67 minute read

Marco Bresciani

Next Article
Abstracts

Abstracts

Marco Bresciani

Tra “guerra civile europea” e “crisi eurasiatica”: Benito Mussolini, la rivoluzione russa e il bolscevismo

Advertisement

A un secolo di distanza, a nessuno ormai sfugge il valore di cesura di quella “crisi mondiale” che attraverso la guerra scoppiata nel 1914 e la rivoluzione cominciata nel 1917 inaugurò il Novecento1. Resta invece ancora aperto il dibattito intorno alle sue radici e alle sue forze motrici, alle sue conseguenze e alle sue implicazioni di medio e lungo termine. Non può però non sorprendere che la profonda trasformazione storiografica che negli ultimi decenni ha completamente ridefinito le coordinate interpretative della Grande Guerra e della Rivoluzione russa – e delle loro lunghe e persistenti eredità – in una visione più complessiva ed integrata della storia europea, abbia solo sfiorato il campo di studi del fascismo. Infatti, questi tendono tuttora ad eludere i conti con la svolta europea e globale del 19171923, la quale, legando i nodi della guerra a quelli del dopoguerra e investendo soprattutto gli spazi imperiali e post-imperiali dell’Europa centrale e orientale, continuò a dispiegare i suoi effetti, con intensità e in forme variabili, nei decenni successivi2 .

Il dibattito sul fascismo italiano e sulla sua possibilità di comprensione all’interno del quadro europeo è stato profondamente – anche se indirettamente – condizionato dall’Historikerstreit che lacerò la comunità degli storici tedeschi tra il 1986 e il 1988, a partire dalle discusse – e più che discutibili – posizioni di Ernst Nolte3. Lo storico conservatore tedesco si era essenzialmente focalizzato sui rapporti tra nazionalsocialismo e bolscevismo, intesi come i principali attori della «guerra civile europea» combattuta tra 1917 e 1945. In un gioco di connessioni causali del tutto arbitrario, Hitler si presentava come una reazione a Lenin, Auschwitz come una «risposta per eccesso» alla Kolyma. Contro questo schema interpretativo, in cui le intenzioni della comprensione finivano per sovrapporsi, quasi per identificarsi, con le ragioni della giustificazione, non mancò una veemente reazione da parte degli altri storici – tedeschi, ma non solo – che qui non è possibile seguire nel dettaglio.

1 Da questo punto di vista, Elie Halévy, Perché scoppiò la prima guerra mondiale, con un saggio di Marco Bresciani, La Porta Editore, Pisa 2014, offre tuttora la chiave di lettura più lucida e stimolante. 2 Cfr. John Horne-Robert Gerwarth (a cura di), Guerra in pace: violenza paramilitare in Europa dopo la grande guerra, B. Mondadori, Milano 2013. 3 Vedi Ernst Nolte, Nazionalsocialismo e bolscevismo: la guerra civile europea, 1914-1945, con un saggio di Gian Enrico Rusconi, Sansoni, Firenze 1988.

In ogni caso, l’influenza diretta o indiretta di quel dibattito è stata pervasiva e ha costituito un potente deterrente verso ogni ulteriore, più serio e critico tentativo di contestualizzazione europea e globale delle origini del fascismo italiano. Certo, è ormai finito il tempo in cui il fascismo e il bolscevismo – o il comunismo sovietico – Lenin e Mussolini, erano posti sotto il segno esclusivo d’un reciproco e irriducibile antagonismo politico e ideologico. Tuttavia i complessi rapporti tra le due «rivoluzioni», quella bolscevica e quella fascista, ancora attendono d’essere oggetto di un’analisi comparata4. Si tratta d’un tema che è stato per lungo tempo bandito, poi spesso evocato, ma mai affrontato fino in fondo. Del tutto elusa, invece, pare finora la necessità di comprendere la nascita e l’ascesa del fascismo all’interno di contesti più ampi di quello nazionale, che siano europei e globali. La ricerca storiografica intorno a Mussolini e al suo cruciale passaggio tra socialismo e fascismo è stata per lo più filtrata attraverso la dicotomia tra Sinistra e Destra, o quella tra rivoluzione e controrivoluzione – oppure «reazione»: tutte categorie incapaci di cogliere fino in fondo la sfuggente e ambigua novità del suo percorso5. Queste posizioni erano collegate ad un impianto interpretativo generale in cui si negava l’esistenza di un’ideologia e di una cultura fasciste, o in cui queste erano ridotte ad una dimensione puramente negativa: anti-liberale, anti-democratico, anti-socialista, anti-bolscevico. Fin dagli anni Sessanta, e con forza maggiore dagli anni Settanta, si fecero strada prospettive nuove, tese a indagare le radici culturali del nazismo e del fascismo, a ricostruirne le ideologie politiche e a ricercarne la «teoria» o il comun denominatore – il «fascismo generico». Tra gli altri, George L. Mosse, Fritz Stern, Eugen Weber, James Gregor, Zeev Sternhell, Emilio Gentile, Luisa Mangoni, Piergiorgio Zunino hanno contribuito ad aprire piste di ricerca inedite, animate dal comune intento di prendere sul serio il fascismo – e il nazismo6 .

Tuttavia, per reazione alle tendenze precedenti, si è proceduto in una direzione opposta, volta alla ricostruzione retrospettiva d’un sistema tutto sommato compiuto e coerente di pensiero che caratterizzò l’ideologia del fascismo – così distinta dalle pratiche e dai contesti in cui si era formata e dispiegata. Come hanno ben chiarito David Roberts e Jan-Werner Mueller, occorre compiere un ulteriore passaggio nel tentativo di recuperare i nessi dinamici e contingenti tra il pensiero e l’azione del fascismo, di analizzare le stratificazioni complesse della sua ideologia quali prodotti di contesti continuamente cangianti, di re-

4 Cfr. Emilio Gentile, E fu subito regime, Laterza, Roma-Bari 2012, pp. IX-XII. In questa direzione si vedano le indicazioni di Giorgio Petracchi, Roma e/o Mosca? Il fascismo di fronte allo specchio, in Totalitarismo e totalitarismi, a cura di Vittorio Strada, Marsilio, Venezia 2003, pp. 3-36. 5 Si veda, ad esempio, Angelo d’Orsi, La rivoluzione antibolscevica. Fascismo, classi, ideologie, 1917-1922, Franco Angeli, Milano 1985, in cui l’anti-bolscevismo fascista è posto in relazione diretta alla natura classista del movimento e del regime di Mussolini: «sconfiggere l’ipotesi rivoluzionaria e battere la classe operaia» (p. 30). 6 Si vedano, almeno, Zeev Sternhell, Fascist Ideology, in Fascism. Reader’s Guide. Analyses, Interpretations, Bibliography, a cura di Walter Laqueur, University of California, Los Angeles 1976, pp. 315-376; Emilio Gentile, Le origini dell’ideologia fascista (1918-1925), Laterza, Bari 1975; George L. Mosse, Towards a General Theory of Fascism, in International Fascism: New Thoughts and Approaches, a cura di George L. Mosse, Sage, London 1979, pp. 1-45; Roger Griffin, The Nature of Fascism, Routledge, New York-London 1993.

stituire alle concrete e dinamiche situazioni storiche la sua potente capacità d’attrazione ideologica dei «soggetti fascisti»7 .

Questo saggio intende analizzare le percezioni, le interpretazioni e le rappresentazioni di Mussolini e del primo fascismo intorno alle rivoluzioni russe e al regime bolscevico – e i loro usi politico-ideologici – in un arco di tempo concentrato tra il 1917 e il 1922. Infatti, nel breve giro di anni che separarono la caduta dello zarismo nell’Impero russo e la conquista del potere fascista, le posizioni di Mussolini su quanto accadeva nei territori dell’ex-Impero russo si accumularono e si stratificarono, senza un ordine necessariamente coerente e senza un senso particolarmente originale. Tuttavia non è tanto la coerenza, ancor meno l’originalità, il punto di vista dal quale capire questa sequenza di posizioni, quanto la loro capacità d’afferrare e condizionare di volta in volta aspetti della realtà funzionali ad un’azione politica di tipo nuovo. Due differenti registri – uno politico-propagandistico e uno critico-analitico – si alternavano, talvolta si sovrapponevano, negli scritti di Mussolini: di entrambi la ricostruzione storica deve tener conto. In un nodo pressoché inestricabile di pregiudizi radicati e intuizioni critiche, lo sforzo di comprensione tendeva a confondersi con la propaganda, l’opera d’informazione finiva per intrecciarsi con quella di mobilitazione. Un pur parziale e selettivo confronto con le esperienze russe e sovietiche del 1917-1922 – che qui è ricondotto alle due prospettive storiografiche della «guerra civile europea» e della «crisi eurasiatica»8 – offrì a Mussolini un fondamentale repertorio di materiali per contribuire a forgiare e legittimare il progetto politico e le pratiche violente del fascismo.

Mussolini e il socialismo, tra Rivoluzione francese e Grande Guerra

L’evoluzione di Mussolini dallo scoppio della guerra nell’estate del 1914 e il suo passaggio dalla «neutralità assoluta» alla «neutralità attiva e operante», nell’ottobre successivo, la conseguente espulsione dal Partito Socialista Italiano e la fondazione de “Il Popolo d’Italia”, sono eventi troppo noti perché si debbano ripercorrere analiticamente. Un grumo di socialismo e nazionalismo, di populismo e combattentismo si coagulò durante la campagna interventista di Mussolini e la sua partecipazione alla guerra di trincea. Proprio queste posizioni – che tendevano a identificare la guerra con la rivoluzione tanto attesa negli anni precedenti, quando era figura prominente del PSI – costituirono lo sfondo su cui si definirono i primi giudizi verso le notizie provenienti da Pietrogrado nel febbraio 19179. In consonanza con gli ambienti interventisti di “Sinistra”, egli espresse immediata simpatia per il moto insurrezionale russo, insieme alla preoccupazione che questo implicasse il ritiro del governo provvisorio dall’impegno bellico10. A favore del cosiddetto difensivismo rivoluzio-

7 Cfr. David Roberts, The Totalitarian Experiment in Twentieth-Century Europe. Understanding the Poverty of Great Politics, Routledge, New York 2006, p. 44, ripreso e rielaborato da Jan-Werner Mueller, Enigma democrazia: le idee politiche nell’Europa del Novecento, Einaudi, Torino 2012, pp. 124-174. 8 Queste espressioni non furono utilizzate, a quanto mi risulta, da Mussolini: per i rimandi storiografici si veda infra, le note 35 e 50. 9 Si vedano i saggi inclusi in Mussolini socialista, a cura di Emilio Gentile e Spencer M. Di Scala, GLF Editori Laterza, Roma-Bari 2015. 10 Cfr., ad esempio, La vittoriosa rivoluzione russa contro i reazionari tedescofili, “Il Popolo d’Italia”, 16 marzo 1917 e La Russia nuova, nata dalla Rivoluzione, continuerà la guerra, ibid., 15

nario, ossia della volontà di combinare la guerra contro il militarismo prussiano insieme al rinnovamento democratico dell’ormai ex-Impero zarista, si pronunciò il principale teorico del marxismo russo Georgij V. Plechanov in un’intervista concessa a Giuseppe De Falco, sindacalista rivoluzionario poi redattore del “Popolo d’Italia”11. Gli eventi russi acuirono il senso d’una svolta storica in corso con la Grande Guerra. Con il crollo dell’Impero zarista, che preludeva a quello degli Imperi tedesco e austro-ungarico, si era avviato infatti il processo di «liquidazione della vecchia Europa»: al tempo delle dinastie imperiali si sostituiva il tempo dei popoli, così descritto: «Quando la Rivoluzione impugna le armi e fa tuonare i cannoni, monarchi e cortigiani sentono che il loro dominio sta per finire»12 . In questo passaggio significativo, il discorso di Mussolini sulla Rivoluzione russa si sovrapponeva alla sua visione della Rivoluzione francese. È infatti noto che, tra il 1789 e il 1917, tra i rivoluzionari francesi e quelli russi, tra i giacobini e i bolscevichi si stabilirono una rete di connessioni analogiche e simboliche, che modellarono non poche interpretazioni degli eventi russi, curvandone il giudizio in senso positivo o negativo. La concezione del 1789-1794 da parte di Mussolini, maturata fin dalla giovinezza sulla linea ascendente tra Gracco Babeuf e Filippo Buonarroti e sulla lezione della Congiura degli Eguali, era soprattutto debitrice verso la tradizione blanquista, filtrata dalla memoria della Comune parigina del 1870-1871. In questa versione socialisteggiante della grande révolution Mussolini, non senza oscillazioni, sembrava trascinare Robespierre dalla propria parte.

