’influsso della rivoluzione su tutta l’economia e l’intera società italiane in una dimensione semisecolare – dall’andamento della produzione industriale alle trasformazioni dell’agricoltura, dai conflitti sociali al problema del “potere” – non ha molto da dirci. Per di più, esso intendeva misurarsi non tanto con gli studi dedicati al problema, ma con le Tesi del cinquantenario proposte dal PCUS, che intonavano una marcia trionfale ai successi dell’URSS, e con la tradizione togliattiana, entrambe considerate una pietra di paragone del comunismo italiano1 .
Si era, allora, in un momento contraddittorio della storia dell’identità del PCI: da una parte prendevano corpo i primi, notevoli studi sulla sua formazione e le prime, timide proposte di una riunificazione col PSI2; dall’altra, come dimostrano le molte pagine dedicate da “Critica Marxista” ai «grandi successi» dell’URSS in ogni campo dello scibile, continuava ad avere largo spazio la mitologia del paese guida3 .
Secondo quella visione, gli esiti della rivoluzione d’Ottobre conducevano sostanzialmente alla nascita del PCI, soggetto eroico e positivo della storia d’Italia. Bordiga, Gramsci e i giovani dell’“Ordine Nuovo”, la gioventù socialista, sarebbero stati illuminati fin dal 1917 dai bagliori dell’Ottobre; la loro lotta contro l’opportunismo del PSI e contro i riformisti avrebbe avuto uno svolgimento preordinato e coerente; la scissione e la fondazione
1 Emilio Sereni, La Rivoluzione d’ottobre e l’Italia, “Critica Marxista”, anno V, n. 4-5, luglio-ottobre 1967, pp. 3-66. 2 Cfr. Ugo Finetti, Togliatti & Amendola. La lotta politica nel PCI dalla Resistenza al terrorismo, Ares, Milano 2008. 3 Si veda, ad esempio, Giovanni Berlinguer, Medicina e società nell’Unione sovietica e Paolo Ciofi, L’edificazione dell’economia sovietica, ibid., pp. 210-224 e 159-209. Per la discussione di alcuni studi di allora sul tema, cfr. Tommaso Detti, La rivoluzione d’ottobre e l’Italia, “Studi storici”, anno XV, n. 4 1974, pp. 881-893.
del partito comunista avrebbero concluso la versione italiana d’un processo internazionale. Si formulava, cioè, l’equazione: rivoluzione d’Ottobre, partito comunista, antifascismo, Italia repubblicana. Ne erano corollari la capacità di lotta contro il fascismo, la presenza di massa nell’Italia della guerra fredda, le vittorie degli anni ’70. L’equazione era interessante anche se, come vedremo, dimenticava la variabile del Comintern. In realtà, il processo di formazione dei partiti comunisti fu influenzato da una serie assai complessa di elementi, in parte legati agli avvenimenti successivi all’inizio della guerra: la crisi dei vecchi partiti socialisti e socialdemocratici sovrastati dai sentimenti nazionali dei loro paesi, la formazione del movimento di Zimmerwald e d’una forte minoranza internazionale di Sinistra, la rivoluzione d’Ottobre e i conflitti sociali del dopoguerra. In parte, inoltre, sarebbe impensabile il profilo identitario dei partiti comunisti e della stessa Internazionale comunista senza considerare alcune vicende dei quindici anni che avevano aperto il nuovo secolo: i conflitti all’interno del socialismo russo coi loro riflessi nella Seconda Internazionale, la rivoluzione russa del 1905 – la “vera” rivoluzione russa4 – e la formazione d’uno schieramento internazionale di Sinistra che in parte fu influenzato dai temi dello “sciopero generale” e, in parte, accompagnò una radicalizzazione del pensiero marxista. Secondo i vecchi, classici studi di Heinz Schurer, lo stesso leninismo era cresciuto nel cuore della formazione della Sinistra socialdemocratica di Rosa Luxemburg, Karl Radek, Anton Pannekoek e molti altri5 .
Bisogna aggiungere che il mondo socialista del dopoguerra era ormai lontanissimo da quello della belle époque. Non solo perché la guerra aveva cristallizzato nuovi radicalismi – assai meno dottrinari di quelli precedenti e assai più legati alla crisi sociale in atto – e aveva provocato nuove e drammatiche fratture, ma anche perché le rivoluzioni e i conflitti sociali che scuotevano il mondo fra il 1917 e il 1920 chiamavano a prese di posizione e a decisioni impensabili nel clima sonnacchioso del socialismo europeo anteguerra. La nomenclatura e il lessico della politica cambiarono profondamente; cambiò il sistema dei simboli e delle identità; cambiarono le culture politiche. E mutarono i nomi, le ideologie, i sistemi di valori. Cambiò, come si dice, la narrazione della politica.
Di quella narrazione, il primo capitolo non può che essere quello della Grande Guerra, con la sottolineatura delle particolarità della condizione dell’Italia, che restò ai margini dei due schieramenti nell’estate del 1914 ed entrò in guerra nel maggio 1915. Per otto mesi, interventisti e neutralisti si combatterono acutamente6 . Per difficile che fosse, i socialisti italiani mantennero una posizione dignitosa. Anche se nei loro stessi ranghi le differenze furono spesso radicali e insanabili. Mussolini, direttore dell’“Avanti!”, aveva “tradito” nel novembre 1914 trasferendosi anima e corpo nel campo dell’interventismo, mentre altri socialisti non nascondevano le loro posizioni favorevoli a un intervento dell’Italia contro la Germania e l’Austria-Ungheria. Per alcuni si trattava d’una specie di conclusione del Risorgimento, per altri d’un impegno per sostenere le nazionalità oppresse dell’Impero asburgico, per altri ancora, il passaggio dalla neutralità integrale
4 Vedi Ettore Cinnella, 1905: la vera rivoluzione russa, Della Porta, Pisa 2008. 5 Cfr. Heinz Schurer, The Russian Revolution of 1905 and the Origins of German Communism, “The Slavonic and East European Review”, a. XXXIX, n. 93 1961, pp. 459-471; nonchè Id., Anton Pannekoek and the Origins of Leninism, ibid., a. XLI, n. 97 1963, pp. 327-344. 6 Giorgio Petracchi, 1915. L’Italia entra in guerra, Della Porta, Pisa 2015, pp. 63 sg.
a una “neutralità attiva e operante” non sarebbe stato altro che il riconoscimento del potenziale rivoluzionario della guerra nella trasformazione della società e della politica7 . Dopo l’entrata in guerra dell’Italia, la posizione socialista si fece ancora più difficile ma la parola d’ordine “non aderire né sabotare” sembrò in grado di mantenere il partito in una posizione lontana sia dall’adesione alla guerra che dal “disfattismo”. Tanto più che il PSI divenne parte attiva dell’iniziale movimento internazionale contro la guerra. Con i socialisti svizzeri, fino dall’estate 1914, il PSI aveva cercato di far tornare a discutere i socialisti dei paesi in guerra8 .
Il Partito Socialista Italiano era un partito di Sinistra: almeno a partire dal 1912 la corrente massimalista ne guidava le sorti e i suoi dirigenti e i suoi scrittori – Giacinto Menotti Serrati, Costantino Lazzari, e anche Benito Mussolini – erano figure popolari anche per le loro posizioni antimilitariste9 .
Lo scoppio della guerra rimescolò le carte in tutte le forze politiche, e anche nel PSI. Tutto il partito condivise l’amara delusione per il fallimento dell’Internazionale, ma non tutto il partito sembrava disposto a sostenere una pura e semplice posizione neutralista, che pure fu quella voluta dalla maggioranza. I primi tentativi di convocare una riunione del Bureau Socialiste International, nel settembre 1914, non ebbero successo. Alla fine, per quanto le posizioni socialiste contro la guerra fossero resuscitate e diffuse nelle conferenze di Zimmerwald – settembre 1915 – e di Kienthal – aprile 1916 – la frattura non fu più sanata. Finì col formarsi un’ala radicale del movimento socialista, nella quale il gruppo dei rivoluzionari russi – per quanto diviso al proprio interno – era il più attivo. Essa considerava chiusa la stagione della retorica pacifista e dell’unità a tutti i costi e predicava la rottura con gli “opportunisti”10. A insistere sulla necessità d’una divisione profonda nel socialismo, e della creazione d’una nuova Internazionale, erano proprio Lenin e Zinoviev e, con loro, la Sinistra polacca, quella olandese, quella tedesca e i socialisti italiani. La critica della Sinistra zimmerwaldiana non investiva solo gli opportunisti, ma anche i centristi e i conciliatori. Non si volevano più né mediazioni né accordi.
La guerra e il “fallimento” dell’Internazionale socialista avevano provocato una frattura che era difficile sanare: Kautsky non era più un teorico del marxismo, ma un “rinnegato”; la socialdemocrazia tedesca, il partito più forte dell’Internazionale, era chiamata da Lenin un partito di sciovinisti e di traditori fin dal novembre 191411. La sfida che contrappone riforme e rivoluzione, dittatura e democrazia, violenza e pacifismo, non è più un confronto, anche aspro, su questioni di principio o di dottrina: è un duello all’ultimo sangue. Per la
7 L’articolo Neutralità attiva e operante era uscito sul “Grido del popolo” il 31 ottobre 1914. Si veda ora in Antonio Gramsci, Scritti giovanili, 1914-1918, Einaudi, Torino 1975, p. 3. 8 Cfr. Ernesto Ragionieri, Il socialismo italiano e il movimento di Zimmerwald, in Id., La Terza internazionale e il Partito comunista italiano. Saggi e discussioni, con una Presentazione di Franz Marek, Einaudi, Torino 1978, pp. 79-118. Il saggio era uscito originariamente su “Belfagor”, n. XXVIII 1973, pp. 129-160. 9 Cfr. Maurizio Degl’Innocenti, Il socialismo italiano e la guerra di Libia, Editori Riuniti, Roma 1976. 10 Si veda Pierre Broué, Histoire de l’Internationale comuniste, 1919-1943, Fayard, Paris 1997, pp. 17 sg. 11 Vedi La guerra e la socialdemocrazia russa, novembre 1914, in Vladimir Ilič Lenin, Opere scelte, Editori Riuniti, Roma 1965, pp. 541 sg.
prima volta nella storia stanno, l’uno davanti all’altro, l’uno contro l’altro, la socialdemocrazia e il comunismo.