Del retaggio rivoluzionario francese, dunque, condannò l’ansia «termidoriana» e «borghese» di ritorno all’ordine e richiamò le promesse di rinnovamento socialista. Tuttavia, dopo l’adesione all’interventismo e la sostituzione della classe con la nazione quale motore del progresso storico, Mussolini rinunciò ai rimandi più palesi a Blanqui, ancorandosi piuttosto alle letture del sindacalismo rivoluzionario e del repubblicanesimo italo-francese. In particolare, le figure repubblicane e socialiste, patriottiche e anti-militariste di Benoît Malon e di Jean Jaurès assunsero un nuovo rilievo nel suo discorso, che faceva ora della Comune più un episodio di difesa della nazione, che della lotta di classe. La scelta della guerra contro gli Imperi centrali rinsaldò il legame affettivo ed elettivo con la Francia da parte di tutto l’interventismo italiano. Se gli interventisti democratici recuperarono il valore del 1789 – la presa della Bastiglia – in chiave anti-tedesca, Mussolini privilegiò il richiamo al 1792 – la battaglia di Valmy – come esempio e precedente di guerra rivoluzionaria13 .

Nel percorso di Mussolini e nel suo rapporto con la tradizione rivoluzionaria, l’Ottobre bolscevico rappresentò indubbiamente un tornante significativo, anche se i suoi effetti mutevoli e contraddittori si manifestarono nel tempo. La minaccia del disfattismo rivoluzionario indusse un mutamento di segno nel giudizio sul rapporto tra la Rivoluzione

aprile 1917. Più in generale, si veda Giovanna Procacci, Gli interventisti di sinistra, la rivoluzione di febbraio e la politica interna italiana nel 1917, in Id., Dalla rassegnazione alla rivolta. Mentalità e comportamento popolari nella grande guerra, Bulzoni, Roma 1999, pp. 49-83. 11 Il dovere del proletariato russo dopo la rivoluzione liberatrice. Intervista a Giorgio Plekhanoff, “Il Popolo d’Italia”, 25 marzo 1917. 12 [Benito] Mussolini, Battisti, ibid., 12 luglio 1917. 13 Si veda ad esempio Noi, L’89 di Russia, ibid., 19 marzo 1917. Più in generale cfr. Antonino De Francesco, Un sonetto di Mussolini nel fascismo sociale, in Id., Mito e storiografia della “grande rivoluzione”, Guida, Napoli 2006, pp. 171-235; ma ora si veda anche Paola S. Salvatori, Mussolini e la storia. Dal socialismo al fascismo (1900-1922), Viella, Roma 2016, pp. 71-93.

russa – ormai identificata con quella bolscevica – e la guerra in corso. Un mutamento che parve trovare conferma nella firma del trattato di Brest-Litovsk il 3 marzo 1918, quando i bolscevichi, dopo dispute laceranti, accettarono una pace del tutto svantaggiosa a favore della Germania. La rivoluzione del 1917 era stata prima un’affermazione della democrazia, poi un’affermazione del principio nazionale. Il crollo del sistema imperiale russo era avvenuto, fin dal marzo 1917, «per disfacimento interiore, più che per urto esteriore», ma la «democrazia russa sorta dalla guerra» aveva finito per «rivolgersi contro la guerra»14 . Era convinzione di Mussolini che l’occasione rivoluzionaria – in senso «leninista» – fosse stata la «crisi nazionale» del 1917 che si era sviluppata tra l’insurrezione di Torino, il 2124 agosto, e la disfatta di Caporetto, il 24 ottobre. Questa, a sua volta, era «il riflesso della grande crisi» che aveva gettato nell’abisso l’Impero russo, ma aveva portato ad esiti ben diversi in Italia. Infatti, l’esperimento russo aveva «aperto gli occhi che si ostinavano a rimanere chiusi»15 . Fino alla conclusione ufficiale del conflitto, nell’autunno 1918, il nucleo fondamentale del discorso di Mussolini fu definito dall’ostilità per il disfattismo di Lenin e del suo governo, che di fatto si traduceva in un vantaggio per gli Imperi centrali contro l’Intesa: il suo antibolscevismo in questa fase era assai vicino ad un antisocialismo che identificava il socialismo col pacifismo. In questo senso, alcuni degli argomenti di Mussolini erano consonanti con quelli della pubblicistica sindacalista rivoluzionaria e nazionalista, che trovò un testo di riferimento ne La disfatta del socialismo pubblicato da Agostino Lanzillo nel gennaio 1918. Al centro della sua riflessione stava la «poliforme interdipendenza fra la guerra e la sconfitta del socialismo». Da questo punto di vista, il «fenomeno leninista» appariva «non la causa, ma l’effetto della crisi russa», «la conseguenza estrema della guerra, che avrebbe avuto «ripercussioni lontane, oggi imprevedibili, ma certo gravissime per tutta l’Europa»16. Lanzillo era uno dei più assidui collaboratori di Mussolini sulle pagine de “Il Popolo d’Italia”, e non mancò d’offrire contributi importanti alla definizione e interpretazione delle «rivoluzioni del dopoguerra». Era sua ferma convinzione che l’Italia non dovesse trasformarsi nel «teatro sperimentale delle gesta barbariche del comunismo alla russa»17 .

Tuttavia, in una prima fase, Mussolini continuò a distinguere con nettezza tra bolscevismo e socialismo, o meglio tra le varie specie di socialismo. In un testo scritto nell’ultimo anno di guerra, in occasione dell’anniversario della presa della Bastiglia, Mussolini aveva dichiarato tutta la sua ammirazione per il socialismo francese – «meno scientifico del tedesco, ma più umano» – che, grazie a Saint Simon, Proudhon e Sorel, aveva arricchito la «letteratura socialista mondiale». In questa chiave suggerì che il bolscevismo fosse il frutto dell’«intedescamento del socialismo», avvenuto dopo il 1870: «Il socialismo intede-

14 [Benito] Mussolini, Divagazioni, “Il Popolo d’Italia”, 31 dicembre 1917. 15 Benito Mussolini, La vittoria fatale, discorso pronunciato al “Comunale” di Bologna, 24 maggio 1918, in Scritti e discorsi di Benito Mussolini. Vol. I. Dall’intervento al fascismo (15 novembre 1914-23 marzo 1919), Hoepli, Milano 1934, p. 318. 16 Agostino Lanzillo, La disfatta del socialismo: critica della guerra e del socialismo, Libreria della Voce, Firenze 1918, pp. 24, 225-226. Sull’importanza di questo documento del “radicalismo”, cfr. Paul Corner, Italia fascista: politica e opinione popolare sotto la dittatura, Carocci, Roma 2015, pp. 27-34. 17 Agostino Lanzillo, Quel che dovrebbe significare il congresso dei combattenti, “Il Popolo d’Italia”, 21 giugno 1919.

schizzato marxistizzato offre al mondo lo spettacolo sommamente grottesco e parodistico del Soviet bolscevico»18 .

Tutt’altro che incline a mettere in relazione – in chiave legittimante – il 1793 con l’Ottobre, o a individuare in Robespierre la prefigurazione di Lenin, Mussolini ascriveva il bolscevismo all’orbita d’influenza del marxismo tedesco. Ciononostante, la sua critica del regime bolscevico si riaccostava agli argomenti antigiacobini dei socialisti francesi, i quali vedevano nel socialismo «un fatto economico» e non politico. Sulla stessa lunghezza d’onda, Mussolini contestava aspramente il socialismo sovietico che non aveva condotto all’«amministrazione delle cose» e alla «trasformazione dei rapporti economici», ma a «un governo di uomini, di pochi uomini», alla «dittatura di una fazione di politicanti» che avevano tentato d’attuare il socialismo «a colpi di leggi e di mitragliatrici». Le esperienze recenti in Ungheria come in Russia insegnavano che «l’arbitrio, le ideologie o il terrore dei politicanti» non affrettavano in nessun modo l’avvento d’un nuovo ordine economico e sociale19 .

Mussolini, che com’è noto fondò i Fasci di Combattimento a Milano il 23 marzo 1919, mirò a distinguersi nel variegato e magmatico mondo del combattentismo e del nazionalismo radicale, e cercò – anche attraverso le loro posizioni sulla Rivoluzione russa e sul modello bolscevico – uno spazio del tutto autonomo e irriducibile alle forze controrivoluzionarie20. In quella occasione, Mussolini enunciò il famoso programma “sansepolcrista”, che non esitava a confrontarsi con l’esperienza rivoluzionaria russa:

Noi non abbiamo bisogno di metterci programmaticamente sul terreno della rivoluzione perché in senso storico ci siamo dal 1915. Non è necessario prospettare un programma troppo analitico, ma possiamo affermare che il bolscevismo non ci spaventerebbe se ci si dimostrasse che esso garantisce la grandezza di un popolo e che il suo regime sia migliore degli altri. È ormai dimostrato irrefutabilmente che il bolscevismo ha rovinato la vita economica della Russia […]. Non solo, ma il bolscevismo è un fenomeno tipicamente russo. Le nostre civiltà occidentali, a cominciare da quella tedesca, sono refrattarie. Noi dichiariamo guerra al socialismo, non perché socialista, ma perché è stato contrario alla nazione21 .

Tra il 1919 e il 1920 Mussolini e “Il Popolo d’Italia” si richiamarono spesso alla pubblicistica socialista, critica del regime bolscevico, piegandola ad una doppia funzione: da un lato, era strumentale alla polemica contro la visione mitica della Grande Rivoluzione socialista d’Ottobre, coltivata dal PSI; dall’altra, era tesa a separare la classe operaia dalla lealtà al partito socialista per conquistarla al fascismo. Allora, infatti, l’“Avanti!” era impegnato in un’intensa campagna propagandistica a favore della Russia sovietica, che identificava con il campo della rivoluzione contro le forze dei Bianchi e dell’Intesa. Ad esempio, un articolo del marzo 1919 rivendicava come il regime bolscevico fosse «il punto di partenza e il punto di appoggio del socialismo che diventa[va] realtà», «il primo atto della rivoluzione universale»:

18 [Benito] Mussolini, Francia e Italia, ibid., 14 luglio 1918. 19 [Benito] Mussolini, Crepuscolo, ibid., 18 ottobre 1919. 20 Si veda Renzo De Felice, Mussolini il rivoluzionario: 1883-1920, Einaudi, Torino 1965. 21 La ripresa del nostro movimento. L’imponente “Adunata” di ieri a Milano, “Il Popolo d’Italia”, 24 marzo 1919.

Noi, che abbiamo piena fiducia nel trionfo finale del bolscevismo, vogliamo che i Governi dell’Intesa si ritraggano in disparte e lascino che l’esperimento comunista si compia. Perché siamo sicuri che l’esperimento riuscirà così bene, da servire da modello, salvo le inevitabili differenze contingenti di forma e di dettaglio, al proletariato del mondo intero. Tutto il mondo che lavora guarda oggi alla Russia con infinita simpatia e con trepida attesa. La luce, anche oggi, viene da Oriente!22

Nel corso del 1919 le pagine de “Il Popolo d’Italia” offrirono un ampio campionario di interviste e testimonianze dirette delle vicende rivoluzionarie russe, della guerra civile e del nascente regime bolscevico23. A più riprese, Mussolini ricordò come «i cervelli pensanti del socialismo internazionale, da Kautsky a Bernstein», fossero «unanimi nel negare il carattere socialista dell’esperimento russo»24. Mussolini non esitò ad attingere ai documenti del socialismo occidentale e del socialismo rivoluzionario russo per condannare il bolscevismo25. Si leggeva, ad esempio, in un suo articolo del 4 giugno 1919:

C’è in Russia uno Stato, un Governo, un ordine, una burocrazia, una polizia, un militarismo, delle gerarchie. Ma il socialismo non c’è. Non c’è nemmeno il cominciamento del socialismo, non c’è niente che somigli a un regime socialista. Il leninismo è la negazione perfetta del socialismo. È il governo di una nuova casta di politicanti. Gli è per questo che è assai difficile trovare degli apologisti del leninismo fra le teste pensanti del socialismo russo e del socialismo occidentale. Le più stroncanti requisitorie contro il leninismo non sono venute dai borghesi, ma da uomini che avevano lottato e sofferto per la redenzione della massa operaia26 .

Tra queste «teste pensanti» figuravano Irakli G. Cereteli, capo del menscevismo georgiano, e Aleksandr F. Kerenskij, politico di orientamento laburista, più volte ministro e poi capo del governo provvisorio nel luglio-agosto 1917: “Il Popolo d’Italia” intervistò entrambi, manifestando completa adesione alla loro veemente condanna del catastrofico esperimento bolscevico27. In particolare, però, nella sua denuncia del Terrore rosso come «spietato, barbarico, criminale», Mussolini apprezzò quella pubblicistica prodotta non da «elementi borghesi, ma da autentici socialisti rivoluzionari, che [avevano] lottato e soffer-

22 Caesar, Per la Santa Russia, “Avanti!”, 31 marzo 1919. 23 Si vedano, ad esempio, Boris Sokoloff (deputato alla Costituente russa), Lo stato economico della Russia bolscevica, “Il Popolo d’Italia”, 22 maggio 1919; André Mazon, I fasti e nefasti del bolscevismo russo denunciati da un testimonio oculare, ibid., 13 giugno 1919; Tenax, Il “caos” russo. Terribile insegnamento (Nostra intervista con un rimpatriato), ibid., 21 giugno 1919; Gregorio Alexcinsky, L’inferno russo descritto dal rivoluzionario Alexnisky, ibid., 3 agosto 1919; M. Tverdovennoff, “Venite dunque a vedere” grida un socialista russo da Odessa, ibid., 31 ottobre 1919; Le delizie del bolscevismo. Testimonianza di uno che ha veduto (testimonianza di Paul Deker, da “La Stampa”), ibid., 21 ottobre 1919. 24 [Benito] Mussolini, Posizioni e obbiettivi, ibid., 28 marzo 1919. 25 Cfr., ad esempio, [Benito] Mussolini, Antologia di documenti, ibid., 25 marzo 1919. 26 [Benito] Mussolini, I complici, ibid., 4 giugno 1919. 27 Nicola Bonservizi, Un colloquio con Tzeretelli. “Il bolscevismo non poteva nascere che in Russia: scopritegli la faccia e farà orrore” nonché Id., Kerensky intervistato dal “Popolo d’Italia”. “Il Governo dei Soviety non esiste in Russia”, ibid., 13 aprile e 3 agosto 1920.

to per la causa del socialismo rivoluzionario» e che ora intendevano «illuminare le masse socialiste italiane»28 .

Mussolini si misurò, tra gli altri, con gli esuli russi in Italia, che fuggivano dalla guerra civile nei territori dell’ex-Impero russo, che gravitavano soprattutto intorno al partito social-rivoluzionario e che criticavano la dittatura bolscevica in nome d’un socialismo non marxista, «populista» russo29. Tra questi spiccava la figura di Mark L. Slonim, giovane critico letterario nato da una colta famiglia ebraica ad Odessa nel 1894, che aveva militato nel partito social-rivoluzionario fin dall’inizio del secolo, partecipando alle attività di propaganda e d’organizzazione clandestina. Tra il 1911 e il 1915 aveva quindi studiato letteratura e filosofia all’Università di Firenze, avviando così un percorso in cui passione umanistica e politica si sarebbero sempre intrecciate, e le strade dell’Italia e della Russia si sarebbero spesso incrociate. Allo scoppio della guerra in Italia, aveva continuato i suoi studi a Pietrogrado, dove dal febbraio 1917 al 1919 partecipò attivamente alle vicende rivoluzionarie.

Il suo impegno fu improntato al sostegno per lo sforzo bellico repubblicano, alla lotta in difesa della patria rivoluzionaria, alla mobilitazione e all’organizzazione delle forze popolari sul fronte della Bessarabia. Dopo essere stato deputato alla Costituente russa, sciolta nel gennaio 1918, si spostò quindi in Ucraina meridionale, dove continuò la sua appassionata battaglia politica e militare. La lotta per un socialismo rivoluzionario ma alternativo al bolscevismo e la dedizione alla causa nazionalista russa, si fusero in un’esperienza che rispecchiava le contraddizioni esplosive del dopoguerra europeo30. Giunto in Italia nell’autunno del 1919, Slonim fu in contatto con gli ambienti dei Fasci di Combattimento milanesi, collaborò al quotidiano radical-democratico “Il Secolo”, si avvicinò a personaggi del mondo reducistico e combattentistico come Virgilio Bondois e Ezio Maria Gray.

Quest’ultimo non solo pubblicò nella sua collana “Biblioteca di studi rivoluzionari” l’opera di Slonim su Spartaco e Bela Kun, ma contribuì alla divulgazione delle sue analisi sulla Rivoluzione russa con un proprio opuscolo31. Mussolini scrisse a Slonim nel tentativo di ottenerne la collaborazione a “Il Popolo d’Italia”, ma invano. A colpire Mussolini fu soprattutto la lettura dell’«interessantissimo e documentatissimo» volume Il bolscevismo visto da un russo, pubblicato nel 192032. Non a caso, ne riprodusse un estratto intitolato Nel regno del terrore il 4 marzo 1920, sulla prima pagina de “Il Popolo d’Italia”33. Dal libro di Slonim traeva materiali e riflessioni per una comprensione critica dell’esperienza rivo-

28 [Benito] Mussolini, Le barbariche imprese dei bolscevichi assodate da un socialista rivoluzionario, ibid., 4 marzo 1920. 29 Cfr. Antonello Venturi, Rivoluzionari russi in Italia. 1917-1921, Feltrinelli, Milano 1979, pp. 13-77. 30 Vedi Antonello Venturi, L’emigrazione russa nel dopoguerra europeo: Mark Slonim, il nazionalismo rivoluzionario e il fascismo (1914-1923), in Stefano Garzonio-Bianca Sulpasso, Russkaja emigracija v Italii: žurnaly, izdanija i archivy (1900-1940) [Emigrazione russa in Italia: periodici, editoria e archivi (1900-1940)], Europa Orientalis, Salerno 2015, pp. 131-152. 31 Cfr. Marco Slonim, Spartaco e Bela Kun, Bemporad, Firenze 1920 ed Ezio Maria Gray, Come Lenin conquistò la Russia, Bemporad, Firenze s.d. [ma 1920]. 32 [Benito] Mussolini, Le barbariche imprese dei bolscevichi assodate da un socialista rivoluzionario, “Il Popolo d’Italia”, 4 marzo 1920. 33 Marco Slonim, Nel regno del terrore, ivi. Si trattava di un capitolo estratto da Marc Slonim, Il bolscevismo visto da un russo, Le Monnier, Firenze 1920.

luzionaria russa e della costruzione del nuovo regime bolscevico, al fine di smarcarsi dalla propaganda sovietica e da quella socialista massimalista italiana.

Scriveva infatti Mussolini:

La Repubblica dei Consigli è uno Stato. Quello di Lenin è un Governo dittatoriale che si è stabilito nel più sanguinario terrore. Il camouflage della dittatura proletaria nasconde, in realtà, la dittatura di alcuni uomini appartenenti a una frazione dell’ex-partito socialista russo. Come tutti i Governi che furono, che sono e che saranno, anche quello di Russia ha una costituzione organica che poggia su questo tripode: esercito, polizia, burocrazia. Una burocrazia per l’amministrazione. E la burocrazia bolscevica ha proporzioni fantastiche34 .

Nel maggio 1920, “Il Popolo d’Italia” pubblicò un’anticipazione dell’opera La sfinge bolscevica, «destinata a suscitare una profonda impressione e a completare molte delle notizie apparse nell’ultimo lavoro di Marco Slonim». Essa fu pubblicata dallo scrittore e pubblicista russo Michail K. Pervukin, che era emigrato in Italia fin dal 1907 e che viveva a Roma, dove svolgeva un ruolo di primo piano nella colonia russa. In particolare, nel capitolo riprodotto sul quotidiano fascista, Pervukin contestava l’immagine d’una società russa unanime e compatta intorno al potere bolscevico, evocando piuttosto l’impressione di Gorkij, secondo cui i bolscevichi erano «pochi», «circondati dall’odio universale, feroce e implacabile», «sperduti nel buio»35 .

Nondimeno in quella fase Mussolini si trovò in sintonia con la critica repubblicana del leninismo, soprattutto con quella d’Innocenzo Cappa, repubblicano, in polemica con la socialista rivoluzionaria Angelica Balabanoff, e ben presto prossimo al fascismo36. A loro volta i repubblicani, come altri segmenti dell’interventismo democratico, intrattenevano intensi rapporti con gli esuli socialisti russi in Italia: fu, in particolare, Karl R. Kačorovskij, fondatore e redattore de “La Russia” e de “La Russia Nuova”, a collaborare con la stampa repubblicana. Mussolini seguiva con passione e interesse queste due principali pubblicazioni dell’emigrazione socialista russa in Italia, ma lesse e commentò soprattutto “La Russia del Lavoro” (Trudovaja Rossia). Diretto dall’ex-sindaco socialista rivoluzionario di Pietrogrado, Grigorij I. Šrejder, questo periodico, che si avvalse anche della collaborazione di Slonim, si concentrava soprattutto sul mondo contadino e sulla vera e propria guerra che contro di esso andava conducendo il regime di Lenin. In particolare, Mussolini sottoscrisse con convinzione l’appello Ai compagni italiani, pubblicato da Šrejder nel primo numero della rivista, in cui si sollevavano fondamentali domande critiche sul bolscevismo «dal punto di vista di un socialista»37 .

Tuttavia nel corso del 1921 qualcosa cominciò a cambiare. Ad esempio “Il Popolo d’Italia” non lesinò informazioni sulla carestia che colpì le campagne della Volga e degli Urali, provocando milioni di morti a partire dalla primavera del 1921, ma Mussolini si limitò a

34 [Benito] Mussolini, Crepuscoli. I templi e gli idoli, “Il Popolo d’Italia”, 25 febbraio 1920. 35 Michele Perwouchine [Mihail K. Pervuchin], Quanti sono i bolsceviki in Russia?, ibid., 28 maggio 1920. Il testo completo era Id., La sfinge bolscevica, Zanichelli, Bologna 1920. 36 Corrado Scibilia, Tra nazione e lotta di classe. I repubblicani e la rivoluzione russa, Gangemi, Roma 2012, pp. 32-42, 161-162 e 194-195. 37 [Benito] Mussolini, Dedicato ai lavoratori. Socialisti e bolscevichi, “Il Popolo d’Italia”, 17 febbraio 1920.

rifiutare il dispositivo retorico fondato sulle circostanze – in primis, la guerra internazionale e la guerra civile – con cui si giustificavano le scelte bolsceviche in materia di politica economica e di controllo politico.

Se milioni di uomini muoiono di fame e di colera, la colpa risale all’esperimento orribile che i comunisti hanno tentato sul corpo enorme e lento della Russia. Questo esperimento ha provocato, lentamente e inesorabilmente, la disorganizzazione di tutta la vita russa, dalle unità alle officine, dalle città alle campagne. La Russia non ha più un sistema nervoso; è tornata un organismo rudimentale, che un pugno di fanatici, scientifici e scientifizzati s’illude di rianimare coll’applicazione di teorie che aggravano all’infinito il male38 .

Svariate continuavano ad essere le fonti cui attingeva “Il Popolo d’Italia” per documentare il terrore bolscevico, la catastrofe economica, oppure il fallimento del progetto utopistico del comunismo di guerra e il “ritorno” del capitalismo. Ad esempio, si riprendeva una lettera pubblicata sul “Socialističeskij vestnik” [“Corriere socialista”], il giornale menscevico edito in esilio a Berlino, in cui Julij O. Martov rivelava come «la violenza bolscevica» non avesse saputo «modificare in maniera durevole l’attività economica della Russia»39 . Inoltre sulle pagine de “Il Popolo d’Italia” si riproducevano stralci di documenti in cui gli anarchici italiani e russi, nonché i socialisti riformisti italiani, denunciavano la sistematica pratica repressiva del nuovo regime bolscevico40. Tuttavia, lo sforzo di conservare i legami tra la critica del bolscevismo e la rivendicazione d’un socialismo «altro» si smorzò fin quasi a spegnersi, in un breve volgere di tempo.