“Comunismo”: la parola era antica ma il suo uso, negli anni della guerra, si era rinnovato ed era esploso in una miriade di formazioni politiche, specialmente fra il 1917 e il 1920. Erano stati i russi a recuperare la parola in un rapporto ideale con la Comune di Parigi del 1871. Già nel 1915, a Ginevra, Bucharin, Lenin, Pjatakov ed altri avevano pubblicato il periodico “Kommunist” da una costola del “Sotzial-demokrat”. È vero che alle origini della dottrina marxista stava il Manifest der kommunistischen Partei, ma è altrettanto vero che nella seconda metà del XIX secolo il termine era stato soppiantato da “democrazia sociale” e “socialdemocrazia”, parole che designavano i partiti socialisti. Ma era proprio contro questa tradizione e questa entità che Lenin e i bolscevichi intendevano combattere.
Nel marzo 1918, quando fu deciso di cambiare la denominazione del partito da Partito Operaio Socialdemocratico Russo in Partito Comunista Russo (Bolscevico), Lenin spiegò al Congresso che la denominazione «partito socialdemocratico» era «scientificamente inesatta» sia perché la democrazia che veniva costruita in Russia aveva superato «il vecchio concetto di democrazia», sia perché il nome del partito doveva rendere esplicito l’obbiettivo della creazione d’una società comunista. A ciò aggiungeva che occorreva salvaguardare il carattere «bolscevico» del partito, conservando l’aggettivo fra parentesi12. Poche settimane più tardi era nato il partito comunista finlandese, poi quello austriaco, quello polacco e infine quello tedesco.
In Italia, il fascino del comunismo attrasse soprattutto una generazione di giovani socialisti: sia che essi fossero organizzati nella Federazione Giovanile Socialista, sia che essi militassero con gli adulti nel partito: ma attrasse anche chi, come Gramsci e Bordiga, guardava con interesse alle nuove forme di democrazia affermatesi in Russia, i soviet. Si trattava, per la verità, d’una fascinazione internazionale e di una forma di pressione partecipativa diffusa ben al di là della rivoluzione bolscevica. In Inghilterra, ad esempio, il movimento degli shop stewards aveva avuto origini in forme di rappresentanza sindacale precedenti la guerra13 .
La frattura all’interno dei partiti socialdemocratici era esplosa all’inizio della guerra quando la maggior parte di essi aveva aderito alle politiche “di difesa” dei loro governi, ma aveva un retroterra abbastanza antico nella divisione fra minimalisti e massimalisti, riformisti e rivoluzionari, revisionisti e marxisti ortodossi. Dissensi precedenti, sul ruolo dei partiti nei movimenti di massa, sugli orientamenti delle politiche economiche, sulla Weltpolitik, si accentuarono a partire dal 1914 creando il panorama d’un movimento socialista in crisi profonda. Le condizioni del movimento socialista in Italia avevano caratteri speciali: in primo luogo va ricordato che gli italiani non avevano partecipato se non tangenzialmente al grande dibattito sul revisionismo che contribuì a creare uno schieramento internazionale di Sinistra con un accentuato carattere marxista e dottrinario; in secondo luogo, era stata a lungo notevole nel PSI la presenza del sindacalismo rivoluzionario, in più occasioni portatore di posizioni contraddittorie verso la guerra; infine la componente mag-
12 Rapporto sulla revisione del programma e il cambiamento della denominazione del partito, febbraio-luglio 1918, in Vladimir Ilič Lenin, Opere. Vol. XXVII, Editori Riuniti, Roma 1967, pp. 109 sg.
gioritaria di Sinistra unificava posizioni diverse: dalla vecchia leadership massimalista, ai giovani, agli intellettuali più radicali.
Zimmerwald e Kienthal erano state un importante veicolo d’internazionalismo: un internazionalismo che si presentava come un «sentimento etico» caratterizzato da una «aspirazione di fratellanza e di solidarietà fra i popoli»14 e che accompagnava le prime reazioni alle notizie della rivoluzione in Russia. Pur nell’ignoranza dei complessi dettagli che contrapponevano le litigiose formazioni socialiste russe, il PSI era all’inizio vicino alla componente menscevica e in particolare a Martov, il cui gruppo si pensava coincidesse «per dottrina e per atteggiamenti coi partiti socialisti dell’Europa civile», secondo l’opinione di Gustavo Sacerdote15 .
Si mischiano, nei primi echi della rivoluzione russa, la tradizionale avversione di matrice democratico-socialista verso il tirannico regime zarista, la pesantezza delle condizioni durissime imposte dalla guerra e le prime note di speranza suggerite dalla rivoluzione di Febbraio. L’influenza della rivoluzione passò soprattutto dalle pagine di Viktor Sukomlin, di Gustavo Sacerdote – che scriveva dal punto d’osservazione dei paesi di lingua tedesca – e da Angelica Balabanoff, che nel maggio 1917 era a Pietrogrado16 .
L’impatto della rivoluzione sull’opinione pubblica socialista è fortissimo: alla scarsa informazione sulle forze in campo si sposa l’eterna discussione sui modi, i tempi e le forme di una rivoluzione socialista. Poteva, una rivoluzione socialista, avere luogo in un paese arretrato? E la classe operaia, avrebbe dovuto aiutare la borghesia a liberarsi – come nella Francia dell’89 – dell’autorità monarchica e dell’aristocrazia? O avrebbe dovuto semplicemente assecondare il processo lasciando agli avvenimenti di fare il loro corso oppure, infine, entrare nella lotta mirando ai propri specifici interessi di classe? E questi interessi avrebbero o non avrebbero avuto la possibilità d’affermarsi in Russia? Stanno tutti qui gli interrogativi che il socialismo occidentale si poneva sugli sviluppi della rivoluzione in Russia17 .
Se li poneva Gramsci, che a caldo espresse un giudizio rimasto famoso come quello della «rivoluzione contro il Capitale». Era una rivoluzione, nelle parole di Gramsci, contro un marxismo «contaminato di incrostazioni positivistiche e naturalistiche»18. La rivoluzione russa aveva gli stessi tratti di originalità che avevano avuto le rivoluzioni francese e americana e nasceva dall’incontro fra le condizioni di esistenza del popolo russo e «la predicazione socialista internazionale». Essa poteva condurre, senza sperimentare i diversi stadi di sviluppo dell’economia e della società, al «socialismo immediato»19 .
Turati aveva una visione diversa. «Tutto il cuore nostro è con la rivoluzione» aveva scritto dopo la rivoluzione di Febbraio20, ma pensava che il proletariato russo avesse fatto
14 Ernesto Ragionieri, Il socialismo italiano e il movimento di Zimmerwald, cit., p. 114. 15 Ibid., p. 107. 16 Sul tema, i lavori più rilevanti restano quelli di Helmut König, Lenin e il socialismo italiano, 1915-1921. Il Partito socialista italiano e la Terza Internazionale, Prefazione di Renzo De Felice, Introduzione di Giorgio Petracchi, Vallecchi, Firenze 1972 e di Stefano Caretti, La rivoluzione russa e il socialismo italiano (1917-1921), Nistri-Lischi, Pisa 1974. 17 Gabriella Donati Torricelli, La rivoluzione russa e i socialisti italiani nel 1917-18, “Studi storici”, a. VIII, n. 4, ottobre-dicembre 1967, pp. 727-765. 18 Antonio Gramsci, Scritti giovanili… cit., p. 150. 19 Ibid., p. 152. 20 Noi, Primavera di rivoluzione, “Critica sociale”, a. XXVII, n. 6, 16-31 marzo 1917, p. 81.
la rivoluzione per la borghesia – «per la Duma borghese» – e che non sarebbe stato possibile saltare lo stadio dello sviluppo capitalistico. Ma faceva anche un ragionamento critico contro la socialdemocrazia tedesca – da lui chiamata «socialismo kaizerista» – che con la caduta dell’autocrazia perdeva il suo principale «baluardo ideale […], la difesa contro lo czarismo».
Si trattava di distinzioni apparentemente dottrinarie ma che caratterizzavano due visioni profondamente diverse della politica e del ruolo del partito socialista: nel caso di Turati aveva la meglio la vulgata marxista dello sviluppo necessario delle formazioni economico-sociali; nel caso di Gramsci c’era invece la forte sottolineatura del ruolo della volontà, e quindi della soggettività, nella rivoluzione. Erano distinzioni profonde ma il loro carattere restava nell’ambito di differenziazioni di partito. I riformisti erano la minoranza sotto tiro fin dal Congresso di Reggio Emilia del 1912 ma, per quanto le polemiche interne fossero intense, la loro presenza nel partito era fuori discussione.