Una “guerra civile europea”, e quale?

In un articolo pubblicato su “Il Popolo d’Italia”, il 2 settembre 1915, all’indomani della sua chiamata alle armi, Mussolini scriveva che la guerra rappresentava «il vasto crogiolo dal quale [sarebbe uscita] modellata l’Europa di domani», il «sanguinoso e necessario urto di popoli» dal quale sarebbe forse spuntato «all’orizzonte […] l’“uomo europeo”»41 .

A Mussolini, dunque, come a molti altri suoi contemporanei, era chiaro che la posta in gioco era una ridefinizione dell’intero continente e che le sorti delle nazioni erano inseparabili da quelle dell’Europa – e viceversa. Non a caso, dopo il 1914, e sempre più dopo il 1917, la scena pubblica europea fu attraversata da un quadro di polarizzazioni politico-ideologiche che è stato assunto a cifra di tutto un periodo storico sotto la categoria di “guerra civile europea”. Presupposto della “guerra civile europea” è che, in varie forme e con variabili gradi d’intensità, gli Stati nazionali attraversassero una crisi profonda e che questa crisi fosse il prodotto non solo di devastanti conflitti militari, ma di laceranti scontri politico-ideologici. Però tante e diversissime furono le sue specifiche accezioni, nel

38 [Benito] Mussolini, Dove impera Lenin, ibid., 29 luglio 1921. 39 Come la Russia torna al capitalismo, ibid., 6 ottobre 1921. 40 Nel paradiso di Lenin. Il feroce terrore leninista subito e documentato dagli anarchici, ibid., 22 aprile 1922; Le felici condizioni del paradiso di Lenin. Interviste e notizie di gente del P.S.U., ibid., 27 maggio 1922. 41 [Benito] Mussolini, Altre battaglie, ibid., 2 settembre 1915.

periodo compreso tra le due guerre mondiali. La “democrazia” contro il “militarismo”, la “rivoluzione” e la “controrivoluzione”, il “bolscevismo” e l’“antibolscevismo”, il “fascismo” e l’“antifascismo” sono le polarità più appariscenti d’un campo di tensioni estreme che attraversò l’Europa nella prima metà del Novecento. Più che una realtà in se stessa, dunque, la categoria di “guerra civile europea” colleziona un insieme di diverse percezioni, interpretazioni e rappresentazioni di tipo essenzialmente dualistico, che opposero fascisti e antifascisti, bolscevichi e antibolscevichi, rivoluzionari e contro-rivoluzionari42 .

Il PSI, dominato dalle correnti “massimaliste” dal 1912 e forgiato dall’opposizione alla guerra dal 1914-1915, fu particolarmente sensibile al mito della rivoluzione russa. Certo, i socialisti avvertirono il richiamo della rivoluzione di Febbraio, intesa come sollevazione contro l’autocrazia zarista e per la democrazia, senza che perciò segnasse la fine della guerra dell’Intesa. Ma, soprattutto, furono attratti dalla rivoluzione d’Ottobre, che inaugurava una nuova era storica, proclamando l’avvento del socialismo e proponendo un modello che potesse essere ovunque imitato. Caso unico in Europa, il Congresso socialista dell’ottobre 1919 decretò l’unanime adesione del PSI alla Terza Internazionale, che era stata fondata qualche mese prima, a Mosca43. Uno dei suoi esponenti più spregiudicati, il socialista romagnolo Nicola Bombacci, riteneva che la «rivoluzione russa» fosse «un fatto mondiale» e che il Soviet non fosse «una istituzione russa transitoria ma internazionale, definitiva e di carattere profondamente sociale», «organo positivo di azione e di ricostruzione rivoluzionaria in tutto il mondo»44 . Il contesto europeo del 1917-1922 parve restituire un significato “rivoluzionario” alle intense agitazioni e sollevazioni sociali che erano radicate nelle diverse dimensioni locali, ma che si richiamavano – a livello simbolico – all’esempio del “bolscevismo”, della Russia “soviettista”, dell’Ottobre “rosso”, di Lenin. Tuttavia, mentre l’immaginario sociale ancorato alla simbologia sovietica conservò forme più o meno stabili, il mito socialista della Rivoluzione assunse significati diversi, a seconda dei mutevoli contesti del dopoguerra. Il PSI, che fin dal 1912 era dominato dalla corrente massimalista, associò una prospettiva socialista libertaria e anti-statalista alle rappresentazioni della rivoluzione russa, cristallizzate intorno agli eventi del ’17. Lo scarto crescente tra l’immagine del Soviet come forma di potere autonomo e popolare e le esperienze storiche del “comunismo di guerra”, tra ’19 e

42 Enzo Traverso, A ferro e fuoco. Una guerra civile europea, 1914-1945, Il Mulino, Bologna 2007, che privilegia lo scontro tra fascismo e antifascismo; Silvio Pons, La rivoluzione globale. Storia del comunismo internazionale 1917-1991, Einaudi, Torino 2012, che mette a fuoco soprattutto lo scontro tra comunismo e anticomunismo. 43 Cfr. Helmut Koenig, Lenin e il socialismo italiano, 1915-1921, Prefazione di Renzo De Felice, Introduzione di Giorgio Petracchi, Vallecchi, Firenze 1972; Stefano Caretti, La rivoluzione russa e il socialismo italiano (1917-1921), Nistri-Lischi, Pisa 1974; Roberto Vivarelli, Rivoluzione e reazione in Italia, in Id., Il fallimento del liberalismo. Studi sulle origini del fascismo, Il Mulino, Bologna 1981; Id., Storia delle origini del fascismo. L’Italia dalla Grande Guerra alla marcia su Roma, in 2 volumi, Il Mulino, Bologna 1991; Giorgio Petracchi, Il mito della rivoluzione sovietica in Italia, 1917-1920, “Storia contemporanea”, n. 6 1990, pp. 1107-1130. Per uno sguardo comparativo europeo, vedi Albert Lindemann, Bolscevismo e socialismo europeo (1919-1921), Il Mulino, Bologna 1977 e Bruno Naarden, Socialist Europe and Revolutionary Russia. Perception and Prejudice, 1848-1923, Cambridge University Press, Cambridge 1992. 44 Nicola Bombacci, I Soviet in Italia, “Avanti!”, 27 febbraio 1920.

’21, fu la matrice essenziale del mito della rivoluzione russa, generalmente identificata con la rivoluzione d’Ottobre45 .

Nell’interazione tra il nuovo mito rivoluzionario e le esperienze europee postbelliche – la rivolta spartachista di Berlino, la Repubblica dei Consigli di Monaco, la Repubblica sovietica di Budapest, la guerra civile “russa”, l’avanzata dell’Armata Rossa verso Varsavia – si formò, tra il ’19 e il ’20, un linguaggio della “guerra civile europea” che trasformò radicalmente le parole d’ordine dell’internazionalismo socialista precedente il ’14, in sintonia con la prospettiva leniniana della rivoluzione internazionale. Mussolini e i fascisti presero sul serio il mito rivoluzionario socialista e la prospettiva della “guerra civile europea”, rispondendo con un linguaggio simmetrico, ma opposto. Fin dai primi mesi del 1919, cominciò a profilarsi un altro discorso destinato a sviluppare una nuova prospettiva rivoluzionaria, alternativa a quella socialista – “bolscevica” – in Italia. Mussolini muoveva dall’idea che la guerra fosse stata la vera “rivoluzione europea”. Ne conseguiva che chiunque vi si fosse opposto, come il partito bolscevico o il PSI, per quanto sostenesse l’esperimento di Lenin, avrebbe «lavorato per la controrivoluzione»46 .

Dopo il fallito sciopero generale di Roma del 10 aprile 1919, Cesare Rossi, redattore di vari fogli socialisti prima di approdare alla redazione de “Il Popolo d’Italia”, si pose il problema di lanciare un antibolscevismo che fosse uno strumento di lotta contro il partito socialista, ma al tempo stesso compatibile con l’odio per la borghesia47. In un editoriale scritto pochi giorni dopo l’assalto alla sede milanese dell’“Avanti!”, condotto il 15 aprile 1919, a meno d’un mese dalla fondazione dei Fasci di Combattimento:

Noi non ci opponiamo al movimento ascensionale delle masse lavoratrici; non ci opponiamo a quella magnifica incruenta rivoluzione operaia che è in atto e che ha già, anche in Italia, toccato splendide realizzazioni; noi combattiamo apertamente e fieramente, insieme colla maggioranza dei socialisti di tutto il mondo, quel fenomeno oscuro di regressione, di contro-rivoluzione e d’impotenza che si chiama bolscevismo. Noi difendiamo la nostra rivoluzione rinnovatrice e creativa, dagli assalti proditori della contro-rivoluzione retrograda e distruttiva dei leninisti48 .

Posto in diretta relazione all’evoluzione rivoluzionaria e filo-sovietica del partito socialista, l’antibolscevismo fascista è stato tradizionalmente inteso come riedizione – debitamente aggiornata – dell’antisocialismo, ridefinito attraverso la categoria – quanto mai arbitraria in questo caso – di “bolscevismo”, che identificava nel PSI il principale nemico del fascismo. I fascisti combattevano aspramente l’idea di “fare come in Russia”: questa parola d’ordine tipicamente socialista massimalista, infatti, significava disconoscere le peculiarità del contesto italiano e sciogliere il nesso tra socialismo e nazione. Rivelatore, in questo senso, fu il vivo interesse che Mussolini manifestò verso il partito socialista polacco di Piłsudski nel corso del 1920: nazionalista, favorevole alla guerra contro la Russia sovietica e fautore della ridistribuzione delle terre, esso rappresentava un contro-modello del

45 Si veda Antonello Venturi, Il mito della rivoluzione, in Dizionario del comunismo nel XX secolo, a cura di Silvio Pons e Robert Service, Einaudi, Torino 2007, pp. 334-338. 46 [Benito] Mussolini, Posizioni e obbiettivi, “Il Popolo d’Italia”, 28 marzo 1919. 47 Cesare Rossi, Perché l’anti-bolscevismo non sia soltanto borghese, ibid., 14 aprile 1919. 48 [Benito] Mussolini, Non subiamo violenze!, ibid., 18 aprile 1919.

PSI, internazionalista pacifista e collettivista: «La Polonia è una repubblica socialista o quasi»49 .

L’attenzione delle opinioni pubbliche e dei partiti politici nell’estate 1920 fu rivolta tanto al II Congresso della Terza Internazionale quanto alla guerra sovietico-polacca. Dopo gli stentati inizi del 1919, il Congresso che si teneva a Mosca radunava per la prima volta un gran numero di delegazioni socialiste pronte a fondare nuove sezioni dell’Internazionale comunista, mentre in un’atmosfera effervescente d’attesa messianica si seguiva l’avanzata dell’Armata Rossa, ormai prossima a Varsavia tra la fine di luglio e i primi d’agosto. La presa della capitale polacca fallì a causa della mobilitazione della classe operaia in chiave antibolscevica, che respinse le truppe sovietiche50 . Mussolini rivendicò la neutralità italiana nel conflitto sovietico-polacco come scontro tra opposti imperialismi, che si doveva concludere con la pace e col riconoscimento dell’indipendenza polacca. In uno scenario in costante e febbrile mutamento, Mussolini rigettava dunque la chiave sociale per definire lo scontro tra Polonia e «Russia», sostenendo il carattere «socialista» dello Stato di Piłsudski, fondatore del Partito Socialista Polacco. Al «ciclo delle guerre fra le nazioni borghesi» seguiva «il ciclo delle guerre fra le nazioni socialiste», inaugurato dal conflitto tra «Russia» e Polonia. In questo senso, la guerra russo-polacca insegnava che il preteso carattere socialista d’uno Stato non escludeva la sua vocazione imperialista. Respinta l’offensiva polacca in Ucraina e Lituania, la guerra sovietica si era convertita in una guerra d’aggressione, in cui «all’imperialismo territoriale» si sommava «l’imperialismo delle idee»:

Non trovate un’evidente analogia tra il processus dell’universalismo democratico della rivoluzione francese e il processus dell’universalismo comunistico della rivoluzione russa? Entrambi sboccano in una guerra di conquista. Seguendo l’analogia riscontrata, è lecito prevedere che l’imperialismo rivoluzionario russo, al pari dell’imperialismo rivoluzionario francese, può concludersi, dopo i conati universalistici, in una specie di restaurazione. Ciò che si guadagna in estensione si perde in intensità. Il comunismo non può essere soltanto russo, ma, quando diventa europeo, non è più comunismo51 .

Mussolini quindi sosteneva che il comunismo in quanto tale era una reazione alla crisi nazionale russa – una crisi considerata non europea, ma asiatica – che minacciava la destabilizzazione e la distruzione delle nazioni europee; al tempo stesso, però, espandendosi verso l’Europa, si trasformava in una forza europea e si traduceva in forme di socialismo nazionale, di cui la Polonia di Piłsudski rappresentava un modello. In questo senso, perciò, l’europeizzazione del comunismo costituiva il presupposto per la formazione dei socialismi nazionali in Europa.

Nel frattempo era intervenuto un mutamento maggiore in seno al fascismo, che si era organizzato in squadre armate e nell’estate del 1920 era mosso all’offensiva, a partire dalle zone plurinazionali dell’Alto-Adriatico conquistate dall’Italia alla fine della Grande Guerra. In questi territori di confine i conflitti socio-politici, alimentati dalle tensioni nazionali, furono tra i più violenti e la sezione locale del PSI, ben presto passata in massa al partito

49 [Benito] Mussolini, La Nuova Babele, ibid., 2 giugno 1920. 50 Cfr. Norman Davies, White Eagle, Red Star. The Polish-Soviet War 1919-1920 and “The Miracle on the Vistula”, Pimlico, London 2003 (1972). 51 [Benito] Mussolini, Bolscevismo imperiale, “Il Popolo d’Italia”, 6 agosto 1920.

comunista, adottò una posizione decisamente radicale. Non a caso, la polemica di Mussolini verso la pubblicistica socialista e soprattutto verso “Il Lavoratore”, quotidiano socialista di Trieste, fu particolarmente dura. Il suo articolo del 6 agosto, Bolscevismo imperiale, costituiva una replica diretta contro l’orientamento del quotidiano “Il Lavoratore”, che il 1° agosto, di fronte all’avanzata sovietica in territorio polacco, aveva affrettatamente concluso: «La Russia non è più un mito asiatico sperduto fra due continenti e sognato fra due evi, ma è una realtà europea che ha tutta l’energia d’una falange armata e travolgente»52 . La sconfitta dell’Armata Rossa davanti a Varsavia, a metà agosto, rapidamente dissolse le speranze d’esportazione della rivoluzione sovietica in Germania, e di qui in tutta Europa. In quelle stesse settimane tra luglio e settembre, Trieste e i nuovi territori di confine sull’Alto Adriatico diventarono un vero e proprio laboratorio delle pratiche squadriste, dove l’aggressione ai socialisti s’intrecciò e spesso si mescolò con quella agli «slavi» e l’antisocialismo si potenziò con l’antislavismo, in una versione inedita di nazionalismo radicale. In un noto discorso tenuto a Trieste, il 20 settembre 1920, la veemente polemica di Mussolini contro la «mascheratura bolscevica del socialismo italiano» fu condotta in nome di Mazzini e Pisacane, in nome cioè d’una tradizione rivoluzionaria italiana che tendeva a rompere i suoi legami con la Francia quale esempio di universalismo rivoluzionario. Perciò Mussolini argomentava che non fosse possibile «trapiantare in Italia» – «il paese più individualista del mondo» – il comunismo: «Questo è possibile dove ogni uomo è un numero, ma non in Italia, dove ogni uomo è un individuo, anzi una individualità»53 . Questa considerazione risuonava nella riflessione d’un osservatore d’eccezione della guerra sovietico-polacca, l’ancor giovanissimo Curzio Suckert allora luogotenente di complemento di fanteria, integrato nella missione diplomatica a Varsavia tra il settembre 1919 e il settembre 1920. Non è chiaro se egli avesse assistito direttamente al «miracolo sulla Vistola», ma è certo che avesse seguito con ammirazione la lotta del popolo polacco contro l’avanzata russa54. L’anno successivo, egli consegnò alla sua prima opera Viva Caporetto – poi intitolata La rivolta dei Santi maledetti – il senso degli eventi presenti e spiegò come il bolscevismo e il fascismo – o meglio, la «rivoluzione russa» e la «rivolta di Caporetto», rispettivamente animate dal senso della collettività e dal senso dell’individualità – fossero «due movimenti paralleli» per una «nuova civiltà». Polemizzando aspramente con il «bolscevismo italiano», egli auspicava una «rivoluzione italiana», che fosse insieme sindacale e nazionale55 . Questa riflessione convergeva con le considerazioni e le analisi svolte dai sindacalisti rivoluzionari, come il principale teorico dell’esperienza fiumana, Alceste De Ambris, il quale però ne enfatizzava il bilancio completamente fallimentare: a suo avviso, infatti, era impossibile compiere una rivoluzione con una classe lavoratrice priva di quadri dirigenti tecnicamente preparati, in grado di sostituire la classe borghese nella gestione e

52 Il nostro dovere, “Il Lavoratore”, 1° agosto 1920. 53 Cfr. Antonino De Francesco, Un sonetto di Mussolini… cit., p. 185, il quale fa risalire la rottura della sua passione per la Rivoluzione francese al discorso di Trieste il 20 settembre 1920. 54 Si vedano Giuseppe Pardini, Malaparte. Una biografia politica, Prefazione di Francesco Perfetti, Luni, Milano 1998 e Maurizio Serra, Malaparte: vita e leggende, Marsilio, Venezia 2012. 55 Cfr. Curzio Suckert, La rivolta dei Santi maledetti [1921], in Curzio Malaparte, Opere scelte, a cura di Luigi Martellini, Mondadori, Milano 1997, pp. 100-101. Questa riflessione fu sviluppata in Id., L’Europa vivente. Teoria storica del sindacalismo nazionale, La Voce, Firenze 1923.

nella direzione dell’industria56. Negli ambienti ex-sindacalisti rivoluzionari, la rivoluzione bolscevica descritta con la cifra apocalittica della distruzione totale finiva per rappresentare uno specchio rovesciato della rivoluzione fascista, a sua volta tesa a stringere un nesso indissolubile tra distruzione e ricostruzione, conservazione e rivoluzione57. Nondimeno il futurismo politico, proprio perché riconosceva la funzione nazionale del bolscevismo in Russia, escludeva la possibilità d’una sua esportazione in Italia. Dino Grandi, allora uno dei principali oppositori interni di Mussolini, riteneva che il 1917 avesse rappresentato «l’avanguardia della rivoluzione di tutte le nazioni povere di oriente e di occidente contro il capitalismo inglese, uscito dalla guerra tiranno e padrone assoluto del mondo». Da questo punto di vista, l’esperienza fiumana interpretava «la rivoluzione di tutto il popolo italiano sindacalista e operaio contro la Santa Alleanza di Versailles»58 . Il punto focale del fascismo, come del sindacalismo nazionale, del futurismo e del fiumanesimo, stava dunque nel rapporto tra rivoluzione e nazione: il PSI era stigmatizzato perché si rifaceva ad un modello rivoluzionario mutuato dall’esperienza russa – inadatto di conseguenza ad essere trapiantato in Italia. Analogamente, il Partito Comunista d’Italia, nato dalla scissione del PSI al Congresso di Livorno del gennaio 1921, era oggetto della virulenta contestazione fascista. Costituitosi sulla base dell’adesione alle 21 condizioni di Lenin, il PCdI costituì la sezione italiana della Terza Internazionale, che faceva dell’esempio sovietico la propria indiscussa prospettiva rivoluzionaria. Nella guerra ideologica che attraversava l’Europa, i fascisti seguivano una loro propria strada, socialista nazionale e antibolscevica. A questa particolare versione della «guerra civile europea» si affiancava un altro tipo di crisi, in cui i fascisti ritenevano fosse coinvolta l’intera Europa.

Antibolscevismo, antislavismo, antisemitismo nella “crisi eurasiatica”

La storiografia recente ha sottolineato come le dinamiche messe in moto dalla guerra russo-giapponese e dalla conseguente rivoluzione russa del 1905 avessero incrinato il primato dell’Europa, aprendo quelle faglie sempre più profonde che avrebbero precipitato il vecchio continente nelle convulsioni della prima e della seconda guerra mondiale. Fu però soprattutto la crisi avviata dalla caduta dell’Impero zarista e dai devastanti processi rivoluzionari del 1917-1922 e poi estesasi agli Imperi austro-ungarico, tedesco e ottomano a scuotere l’ordine pre-1914 e ad innescare nuovi violenti conflitti. Infatti, combinandosi col rifiuto del «nuovo ordine» stabilito da Wilson nel 1919, la coscienza a tratti acuta, più spesso brutale e caricaturale, d’una «crisi eurasiatica» che imponeva all’Europa la ricerca d’un ordine alternativo, alimentò i nuovi movimenti politici radicali del dopoguerra, tra cui figurava a pieno titolo il fascismo italiano59 .

56 Emilio Gentile, Le origini dell’ideologia fascista… cit., p. 145. 57 Cfr., ad esempio, Sergio Panunzio, Lettera di uno non candidato, “Il Popolo d’Italia”, 9 novembre 1919. 58 Dino Grandi, Lettera ad un socialista, “Il Resto del Carlino”, 11 settembre 1920, citato in Emilio Gentile, Le origini dell’ideologia fascista… cit., pp. 277-278. 59 Cfr. Alfred J. Rieber, The Struggle for the Eurasian Borderlands: from the rise of early modern empires to the end of the First World War, Cambridge University Press, Cambridge-New York 2014; J. Adam Tooze, The Deluge. The Great War, America and the Remaking of Global Order, 1916-1931, Viking Adult, New York 2014. Ho trattato delle ipotesi interpretative di Halévy alla luce

Le rappresentazioni fasciste tendevano a definire diversi aspetti e caratteri contraddittorii del bolscevismo. Prodotto di pregiudizi sedimentati nel tempo, la percezione della dimensione «asiatica» del bolscevismo equivaleva, nel contesto post-1917, ad una presa d’atto dell’immenso ampliamento dello scenario politico in cui si collocavano le dinamiche europee ed italiane. Mussolini riteneva che il bolscevismo fosse «un fenomeno russo e parzialmente russo»: esso non era riuscito «ad inquinare che una parte della Russia, la cosiddetta Moscovia e limitatamente alle sole città». Era sua convinzione che solo «una popolazione a fondo mongolico e tartaro» potesse «accettare o subire un regime come quello leninista»: «Il bolscevismo, fenomeno di degenerazione sociale, è comprensibile nel clima storico russo»60 .

In questa visione di Mussolini, l’Alto Adriatico giocava un ruolo cruciale, come propaggine estrema del «mondo slavo» e, attraverso esso, dell’influenza «russa». Perciò, che prevalessero i «Rossi» o i «Bianchi» nella guerra civile «russa», era tutto sommato irrilevante. Entrambi sembravano condividere «uno smisurato sogno di imperialismo», ossia «il grande impero dal Baltico al Mediterraneo, dal Mare freddo al Mare caldo»: questo progetto panslavo investiva direttamente i confini italiani in quanto contenevano, «prementi verso il mare Adriatico, le estreme e fameliche stirpi del mondo slavo»61 . Non è un caso dunque se Trieste diventò il luogo dei discorsi chiave per la visione politica europea e globale di Mussolini, sempre più intrisa d’antislavismo: esso costituiva una sorta d’avamposto d’un immaginario spazio geopolitico che definiva insieme il nemico del fascismo e la sua missione nazionale e imperiale62 .