Le distinzioni fra il marxismo di Gramsci e quello di Turati subirono una fortissima accentuazione con il radicalizzarsi della rivoluzione. Nell’aprile 1918 la “Critica sociale” pubblicava l’appello menscevico contro «l’usurpazione del potere da parte di Lenin e Trotsky» e contro la proclamazione della «dittatura socialista del proletariato e dei contadini» basata su un regime «terrorista»21. Qualche mese dopo, insieme all’articolo di Sukomlin sul terrore bolscevico, la rivista di Turati traduceva il saggio di Kautsky su Democrazia e dittatura contro il quale si levarono le durissime critiche di Lenin. La narrazione dell’atmosfera della rivoluzione – ma ormai, nella seconda metà del 1918 era la guerra civile – richiama in modo inquietante lo scenario delle purghe staliniste del 1937:
Nelle strade e nelle case, di giorno e di notte, gli assassinii si succedono. E non sono solo i banditi che uccidono o sono uccisi. Sono gli agenti responsabili del governo dei soviet che, sotto il pretesto di opporsi alla controrivoluzione, ammazzano cittadini pacifici, operai, contadini, studenti, senza giudizi, senza istruttorie, tranquillamente, a sangue freddo, in nome nostro, in nome del proletariato rivoluzionario! […] Dzerdzinski e Zax, presidente e vicepresidente della “Commissione straordinaria” dichiaravano a un redattore della “Novaya Dzisn”: Noi rappresentiamo il terrore organizzato, il terrore assolutamente necessario in un periodo di rivoluzione. Il nostro compito è la lotta contro i nemici del governo dei Soviet. Noi li terrorizziamo, per soffocare i delitti nella loro radice22 .
Kautsky, a sua volta, richiamava la frase di Marx sulla violenza «come levatrice di ogni vecchia società che stia per partorirne una nuova» per chiarire come, nel testo di Marx, non si alludesse «alle uccisioni e ai massacri, ma alla forza concentrata e organizzata dello Stato»23 . In realtà, il primo elemento d’influenza che dai bolscevichi giungeva al movimento operaio internazionale era la sottolineatura del valore della “rottura”. Il tema dell’unità o della frattura assunse un ruolo centrale quando fu chiaro che la nuova Internazionale non avrebbe fatto sconti al PSI: gli avrebbe imposto non solo d’espellere i riformisti, ma
21 Menscevichi contro bolscevichi. Un appello menscevico alla Internazionale, ibid., a. XXVIII, n. 7, 1-15 aprile 1918, p. 78. 22 Il terrore, ibid., n. 19, 1-15 ottobre 1918, p. 224. 23 Carlo Kautsky, Democrazia e dittatura (A proposito della dittatura bolscevica in Russia), ibid., pp. 225-227.
anche di espellerli con ignominia, come traditori, piccoli borghesi illusi e ignoranti ed altri epiteti del vocabolario di vituperazione che era proprio del leninismo. Ma i socialisti erano unitari; non accettavano il diktat dell’Internazionale. Ce n’erano state avvisaglie, per la verità, già al convegno di Zimmerwald, quando Lazzari aveva ammonito Lenin sul valore dell’unità:
Noi italiani, aveva detto in polemica con Radek e Lenin, ci troviamo nella fortunata situazione di essere uniti. Questa fortuna non ci è caduta in grembo senza fatica. La precedono molti anni di lotte interne dure, esasperate. Lo spirito dell’unità è la nostra arma più forte, è la radice della nostra forza; e se Lenin indica con una sorta di intimo compiacimento le divisioni esistenti presso i compagni degli altri paesi, voglio obiettargli che considero questa divisione una grande disgrazia24 .
Ha scritto Ernesto Ragionieri che l’internazionalismo socialista avrebbe per l’appunto toccato il suo punto più alto nella partecipazione ai movimenti di Zimmerwald e Kienthal, ma che si trattava d’un internazionalismo solidaristico e municipale «di non troppo remota origine democratica», incapace «di fare confluire quella tradizione di solidarietà in una tendenza organizzata rivolta a rivendicare alla classe operaia l’egemonia nella lotta per la trasformazione sociale e politica della società nazionale, della quale la rivoluzione di Ottobre in Russia mostrerà la possibilità»25. Simili considerazioni possono oggi essere serenamente discusse: il vecchio internazionalismo socialista, anche per la sua origine nella democrazia ottocentesca e per le sue venature tolstoiane manteneva un genuino carattere umanitario, mentre l’internazionalismo leninista ebbe un carattere non inclusivo, dottrinario e dogmatico.
In Italia, in un clima interno provato non solo dalla guerra ma anche dalle sue conseguenze negli approvvigionamenti, nell’alimentazione, nella disciplina, nel lavoro, i socialisti continuarono a non aderire né a sabotare. Ma, mentre i riformisti sottolineavano il dovere della solidarietà nazionale di fronte alla sconfitta di Caporetto, il grosso del partito era contro la guerra e non ne faceva segreto. Lazzari, Serrati, Bombacci furono arrestati per aver promosso manifestazioni per la pace, mentre si allargavano simpatie e solidarietà verso la rivoluzione in Russia. Quando si tenne il XV Congresso del PSI, nel settembre 1918, si percepiva la sfida del futuro. Non era del tutto errato il giudizio della sinistra, che rimproverò il gruppo parlamentare per aver alimentato, dopo Caporetto, «il fuoco della resistenza nazionale» e che attaccò i riformisti per le loro critiche alla rivoluzione russa. Bisognava cessare il tono di «cavalleria spagnolesca» e l’«embrassons nous» per passare all’attività rivoluzionaria come avevano fatto i compagni russi. Occorre, sostenne Salvatori, «sopraffare la borghesia nell’ora della sua debolezza»26. Non era questo che avevano fatto i bolscevichi?
Non si potrebbe comprendere il carattere radicale della crisi del PSI e della formazione del PCI, la lontananza abissale dei nuovi sentimenti rivoluzionari dal tradizionale umanitarismo dei riformisti – non c’era, fra i socialisti, anche chi si diceva non violento, tol-
24 Cfr. Ernesto Ragionieri, Il socialismo italiano e il movimento di Zimmerwald, cit., p. 97. 25 Ibid., p. 118. 26 Citato in Stefano Caretti, I socialisti e la grande guerra (1914-1918), in Giovanni Sabbatucci (a cura di), Storia del socialismo italiano. Vol. 3. Guerra e dopoguerra (1914-1926), Il Poligono, Milano 1980, p. 107.
stoiano? – se non si tenesse conto dell’accelerazione prodotta nelle coscienze dal terribile binomio di guerra e rivoluzione. La fine della guerra aprì in tutta Europa una stagione di lotte sociali della cui intensità non si aveva memoria. Mentre la rivoluzione russa stentava a consolidarsi, ad Occidente le sconfitte dell’Impero tedesco e di quello austroungarico avevano dato luogo alla loro caduta e alla nascita, in Germania e in Austria, di due repubbliche. Non solo: si trattava di due repubbliche con un’identità fortemente influenzata dalla presenza socialdemocratica. La bandiera rossa sventolava a Berlino mentre a Vienna il socialista Karl Renner era Cancelliere della Repubblica. Tra la fine del 1918 e i primi mesi del 1919 non c’era città europea nella quale le strade non fossero gonfie di dimostranti.
In termini immediati, l’Europa a cui guardavano i bolscevichi dalla cittadella assediata del loro potere era un’Europa che sembrava realizzare il sogno d’una rivoluzione mondiale. A Berlino, alla fine del 1918 la Lega di Spartaco e altri gruppi rivoluzionari avevano formato il partito comunista tedesco. La capitale tedesca sembrava poter cadere nelle mani dei Consigli degli operai e dei soldati da un momento all’altro. Ma, d’altra parte, la repressione non si fece attendere. E fu una repressione decisa dalle autorità di governo socialdemocratiche. Un migliaio di manifestanti finirono uccisi, e fra loro Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht. Seguirono scioperi, manifestazioni, occupazioni, ammutinamenti. A Monaco, in aprile, fu creata una Repubblica consiliare, mentre in Ungheria conquistava il potere il partito comunista di Bela Kun. Prendeva corpo una contrapposizione inedita: da una parte i socialdemocratici, dall’altra i comunisti, come ormai i bolscevichi si chiamavano.
Nei primi giorni del marzo 1919 era stata creata l’Internazionale comunista, la Terza Internazionale. Nel corso di tutto l’anno, in diversi paesi europei, gli episodi che documentavano la trasformazione della lotta politica in conflitto armato erano divenuti parte di uno scenario quotidiano. I socialisti, che avevano tenuto il loro nuovo Congresso a Bologna ai primi d’ottobre, ed in cui la sinistra aveva addirittura ampliato la sua maggioranza raggiungendo il 70%, volevano l’adesione alla nuova Internazionale. Nei mesi convulsi alla fine del 1919 sembrava maturo il momento della trasformazione del PSI in partito comunista. La maggioranza del PSI lo desiderava, l’Internazionale lo sollecitava. Ma, anche in questo caso, le “furie” della guerra civile imposero a tutti i protagonisti netti cambiamenti di rotta.
Il PSI non era stato fra i partiti fondatori dell’Internazionale comunista, ma era stato il primo partito di massa ad aderirvi, mesi prima della formulazione dei cosiddetti Ventun punti, le ventuno condizioni stabilite dalla Terza Internazionale per entrare a farne parte. Lenin aveva ringraziato Serrati per la solidarietà con la rivoluzione espressa dal partito e si era complimentato per la vittoria riportata al congresso. L’idea che i bolscevichi avevano del PSI era l’idea del partito di Zimmerwald, che aveva combattuto contro la guerra e che non aveva preso parte alla conferenza di Berna della “vecchia” Internazionale. Per questo, nell’elenco dei partiti e dei gruppi invitati a formare la nuova Internazionale comunista, il PSI risaltava come il soggetto organizzato più rilevante. Il secondo Congresso dell’Internazionale si sarebbe incaricato d’introdurre delle sgradevoli varianti a simili giudizi.