Queste idee erano tutt’altro che esclusive al pensiero mussoliniano, e circolavano con intensa frequenza negli ambienti del fascismo della “prima ora”. Un pamphlet del sindacalista rivoluzionario Angelo Oliviero Olivetti dedicato a Bolscevismo, comunismo e sindacalismo, sosteneva che il bolscevismo, come il Cristianesimo, fosse un «socialismo asiatico», il quale, nonostante il suo preteso internazionalismo, si muoveva sul terreno della «politica strettamente nazionale» russa63. In questo senso, tendevano a moltiplicarsi le denunce del «morbo asiatico» che pervadeva l’Europa, «non risparmiando nessun popolo, confondendo vincitori e vinti in un comune pericolo»64. Nondimeno, questo orientamento emergeva da un discorso di Pietro Gorgolini, intitolato Cos’è il bolscevismo e tenuto all’Università di Camerino nell’aprile 1919, ma diffuso probabilmente attraverso altre confe-

di questa storiografia recente nel paper The “Eurasian” Origins and Outcomes of the Great War: A Re-Reading of Elie Halévy, presentato alla conferenza The Road to the Unwanted War of 1914, tenutasi all’Università di Bucharest il 9-10 ottobre 2014: gli atti sono di prossima pubblicazione. 60 [Benito] Mussolini, Ancora un ricatto? Le manovre dei “boches”, “Il Popolo d’Italia”, 24 novembre 1918. 61 [Benito] Mussolini, Tra Occidente e Oriente, ibid., 17 dicembre 1919. 62 Per un approfondimento di questo aspetto cfr. Marco Bresciani, The Upper Adriatic Space and the Post-War Ascent of Fascism, in Vergangene Räume-Neue Ordnungen. Das Erbe der multinationalen Reiche und die Staatsbildung im östlichen Europa 1917-1923, a cura di Frank Grelka, Viadrina Universitaet, Frankfurt Oder 2016, di prossima pubblicazione. 63 Angelo O. Olivetti, Bolscevismo, comunismo e sindacalismo, Editrice Rivista Nazionale, Milano 1919, pp. 16 e 26. 64 [Piero] Bolzon, Individualismo eroico contro nichilismo comunista!, “L’Ardito”, 11 aprile 1920, citato in Francesco Germinario, Fascismo 1919. Mito politico e nazionalizzazione delle masse, Biblioteca Franco Serantini, Pisa 2011, p. 82 (nota 29).

renze. Egli richiamava il carattere anarchico del bolscevismo, «formulazione estremistica dell’utopia socialista»: il senso generalizzato di «sfacelo» e d’«anarchia» offriva la chiave essenziale per penetrare gli eventi russi. Il processo rivoluzionario aveva fatto emergere, «sotto la scorza già abbastanza solida e ora miserevolmente frantumata di europeismo, il fondo barbaro e orientale di un popolo rimasto schiavo e primitivo». Il ciclo di guerre e di rivoluzioni aveva arrestato «il suo processo di europeizzazione», provocando «un ritorno di barbarie» che faceva «tremare i popoli confinanti all’idea di un’invasione delle orde di Trotski»65. Nell’aprile 1922 uno dei fondatori e collaboratori de “Il Popolo d’Italia”, il fascista goriziano Enrico Rocca, argomentò che la guerra, «al pari di un immenso cataclisma tellurico», «[aveva] scosso dalle fondamenta e fatto crollare antichissimi edifici statali come gli imperi di Russia e di Austria-Ungheria», determinando così «nuove cristallizzazioni politiche ed economiche». Filtrando questa lucida consapevolezza con il suo veemente antislavismo, Rocca sosteneva che il panslavismo agiva «da forza centripeta per l’unificazione di tutti popoli slavi» in «un grande blocco […] dal Mar Baltico al Mar Nero e all’Adriatico»66 .

D’altro canto la crisi «eurasiatica», ben lungi dal condurre all’avvento della società socialista, era destinata a trasformare la Russia in un paese capitalista, dunque più europeo e meno asiatico. L’immensa distruzione rivoluzionaria doveva portare a un definitivo allontanamento della Russia dalle sue origini bizantine, slave, asiatiche, per consegnarla all’Occidente capitalistico. Mussolini era convinto che Lenin avesse creato «le condizioni necessarie e sufficienti perché la Russia [potesse] diventare uno dei paesi più “capitalistici” del mondo»67. Dal canto suo, Lanzillo sosteneva che «l’esperienza russa [era] fallita», e questo «fallimento» rappresentava «il più grave disinganno che mai abbia colpito la classe operaia»: «Dall’utopia si torna[va] al realistico», per quanto questa «improvvisa parentesi di periodo utopistico» avesse costituito nella storia del socialismo «un grande passo indietro»68. A sua volta, Rocca spiegava come l’«applicazione dell’utopia comunista, offendendo ogni legge economica e gerarchica», aveva provocato «un crollo spaventoso», anche se non sarebbe stato «permanente». Infatti Lenin sapeva «genialmente contraddirsi e procedere coraggiosamente dall’utopia alla realtà»: la disponibilità a «trattare con quegli Stati capitalistici che già furono fatti segno agli anatemi di Lenin», era «un segno evidente del fallimento della strombazzata palingenesi russa del mondo»: «La Russia deve provvedere prima di tutto a salvare se stessa». Esemplificato dal tramonto del mito di Lenin, il «tramonto di tutti i miti del dopo guerra» era piegato da Rocca a legittimare l’ascesa violenta del fascismo69 . Questa evoluzione inattesa, che dal febbraio-marzo 1921 si rafforzò con la Nuova Politica Economica (NEP) e che creò i presupposti più generali per una reintegrazione russa nel sistema economico internazionale, spinse a stabilire accordi commerciali tra Russia e Italia, auspicati dai fascisti. In un articolo del 2 novembre 1921, Mussolini ricordava come

65 Pietro Gorgolini, Cos’è il bolscevismo, in appendice ad Angelo d’Orsi, La rivoluzione antibolscevica… cit., pp. 344-356. 66 Enrico Rocca, Il nuovo centro e le nuove tendenze del panslavismo, “Il Popolo d’Italia”, 27 aprile 1922. 67 [Benito] Mussolini, Crepuscoli. I templi e gli idoli, ibid., 25 febbraio 1920. 68 Agostino Lanzillo, Lenin distruttore, ibid., 13 settembre 1921. 69 Enrico Rocca, Due miti e la realtà, ibid., 22 gennaio 1922.

fin dal 1919 il fascismo aveva promosso una politica estera orientale che mirava «a stringere relazioni amichevoli con tutti gli Stati sorti dallo sfacelo dell’impero degli Asburgo e dei Romanoff, non esclusi quelli governati dai Soviety». Dopo aver rinunciato, almeno momentaneamente, «ai suoi piani di rivolta pan-asiatica contro l’imperialismo anglosassone», «la Russia torna[va] all’Europa, si rivolge[va] all’Occidente». Secondo Mussolini, si trattava di «un altro passo verso la pace generale europea»70 . Gli accordi preliminari italo-russi furono firmati a Roma nel dicembre 1921. Poi Mussolini e i fascisti seguirono con particolare attenzione la decisione sovietica di partecipare alla Conferenza internazionale per la ricostruzione economica dell’Europa, che si tenne a Genova nel maggio 1922. In proposito Mussolini, in sintonia con quanto era stato sostenuto da Lanzillo e da Rocca, disse: «solo il capitalismo dell’Occidente può salvare la Russia»71 . Mussolini spiegò quindi che – dopo il fallimento della «politica asiatica», prima degli zar, poi di Lenin – il regime comunista si risolveva in un «disperato tentativo di “occidentalizzare” la Russia», attraverso l’importazione delle tecniche e dei capitali delle economie occidentali: francese, tedesca e inglese. Paradossalmente, il comunismo diventava così il primo stadio del capitalismo: «Dietro la Russia dei Romanoff affiorava Bisanzio, con il caos, la crudeltà, il paradosso, gli squilibri, la rassegnazione di Bisanzio; dietro la Russia di Uljanov, spunta la grinta senza baffi del capitano d’industria occidentale. La Russia più che agli Urali o al Caspio, si spinge verso la Vistola e il Danubio». In questo modo la Russia comunista perdeva «ogni possibilità di diventare l’avanguardia del mondo asiatico»72 . In questa paradossale visione di Mussolini, la crisi «eurasiatica» della Russia finiva per concludersi con un potente, ma devastante sforzo d’affermazione della dimensione europea su quella asiatica. Tuttavia, qual era l’agente chiave di questo epocale processo di trasformazione, equivalente a una totale eterogenesi dei fini? Certo, Lenin e i comunisti, in prima istanza. Eppure, in alcuni passaggi del discorso mussoliniano, il gruppo dirigente bolscevico era a sua volta identificato con il “complotto tedesco” e con il “complotto ebraico”. In una delle prime reazioni scritte all’Ottobre, l’articolo Avanti, il Mikado!, pubblicato ne “Il Popolo d’Italia” l’11 novembre 1917, Mussolini sosteneva: «Colla odierna rivolta dei massimalisti, la Germania ha conquistato senza colpo ferire Pietrogrado». La «tetrarchia bolscevica», composta da Lenin, «altrimenti detto Uljanov o – col vero nome di battesimo e di razza – Ceorbaum», «Apfelbaum, Rosenfeld, Bronstein» si identificava con la «piena, autentica tedescheria»73 . Quest’interpretazione del bolscevismo come “complotto tedesco” era figlia dell’interventismo rivoluzionario di Mussolini, intriso di ostilità paranoica per la Germania, anche se non si può escludere un’implicita evocazione del “complotto ebraico”. A conferma di quest’ultima ipotesi si può leggere un successivo articolo del 3 dicembre 1917, in cui si faceva riferimento a Krylenco-Abram, «impasto di lettere che puzza di tedesco e di sinagoga»74 .

70 [Benito] Mussolini, Italia e Russia, ibid., 2 novembre 1921. 71 [Benito] Mussolini, La Russia all’asta, Ibid., 12 aprile 1922. 72 Benito Mussolini, Luna crescente, “Gerarchia”, 25 settembre 1922, pp. 477-479. 73 [Benito] Mussolini, Avanti, il Mikado!, “Il Popolo d’Italia”, 11 novembre 1917. Apfelbaum era Gregorij E. Zinov’ev; Rosenfeld era Lev B. Kamenev; Bronstein era Lev D. Trockij. Ceorbaum (recte Cederbaum) non era Vladimir L. Ul’janov detto Lenin, ma Julij O. Martov. 74 [Benito] Mussolini, Il Napoleone della viltà, ibid., 3 dicembre 1917. È probabile che si tratti di Nikolaj V. Krylenko, noto fin dai tempi universitari come il “compagno Abram” e organizzatore militare di primo piano del colpo di Stato dell’Ottobre.

In un articolo pubblicato ne “Il Popolo d’Italia” del 16 marzo 1919, Mussolini suggeriva – in forma apparentemente dubitativa, ma di fatto assertiva – che il bolscevismo fosse «la vendetta dell’ebraismo contro il cristianesimo»:

Il bolscevismo è difeso dalla plutocrazia internazionale. Questa è la verità sostanziale. La plutocrazia internazionale dominata e controllata dagli ebrei, ha un interesse supremo a che tutta la vita russa acceleri sino al parossismo il suo processo di disintegrazione molecolare. Una Russia paralizzata, disorganizzata, affamata, sarà domani il campo dove la borghesia, sì la borghesia, o signori proletari, celebrerà la sua spettacolosa cuccagna. I re dell’oro pensano che il bolscevismo deve vivere ancora, per meglio preparare il terreno alla nuova attività del capitalismo. [...] Il leninismo vivrà finché lo vorranno i re della finanza; morirà quando decideranno di farlo morire i medesimi re della finanza75 .

Queste rappresentazioni del bolscevismo intrise d’antisemitismo circolavano nell’ambiente dell’arditismo e del suo organo “L’Ardito”76. Tuttavia, è più probabile che Mussolini fosse ispirato dalle posizioni del sindacalismo rivoluzionario, ora simpatizzanti per il fascismo, come quelle di Angelo Oliviero Olivetti, oppure dalle posizioni del nazionalista interventista poi fascista Giovanni Preziosi, traduttore in italiano, nel 1921, dei Protocolli dei Savi di Sion77. Olivetti riteneva che il bolscevismo fosse diretto da una «piccola schiera di Ebrei audaci volitivi ed intelligenti»: per una «vendetta della storia» il bolscevismo, favorendo «le grandi correnti finanziarie», avrebbe contribuito allo «sviluppo del capitalismo in Russia»78. Le radici di queste posizioni rimontavano all’antisemitismo socialista, a quel «socialismo degli imbecilli» che aveva avuto larga eco negli ambienti sindacalisti rivoluzionari d’inizio Novecento e aveva trovato in Paolo Orano il suo interprete più coerente – e inquietante79. Non stupisce in questo senso la convergenza di Mussolini con Sorel e con la sua celebre postfazione Pour Lénine, aggiunta a Les réflexions sur la violence proprio nel

75 Il capitano francese Jacques Sadoul, membro della missione militare francese, il quale tenne per conto del governo francese contatti con i Commissari del popolo, era definito «un ebreo, legato con vincoli di razza con gli altri ebrei che esercitano in questo momento la loro feroce dittatura a Mosca», in Benito Mussolini, Il documento Sadoul: apologia o condanna?, “Il Popolo d’Italia”, 16 marzo 1919. Le lettere di Sadoul dalla Russia rivoluzionaria erano comparse sull’“Avanti!”, 10, 13, 14 marzo 1919. 76 Cfr. Francesco Vecchi, Arditi! e [Piero] Bolzon, Crisi economica o crisi morale?, entrambi ne “L’Ardito”, 11 maggio 1919 e 4 aprile 1920, in Francesco Germinario, Fascismo 1919… cit., p. 81. 77 Richard James Boone Bosworth, Mussolini’s Italy: life under the dictatorship, 1915-1945, Penguin Books, New York 2006, pp. 147-148. Sul precoce antisemitismo di Mussolini – e in particolare sul suo rapporto con l’antibolscevismo – si veda Giorgio Fabre, Mussolini razzista. Dal socialismo al fascismo: la formazione di un antisemita, Garzanti, Milano 2005, pp. 117-124 e 232-233: del dibattito suscitato da questo libro non è possibile qui rendere conto. 78 Angelo Oliviero Olivetti, Bolscevismo, comunismo… cit., pp. 23 e 75. 79 Michele Battini, Il cuore di tenebra della civiltà italiana. Il tragitto di Paolo Orano, in Id., Il socialismo degli imbecilli, Bollati Boringhieri, Torino 2010, pp. 134-173. Per un’interpretazione più discutibile, troppo pronta a identificare questi ambienti col fascismo, cfr. Zeev Sternhell-Mario Sznajder-Maia Asheri, Nascita dell’ideologia fascista, Baldini&Castoldi, Milano 2002.

settembre 1919. Egli riteneva plausibile che «gli ebrei entrati nel movimento rivoluzionario [fossero] responsabili degli ordini terroristi rimproverati ai bolscevichi»80 .

Ispirato tra gli altri proprio da Sorel, il problema della violenza assunse un nuovo rilievo a partire dall’estate-autunno del 1920, quando cominciò a manifestarsi la prassi sistematica della violenza squadrista. In particolare, dopo la strage di Palazzo d’Accursio che era avvenuta a Bologna il 21 novembre 1920, e che era l’esito del conflitto tra squadristi, guardie rosse e forze dell’ordine, Mussolini accusò il PSI d’essere «un esercito russo accampato in Italia»81. Da allora, la definizione di un modello bolscevico di violenza totale e indiscriminata servì al capo del fascismo per legittimare l’uso della violenza in chiave «antibolscevica», cioè antisocialista. A differenza del «socialismo russificato», i fascisti non l’avevano elevata «a dottrina e a metodo di battaglia»: «Noi – continuava Mussolini – non siamo bevitori di sangue, né esteti della violenza e mille volte su queste colonne abbiamo detto che di tutte le guerre possibili e immaginabili, è quella civile che più ripugna all’animo nostro. Abbiamo sempre dichiarato e dichiariamo che siamo pronti ad accettare, quando ci sia imposta, la guerra civile e a condurla con la necessaria energia e intrepidezza»82 .

Nel noto discorso di Udine, tenuto a poco più d’un mese dalla marcia su Roma, nel pieno dell’ultima offensiva fascista, la violenza fascista diventò «un gioco da fanciulli», se era «paragonata a quella dei bolscevichi di Russia, dove sono state giustiziate due milioni di persone [sic]»83. Ancora una volta, dunque, il confronto con l’esperienza rivoluzionaria russa e col modello bolscevico metteva a disposizione del fascismo un eccezionale strumento di legittimazione e insieme di auto-definizione per negazione.

Distruzione e (ri)costruzione di Stati

Le percezioni, interpretazioni e rappresentazioni della “guerra civile europea” e della “crisi eurasiatica” erano cariche d’implicazioni politiche, ma in quale direzione? Una delle discussioni storiografiche più rilevanti riguarda il tragitto di Mussolini, dal 1914 al 1922, quando si improvvisarono brusche torsioni politiche e si sedimentarono materiali culturali precedenti, in contesti del tutto nuovi. Renzo De Felice ha richiamato l’attenzione sull’importanza delle matrici sindacaliste rivoluzionarie del percorso di Mussolini fino al 1920 – dal socialismo al fascismo – ma ha individuato una svolta importante nel corso della Grande Guerra. Quest’ultima è stata identificata meno con il passaggio dal neutralismo socialista all’interventismo “di Sinistra” che con la disfatta di Caporetto e con la conseguente subordinazione dell’interventismo alla “Destra” nazionalista. Tuttavia, secondo De Felice,

80 Georges Sorel, Plaidoyer pour Lénine. Cfr., in generale, Carlo Carini, Lenin e la rivoluzione russa negli scritti italiani di Sorel, Olschki, Firenze 1974 e Shlomo Sand, Sorel, les Juifs et l’antisemitisme, “Cahiers Georges Sorel”, n. 1 1984, pp. 7-36. 81 [Benito] Mussolini, L’eccidio di Palazzo d’Accursio, “Il Popolo d’Italia”, 23 novembre 1920. 82 [Benito] Mussolini, Cose a posto, ibid., 24 novembre 1920. Per una riflessione socialista coeva sulla pratica fascista della violenza, in confronto con le tecniche bolsceviche, si veda Giorgio Petracchi, L’avvento del fascismo in un inedito di Giacinto Menotti Serrati, “Storia contemporanea”, n. 4/5 1980, pp. 635-655. 83 [Benito] Mussolini, Il discorso di Udine, “Il Popolo d’Italia”, 20 settembre 1922.

il fascismo si formò su un terreno e su una prospettiva “di Sinistra”, che si spostò “verso Destra” nella seconda metà del 1920, attraverso l’innesto dello squadrismo agrario84 . In dissenso con De Felice, Roberto Vivarelli ha ipotizzato che, fin dall’autunno del 1914, col passaggio dal neutralismo all’interventismo, o meglio dalla passione di classe alla passione nazionale, la posizione di Mussolini si ponesse sotto il segno di un nazionalismo “sovversivo”. Nel quadro della crisi post-bellica delle istituzioni liberali, di fronte alla minaccia rivoluzionaria del massimalismo socialista, radicata nella questione contadina, ma alimentata dal mito della rivoluzione russa, il fascismo, pur con mezzi illegali, si fece carico della difesa dello Stato nazionale85 . Emilio Gentile ha seguito le molteplici stratificazioni del percorso ideologico di Mussolini, riconoscendo in particolare l’importanza del mito dello Stato nuovo, maturato sul terreno del radicalismo antigiolittiano – soprattutto “vociano” – pur senza rappresentarne l’unico esito possibile. Seguendo in parte le suggestioni di De Felice, Gentile ha ritrovato, tra la fine del 1920 e l’inizio del 1921, una “svolta a Destra” con cui, attraverso la mobilitazione dei ceti medi, finivano per prevalere le potenzialità reazionarie su quelle rivoluzionarie già presenti nel “fascismo sansepolcrista”86 .

Ciascuno di questi contributi ha illuminato aspetti decisivi del percorso culturale e politico di Mussolini – il socialismo e il sindacalismo rivoluzionario, il radicalismo antigiolittiano, l’interventismo rivoluzionario, il nazionalismo – all’interno del contesto nazionale italiano, nell’età giolittiana come durante la guerra. Come abbiamo visto fin qui, il confronto con l’esperienza rivoluzionaria russa e col modello bolscevico contribuì a ridefinire la prospettiva “reazionaria” di Mussolini nel quadro del dopoguerra europeo. A partire dal 1921, dopo aver a lungo contestato la validità e l’applicabilità della tradizionale dicotomia tra Destra e Sinistra al movimento fascista, e dopo aver a lungo predicato la necessità di distinguere il PSI dal socialismo e dalla classe operaia, Mussolini rivendicò con crescente insistenza la disponibilità a occupare lo spazio politico “reazionario”, “a Destra”. Cosa intendeva con queste espressioni il capo del movimento fascista?

Per cercare una risposta si può partire da un articolo del febbraio 1920, in cui Mussolini definiva Lenin «come il più grande fra i viventi e il più vivente fra i più grandi reazionari d’Europa» – «l’unico che abbia il coraggio di essere reazionario nel senso antico ed in quello moderno (reazione, cioè, a tutte le disintegrazioni economiche, politiche, morali della vita sociale)»87. Tuttavia, solo in un successivo e ben più importante articolo del luglio 1920, L’artefice e la materia, Lenin diventò il principale ispiratore della concezione costruttivista di Mussolini, in cui la politica era assimilata a una sorta di arte plastica, a uno strumento con cui plasmare l’inerte materia umana: «Lenin è un artista che ha lavorato gli uomini, come altri artisti lavorano il marmo e i metalli. Ma gli uomini sono più duri del

84 Renzo De Felice, Mussolini il rivoluzionario, cit., in particolare pp. 40, 296, 391-392. 85 Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo. Vol. I… cit., pp. 259-336. Per il giudizio su De Felice cfr. Id., Benito Mussolini dal socialismo al fascismo, “Rivista Storica Italiana”, LXXIX 1967, pp. 438-458. Per una discussione critica sull’opera di Vivarelli cfr. Marco Bresciani, L’autunno dell’Italia liberale: una discussione su guerra civile, origini del fascismo e storiografia “nazionale”, “Storica”, n. 3 2013, pp. 77-110. 86 Emilio Gentile, Le origini dell’ideologia fascista… cit., in part. p. 273 e Id., Il mito dello stato nuovo. Dal radicalismo nazionale al fascismo, Laterza, Roma-Bari 1999 (nuova edizione riveduta). 87 [Benito] Mussolini, Crepuscoli. I templi e gli idoli, “Il Popolo d’Italia”, 25 febbraio 1920.

macigno e meno malleabili del ferro. Il capolavoro non c’è. L’artista ha fallito. Il compito era superiore alle sue forze».

Mussolini fu attratto dalla «vasta terribile esperienza in corpore vili» nella Russia rivoluzionaria, in quanto esempio di distruzione e di ricostruzione d’un nuovo Stato, un esempio attraverso il quale definire il fascismo. Il confronto con quanto avveniva sotto il regime bolscevico aiutò Mussolini a costruire un modello cui ispirare la costruzione del proprio regime, che affrontasse e risolvesse la questione della «crisi d’autorità» nell’Italia postbellica. Questa era infatti investita dal «caos politico occidentale» che aveva fatto dello Stato una nozione «elastica ed evanescente»: ovunque, «un continuo urto fra autorità vecchie e nuove», «una interferenza o coesistenza di poteri contraddittori» caratterizzava il paesaggio politico dell’Europa post-bellica. Nello specchio rovesciato della Russia di Lenin emergeva la soluzione: «Uno Stato che ha superato la sua crisi d’autorità. Uno Stato nell’espressione più concreta della parola. Uno Stato, cioè un Governo, composto di uomini che esercitano il potere, imponendo ai singoli e ai gruppi una disciplina di ferro, facendo, quando occorre, della “reazione”»88 . Questa riflessione intorno al concetto di «reazione» – ben lontana dall’esaurirsi nella risposta ai nemici della nazione – era strettamente legata in Mussolini alla sua eterogenea formazione politico-culturale e alla febbrile trasformazione del movimento fascista e del suo aggressivo progetto di conquista del potere, nel corso del 1920. Il giorno precedente la pubblicazione di quell’articolo di Mussolini, a Trieste lo squadrismo organizzava la sua prima importante azione violenta, assalendo il “Balkan”, centro di aggregazione sociale e culturale sloveno, ed avviando una brutale offensiva contro gli “slavi” nell’Alto Adriatico89 . Lo squadrismo organizzato nell’area di confine avrebbe costituito da modello per la diffusione, nell’autunno-inverno successivo, del fascismo squadrista nell’Italia centro-settentrionale, dove si sarebbe scatenato contro il movimento socialista, soprattutto contadino. Il discorso di Mussolini, dunque, non era tanto ispirato da una concezione astratta o teorica dello Stato, quanto dal concreto e mutevole rapporto tra caos e Stato, tra distruzione e ricostruzione dell’autorità statale, tra disintegrazione e reintegrazione dell’ordine politico e sociale post-bellico. Se la Rivoluzione russa aveva dimostrato che gli Stati «falliti» potevano essere dissolti, l’esperienza del potere bolscevico rivelava che gli Stati potevano riemergere dall’anarchia. Era una tesi che, in tutt’altro contesto e con altri argomenti, era stata proposta da Piero Gobetti e dal suo «paradosso dello spirito russo»90 .