I punti di contrasto che serpeggiavano in quel primo embrione di movimento comunista internazionale erano semplici e complicatissimi insieme e derivavano dal carattere imprevisto e periferico della rivoluzione russa, al di fuori degli schemi socialisti e marxisti. Quale doveva essere la tattica politica? Elezioni o violenza? Parlamenti o “soviet”? E quali dovevano essere i soggetti e i protagonisti della rivoluzione? La classe operaia da sola o
alleata ad altre classi sociali? E che cosa erano chiamati a fare i comunisti: dovevano rompere col resto del movimento operaio o conquistarvi la maggioranza? E la rivoluzione, che si immaginava prossima, che teatro avrebbe avuto? L’Europa avanzata? L’Asia arretrata? O sarebbe stata addirittura una rivoluzione mondiale? I socialisti italiani, guidati dalla figura “comunista” di Serrati – non aveva, il leader socialista, fondato una rivista che si chiamava “Comunismo”? – erano pronti alla loro parte di rivoluzione. In Italia, essa sembrava a Serrati prossima, anche se la rivoluzione italiana non sarebbe stata radicale e cruenta come quella dei bolscevichi. L’Italia era un paese con un forte movimento sindacale, con le cooperative, con l’organizzazione elettorale socialista. E quando sarebbe scoppiata, la rivoluzione, in Italia? Presto, secondo Serrati, e proprio per questo l’unità andava, per il momento, salvaguardata. I riformisti come Turati non avrebbero accettato, probabilmente, la trasformazione del PSI in un partito di rivoluzionari. Ma un’epurazione in Italia non poteva essere decisa da Mosca.
In realtà, a Mosca si voleva proprio questo. Il PSI doveva cambiare nome, doveva espellere Turati e i riformisti, doveva abbandonare l’opportunismo “unitario” e abbracciare la disciplina ferrea dell’Internazionale comunista. Bucharin, sulla “Pravda”, era stato molto chiaro nell’articolo di «benvenuto» che aveva accolto a Mosca i delegati socialisti: il PSI era pieno di «avvocatucci» riformisti che dovevano essere «cacciati». I «socialpatrioti», capaci di «opporsi alla rivoluzione armi alla mano», erano i nemici principali27 . Alla complessità dei problemi e alle tragiche difficoltà del momento, deve essere aggiunto il ruolo svolto da Lenin e dal gruppo dirigente della Terza Internazionale. Essi ripetevano in modo martellante e ossessivo che nella rivoluzione ai soli comunisti spettava un ruolo dirigente. L’obbiettivo della dittatura del proletariato prevedeva la lotta senza quartiere contro i riformisti. Il processo di formazione dei partiti comunisti, ovunque nel mondo, fu preceduto, accompagnato e seguito da una campagna di contrapposizione, di aggressione, di denuncia dei riformisti, degli opportunisti, dei conciliatori, dei centristi. L’esempio della teatrale contrapposizione fra Lenin e Serrati – nell’autunno 1920 – lo documenta in modo impressionante. L’idea di Serrati era quella di procedere verso la rivoluzione comunista in Italia mantenendo integro il movimento operaio italiano. L’idea di Lenin era che i riformisti avrebbero sabotato la rivoluzione italiana. Ergo, i riformisti dovevano essere espulsi. Discussioni e contrapposizioni simili si erano svolte – e si stavano svolgendo, alla fine del 1920 – anche in Francia e in Germania. In Francia, tuttavia, la formazione del Partito Comunista Francese sarebbe stata, al Congresso di Tours del dicembre 1920, una scissione di maggioranza. In Germania, al contrario, il problema dell’unità e della frattura fra i diversi segmenti di sinistra del movimento operaio dette luogo a uno scontro molto acuto.
Molti avevano espresso opinioni contrarie a una scissione anche a proposito dell’Italia. Il fatto era che in Italia esisteva una forte componente di sinistra, una frazione comunista – Gramsci, Bordiga – il cui programma fu, dallo stesso Lenin, contrapposto all’ingenuità, all’errore, alla «gretta diplomazia», alla «superficialità» di Serrati28. I comunisti, nel loro programma presentato alla Direzione del PSI di Milano, avevano formulato una linea che
27 Cfr. Paolo Spriano, Storia del Partito comunista italiano. Vol. 1. Da Bordiga a Gramsci, Einaudi, Torino 1976, p. 66. 28 Vladimir I. Lenin, A proposito della lotta in seno al Partito socialista italiano [aprile-dicembre 1920], in Id., Opere complete. Vol. 31, Editori Riuniti, Roma 1967, p. 361.
prevedeva «l’azione insurrezionale del proletariato» con mezzi legali e con mezzi illegali. E immaginavano un partito caratterizzato dal centralismo, dalla disciplina, dall’espulsione dei riformisti al di sopra «dei falsi sentimentalismi unitari»29 .
I “comunisti puri” erano Bombacci, Bordiga, Fortichiari, Gramsci, Misiano, Polano, Terracini. Per quanto fossero portatori di visioni in parte diverse – i piemontesi pensavano allo “Stato operaio” e alla democrazia dei Consigli di fabbrica, mentre gli altri polemizzavano contro le elezioni e il parlamentarismo borghese – tutti avevano in mente le parole e l’opinione di Lenin: la rivoluzione era alle porte in Italia, e solo menti lucide e decisioni taglienti potevano garantirne il successo. Era con questo spirito che si preparava il XVII Congresso del PSI, il Congresso di Livorno.
Ma, come vedremo, a Livorno non nasceva solo un partito: si consolidavano e prendevano forma organizzata delle idee, nate dal bolscevismo e dalla rivoluzione d’Ottobre, che avrebbero profondamente influenzato – nei tempi lunghi – l’ideologia comunista. Erano le idee dell’organizzazione centralizzata, dell’autorità, della gerarchia, del capo. Erano idee profondamente diverse dalla tradizione socialista con la quale si voleva a tutti i costi rompere.
La cerimonia della scissione
Si verificò allora un salto di mentalità che modificò profondamente alcune idee guida della sinistra: esse riguardavano in parte l’essenza stessa della politica, e cioè gli obbiettivi e la sostanza del cambiamento – la rivoluzione come atto soggettivo e la creazione di una società che, per quanto avesse una vocazione egualitaria, manifestava una gerarchia stringente attorno alla classe operaia; in parte attenevano ai mezzi e agli strumenti per la realizzazione di quegli obbiettivi – il partito con tutti i suoi corollari di organizzazione, disciplina, autorità statutarie e simboliche; in parte, infine, anche il senso comune della sinistra sembrò cambiare: il valore della rottura – e della chiarezza ideologica – sostituì quello dell’unità; la scelta della violenza, quella dell’avanzata pacifica.
Secondo molti osservatori si confrontarono al Congresso di Livorno due mondi: il socialismo e il bolscevismo. Il primo era una nebulosa ampia e ricca, capace di contenere riformisti e comunisti unitari, visioni del mondo rivoluzionarie e prassi parlamentare, tradizioni popolari e sindacati di massa. Il secondo era un cerchio all’interno del quale stavano i concetti esclusivi di “rivoluzione”, “partito”, “disciplina”, “classe operaia”. Da un certo punto di vista, Livorno fu una cerimonia il cui esito era scontato. Si mescolarono ed agirono insieme confusamente ma efficacemente scelte di linee politiche contrapposte, opzioni organizzative differenti, conflitti di generazioni, contrasti personali, aspettative e previsioni del futuro.
I comunisti attaccarono con durezza l’idea, anzi il “fantoccio” dell’unità del partito. E l’attaccò con parole forti anche Christo Kabakčev. Secondo il comunista bulgaro, delegato della Terza Internazionale al Congresso insieme all’ungherese Rákosi, il nemico da battere era Serrati, che non intendeva separarsi dai riformisti. Mentre Terracini e Bordiga ripetono le posizioni della frazione comunista e dell’Internazionale in interventi lunghissimi e
29 Gramsci usa spesso, nella tarda primavera del 1920, questi concetti e queste espressioni. Cfr. Il consiglio di fabbrica, in Antonio Gramsci, L’Ordine Nuovo 1919-1920, Einaudi, Torino 1975, pp. 123 sg. nonché Il programma dell’Ordine Nuovo, ibid., pp. 146 sg.
dottrinari, Serrati non vorrebbe nemmeno parlare, ma poi lo fa, per difendere la sua politica con passione e amarezza: «Espellere, distruggere […] è cosa facile. Abbiamo aderito alla Terza Internazionale con tutto lo slancio dell’animo nostro» e, quando i comunisti puri lo interrompono e gli unitari lo difendono, Serrati continua: «Lasciate che mi si interrompa. Non rispondete. Non voglio applausi. Preferisco il sibilo delle vipere che tante volte mi sono sentito intorno»30 .
La votazione sarebbe stata la seguente: comunisti unitari 98.028 voti, riformisti 14.695, comunisti puri 58.783. E i comunisti si sarebbero trasferiti al Teatro San Marco per costituire il Partito Comunista d’Italia, Sezione della Terza Internazionale.
Ciò che del Congresso di Livorno sarebbe restato nell’identità dei comunisti era l’idea e l’esperienza della rottura, della scissione, cioè del loro distacco da un mondo diverso. Per quanto il lessico del comunismo attribuisca un grande valore all’unità, il concetto fondante dell’identità comunista è quello della divisione, della rottura. Ed è di qui che probabilmente deriva quell’idea costante, sotterranea, profonda – spesso un indicibile fastidio – della differenza, anzi della contrapposizione al PSI. Di questa contrapposizione sarebbero rimasti corposi detriti che, di lì a pochi anni, avrebbero fatto sentire il loro peso nel giudizio sul “socialfascismo”. Nell’immaginario dei comunisti si fissa allora l’idea del PSI come d’un universo di uomini deboli, irresoluti, sentimentali, di riformisti pronti a collaborare con la borghesia. Anche coloro che – come Serrati – sono più vicini al cuore del proletariato, sembrano ai comunisti del ’21 del tutto incapaci di capire che ormai il movimento socialista è irrimediabilmente spaccato. Ma la scissione non ebbe soltanto un profilo simbolico, essa ne ebbe anche uno politico. E, infatti, nell’idea della rottura completa ed assoluta col passato del movimento operaio è compresa la critica al PSI come soggetto politico. Le critiche che i comunisti italiani rivolgono ai socialisti italiani sono in generale le stesse che i comunisti rivolgono ai socialdemocratici in tutto il mondo, ma, almeno nelle osservazioni di Gramsci e dei suoi amici, esse convergono attorno ad alcuni punti. In primo luogo, la cultura socialista è dominata dall’improvvisazione, dall’approssimazione, dall’incapacità di maturare giudizi politici profondi ed ancorati a progetti di cambiamento altrettanto profondi: contro di essa si erge l’idea della politica come sforzo razionale e intensamente sentito. Da ciò deriva a sua volta l’idea che il partito socialista sia un soggetto estraneo alla razionalità dell’organizzazione e del centralismo, così tipici dei comunisti: esso è, nelle parole di Gramsci, «caos», «pulviscolo», «circo Barnum». Infine, proprio a causa della cultura politica povera e della struttura organizzativa debole, hanno particolare fortuna nel PSI singole personalità che non saranno mai dei veri «dirigenti», come Ferri, Mussolini, Morgari ed altri che appaiono come meteore e scompaiono subito: il «capo» – come Gramsci e Togliatti subito chiameranno Lenin – era una figura estranea sia all’organizzazione che alla tradizione socialista31. Quello che è certo, è che una simile frattura avveniva anche sulla base di alcune idee che provenivano dal leninismo.
Su questa linea – che presupponeva oltre all’attacco al PSI anche la prospettiva della formazione d’un partito in grado di contrastare le adesioni al PSI e quindi, almeno tenden-
30 Il direttore dell’“Avanti!”, “La Stampa”, 20 gennaio 1921. 31 Cfr. “Capo”, “L’Ordine Nuovo”, marzo 1924, s. III, I, n. 1 ora in Antonio Gramsci, La costruzione del Partito comunista, 1923-1926, Einaudi, Torino 1974, pp. 12-16.
zialmente, largo e di massa – il PCI tuttavia si mosse con difficoltà. Bordiga sembrava applicare all’Italia un’accentuazione schematica e dottrinaria del modello di partito proposto da Lenin nel Che fare? del 1903: più che un partito d’avanguardia, un gruppo di “puri”, di militanti ideologicamente ferrati e a tutta prova. Il tema del partito, della sua organizzazione, del ruolo dei suoi dirigenti, del rapporto con i lavoratori, divenne uno dei temi centrali nella discussione interna del PCI. Ma quando il PCI dovette cominciare a “fare politica”, due problemi quasi insormontabili sembrarono minacciarne il futuro: la disciplina nell’Internazionale comunista e l’affermazione del fascismo.
Nella battaglia che allora intrapresero, i comunisti italiani, certamente anche per le condizioni difficili imposte dall’avversario, considerarono la Terza Internazionale e il bolscevismo come pietre di paragone per la loro azione. Non si trattò semplicemente dell’adesione ad un’organizzazione politica, ma anche dell’acquisizione d’una serie di concetti e idee guida che per decenni avrebbero popolato il loro immaginario.
Dittatura, violenza, guerra civile
Accanto all’idea della “rottura”, un’altra idea guida della rivoluzione è quella della dittatura del proletariato. Ancora nel gennaio 1918, Gramsci aveva ripreso un tema che gli era caro, quello del carattere «non giacobino» della rivoluzione russa:
Giacobinismo? Il giacobinismo è un fenomeno tutto borghese, di minoranze tali anche potenzialmente. Una minoranza che è sicura di divenire maggioranza assoluta, se non addirittura la totalità dei cittadini, non può essere giacobina, non può avere come programma la dittatura perpetua. Essa esercita provvisoriamente la dittatura per permettere alla maggioranza effettiva di organizzarsi, di rendersi cosciente delle intrinseche sue necessità, e di instaurare il suo ordine all’infuori di ogni apriorismo, secondo le leggi spontanee di questa necessità32 .
In termini analoghi, Togliatti si sofferma più volte sul tema dello “Stato”. Ecco, riassunto in poche parole, il senso della differenza fra la tradizione socialista e il comunismo:
Per il rivoluzionario quarantottesco, per il blanquista, anche, in un certo senso, per il socialista “Seconda Internazionale” è un problema di propaganda orale, di proselitismo di partito. Per il marxista, per il comunista, cioè per il socialista che è sulle direttive della Terza Internazionale è un problema di trasformazione dell’organismo sociale, cioè il problema di creare un sistema organico nel quale gli uomini siano portati a entrare in modo spontaneo, per la evoluzione stessa che vengono subendo i rapporti sociali dietro l’impulso delle forze che reggono tutto l’organismo della società33 .
Prima della formazione del PCI, come si vede, vi era una sottolineatura di temi vicini a quelli dell’egemonia piuttosto che del tema della dittatura. Le cose cambiano quando la
32 Antonio Gramsci, Note sulla rivoluzione russa, 29 aprile 1917, ora in Id., La città futura 191718, a cura di Sergio Caprioglio, Einaudi, Torino 1982, pp. 138-142. 33 Palmiro Togliatti, La costituzione dei Soviet in Italia. Dal progetto Bombacci all’elezione dei Consigli di fabbrica, “L’Ordine Nuovo”, 14 febbraio e 13 marzo 1920, ora in Id., Opere. Vol. 1. 19171926, a cura di Ernesto Ragionieri, Editori Riuniti, Roma 1967, pp. 141-142.
lingua e l’autorità di Lenin divengono parte del senso comune comunista: la dittatura del proletariato diviene un’espressione che esalta il paese dei soviet. Ma alla fine la tradizione, attribuendo un valore positivo al termine “proletariato”, ha finito col trasfigurare il significato del concetto di “dittatura”. Kautsky lo aveva sottolineato. Il problema non era soltanto teorico, era pratico. Lenin e i bolscevichi avevano voluto instaurare in Russia la dittatura del proletariato. Ciò aveva significato sospensione del diritto, legittimazione delle esecuzioni di massa dei nemici della rivoluzione senza processo, instaurazione di tribunali rivoluzionari, irresponsabilità dell’esecutivo per la mancanza di un vero potere legislativo, creazione della polizia segreta e arbitrio nell’uso della violenza nella repressione. Nella guerra civile e nella dittatura del proletariato la libertà e la democrazia non erano soltanto sconfitte, esse erano calpestate e derise. Esse erano solo squallidi attributi del potere borghese.
Con la rivoluzione d’Ottobre, Lenin, il bolscevismo, entravano a far parte della cultura politica italiana una serie di concetti, di punti di vista, di valori che hanno rischiato di divenire senso comune in una visione della storia d’Italia a lungo dominata dalla narrazione comunista. Il tema della violenza in senso lato, anzi dell’uso consapevole della violenza per il raggiungimento di determinati fini politici, era uno di questi34 .
Come abbiamo visto, la tradizione socialista era ancorata all’idea che i cambiamenti necessari per la realizzazione d’una società egualitaria sarebbero avvenuti lentamente e pacificamente. Di essa, l’idea della forza dei numeri era un punto centrale: gli elettori socialisti, gli operai consapevoli, i socialisti sarebbero aumentati fino a divenire maggioranza. Allora, vinte politicamente e legalmente le forze del passato, un’economia prospera e una società sviluppata avrebbero richiesto solo la direzione politica dei processi di socializzazione. La rivendicazione occasionale e spavalda della necessità della violenza che aveva accompagnato le origini quarantottesche del socialismo, era stata nella sostanza negata dalla formazione del movimento socialista in opposizione alla tradizione anarchica. La mentalità socialista della Seconda Internazionale tendeva a rifuggire dalla dimensione della violenza35 . Sin dal 1915 aveva avuto, invece, una notevole diffusione nel bolscevismo la parola d’ordine della trasformazione della guerra imperialista in guerra civile. Lenin ne aveva scritto in modo ossessivo, e alla fine aveva vinto. La parola d’ordine della trasformazione della guerra imperialista in guerra civile è giunta fino a noi indistintamente con tutti gli altri suoni e parole d’ordine del movimento comunista: “lotta di classe”, “classe contro classe”, “fronte unico”, “rivoluzione permanente”, in un universo linguistico che rischia di sottovalutare il vero significato dell’espressione. In particolare, nell’opposizione guerra imperialista/guerra civile, il peso negativo attribuito al primo elemento fa risaltare il secondo fino ad attribuirgli un significato positivo. In realtà, l’idea della trasformazione della guerra
34 Cfr. Communism and Political Violence, numero speciale di “Twentieth Century Communism: a Journal of International History”, n. 2 2010, in particolare l’Introduzione di Matthew Worley, pp. 1-7. 35 Cfr. Sylvain Boulouque, The communist movement and violence in France: from the First World War to the Cold War, in Communism and Political Violence, cit., pp. 43 sg., il quale osserva: «Between the turning point of the 1890s and the First World War, the forms of political and social organisation changed and outbreaks of violence became less spontaneous in character. The majority of social actors, moreover, were becoming integrated into democratic life and renounced the use of violence». Si veda inoltre Marco Albeltaro, Italian communism and violence, 1921-48, ibid., pp. 92-113.
imperialista in guerra civile, trasformò davvero la guerra in guerra civile. Nel clima imbarbarito di allora, ciò significò in primo luogo violenze inaudite e, soprattutto, una violenza indiscriminata, orientata soltanto dalle paure e dagli odii della contrapposizione politica. Mentre i socialisti dell’Occidente sognavano di fare “come in Russia”, i loro compagni russi scatenavano verso gli avversari – i generali “bianchi”, i borghesi, i controrivoluzionari – tutta la violenza di cui disponevano. Impiccagioni, esecuzioni pubbliche, uccisioni sembravano – questa è la guerra civile – i soli mezzi per garantire la vittoria d’una causa sentita come giusta. Ettore Cinnella ne ha scritto diffusamente, richiamando più volte il contorno violento e criminale, apocalittico, della guerra civile: le «selvagge vendette di classe», la «cupa e rabbiosa rivoluzione contadina»36 .
Il tema della violenza e quello della guerra civile facevano parte della tradizione marxista. La frase di Marx, sulla violenza come agente di cambiamento e come «potenza economica» si accompagnava alle riflessioni di Engels sulla violenza nelle rivoluzioni e nelle lotte sociali del XIX secolo. Ma, bisogna aggiungere, dopo le considerazioni di Marx e di Engels sulla guerra civile in Francia che avevano lasciato una corposa memoria nel movimento operaio, la drammatizzazione della lotta di classe come lotta violenta, sanguinosa, estrema si era progressivamente moderata se non spenta nei partiti socialisti: prima per affermare la necessità della politica contro la violenza individuale degli anarchici, poi a favore dell’idea di un’avanzata potente e sicura verso il socialismo garantita da una certa razionalità della storia.
Era stato Lenin, a partire dalla rivoluzione del 1905, a considerare la violenza come una parte essenziale della lotta di classe: il rumore dei fucili sembrava esaltarlo, i fiumi di sangue accompagnavano nelle sue pagine la guerra civile per la libertà, mentre la classe operaia cantava “Libertà o morte” in uno scenario di ferro e di fuoco37 .
D’altra parte, si deve ricordare che il socialismo italiano era particolarmente sensibile ai temi della non violenza. È vero, come ha scritto Claudie Weill, che la posizione socialdemocratica verso la violenza era caratterizzata da orientamenti sovente contraddittori: la fedeltà a una fraseologia rivoluzionaria, la tattica politica ancorata a una visione elettoralistica e infine l’opposizione netta a ogni strategia rivoluzionaria; ma è altrettanto vero che la vocazione internazionalista del socialismo italiano lo aveva salvato da quello che Lenin chiamava «socialsciovinismo»38 .
Gli animi, le idee, gli atteggiamenti individuali, le dinamiche collettive, le ideologie spingono verso un crescendo di radicalizzazione e di violenza. Sentite che cosa scrive all’inizio del dicembre 1919 Antonio Gramsci, raffinato giornalista torinese, sull’“Ordine Nuovo” di Torino, una rivista appena fondata che inneggia ai Consigli di fabbrica, versione italiana dei soviet. Commentando gli scontri torinesi nei quali, fra l’altro, era stato assassinato un giovane boy-scout che aveva gridato “Viva l’Italia!”, Gramsci giustifica la violenza di classe e segue un ragionamento sul quale bisogna riflettere:
36 Vedi Ettore Cinnella, 1917. La Russia verso l’abisso, Della Porta, Pisa 2012. 37 Cfr. Vladimir I. Lenin, L’inizio della rivoluzione in Russia [gennaio-luglio 1905], in Id., Opere complete. Vol. 8, Editori Riuniti, Roma 1961, pp. 83 sg. 38 Claudie Weill, Marxistes russes et social-démocratie allemande, 1898-1904, Maspero, Paris 1977, p. 164.
Questa lotta si è svolta nell’unica forma in cui poteva svolgersi: disordinatamente, tumultuosamente, come una razzia condotta per le strade e per le piazze al fine di liberare le strade e le piazze da una invasione di locuste putride e voraci […]. La piccola e media borghesia è infatti la barriera di umanità corrotta, dissoluta, putrescente con cui il capitalismo difende il suo potere economico e politico, umanità servile, abietta, umanità di sicari e di lacchè; espellerla dal campo sociale, come si espelle una volata di locuste da un campo semidistrutto, col ferro e col fuoco, […] significa purificare l’ambiente sociale […]. È vero, la rivolta è fatta per gran parte di elementi imponderabili e la rivolta deve anche contare sul caso, sul gruppo di ragazzacci che vanno al di là dell’intenzione di tutti, sul teppista che due giorni dopo bisognerà forse fucilare perché si sarà dato al saccheggio e alla strage39 .
Come in altri sistemi ideologici del Novecento, anche nella visione di Gramsci sembra che una parte di umanità – in questo caso la piccola borghesia, cioè persone in carne ed ossa, impiegati, bottegai, maestri… – possa e debba essere espulsa dal «campo sociale […] col ferro e col fuoco». Inutile ricordare che il ferro e il fuoco avevano un significato anche fuor di metafora e che per seguire il criterio di «purificare l’ambiente sociale» negli anni successivi sarebbero stati seguiti diversi, terribili paradigmi.
Disciplina
Un altro gruppo di idee che si trasferì dal mondo bolscevico a quello dei comunisti italiani corrisponde alla sottolineatura della necessità di subordinare gli interessi di ciascun movimento nazionale a quelli della rivoluzione mondiale. È l’idea tipicamente bolscevica del centralismo. Ad essa si accompagnano le convinzioni del rispetto della gerarchia e della disciplina. «Il congresso deve far nascere», dice il 14° punto del documento d’invito per il primo Congresso dell’Internazionale comunista, «in vista di un legame permanente e di una direzione metodica del movimento, un organo di lotta comune, centro dell’Internazionale comunista, che subordini gli interessi del movimento di ciascun paese agli interessi comuni della rivoluzione su scala internazionale»40 .
È un’idea molto forte, che non può essere trascurata anche perché costituisce nei tempi lunghi uno dei capisaldi della cultura politica del comunismo. Si tratta di un’idea tradizionalmente sottovalutata negli studi sul PCI, che le attribuiscono un posto quasi naturale nell’ideologia comunista e che non tengono conto né della legittimità delle alternative – come ad esempio autonomia, decentramento, dimensione razionale delle gerarchie, ecc.: concetti, cioè, attorno ai quali avevano ruotato e continuavano a ruotare allora soggetti politici di notevole rilievo – né del peso che il centralismo, non necessariamente democratico, ha esercitato nel profilo culturale del partito. In realtà, l’Internazionale fu sempre percepita come il partito unico della rivoluzione mondiale. Per riprendere un vocabolario largamente usato nella tradizione leninista e nel PCI, ci si doveva “inchinare”, “inginocchiare”, “annullare” di fronte alle decisioni del centro. Anche un uomo come Togliatti,
39 Gli avvenimenti del 2-3 dicembre, “L’Ordine Nuovo”, a. I, n. 29, 6-13 dicembre 1919, ora in Antonio Gramsci, L’Ordine Nuovo, 1919-1920, Einaudi, Torino 1975, p. 61. 40 Cfr. Lettera di invito per il I Congresso dell’Internazionale comunista, in Aldo Agosti, La Terza Internazionale. Storia documentaria. Vol. 1. Tomo I. 1919-1923, Prefazione di Ernesto Ragionieri, Editori Riuniti, Roma 1974, p. 21.
che negli ultimi anni della sua vita avrebbe cercato di diffondere un’immagine di sé come uomo dell’unità nella diversità, scriveva nel 1924: «Deve essere spietatamente combattuta, come liquidatrice dell’Internazionale, ogni tendenza ad attenuare la centralizzazione di essa nel nome dell’autonomia dei partiti aderenti»41 .
Eppure, nella fase costituente del bolscevismo, si erano presentate delle alternative e la discussione attorno ad esse segna un intero periodo di storia del movimento operaio europeo. Sul terreno della critica al “giacobinismo” dei bolscevichi, non solo fu sviluppata una intensa polemica all’interno della socialdemocrazia russa da parte dei menscevichi, ma anche nel socialismo internazionale furono espressi punti di vista diversi rispetto all’idea leninista di una specie di socialismo autoritario. Axelrod, scrivendo a Kautsky nel giugno 1904, così si sfogava: «la richiesta di “obbedienza” e di “subordinazione incondizionata” degenera nella pratica non già in “giacobinismo” o “blanquismo”, ma nella più banale e miserabile caricatura del sistema autocratico e burocratico del nostro Ministero dell’Interno»42 .
La discussione del 1903-1904 era nota a tutti i socialdemocratici e a tutti i comunisti. Questi ultimi intendevano la storia del bolscevismo come la storia della scienza della rivoluzione, il destino di un soggetto politico che, fin dalle sue prime azioni, si era liberato dai miti del passato, dalle scorie “democratiche” depositate dalla tradizione socialista, e che, proprio dalla sua capacità di rompere con l’“economismo”, col “populismo”, dava prova della propria vitalità. La storia del bolscevismo, avrebbe ripetutamente osservato Stalin, era una storia di fratture, di separazioni, di discussioni che avevano costantemente condotto alla scoperta e allo smascheramento dei nemici e con ciò al raggiungimento della purezza ideologica. Quest’ultima faceva sì che la disciplina e l’obbedienza fossero vissute come elementi essenziali nell’esperienza del comunismo. Il neonato PCI sente la contrapposizione con un mondo negativo definito da un’altra formula del linguaggio leninista: l’opportunismo. Al di là delle accezioni dottrinarie allora attribuite a questa parola – che è in realtà una parola legata al rapido cambiare degli orientamenti propagandistici delle formazioni politiche e dunque ha un significato assai fluido – l’opportunismo è nella fase costituente del PCI l’attributo dei vecchi partiti socialisti e si colloca agli antipodi degli attributi dei nuovi partiti comunisti. Fra il 1919 e il 1921 si erano definiti alcuni dei connotati fondamentali della cultura della Terza Internazionale che avrebbero influenzato largamente la formazione dei partiti comunisti e la loro identità: erano, in generale, i temi legati alla distinzione dei comunisti dai loro opposti. Vi erano tuttavia altri aspetti dell’identità comunista che avevano meno bisogno della presenza del loro opposto per essere definiti. Uno di questi è l’insieme dei problemi legato ai concetti di clandestinità, di segretezza, di illegalità, che proveniva al PCI dall’esperienza del bolscevismo43. L’idea stessa di un “centro estero”, proveniva dall’esem-
41 L’Internazionale come partito unico mondiale, “Lo Stato Operaio”, 15 maggio 1924, citato in Giuseppe Berti, I primi dieci anni di vita del PCI. Documenti inediti dell’archivio Angelo Tasca, Feltrinelli, Milano 1967, pp. 89-90. 42 La lettera è citata in Tamara Kondratieva, Bolcheviks et Jacobins. Itinéraire des analogies, Payot, Paris 1989, p. 66. Più in generale, si veda l’ottima presentazione di Vittorio Strada a Vladimir Ilič Lenin, Che fare? Problemi scottanti del nostro movimento, Einaudi, Torino 1971, passim. 43 Se ne veda un’intelligente interpretazione in José Pacheco Pereira, A sombra. Estudo sobre a clandestinidade comunista, Gradiva, Lisboa 1993.
pio dei bolscevichi, mentre i collegamenti con l’interno del paese, i rapporti con gli altri gruppi nell’emigrazione, la vita quotidiana fra documenti falsi, spie e agenti provocatori erano tutti aspetti di un modo di vivere la politica assai lontano dalla dimensione della conquista dello spazio pubblico nelle manifestazioni per il Primo Maggio o per il 7 novembre dei grandi partiti di massa francese e tedesco. La drammatizzazione della clandestinità che era stata propria del movimento rivoluzionario russo, e che era in parte passata in alcune cadenze del leninismo, si trasferiva nel PCI seguendo una via che sembrava del tutto naturale. Dalla Francia della fine del XVIII secolo alla Russia dei bolscevichi, l’idea e la pratica della cospirazione richiedevano una dedizione solenne e comportamenti quasi mistici. Il marxismo stesso non mancò di avere, su questo problema, delle complicate variazioni, dalla critica al blanquismo all’elogio dello “spirito rivoluzionario russo” da parte di Lenin. In ogni caso, la pratica e la teoria della clandestinità divennero due dei connotati fondamentali del bolscevismo fino alla rivoluzione d’Ottobre. Poi, la fondazione dell’Internazionale comunista cambiò la storia della clandestinità. È attraverso la Terza Internazionale che l’esperienza organizzativa clandestina dei bolscevichi oltrepassa le frontiere russe e conosce nuovi sviluppi sia tecnici che teorici.
La questione della clandestinità e delle pratiche legate al funzionamento di partiti politici ai margini della legalità – una situazione di emergenza nella lotta politica – rinvia, in generale, al problema del regime interno dei partiti comunisti. In questo senso, uno dei problemi essenziali è quello che potremo chiamare “della fonte del diritto”. Cerchiamo di toccarne alcuni aspetti.
Il primo dei ventuno punti previsti come condizioni di adesione alla Terza Internazionale diceva che «la propaganda e l’agitazione debbono avere un’impronta effettivamente comunista»; e ancora che «gli organi di stampa del partito debbono essere diretti da comunisti di provata fede», mentre al punto successivo si sosteneva che si dovevano espellere «gli elementi riformisti e centristi, sostituendoli con comunisti fidati». Più in generale, le formule dei documenti programmatici e le scarne norme di comportamento proposte dall’Internazionale contengono una notevole quantità di espressioni con un forte contenuto valutativo – ciò che è nell’interesse del movimento, ciò che va nella direzione della rivoluzione, ciò che è bene e ciò che è male, ecc. Ebbene, chi formula i corrispondenti giudizi di valore? Chi decide chi sia effettivamente comunista? Chi è in grado di dire chi sia di provata fede? Chi definisce fidati alcuni comunisti rispetto ad altri non fidati, non effettivi, non provati? Come si evince dalla lettura del punto 12, questa facoltà è attribuita al partito, anzi, addirittura, alla Direzione del partito. Con la motivazione della durezza delle condizioni oggettive, la fonte di ogni legalità è individuata nella leadership, come in una vera piramide rovesciata: «I partiti appartenenti all’Internazionale comunista» dice il punto 12,
debbono essere strutturati in base al principio del centralismo democratico. Nella fase attuale di guerra civile acutizzata, il partito comunista sarà in grado di compiere il proprio dovere soltanto se sarà organizzato il più possibile centralisticamente, se in esso dominerà una disciplina ferrea e se la direzione del partito, sostenuta dalla fiducia di tutti i membri, godrà di tutto il potere, di tutta l’autorità e delle più ampie facoltà44 .
44 Tesi sulle condizioni di ammissione all’Internazionale comunista, in Aldo Agosti, La Terza Internazionale… cit., Vol. 1. Tomo I, p. 289.
Come si vede, l’individuazione della fonte dell’autorità e la sottolineatura del centralismo conducono al cuore di un’altra idea costitutiva della cultura comunista, che è quella della disciplina. Anche di essa deve essere messa in evidenza l’importanza, ed anche in questo caso non sarà inutile dire che essa è un tratto proprio del comunismo e che erano esistite, ed esistevano, alternative; ad esempio, in tutta la tradizione socialista – in cui restano ricche tracce di “libero pensiero” e di comportamenti anticonvenzionali – una simile sottolineatura è del tutto assente, mentre è presente il suo opposto: l’idea dell’indipendenza e dell’“autonomia”. Si trattava, in larga misura, dell’assunzione nei fluidi del PCI dell’eredità leninista. Attraverso un percorso complesso e un processo insieme drammatico e contraddittorio, le idee dominanti riguardanti il partito, la sua organizzazione, la funzione della leadership – partite dall’Occidente, dal cuore della socialdemocrazia tedesca ed emigrate in Oriente, nelle esperienze della socialdemocrazia russa – erano state profondamente trasformate da Lenin nella fase di costruzione del bolscevismo. Esso si era sviluppato nello scenario politico della Russia zarista, uno scenario di arretratezza e di rivoluzionari senza speranza, di condannati politici, di attentati e d’esecuzioni capitali. Aveva rivendicato il suo carattere di eccezionalità e aveva avuto successo contro le previsioni – e le speranze – che dominavano il movimento operaio.
Ma, dopo la vittoria della rivoluzione, le condizioni di eccezionalità che avevano motivato la scelta del centralismo, quella dell’obbedienza cieca e quella dell’autorità indiscutibile del gruppo dirigente avevano finito col divenire la condizione normale di esistenza del partito. Anzi, in tutto l’Occidente si finì col pensare che quel tratto di eccezionalità fosse il segreto della vittoria, e che solo dei rivoluzionari in grado di accettare tutto il fardello della lotta clandestina – compreso il dogmatismo, il settarismo, il gusto della gerarchia, la sottomissione quasi religiosa all’autorità – sarebbero stati capaci di guidare la classe operaia verso la vittoria, seguendo le idee dell’Internazionale e i principii del leninismo. I comunisti italiani non si sottrassero a questo destino e costruirono la loro identità nell’universo dell’Internazionale.
L’universo dei simboli e la figura del “capo”
Accanto ai temi dell’ideologia e dell’identità politica, i comunisti italiani, anche grazie alla costante presenza a Mosca dei loro rappresentanti, assorbirono i simboli che provenivano dal nuovo Stato comunista. La complessa opera di propaganda del bolscevismo si muove lungo un percorso dominato dalla chiara volontà – fin dall’Ottobre – di accelerare e intensificare le dinamiche della tradizione comunicativa propria delle socialdemocrazie europee. Essa propone la sistemazione in una nuova cornice del patrimonio iconografico del socialismo e l’affermazione d’un sistema di simboli che sarebbe stato presto dominato dall’attivismo stalinista. Si trattava di un’iconografia che, pur avendo le sue radici nella tradizione del movimento operaio e socialista fra ’800 e ’900, aveva mostrato fino dagli anni immediatamente successivi alla rivoluzione d’Ottobre delle evidenti novità. Erano delle novità di stile e di gusto, influenzate dalla rivoluzione della grafica del primo dopoguerra, ma erano anche novità nei contenuti e nella sostanza del messaggio. La falce e il martello da una parte e il pugno chiuso dall’altra, simboli abbastanza antichi – insieme a molti altri – di identità operaie e
socialiste, si erano progressivamente caricati di significati nuovi con la rivoluzione d’Ottobre e con la nascita ed il rafforzamento dell’Internazionale comunista.
Le novità introdotte dalla cultura del comunismo consistevano sostanzialmente in tre punti: il cambiamento di valore dei simboli base, l’introduzione dell’iconografia del capo e la standardizzazione e l’omologazione del complesso delle immagini. La falce e il martello incrociati, che tradizionalmente simboleggiavano l’alleanza di operai e contadini, avevano a lungo convissuto con una ricca serie di altri simboli: simboli del lavoro come le tenaglie o l’aratro, simboli di unione come i fasci o le frecce legate assieme, e molti altri. Anche il pugno chiuso – che rinviava contemporaneamente all’unità e alla lotta – non era nuovo, ma anch’esso si collocava, prima del ’17, in un sistema simbolico che prevedeva una diversa attribuzione di significati. Alla mano, ad esempio, era attribuito piuttosto un significato d’impegno e di solidarietà che non di lotta: erano le mani che si stringevano, ad essere al centro della simbologia del movimento operaio europeo. Ogni paese in Europa ne porta le tracce.
La mano e le mani – scrive uno studioso del movimento operaio austriaco – come anche la stretta di mano, svolgono un ruolo centrale nei gesti di tutte le culture. La stretta di mano può significare l’impegno nel simbolismo del diritto e nella promessa matrimoniale oppure la speranza di rivedersi dopo la morte. Tutti questi simboli sono poi strettamente uniti al valore della concordia. Per il movimento operaio l’immagine delle mani che si stringono significa solidarietà, fratellanza45 . Nel movimento comunista la visione del conflitto sostituisce quella dell’unione: gli anni sanguinosi del primo dopoguerra esaltano il significato della violenza contenuto nel pugno, privilegiano le storie di Spartaco rispetto ai miti di Prometeo, mentre la falce e il martello, oltre che unire idealmente operai e contadini, sono anche, rispettivamente, la falce che taglia e il martello che schiaccia. Nonostante la sua grafica parca d’illustrazioni, “l’Unità” di Gramsci, nel 1924-1926, paga un notevole tributo all’iconografia sovietica, sia nelle vignette di Red che nei bozzetti di Giandante46 .
Di questo processo di sostituzione e integrazione, che corregge e ristruttura l’iconografia del movimento operaio, il nuovo, straordinario ruolo assunto dall’immagine del capo è forse il capitolo più significativo. Le immagini dei capi erano conosciute e celebrate nel movimento operaio assai prima della nascita del comunismo. Le medagliette ovali con l’immagine di Lassalle negli anni ’60 e ’70, i ritratti di Marx ed Engels, il bel profilo di Bebel – per parlare solo della Germania del XIX secolo – rinviavano a una ricca galleria d’icone che rappresentavano di volta in volta gli “apostoli”, i “profeti”, i “padri fondatori” del socialismo, le figure amate di capi che godevano di grande popolarità. Ma, con il comunismo nato dalla rivoluzione del 1917, la figura del capo diviene un vero e proprio oggetto di culto e la sua immagine, il suo ritratto, la sua fotografia non sono solo quelli d’un dirigente che si vuole sia conosciuto, sono anche icone che rinviano alla sacralità del potere.
45 Cfr. Josef Seiter, Vom Arbeiterwappen zur Sternenkrone Europas, in Österreichs politische Symbole. Historisch, ästhetisch und ideologiekritisch beleuchtet, a cura di Norbert Leser e Manfred Wagner, Böhlau Verlag, Wien-Köln-Weimar 1994, p. 130. 46 Si veda, in particolare, il numero del 7 novembre 1925 dedicato all’anniversario della rivoluzione d’Ottobre.
La creazione del culto di Lenin, che ha nelle immagini uno strumento essenziale, è il primo passo di questo processo. Esso si svolge durante la sua vita e nasce in primo luogo dall’omaggio al suo “genio” – il genio d’un vincitore – da parte dell’organizzazione di partito e degli agitatori comunisti. Si trattò d’un intreccio fra decisioni politiche e necessità propagandistiche che richiedevano «la creazione di simboli ed immagini cariche di drammaticità per legittimare il potere bolscevico»47 .
Secondo Lunačarskij, già nel 1918 Lenin aveva proposto un piano per creare enormi statue di grandi figure di rivoluzionari, ma solo l’anno dopo un busto di Lenin era stato scolpito da Georgij Alekseev e le sue copie erano state collocate in ben 29 città, fra il 1919 e il 192048. Il seguito è abbastanza noto: specialmente dopo l’attentato della Kaplan, Lenin viene sempre più descritto dalla stampa di partito con una terminologia religiosa e le immagini del vozd’ (capo) finiscono con l’assecondare un percorso verso l’immortalità49, che sarà concluso con la costruzione del grande mausoleo.
L’osservazione dovrebbe essere forse estesa anche ad altri contesti, perché le tradizioni iconografiche presentano spesso un accentuato carattere di continuità; progressivamente, tuttavia, al linguaggio simbolico dell’allegoria si accompagna un linguaggio più diretto, più strettamente legato alla propaganda del partito, al dover fare immediato, agli insegnamenti del capo. Presto ridotto nell’illegalità, il PCI produsse solo in parte la versione italiana della propaganda sovietica, ma i ritratti dei capi, l’iconografia della falce e del martello, il patrimonio iconografico prodotto nella Russia dei soviet sarebbero rimasti come parte integrante del suo patrimonio genetico. Si ricordi il modo col quale Gramsci commentò la morte di Lenin con il citato articolo Capo che, nei suoi riferimenti a Mussolini, sembra preconizzare il culto di Lenin. E si pensi alla straordinaria fortuna del termine nel linguaggio del PCI. Anche Gramsci, nelle parole di Togliatti, sarebbe diventato un “capo”50 .
Nascita del PCI, morte del PSI?
Temi, suggestioni, idee nate e cresciute fra le origini del bolscevismo e gli esiti della rivoluzione d’Ottobre si diffusero in tutto il mondo grazie al ruolo svolto dall’Internazionale comunista. Se ne possono seguire i flussi dall’India al Brasile, dalla Germania al Canada. Un’intera stagione di storia del comunismo internazionale prende addirittura il nome di “bolscevizzazione”. Ma occorre sottolineare il fatto, spesso dimenticato, che si svolsero allora due differenti processi che ebbero come protagonisti – secondo l’equazione ricordata – il bolscevismo, la rivoluzione d’Ottobre e la Terza Internazionale: la formazione dei partiti comunisti e la distruzione dei partiti socialisti. Nonostante il fatto che si trattasse d’un unico ragionamento strategico e nonostante le debolezze manifestate dai partiti so-
47 Nina Tumarkin, Lenin lives! The Lenin Cult in Soviet Russia, Harvard University Press, Cambridge (Mass.)-London 1983, p. 64. 48 Victoria E. Bonnell, Iconography of Power. Soviet Political Posters under Lenin and Stalin, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-London 1999, pp. 137-141. 49 François Xavier Coquin, L’image de Lénine dans l’iconographie révolutionnaire et post révolutionnaire, “Annales. Histoire, Sciences Sociales”, n. 2, mars-avril 1989, pp. 223-249. 50 Cfr. Palmiro Togliatti, Antonio Gramsci, capo della classe operaia italiana, in Id., Opere. Vol. 4. Tomo I. 1935-1944, a cura di Franco Andreucci e Paolo Spriano, Editori Riuniti, Roma 1979, p. 199.
cialisti, nulla toglie alla realtà che i due obbiettivi vennero perseguiti con tempi e modalità distinti e precisi per oltre un decennio, dall’inizio degli anni ’20 al periodo del “socialfascismo” e che l’Internazionale comunista sembrò, almeno fino al 1933, dedicare maggiore accanimento alla lotta contro il socialismo e la socialdemocrazia che non a quella contro il fascismo. La sottolineatura dell’uno o dell’altro punto di vista ha di fatto prodotto giudizi storici spesso monchi o parziali.
Spesso ottimi esempi di Rezeptionsgeschichte51, i lavori sull’influenza della rivoluzione sull’Italia dei vent’anni fra il 1957 e il 1977 sembrano condannati a dover riconoscere il primato del successo leninista e terzinternazionalista sui resti della tradizione socialista. Centro valutativo restava il “tradimento” dell’inizio della Grande Guerra, il “fallimento” dell’Internazionale socialista, il “rinnegamento” del marxismo e scarsa attenzione veniva prestata alla resistenza socialista all’autoritarismo, alla violenza, alla dittatura. Anche i lavori più seri e più distanti dalle polemiche storiografiche legate alla narrazione comunista – quelli del König e del Caretti – non rifuggono da una visione che, alla fine, riconosce la necessità della scissione di Livorno52 e la “debolezza” del PSI53. In realtà, gli esiti della rivoluzione d’Ottobre non favorirono soltanto la nascita del PCI; essi misero in moto una serie d’atti volti a sollecitare, nel tempo, le crisi del Partito Socialista Italiano. Qui non si tratta di riscrivere la storia, ma di sottolineare la complessità della sua narrazione.
51 Vedi, ad esempio, il vecchissimo ma dignitoso Gastone Manacorda, L’eco italiana della prima rivoluzione russa, originariamente apparso in “Rinascita”, nell’agosto 1955 e poi ripubblicato in Id., Rivoluzione borghese e socialismo. Studi e saggi, Editori Riuniti, Roma 1975, pp. 192-228. 52 Helmut König, Lenin e il socialismo italiano… cit., p. 206. 53 Stefano Caretti, La rivoluzione russa e il socialismo italiano… cit., p. 273.