Mussolini tornò a più riprese sul confronto tra l’esperienza sovietica e quella fascista nel 1922, quando l’offensiva squadrista aveva in larga misura distrutto e neutralizzato i suoi nemici – socialisti e comunisti soprattutto, ma non solo – sollevando la concreta prospettiva della conquista del potere. Dal suo punto di vista, il nuovo Stato sovietico non rappresentava tanto un modello statico – rispetto al quale nutriva dubbi, per il suo estremo

88 [Benito] Mussolini, L’artefice e la materia, ibid., 14 luglio 1920. Sull’importanza di questo testo ha già richiamato l’attenzione Emilio Gentile, Le origini dell’ideologia fascista… cit., pp. 203-205. 89 Cfr. Anna Maria Vinci, Sentinelle della patria. Il fascismo al confine orientale 1918-1941, Laterza, Roma-Bari 2011. 90 Cfr. Vittorio Strada, Introduzione a Piero Gobetti, Paradosso dello spirito russo e altri scritti sulla letteratura russa, Einaudi, Torino 1976. Ringrazio Antonello Venturi per avermi consentito la lettura d’un suo testo inedito che figurerà come Introduzione a una nuova edizione del Paradosso per le Edizioni Gobettiane, di prossima pubblicazione.

statalismo – quanto un motore d’energia, con cui alimentare la sovversione antistatale in Italia e lavorare per la presa del potere fascista. Più che la definizione d’una vera e propria teoria della sovranità statale, infatti, ai fascisti e al loro duce interessava il confronto tra la contingente situazione europea – «occidentale» – e quella della Russia: di qui derivava la rivendicazione d’un nuovo potere, identificato con la fine dello Stato di diritto, e la concezione dello «Stato fascista» come ossimoro che rivelava l’attivismo e il dinamismo intrinseco al fascismo. Invece di designare una posizione politica, la «reazione» nel discorso di Mussolini veniva a definire una svolta epocale non solo nel dopoguerra, ma nella storia europea, rispetto alle quali le forze «reazionarie» dimostravano una maggiore capacità d’adattabilità politica. Un impulso decisivo verso questa svolta fu conferito da Lenin, «più grande reazionario dell’età contemporanea»91 .

Questa interpretazione del dopoguerra europeo era generalizzata da Mussolini in un testo chiave, Dove va il mondo?, pubblicato su “Gerarchia” e in forma abbreviata su “Il Popolo d’Italia” nel febbraio 1922. Spiegava il capo del fascismo:

All’indomani dell’armistizio, il pendolo oscillò violentemente verso sinistra: sia nel campo politico, che nel campo sociale. Due imperi crollarono: quello degli Hohenzollern e quello degli Absburgo, mentre un altro, quello dei Romanoff, li aveva preceduti. [...] Negli anni ’19-’20 tutta l’Europa centrale ed orientale è travagliata dalla crisi politica di consolidamento dei nuovi regimi, aggravata e complicata dalla crisi che chiameremo socialista, cioè dai tentativi di realizzare qualcuno dei postulati delle dottrine socialiste. [...] Non v’ha dubbio che la fine del 1920 segna in tutta Europa il culmine della crisi sociale di “sinistra”. Ma nei quindici mesi intercorsi da allora ad oggi, la situazione è cambiata. Il pendolo volge ora a destra. Dopo l’ondata della rivoluzione, ecco l’ondata della reazione; dopo il periodo rosso (l’ora rossa), ecco l’ora bianca. Come sempre accade, la nazione che più violentemente scartò a sinistra, è, quella che, da qualche tempo, cammina più velocemente verso destra: la Russia. Il “mito” russo è già tramontato.

Mussolini riconosceva un comune destino storico alle «tre nazioni», Russia, Germania e Italia, spinte da un «movimento sociale e spirituale» che si orientava «a destra», intendendo con ciò non tanto l’annullamento delle «esagerazioni estremistiche dell’immediato dopoguerra», quanto «una revisione di valori assai più vasta e radicale». Più che la storia del dopoguerra, a suo avviso, era l’intera storia europea dalla Rivoluzione francese alla Grande Guerra a conoscere una svolta radicale e duratura, che si definiva attraverso il nuovo «orientamento a destra». Il biennio 1919-1920 aveva rappresentato il culmine d’una lunga evoluzione democratica e il punto di partenza della sua reversione, consacrando il passaggio ad un’epoca dominata dalle «nuove aristocrazie», in cui le masse non potevano essere «protagoniste», ma «strumento della storia». Il 1921 aveva segnato la fine del XIX secolo – «il secolo delle rivoluzioni» – e l’inizio del XX secolo – «il secolo delle restaurazioni»: «La rivoluzione è in questa reazione. Rivoluzione di salvezza, perché evita all’Europa la fine miseranda che l’attendeva, se la democrazia avesse continuato a imperversare»92 .

91 [Benito] Mussolini, C’è una reazione..., “Il Popolo d’Italia”, 19 marzo 1922. Questo articolo fu scritto in occasione dell’inizio del processo contro 47 social-rivoluzionari che si tenne a Mosca nel marzo 1922. Mussolini tornò sul tema ne Il processo di Mosca, ibid., 17 giugno 1922. 92 Benito Mussolini, Dove va il mondo?, “Gerarchia”, 25 febbraio 1922. La terza e la quarta parte dell’articolo sono pubblicate anche su “Il Popolo d’Italia”, 26 febbraio 1922. Questo lungo articolo di

Non a caso, questo discorso sulle forme dello Stato fascista si fece più intenso con l’aggravarsi della crisi politica, nel corso del 1922, e con la conseguente, crescente disponibilità dei fascisti ad assumere una diretta responsabilità di potere. In particolare, sollecitato dal dibattito politico e pubblico seguito all’occupazione fascista di Ferrara nel maggio 1922, Mussolini riprese la domanda cruciale se il fascismo fosse «un movimento di restaurazione dell’autorità dello Stato o di sovvertimento della stessa autorità», chiarendo come fosse un falso problema: il vero problema era lo Stato nel contesto di crisi politica del momento. Lo Stato era definito come «sistema di gerarchie», ma la vitalità di queste gerarchie si nutriva dell’«anima» della «parte più eletta» della società. Nella misura in cui la «decadenza delle gerarchie» equivaleva alla «decadenza degli stati», solo una rivoluzione poteva sostituire o rinnovare «le gerarchie decadenti o insufficienti». E qui Mussolini si rivolgeva ancora una volta al modello russo, ma in una chiave nuova:

L’esempio russo è là a dimostrare che “la amministrazione delle cose” provoca la creazione di uno Stato, anzi di un super-Stato, che aggiunge alle vecchie funzioni di tutti gli Stati – guerra e pace, polizia, giustizia, esazione dei tributi, scuole, ecc. – funzioni di ordine economico. Il fascismo non nega lo Stato; afferma che una società civica nazionale o imperiale non può essere pensata che sotto la specie di Stato; non va, dunque, contro l’idea di Stato, ma si riserva libertà di atteggiamento di fronte a quel particolare Stato che è lo Stato italiano.

Il fascismo che si considerava «lo Stato in potenza e in divenire», contrastava e sovvertiva «lo Stato in atto», vale a dire lo Stato liberale che accettava di difendere solo contro i suoi nemici socialisti. L’ostilità fascista per lo Stato liberale era motivata non solo dall’estensione smisurata delle sue funzioni economiche, che ne facevano uno Stato «semi-socialista» e «monopolista», ma anche e soprattutto dalla «crisi delle gerarchie» che erano «senz’anima» e che provocavano la «crisi dello Stato»93 .

Proprio per la sua carica eversiva, tesa a smantellare lo Stato di diritto, la «marcia su Roma» avrebbe a buon diritto potuto definirsi la «marcia contro Roma». Il dispositivo retorico legittimante la «rivoluzione fascista» era pronto ben prima dello svolgimento dell’ottobre 1922 e si dispiegò pienamente nei mesi successivi, in forma di legittimazione retrospettiva. E ancora una volta, riaffiorava il parallelo tra la «rivoluzione di Mosca» e la «rivoluzione di Roma» e l’alternativa – opposta, ma speculare – tra il metodo «russo» e quello «latino»: mentre la prima si era «gettata sulla macchina» dell’amministrazione dello Stato e l’aveva «frantumata in mille pezzi», la seconda non l’aveva demolita «tutta intera e tutta in una volta», ma «per gradi, per pezzi»94. Tuttavia l’ascesa di Mussolini al potere mutò gradualmente ma drasticamente il contesto, la natura e il ruolo del fascismo:

Mussolini fu citato e acutamente commentato da Leo Valiani, Storia del socialismo nel secolo 20° (1900-1944): saggio critico, Edizioni U, Roma 1945, p. 170. 93 Benito Mussolini, Stato, anti-Stato e fascismo, “Gerarchia”, 25 giugno 1922, poi “Il Popolo d’Italia”, 29 giugno 1922. 94 Benito Mussolini, Tempo secondo, “Gerarchia”, gennaio 1923, p. 44. Interessante il fatto che Slonim seguisse le stesse linee argomentative di Mussolini nel confronto tra fascismo e bolscevismo, attraverso la metafora della «macchina statale» nella seconda parte d’un importante saggio: Prošloe i nastojaščee fašizma [Passato e futuro del fascismo] pubblicato nel gennaio e nel febbraio 1923 sul quotidiano dell’emigrazione social-rivoluzionaria a Praga, “Volja Rossii” – cfr. Antonello Venturi, Mark Slonim… cit., p. 150.

la storia delle ulteriori percezioni, interpretazioni e rappresentazioni fasciste dell’Unione Sovietica, ufficialmente sorta nel dicembre 1922 e riconosciuta dal governo di Mussolini nel febbraio 1924, esula perciò da questo saggio.

In conclusione, si può dire che la riduzione del fascismo ad una scala puramente nazionale, tipica di larghissima parte della storiografia, ha posto gravi limiti alla comprensione del suo discorso e della sua visione della crisi del dopoguerra europeo e globale. La proiezione universale del modello fascista e la sua aspirazione a un nuovo ordine europeo e mediterraneo sono state per lo più ricondotte all’influenza della crisi economica mondiale del 1929, all’ascesa al potere del nazismo e alla seconda guerra mondiale. Come abbiamo cercato di dimostrare, invece, un’attenta rilettura dei testi di Mussolini riguardanti la rivoluzione russa e il bolscevismo consente di legare strettamente il fascismo, fin dalle sue origini, al variabile ma cruciale spettro di percezioni e interpretazioni della crisi italiana, europea e globale del 1917-1922.

Ovviamente, la cultura politica di Mussolini a quella data era già in larga misura formata, ed era l’esito del precedente percorso, che aveva sedimentato sindacalismo rivoluzionario, radicalismo antigiolittiano – “vociano” – e nazionalismo. Però, per cogliere significati e implicazioni di questa stratificata e ambigua cultura politica, che contribuì a elaborare il primo fascismo, occorre collocarla all’interno della contingenza post-bellica, in cui la crisi delle istituzioni liberal-democratiche e la conflittualità sociale e politica in Italia è inseparabile da un contesto più generale.

Questo saggio ha cercato di documentare come il confronto con le esperienze rivoluzionarie russe e col nascente regime bolscevico avesse inciso su Mussolini e sul primo fascismo, i quali aspiravano a contenere l’Europa di Lenin e a destabilizzare l’Europa di Wilson, in nome d’un nuovo ordine nazionale e imperiale in cui l’Italia costituisse il centro e l’esempio. Ben lungi dall’esaurirsi in una forma pur radicale di nazionalismo, il progetto fascista fin da subito mirò anche a combattere una “guerra civile europea” che lacerava le nazioni del vecchio continente e a rispondere ad una “crisi eurasiatica” che sconvolgeva i rapporti tra l’Europa e il mondo. Per una tragica ironia, il carattere violento e l’esito catastrofico delle soluzioni fasciste furono radicati anche in questa ricerca d’una nuova Europa, e la loro contraddittoria – e vischiosa – eredità è durata molto più a lungo di quanto si potesse immaginare in quel primo dopoguerra.

This article is from: