Comune di Montescudo Monte Colombo
il
Dialetto aguzza l’ingegno
“Ti ricorderai per sempre del luogo che stai visitando”
Prefazione Il dialetto è emozione, prima ancora che linguaggio. Per tutti noi, è la lingua dei nostri nonni e della nostra terra. Il dialetto racconta, però, anche la nostra vita e il legame con il territorio e la sua storia: in un’epoca di globalizzazione e multilinguismo in cui siamo continuamente bombardati da neologismi e parole straniere ad esempio in inglese e francese, è emozionante scoprire come alcuni oggetti, alcune operazioni e anche alcuni luoghi, possano essere definiti solo e unicamente in dialetto. Non c’è un termine inglese per tradurre il nostro “va là”, ma nemmeno basta l’italiano, che è una lingua straordinariamente ricca, a inquadrare tutti i confini e i significati della parola “pataca”. Probabilmente solo chi vive la quotidianità di questo territorio può governare appieno l’utilizzo di certe espressioni dialettali, ma la cultura, intesa nel suo valore più alto, non può ridursi ad un concetto così semplice di esclusività. La cultura è condivisione, in questo caso, della nostra lingua, delle nostre tradizioni e del nostro passato. Su queste direttrici si sviluppa il progetto “Il dialetto aguzza l’ingegno – Ti ricorderai per sempre del luogo che stai visitando”, che abbiamo ideato per partecipare al bando in materia di salvaguardia e valorizzazione dei dialetti dell’Emilia-Romagna e che ha ottenuto il cofinanziamento dell’80% da parte del’IBC. E’ un progetto che parte, è vero, dalla ricerca storica e documentale, ma che racconta anche una società rurale che, se in gran parte è stata superata dalla modernità, rappresenta comunque le nostre origini. A tal proposito non si può non sottolineare che il Comune di Montescudo-Monte Colombo è stato istituito solo nel 2016, come noto, dalla fusione dei due preesistenti Comune di Montescudo e Comune di Monte Colombo: questo progetto punta dunque a evidenziare quanto questo territorio sia unito nonostante tanti anni di confini amministrativi, a iniziare dal fatto di avere un’unica “lingua”, ma anche usanze e tradizioni identiche e identitarie. Queste sono in sostanza le basi per costruire un senso di comunità, perché è da quelle origini che traiamo forza, coraggio e dignità, sempre più consapevoli del grandissimo valore che rappresentano per la nostra comunità, ma anche per i turisti, il quali sono oggi alla ricerca di esperienze reali, genuine e uniche, quindi legate ad un territorio ben preciso. Cosa c’è, del resto, di più locale del dialetto? Attraverso il dialetto possiamo raccontare la nostra storia, le nostre usanze e anche, perché no, le nostre antiche credenze. Questo ci distingue da qualunque altro luogo e, di fatto, ci rende più interessanti, a patto di renderci conoscibili e riconoscibili. Nella realtà, con le bellissime piastrelle realizzate da Geo Casadei ora sparse per tutto il territorio, con questo libro esplicativo, con la mappa che raccoglie tutti i luoghi in dialetto che abbiamo identificato in questa prima indagine, con le videointerviste pubblicate su YouTube e con il sito web che contiene tutto il materiale del progetto. E’ un prodotto molto duttile, quindi, che può essere utilizzato dai turisti certamente, ma anche dai Cittadini del nostro Comune, sempre attenti a promuovere la memoria locale. Anche se, personalmente, auspico venga studiato soprattutto dalle nuove generazioni, per le quali il dialetto, così come la nostra storia e le nostre tradizioni sono una grandissima eredità per il loro futuro. Dott.ssa Elena Castellari Sindaca di Montescudo-Monte Colombo
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Presentazione progetto Quando si parla di cultura e storia locale, spesso ci si rivolge unicamente al passato, alla ricerca, al recupero di cose, persone e vicende, quasi mai si guarda al presente, né tanto meno al futuro. Questo progetto, invece, pur mantenendo un piede ben piantato nella storia passata di questo territorio, ne proietta l’altro in avanti, quasi a dimostrare non solo continuità, ma movimento, evoluzione. Un po’ come il dialetto, che non è affatto lingua morta in Romagna, ma anzi mantiene vive tradizioni e racconti che altrimenti si sarebbero persi nel tempo. Scopo di questo progetto non è quindi solo recuperare queste esperienze - fisiche o intangibili – per creare un prodotto culturale, ma trasformare esso stesso anche in un prodotto turistico. Come interagire, quindi, con il semplice visitatore che passa anche per caso in un luogo e, attraverso il dialetto, colpire la sua curiosità? Anche noi, come da titolo, abbiamo “aguzzato l’ingegno” e abbiamo costruito una serie di call to action in tal senso. La prima è la più visibile: la piastrella con un nome dialettale dipinto a mano. Ovviamente il nome è legato al luogo in cui è posizionata la piastrella, che magari non ha mai avuto lo stesso toponimo, oppure lo ha cambiato nel corso degli anni, oppure è il nome di una cosa che non esiste nemmeno più, perché è andata distrutta o perché l’usanza da cui derivava non fa più parte della società attuale, mentre lo era per il mondo rurale. La prima fase del progetto, quindi, è stata caratterizzata da questa ricerca: insieme alle Associazioni del territorio APS “Noi del Campanone”, Pro Loco di Montescudo, Pro Loco di Monte Colombo, Comitato Turistico di Valliano, E Poz dla Piva e Quei dla Madona de Pien, abbiamo definito un metodo di lavoro puntuale, che ci permettesse di avere sia testimonianze dirette, sia di individuare attraverso i contatti sul posto i luoghi, i personaggi e anche i miti legati al passato. Una ricerca finalizzata a trovare il nome in dialetto di tutti i luoghi principali, a partire da strade e piazze, proseguendo con monumenti, immobili storici, ma anche di nuclei abitativi isolati e luoghi di aggregazione o di pubblica utilità, come i lavatoi. Non si può negare che la lista di luoghi con caratteristiche tipiche uniche era ed è infinita, tanti sono gli accadimenti legati a singoli luoghi, edifici, vie, sentieri o semplici terreni. Occorreva quindi dotarsi di una serie di criteri in funzione agli obiettivi iniziali, tra cui spicca ovviamente il nome dialettale che la gente della zona aveva dato ai determinati luoghi. In chiave turistica, invece, si è scelto di estendere la ricerca di detti luoghi a tutto il territorio comunale, senza privilegiarne una sola parte, ma disegnando, per quanto possibile, una “mappa” del Comune di Montescudo-Monte Colombo basata appunto su questi siti. Questo servirà anche per agevolare l’ipotetico viaggiatore/ visitatore nel riconoscere un percorso e, una volta individuato il luogo in cui si trova, anche di riconoscersi come parte dello stesso, stimolando la sua curiosità a recarsi in tutti gli altri luoghi marcati sulla mappa. Una volta definiti i criteri, è stata condivisa con l’Amministrazione Comunale una lista definitiva dei luoghi, sia quelli individuati durante la ricerca, sia quelli indicati dalle singole Associazioni, che a loro volta su nostro invito, avevano coinvolto anche i loro associati.
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Nella seconda fase, la ricerca si è quindi fondata sul recupero storiografico di documenti e testi, ma anche testimonianze dirette di chi abita e/o conosce tali luoghi e frazioni. Allo stesso tempo, anche grazie agli studenti del Corso di Fotografia Digitale, svoltosi nel 2019 presso la Biblioteca Comunale e curato da Reflex Formazione & Informazione di Riccione, sono stati individuati fisicamente e fotografati tutti i luoghi prescelti, con grande attenzione a quelli che, per ovvie ragioni, non esistono più nella realtà ma appunto solo nel ricordo e nel mito delle credenze popolari. Per tutti questi luoghi, come anticipato sopra, è stata creata una piastrella in terracotta da posizionarsi in prossimità del luogo stesso, come una originalissima “cartellonistica”. La scelta della terracotta si basa espressamente sul legame che questo territorio e in particolare la frazione di Santa Maria del Piano hanno storicamente con la produzione ceramica: non a caso è stato coinvolto e incaricato dell’esecuzione materiale delle piastrelle il maestro Geo Casadei, uno degli ultimi vasari della zona, che con la sua attività porta avanti ancora oggi una tradizione secolare lungo questa sponda del fiume Conca. Una volta cotta la piastrella una prima volta, sono stati dipinti a mano uno ad uno i singoli nomi in dialetto, utilizzando i colori scelti dallo stesso Geo Casadei tra quelli tipici della Valconca (da non confondere quindi con il bianco e blu, caratteristici della maiolica faentina). Lo stesso criterio, poi, verrà utilizzato anche dallo studio grafico EyesCream per l’elaborazione della linea grafica coordinata e la gradazione colore del libro e di tutto il materiale grafico inerente il progetto. Ogni singola piastrella, quindi, è stata inserita in una cornice dalla duplice funzione: essa serve da supporto per applicare la piastrella stessa a pareti o pali di sostegno, ma anche da “cornice” vera e propria, su cui inserire il nome del progetto e il QrCode che rimanda alla scheda del luogo e alle pagine web dedicate al progetto. Inoltre, in diversi casi, il link inserito in tali piastrelle porterà il visitatore sulla piattaforma YouTube su cui sono state caricate le testimonianze raccolte e videoregistrate durante i vari sopralluoghi, in collaborazione con alcuni professionisti, tutti volontari della locale associazione E Sarà Gioia. Nelle pagine web, inoltre, il visitatore può trovare l’intero progetto, tutte le fotografie in formato e colorazione originale, le schede di tutti i siti ed eventuali video collegati, oltre naturalmente alla versione digitale del libro e della mappa (che in questo caso ha tutti i luoghi georeferenziati per un utilizzo diretto su smartphone e tablet). A tal proposito, merita una spiegazione anche l’elaborazione del libro stesso, che si caratterizza sia come un classico prodotto editoriale, sia come strumento turistico, a iniziare dalla mappa dei “luoghi del dialetto” che è di fatto estraibile e utilizzabile quindi in maniera anche distinta dal volume stesso. Il prodotto editoriale, curato in collaborazione con il giornalista Daniele Bartolucci, che ha l’incarico di Ufficio Stampa del Comune, ha infatti tutti i canoni del saggio di storia e cultura locale, con l’originalità di trattare molte delle ricerche con un linguaggio e un approfondimento volutamente non accademico, ma più vicino alle persone e ai personaggi intervistati, sfruttando quell’alone di mistero, superstizione e fantasia che il gergo dialettale spesso genera in chi lo pronuncia, ma anche in chi lo ascolta, o legge come in questo caso. Dott.ssa Federica Fanti Coordinatrice del progetto
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Sommario Borgo fortificato - Albereto Borgo vecchio - San Maria del Piano Cancello del Colonello - Montescudo Cantina e granaio - Monte Colombo Casa della Stellona - San Savino Castello - San Savino Celletta - Croce Chiesa (ex) della Serra - Trarivi Chiesa di Gaiano - San Maria del Piano Chiesa della Madonna del Latte - La Cella, Montescudo Chiesa della Pace e Museo - Trarivi Chiesetta di Casiccio - Croce Crinale della Serra - Croce Fattoria del Piccione e Chiesa - San Savino Fontana - Taverna Fonte - Monte Colombo Fonte - San Savino Ghetto di Ca’ Franceschino e antico torchio - Valliano Ghiacciaia - Monte Colombo Ghiacciaia (ex) - Montescudo Giardino degli asinelli - Montescudo Gioco della palla bracciale - Montescudo Gioco delle bocce - Monte Colombo Grotta dei Gaspari (Rifugio) - San Maria del Piano Il Trebbio - Croce La grande quercia - Valliano ~4~
pag. 08 14 18 20 22 24 28 30 32 36 40 44 48 50 52 54 56 58 62 64 68 70 72 74 78 80
La Patarina - Croce Lavatoio - Monte Colombo Lavatoio - Montescudo Lavatoio - San Maria del Piano Lavatoio - Taverna Lavatoio - Valliano L’incrocio - San Maria del Piano Molino di Ca’ Renzo - Valliano Monte dei bambini - San Savino Mulino Bernucci - Santa Maria del Piano Oratorio di San Marco - Croce Oratorio Palazzini - Croce Palazzo comunale - Monte Colombo Palazzo comunale e teatro - Montescudo Palazzo dell’avvocato - Monte Colombo Resti del Castello di Croce - Croce Ruota degli Esposti (ex) - Montescudo Santuario e Museo Etnografico - Valliano Strada sotto il ponte - San Maria del Piano Torre civica - Albereto Torre civica - Monte Colombo Torre civica - Montescudo Torre e casa Acquaviva - Chitarrara, Taverna Torrioncino - San Savino Torrione circolare - Monte Colombo Vicolaccio - Taverna ~5~
82 84 88 90 92 94 96 100 104 106 108 110 114 118 122 126 128 134 136 140 144 146 150 152 154 156
Montescudo - Monte Albereto - Croce - Monte Colombo Montescudo - San Maria del Piano San Savino - Taverna - Trarivi - Valliano
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Colombo
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Il Campanile
Albaréd
Borgo fortificato di Albereto
Già citato nel 1233, il borgo di Albereto viene rafforzato da Sigismondo Malatesta intorno alla metà del Quattrocento, con la realizzazione della cinta muraria secondo i canoni della tipica “scarpata malatestiana”, completata dalle tre forti torri circolari, la torre campanaria e la terrazza belvedere da cui si gode il panorama di tutta la costa riminese. Il nome Albereto è, però, più antico dell’epoca malatestiana e sembra derivare proprio dalla sua posizione: un tempo il nucleo abitato era infatti immerso in un bosco di querce, tigli, pioppi e pini, di cui oggi si conserva una macchia boschiva di circa 25 ettari. Si tratta di una delle aree boschive più incontaminate del riminese ed, anche per questo, molto apprezzato dagli amanti della natura e delle passeggiate tra i boschi (Albereto è infatti raggiungibile anche attraverso il sentiero 019RN, in quanto si trova sul percorso escursionistico regionale). Per quanto riguarda il borgo fortificato, invece, grazie a diversi restauri effettuati nel 2003, è diventato soprattutto negli ultimi anni un luogo esclusivo e meta privilegiata da turisti e visitatori, affascinati dalle caratteristiche vie strette e basse case in pietra, ma anche dallo splendido panorama che si può godere dalla grande “terrazza” che si affaccia sulla vallata del Marano.
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Fototeca IBC del Servizio Patrimonio culturale della Regione Emilia-Romagna
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e Bourghitacc
Borgo vecchio di Santa Maria del Piano
Tra il 1200 e il 1300, il primo nucleo abitativo di Santa Maria del Piano si sviluppava attorno a soli tre edifici: una piccola chiesa, il mulino e una casa padronale. La vita era quindi scandita dai ritmi dell’agricoltura e dal calendario religioso, come in tanti altri borghi di campagna. Solo con la scoperta della “prodigiosa immagine della Madonna del Piano”, ad opera di una pastorella della zona, questo borgo conobbe una nuova fama, dovuta in gran parte all’interesse suscitato da questo avvenimento soprattutto tra i fedeli. Dopo alcuni anni di visite continue, era ormai chiaro che la vecchia chiesa non sarebbe più bastata, per cui si iniziò a pensare al suo ampliamento, così come ad una crescita dell’abitato. La nuova chiesa dedicata a Sant’Apollinare è stata costruita tra il 1736 e il 1738, mentre il borgo ha assunto le fattezze attuali nel corso degli ultimi due secoli e mezzo. In particolar modo, gli edifici che sono stati eretti lungo la via Santa Maria del Piano di Sopra tra la chiesa e via dei Vasai, sono così ravvicinati tra loro che pur seguendo la linea della strada, ne hanno di fatto ridotto la carreggiata, con una strettoia molto evidente se guardata da lontano. Per gli abitanti della zona, spesso artisti della terracotta, che vedevano ogni giorno quel particolare, non era solo stretto, ma anche brutto e un poco pericoloso, da qui il nome “borgataccio”.
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e Cancél de Culunél
Il Cancello del Colonnello di Montescudo La Seconda Guerra Mondiale ha lasciato indelebili ferite in tutto il territorio montescudese, come in tutta la Valconca, attraversata come noto dalla Linea Gotica Orientale, ma non ci sono solo grandi architetture distrutte o semi distrutte dalle bombe a testimoniarlo. Ad esempio, il grande cancello in ferro a due ante dell’abitazione un tempo abitata proprio da un Colonello e che si trova sull’attuale via Roma di Montescudo tra il civico 37 e il 39, porta ancora i segni di quel conflitto: graffiato, storto, piegato, abbozzato da più di 150 colpi tra schegge e proiettili. Tutto questo è possibile grazie alla scelta operata dai proprietari della residenza, che hanno deciso di mantenere visibile la testimonianza della guerra restaurando il cancello, senza occultarne le ferite.
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la Canténa e ‘e Granér
Cantina e granaio di Monte Colombo
Accanto all’imponente Palazzo dell’Avvocato è ubicato un fabbricato agricolo a due piani che era utilizzato come cantina e granaio. Al primo piano era stoccato il grano in grandi quantità mentre il piano terra era adibito a lavorazione dell’uva e cantina, l’uva proveniva dalle colline attorno a Monte Colombo. Le voci del paese dicono che sotto al borgo ci siano dei cunicoli in cui i Malatesta custodivano il grano.
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la Chésa d’la Stilona
Casa della Stellona di San Savino L’imponente abitazione della famiglia Fabbri, per grandezza e accoglienza, ha preso, tra gli abitanti del luogo, il nome della proprietaria, la signora Stella, chiamata affettuosamente “la Stellona” proprio per le sua fisicità, ma anche per la sua bontà d’animo. Si narra infatti che avesse una spiccata predilezione per i bambini, con cui instaurava un rapporto amichevole, tanto da trascorrere con loro tanti momenti. Nella San Savino degli anni 50’, solo pochissime persone possedevano la televisione e non era per niente raro che queste la mettessero a disposizione di parenti, amici ma anche vicini di casa e semplici conoscenti. Dalle testimonianze raccolte da diversi “ex bambini di San Savino”, oggi ormai adulti, quelle rare occasioni di guardare la televisione li riempivano sempre di stupore e lo si doveva alla presenza di questo moderno elettrodomestico nel locale circolo ACLI, che aveva sede proprio a pochi passi dalla casa dei Fabbri. La “Stellona” non perdeva quindi l’occasione di guardare insieme ai bambini i cartoni animati, anche se spesso si addormentava e veniva risvegliata di soprassalto dalle risate dei giovanissimi spettatori, che si divertivano ancora di più a vedere ogni volta la sua reazione.
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e Castél ad San Savén Castello di San Savino
Il Castello di San Savino, chiamato all’epoca Castrum Sancti Savini, è un imponente borgo fortificato eretto all’inizio del XVI secolo. Il nucleo abitativo risulta ben più antico infatti si è sviluppato dall’alto medioevo grazie alla presenza della pieve dedicata a San Savino e documentata almeno dal VII secolo. Questa fu per molti secoli il principale presidio ecclesiastico di tutto il territorio circostante, Coriano e Montescudo compresi, oggi purtroppo non più esistente. Inoltre la posizione strategica, sulla strada più importante che univa Rimini e Coriano a Montefiore e Urbino, era del resto molto ambita. Ancora oggi, l’abitato è racchiuso da una cinta muraria in mattoni ben conservata e arricchita da 4 torrioni agli angoli (quelli anteriori ospitavano un’osteria e la fucina del fabbro), mentre l’ingresso è caratterizzato da un’alta torre passante ornata da tre stemmi lapidei a cui è stato aggiunto l’orologio in epoca recente. Non ci sono più i resti, ma testimonianze locali raccontano che nella porzione retrostante, fuori dalle mura, era presente anche una presa d’acqua, con cui le donne lavavano i panni.
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Fototeca IBC del Servizio Patrimonio culturale della Regione Emilia-Romagna
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la Cilèta
Celletta di via Palazzo Croce Posta lungo la strada di Palazzo di Sotto (e Palaz in dialetto), la celletta votiva mariana a stele è stata costruita dalle famiglie della località, in particolare la Andreini (detti Casciol), come ringraziamento per essere sopravvissuti al passaggio del fronte di guerra del settembre 1944, come recita l’iscrizione: “P.G.R. nei combattimenti dal 1 al 15.9.1944 le famiglie riconoscenti eressero”. In particolare la celletta è stata realizzata dai sopravvissuti ai bombardamenti che avevano cercato riparo in un vicino rifugio, colpito da proiettili sparati da navi alleata, dal mare al largo di Riccione, che produssero morti e feriti tra i civili. Nel territorio di Croce non ci sono altre cellette simili a ricordare analoghi episodi di bombardamenti di rifugi e stragi di civili, ad esempio sul Monte di Croce (e Mont in dialetto), che quindi non conservano alcuna testimonianza tangibile.
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la Cisa d’la Sèra
Chiesa della Serra di Trarivi
La frazione di Trarivi è una delle aree abitate dell’intero Comune con più “cicatrici” della Seconda Guerra mondiale: dai rifugi alla Chiesa della Pace semi distrutta, sono tanti i segni evidenti. Ma ce ne è uno meno evidente, perché non esiste più e al suo posto è stata eretta un’altra costruzione: ai margini della strada provinciale 41 si può infatti trovare una moderna celletta (costruita nel 1987) dalle forme inusuali, che è posta a ricordo della Chiesa della Serra, distrutta dai bombardamenti del settembre 1944. Si trattava di un edificio di culto fondato nel 1747 a cui la comunità locale era fortemente legata, tanto che la celletta è stata voluta proprio a ricordo di quel luogo, lì dove sorgeva la vecchia Chiesa della Serra (dal nome della via che ancora oggi le passa davanti): la costruzione ha fattezze che ricordano un tempietto, quasi a certificare che si tratti di un edificio commemorativo. Come altri siti di questa vallata, del resto, anch’essa testimonia il drammatico passaggio della Seconda Guerra Mondiale.
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la Cisa d’Gaién Chiesa di Gaiano
A poca distanza dalla frazione di Santa Maria del Piano, sulla sommità di un rilievo, si trova la chiesa di Gaiano: un luogo che, nonostante le poche testimonianze architettoniche oggi ancora leggibili, nonché inglobate in altri edifici ristrutturati, nasconde una lunghissima e importante storia. Le vicende del Castrum Gajani, così chiamato in origine, emergono infatti dalla discussa donazione di Ottone I, Imperatore del Sacro Romano Impero, che nel 962 concesse il feudo ai Conti di Carpegna. L’importante famiglia lo mantenne fino al 1233, quando si sottomise al Comune di Rimini. Dal Trecento, invece, il sito sarà annoverato come “Chiesa di Sant’Angelo di Gajano”. Oggi è possibile leggere la configurazione dell’antico castrum nell’abitazione più grande di Gaiano: l’interno è disposto a diverse altezze, con muri di notevole spessore, mentre una porzione più alta e di base rettangolare indica che quella poteva essere l’antica struttura del mastio. Ancora esistente, seppur rimaneggiato, è anche l’oratorio dedicato a San Michele Arcangelo, in cui ancora oggi viene officiata la messa, una volta all’anno la domenica successiva al 29 settembre, giorno in cui si celebra il Santo.
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L’edificio sacro, a dimostrazione della sua rilevanza, rimase parrocchia fino al 1727, quando la carenza di rendite portò il parroco Clemente Clementi di San Clemente a chiedere al Vescovo di Rimini l’annessione alla Parrocchia di Sant’Andrea del Gesso: l’approvazione arrivò quindi anche dal Cardinale Lambertini, che sarebbe diventato poco tempo dopo Papa Benedetto XIV. L’esterno della Chiesa è caratterizzato da una bella muratura in ciottoli e pochi mattoni, mentre la sommità è conclusa da un campanile a vela. L’interno si presenta semplice, ad aula unica: sulla pala d’altare è raffigurata la Vergine con il Bambino, Sant’Andrea e San Michele Arcangelo.
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la Madona de lat
Chiesa della Madonna del Latte La chiesetta di via Comanduccio, poco distante dalle mura del borgo di Montescudo, al di là dell’apparente semplicità, racconta invece di originali usanze legate al passato e di tradizioni popolari che ancora oggi vengono rinnovate dagli abitanti della zona. Il legame della comunità con questa piccola chiesa trova conferma anche nel recente restauro, che ha coinvolto soprattutto l’interno, con una nuova pavimentazione e nuove rifiniture. Solo una nicchia non è stata toccata dalla ristrutturazione ed è proprio a questa cavità che si lega la storia della Madonna del Latte. Tutto nasce, come spesso accadeva nelle comunità rurali, da una problematica: in questo caso l’allattamento dei propri figli, perché se la madre non era in grado di soddisfarvi, non si poteva certo andare in farmacia o al supermercato a procurarsi il latte in polvere. Al massimo si poteva ricorrere a una balia, ma era una soluzione molto costosa che le famiglie contadine non potevano permettersi. Ed è in questo contesto che a Montescudo e dintorni si sparse la voce che questa Madonna poteva invece aiutare queste giovani mamme. Oltre alla supplica, però, occorreva anche grattare un po’ di muro dalla nicchia e mangiare quella polverina. Credenza o meno, molte donne testimoniarono effettivamente questo accadimento e ben presto la chiesetta fu meta di numerose puerpere che giungevano anche
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dai paesi vicini per pregare e per prelevare la “polvere miracolosa”. Per questo motivo è da tutti conosciuta come “Chiesa della Madonna del latte”, nonostante sull’altare non sia nemmeno presente alcun dipinto con questa iconografia.
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la Cisa vecia d’Trarei
Chiesa della Pace e museo, ex Chiesa di San Pietro di Trarivi Le origini della Chiesa della Pace sono antichissime, tanto che alcuni documenti conservati alla Biblioteca Gambalunga di Rimini la menzionano già nell’anno Mille, come abbazia benedettina e ancora prima come “tempio dedicato agli idoli”. La sua stessa collocazione, sulla collinetta che domina la frazione di Trarivi, ne denota l’importanza per tutta la comunità locale, oggi come nei secoli passati. L’aggettivo “vecia” che le viene attribuito in dialetto non è però riferito all’età, bensì alla funzionalità religiosa ormai perduta da tanti anni, a vantaggio della chiesa “nuova” di Trarivi. Purtroppo, la sua posizione fortemente strategica, è stata anche la sua più grande sfortuna: occupata militarmente dai tedeschi durante la Seconda Guerra Mondiale perché consentiva un’ottima visuale sull’avanzamento degli alleati, divenne ben presto un obiettivo per questi ultimi da conquistare ad ogni costo. Così, attaccando con 45 carri armati, i soldati inglesi conquistarono Trarivi e la collinetta, con l’antica chiesa ormai ridotta a dei ruderi a causa dei loro stessi bombardamenti.
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Il restauro conservativo è iniziato nel 1989 si è concluso nel settembre del 1991 con il dono da parte dei veterani che qui si sono affrontati, della Campana della Pace che reca la scritta “La guerra mai più – War never again – Nie wieder Krieg – I veterani dei due eserciti alla Chiesa della Pace e della riconciliazione”. La Chiesa si presenta comunque ancora oggi con tutta la sua forza evocatrice: a cielo aperto, con le pareti crollate, il pavimento spezzato e le decorazioni barocche a brandelli. Era ed è, quindi, ancora l’edificio che domina la collina di Trarivi e a cui la comunità è legata. Non fosse altro perché qui vengono ancora allestiti eventi e spettacoli, oltre al fatto che nella canonica è allestito il Museo Storico della Linea Gotica Orientale, che conserva una vasta collezione di fotografie, reperti bellici e giornali dell’epoca. Una meta di tanti appassionati e turisti, che spesso la raggiungono attraverso il “Sentiero dei Musei”, che la collega il vicino Santuario di Valliano tramite una piacevole passeggiata immersa nel verde.
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la Cisa ad G-sèc Chiesetta di Casiccio
Il Campanile
A poca distanza dal Santuario di Valliano in via Casiccio si trova un caratteristico oratorio di campagna dedicato alla Madonna che è stato gravemente danneggiato dalla Seconda Guerra Mondiale e ricostruito nelle attuali forme. Sulla targa posta in facciata è incisa la data di costruzione 1832, qui era venerata l’immagine della Vergine Refugium peccatorum. La chiesolina è caratterizzata da un paramento murario in ciottoli e laterizi, la facciata è ingentilita da leggere modanature e conclusa da un timpano in mattoni, probabilmente di più recente costruzione. Svetta sopra il tetto in coppi un grande campanile a doppia vela, tipico elemento architettonico dell’area marchigiana. Nella zona absidale esterna è presente una decorazione in mattoni che compone il monogramma “M D” e sotto a questo sono inserite due mattonelle decorate con elementi ad archetto, molto probabilmente si tratta di materiale di rimpiego. L’interno dell’oratorio si presenta semplice ed autentico: ad aula unica con la zona absidale rialzata e incorniciata da un arco a tutto sesto in laterizio, sulla parete dietro all’altare è presente la croce tra due statue della Vergine. in via Casiccio si trovava anche una vecchia fonte, oggi difficilmente riconoscibile perché abbandonata e ricoperta dagli arbusti, ma probabilmente ancora attiva.
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Il Campanile
la Sèra
Crinale della Serra di Croce Il crinale della Serra è una strada panoramica che collega da tantissimo tempo la strada di Passano a quella di Croce ed è questa sua caratteristica che l’ha resa una delle vie più utilizzate dagli abitanti della zona per “scollinare” da una parte all’altra della vallata. Nel suo punto più alto si nota ancora il basamento di una grande quercia oggi purtroppo scomparsa, per cui è difficile immaginare l’enormità della sua chioma: al tempo della Seconda Guerra Mondiale, però, doveva essere davvero imponente perché proprio nascosta tra i rami e le foglie, i soldati tedeschi avevano posizionato una mitragliatrice che, si dice, abbia tenuto bloccato il fronte degli alleati per parecchi giorni. La mitragliatrice sfruttava infatti l’ampissima visuale che questo crinale permetteva di avere già al tempo su tutte e due le vallate, verso il mare e verso l’entroterra, fino al Monte Titano su cui si sviluppa la Repubblica di San Marino. Proprio per questi panorami mozzafiato, il crinale della Serra è oggi molto utilizzato da cicloamatori e amanti delle passeggiate. Da quassù si può notare anche il lago del Capannino, oggi all’interno dell’azienda agricola omonima, che prende il nome dalla sorgente che ha sempre dato la preziosa acqua agli abitanti della zona, la “Sorgent de Capannein”.
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Canténa ‘d Masèn
Fattoria del Piccione e Chiesina di San Savino
Contiguo al Castello di San Savino sorge un grande complesso padronale da cui la famiglia Massani e successivamente i Conti Spina, conducevano il proprio podere agricolo. Nonostante non sia possibile dire con certezza la data di costruzione di questi immobili, sappiamo che erano già presenti nel Catasto Pontificio del 1835. Varcando l’imponente cancello in ferro battuto su cui sono inserite le iniziali GM di Guglielmo Massani, colui che creò la fattoria, ci si lascia alle spalle l’edificio residenziale e si entra nella suggestiva corte con pozzo, ingentilita da un giardino molto curato in cui svettano alcuni maestosi pini. Altrettanto graziosa è la chiesetta privata inserita nel complesso immobiliare alla cui sommità si eleva il campanile a vela. Il cuore pulsante della fattoria era, e rimane ancora oggi, il lungo edificio in mattoni edificato dopo il 1881 nel cui piano interrato, da oltre cento anni, si produce vino e che sorge sull’antico fossato del Castello, con il quale condivide le mura e ne ingloba in parte un torrione. Oggi il complesso immobiliare è conosciuto come Fattoria del Piccione, nata nel 1989 come azienda agricola della famiglia Pasini, diventata anche una rinomata cantina che apre le sue porte per visite e degustazioni.
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la Funtèna Fontana di Taverna
E’ uno dei monumenti simbolo di Taverna e, probabilmente, uno dei punti di riferimento più famosi tra le migliaia di cicloturisti che percorrono queste strade ogni anno. Un tempo, quando l’acqua che ne sgorgava dalle fontanelle era potabile, si può immaginare quanto fosse importante per gli abitanti così come per i passanti. Al di là dell’utilizzo, questo monumento posizionato all’incrocio tra via Indipendenza (SP 18), via G. Matteotti e via Valbruna in Conca, resta comunque il simbolo della frazione, con la sua caratteristica fattura, che lo rende alquanto originale: la bella fontana è infatti sormontata da un obelisco con quattro getti d’acqua che bagnano altrettante vasche dalla forma arrotondata. L’opera risale al 1869, quindi è di qualche anno precedente al lavatoio che si trova a poca distanza da essa, proprio sotto il ponte sul Rio Calamino.
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la Fonta
Fonte di Monte Colombo
L’acqua è da sempre un bene prezioso per tutte le comunità rurali e avere a disposizione una sorgente ha rappresentato nei secoli un grande vantaggio. Forse anche per questo gli abitanti di Monte Colombo hanno mantenuto ben nascosta nella boscaglia la loro antica fonte, la cui origine risale a “tempi immemorabili”, come riportano alcuni documenti comunali. Non è comunque difficile raggiungerla, a piedi o anche in mountain bike come fanno tanti turisti e sportivi: partendo dalla frazione di Taverna, infatti, sale fino a qui una strada selciata a gradoni di origine antichissima (via Acquabona), riportata alla luce solo nel 2004 grazie ad una ricerca incrociata tra il catasto Calindri e le testimonianze raccolte tra la popolazione più anziana. Oppure si può scendere dal borgo di Monte Colombo lungo un sentiero di circa 200 metri che porta poi anche al vecchio lavatoio che è direttamente collegato all’antica sorgente, la quale rappresenta la sua principale fonte di approvvigionamento d’acqua. La fonte - che in alcuni documenti è citata anche come “i pozzi della Compagnia” - oggi si presenta come un semplice foro rettangolare nel terreno circondato da ciottoli e da pietre, quasi sempre colmo d’acqua. Per proteggere la sorgente è stata creata una palizzata in legno per contenere eventuali cadute del terreno soprastante o di altro materiale che avrebbe potuto inquinare l’acqua.
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e Poz d’la Piva Fonte di San Savino
Il pozzo dell’antica Pieve di San Savino, recuperato recentemente dai volontari dell’omonima associazione, era uno dei tanti pozzi d’acqua presenti sul territorio e, nonostante fosse tra i più belli architettonicamente, non era sicuramente uno dei più comodi, visto che la strada principale, in passato, correva sopra la collina della Pieve e non, come oggi, di fronte al pozzo stesso. A parte tutto questo, era molto frequentato e tantissime persone erano solite rifornirsi di acqua da questa fontanella. In particolare era molto usata dalle cuoche della zona, le quali reputavano l’acqua di questo pozzo la migliore di tutto il circondario per cuocere i fagioli secondo un’antica e prelibata ricetta locale. Una conferma a questi racconti si trova nel fatto che San Savino fosse rinomata per le acque minerali chiamate “Acqua salina e Acqua marziale amara di San Savino”, la cui sorgente più famosa era quella “ma la Vala”: erano acque molto rinomate, tanto che tantissime persone erano solite recarsi a San Savino anche da località molto distanti, proprio per soggiornare in queste zone e trarre beneficio dal berle quotidianamente.
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e Ghèt d’Ca’ Franzchin
Ghetto Ca’ Franceschino e torchio
Il Ghetto di Ca’ Franceschino (e ghèt d’Ca’ Franzchin) è un agglomerato di case rurali che il tempo ha lasciato inalterato e dove si ritrovano i ritmi e il sapore autentico della campagna, comprese le galline e altri animali da cortile che animano allegramente l’aia. Posto a metà del “Sentiero dei Musei” tra il Santuario di Valliano e la Chiesa della Pace, il Ghetto è circondato dalle dolci colline coltivate ed è composto da un insieme di varie abitazioni accorpate in diversi periodi, come dimostrano le differenti altezze dei tetti. Le cadute di intonaco fanno riemergere i muri in ciottoli e mattoni, mentre i portoni d’ingresso e alcune finestre hanno cornici in laterizi lasciati a vista. Custodito come in un museo vivente, all’interno di uno di questi fabbricati è rimasto intatto un pezzo di storia locale: si tratta di un enorme torchio in legno i cui elementi laterali arrivano fino al soffitto, dove sono stabilizzati da un’altra trave in legno di dimensioni impressionanti. Dalla macinatura e pressatura delle olive, il liquido scolava in un grande recipiente sotto al torchio, fino a sbucare nell’ambiente accanto, posto qualche gradino più in basso, dove veniva infine raccolto.
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~ 59 ~ foto: Giancarlo Frisoni
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foto: Giancarlo Frisoni
Fino a pochi decenni fa, questa attività era molto florida in queste zone, con tanti contadini che portavano qui le loro olive da lavorare. La produzione di olio, infatti, è una delle attività più antiche e coinvolgeva tantissime persone: non avendo infatti le tecnologie moderne per la raccolta, ad esempio, venivano impiegate tutte le “braccia” possibili, comprese quelle dei figli più giovani, per raccogliere tutte le olive dagli alberi. Un lavoro lunghissimo, che per essere completato, richiedeva a volte diversi mesi, tanto che la raccolta iniziava tra la fine di ottobre e l’inizio novembre, ma poteva protrarsi fino all’anno successivo e non era affatto raro che si dovesse perfino lavorare sotto la neve.
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Il Campanile
la Cunsérva
Ghiacciaia di Monte Colombo
All’interno delle imponenti mura che cingono il borgo storico di Monte Colombo era presente almeno fino all’inizio del Novecento una grande ghiacciaia, la quale - si dice - potesse contenere fine a 120 carri di neve. Come in altri manufatti di questo tipo, infatti, la neve veniva raccolta e pressata in grandi cavità, che in questo caso erano state ricavate proprio all’interno delle mura. Oggi non esiste più, in quanto la ghiacciaia franò portando con sè un lungo tratto di mura, probabilmente attorno al 1930-35, e a seguito di questo evento fu chiusa per sempre. Con un occhio particolarmente attento, comunque, si può notare l’area che è stata ricostruita e dietro cui c’era la vecchia ghiacciaia: infatti il tratto restaurato mostra una minore adesione di materiale vegetale come muschi e licheni. Anche senza averne la possibilità di calcolarne i volumi, sappiamo che dovevano essere comunque importanti: la neve pressata era infatti immessa da sopra alle mura, ma sotto alla ghiacciaia, alla base delle mura quindi, era presente una porta in metallo che immetteva in una grande stanza adibita a frigorifero, resa fredda dalla neve e dal ghiaccio che gravava sopra di essa. Poco distante dalla ghiacciaia, infatti, sempre sopra alle mura, c’era un mattatoio che era posto all’interno di un torrioncino (oggi scomparso): l’unica traccia rimasta di questa attività è una finestrella ad arco, ora tamponata, che fungeva da scarico del macello. Questa vera e propria “cella frigorifera” artigianale era molto importante e altrettanto famosa nel circondario: qui dentro, infatti, veniva stoccata e mantenuta la carne anche dei macellai di Cattolica.
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la Cunsérva Ghiacciaia di Montescudo
L’antica ghiacciaia di Montescudo ha rappresentato nel corso dei secoli un punto di riferimento per gli abitanti del luogo e, soprattutto, per le attività economiche che attorno ad essa hanno gravitato fino al recente passato, prima che venisse soppiantata dalle moderne tecnologie. La sua storia parte infatti nell’epoca malatestiana, quando fu costruita per trasformare la neve raccolta durante l’inverno in ghiaccio da utilizzare nei mesi più caldi. Nonostante questi manufatti siano abbastanza comuni nella Valconca e anche nella Valmarecchia, la struttura e il procedimento stesso per creare il ghiaccio realizzati a Montescudo sono abbastanza originali: la neve, infatti, veniva raccolta e gettata in questi grandi contenitori scavati nella terra e ricoperta di mattoni e pietre, poi veniva ricoperta con uno strato di sfalci e veniva quindi pressata. Si trattava invero di un’operazione che coinvolgeva l’intera comunità, in particolare i bambini della zona, che si divertivano a saltarci sopra per compattare la neve. Nel corso degli anni, nonostante l’avvento delle moderne tecnologie, l’utilizzo della ghiacciaia montescudese non venne abbandonato del tutto, ma divenne sempre più simile a quello di una moderna cella frigorifera ad esempio per mantenere la carne macellata, come in effetti fu sfruttata fino a metà Novecento. E da quell’epoca che le venne affibbiato il nome popolare di “conserva”.
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e Giardén di brëch
Il Giardino degli Asinelli di Montescudo Il grande cancello di epoca fascista e l’arredamento moderno che oggi ricoprono la piazzetta posta al di sotto dell’ingresso delle possenti mura di cinta del borgo fortificato di Montescudo, non rendono l’idea di ciò che quest’area rappresentava in passato. Quando l’economia rurale era dominante, infatti, uno degli appuntamenti più importanti della stagione era il mercato del bestiame, protagonista delle numerose fiere agricole che si tenevano in tutta la Valconca e, quindi, anche a Montescudo. In particolare, quest’area era attrezzata con i classici anelli di ferro utilizzati per legare gli asinelli che proprio in questo luogo venivano venduti. E’ da questa attività che l’area ha preso il nome di “Giardino dei Bricchi”. Al tempo, infatti, come si vede chiaramente in una fotografia probabilmente di inizio ‘900, l’area era dotata di un prato e anche di alcuni alberelli, per cui era davvero un giardino, un giardino con gli asinelli.
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e giugh dè palón
Gioco della palla bracciale di Montescudo Quella che oggi si chiama via Roma, per tanti anni è stata la “via del pallone” e ancora oggi qualcuno la chiama così, probabilmente ricordandosi di quando tutta l’area sotto alle mura era utilizzata per giocare, in particolare quella prospiciente l’attuale parcheggio. Non solo al calcio, come si potrebbe pensare, visto che “pallone” è un po’ il suo sinonimo volgare, ma proprio all’antico gioco della pallabracciale e del tamburello: due sport molto in voga in tutti i centri storici che avessero delle mura e, magari, anche uno sferisterio, dove poter dar vita a partite interminabili, magari anche con attrezzature meno “nobili” di quelle che sono oggi custodite nei musei. Verso la fine degli anni ’60, invece, i ragazzi della zona iniziarono comunque a giocarci anche e soprattutto a calcio, non avendo ancora il terrore delle automobili, che erano ben poche all’epoca. Per decenni, quindi, ragazzi e giovani della zona hanno condiviso in quel luogo tantissimi momenti di sport e allegria, nonostante nel tempo fossero cambiate regole, attrezzature e discipline. Chi invece non ha gioito troppo sono stati i residenti delle case limitrofe, le cui finestre di vetro e tetti in coppi venivano continuamente colpiti e rovinati prima dalle durissime palle del tamburello, fatte in pelle di asino o di scrofa, poi dai palloni da calcio.
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e giugh dli boc Gioco delle bocce di Monte Colombo
Il grande spazio pianeggiante che si sviluppa alle spalle della porta d’accesso al borgo e del torrione circolare al di sotto delle possenti mura di Monte Colombo non è mai stato un semplice prato verde. Soprattutto nel corso del XX secolo, fu utilizzato come campo per il gioco delle bocce: quest’area si prestava infatti benissimo allo scopo e testimoni dell’epoca raccontano di due campi da bocce di dimensioni regolamentari, su cui amavano sfidarsi non solo i residenti del borgo, ma anche tanti villeggianti e passanti, essendo al tempo questa una meta molto interessante. Allo stesso modo, purtroppo, la reputarono interessante, anzi, strategica, anche i soldati tedeschi durante la Seconda Guerra mondiale, visto che presero possesso proprio di Monte Colombo e allestirono il loro campo base nell’area pianeggiante che si sviluppa dalle mura al bosco. Gli anziani del paese ricordano con una nota divertita quel periodo, nonostante la guerra e la povertà, perché l’accampamento militare era anche una riserva di cibo molto invitante a cui provare in ogni modo ad arrivare, anche sottraendo furtivamente qualcosa. Era molto allettante soprattutto per quanti erano abbastanza piccoli da non rischiare una fucilata se venivano scoperti. Una volta ritiratisi i tedeschi, l’area non è più stata riutilizzata per giocarci a bocce, ma per i bambini dell’epoca c’era comunque un passatempo ben più grande: i tedeschi infatti, nel ripiegare, avevano abbandonato lì un carrarmato ancora funzionante. Si narra che i bambini, a forza di giocare con il cannone spostandolo a destra e a sinistra, avessero addirittura distrutto uno dei muretti di fianco al torrione. Per fortuna, i tedeschi avevano portato via tutte le munizioni, altrimenti non si sarebbe salvato niente. ~ 73 ~
la Grota
Grotta e rifugio di Santa Maria del Piano La grotta che si affaccia sulla piazza centrale di Santa Maria del Piano di fronte alla grande Chiesa settecentesca dedicata a Sant’Apollinare è uno de luoghi a cui la comunità locale è più legata, soprattutto per quello che ha rappresentato nel passato per gli abitanti del luogo. Fin dalle sue origini, probabilmente nel corso dell’800, come tradizionalmente succedeva nelle case rurali di campagna, questa grotta era utilizzata per la conservazione dei prodotti alimentari e ricovero degli attrezzi. La sua ampia struttura, però, soprattutto perché una grande parte si sviluppa sotto il livello stradale, l’ha resa idonea anche per altri scopi durante la Seconda Guerra mondiale: è qui, infatti, che trovarono rifugio tantissime persone durante gli eventi bellici. Alla fine del cunicolo ipogeo, inoltre, è presente un pozzo che durante il conflitto è servito sia a rifornire di acqua quanti si erano nascosti nel rifugio, sia a garantire il necessario ricircolo d’aria, attraverso il suo camino che giungeva fino al piano di campagna. Dalle testimonianze raccolte, sembra ci fosse anche un terzo utilizzo: una via di fuga nel caso il rifugio fosse stato colpito. L’intero edificio è stato completamente restaurato nel 2010 (la volta della grotta è stata rinforzata con archi in ferro) e già dall’anno successivo esso è diventato sede del consorzio “Sapori di Montescudo”, mentre la grotta è stata utilizzata fino al 2020 per presentazioni, conferenze, piccole mostre.
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e Trib
Il Trebbio di Croce Il Trebbio (e Trib in dialetto) è il nucleo abitato più importante tra quelli decentrati rispetto il colle che ospita la chiesa parrocchiale e ospitava il castello; per la sua posizione alle pendici del colle e lungo le principali vie di comunicazione può definirsi una sorta di Croce basso. Come è ancora oggi, il Trebbio non è solo l’incrocio tra le vie provinciali 31 e 42 ma anche uno tra i principali valichi del crinale di sinistra della vallata del Conca, percorso risalendo la strada che collega il versante nord a quello sud dello stesso crinale. La sua posizione ne faceva un valico importante per il primo tratto della Via Regalis, nel basso Medioevo una tra le strade principali del territorio che dalla via Flaminia, a sud di Rimini, risaliva verso Coriano e la pieve di San Savino per terminare nel fondovalle del fiume Conca dal quale poi proseguiva per Montefiore e l’urbinate. Una rubrica degli Statuti di Rimini nel 1361 intimava la manutenzione della via alle comunità attraversate e a quelle vicine. Nel secolo scorso il Trebbio era meno abitato di oggi però ospitava botteghe osterie e l’ufficio postale, gestito dai Semprini, detti Ciardi. Altre famiglie presenti erano Bafón, Bigal, Fiurèn, Ghirèn, Radisciòla, Taiadlòt. Tra i personaggi c’era il cardatore, e Mestre d’la canva, e il falegname Batèst, entrambi abitanti nella parte più vecchia del Trebbio. Personaggi particolari erano le due sorelle della famiglia Cianción in perenne litigio tra di loro, la Vina d’Dinad e suo nipote, Aldo d’la Vina, un tipo sempliciotto che tornò orgoglioso dal servizio militare ma dovette pagare le innumerevole divise che per nonnismo i commilitoni gli avevano danneggiato.
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Arvura
La grande quercia di Valliano Lungo i sentieri di campagna, quando non c’erano abitazioni più alte di due piani, né tantomeno strutture tecnologiche come i pali del telefono o dell’energia elettrica, i punti di riferimento erano quelli offerti dalla natura: una montagna, un fiume, una roccia particolare... oppure un albero. E’ il caso della grande quercia secolare conosciuta da tutti come la “arvura della Gagliaggia” (tradotto: la quercia della Gagliaggia, la località in cui si trova), che si erge in tutta la sua maestosità poco sopra il Santuario di Valliano, all’altezza del sentiero che conduceva al vecchio convento dei Padri Domenicani di San Cataldo e al loro cimitero, che era sempre lì vicino. La quercia era un albero particolarmente importante nel mondo rurale, perché con questo particolare legno si costruiva l’ossatura delle case: era l’albero migliore da utilizzare per le travi, sia per la lunghezza che poteva raggiungere, sia per la robustezza. Ancora oggi alcune case hanno travi in quercia e sono così dure che non si riesce a batterci i chiodi: questo accade perché il legno veniva lasciato ad asciugare un mese per ogni centimetro di spessore, quindi delle travi di 40 cm venivano lasciate ad asciugare fino a 40 mesi! Poco distante dalla grande quercia, inoltre, ce ne era almeno un’altra di dimensioni altrettanto imponenti, ma, come si può ancora vedere chiaramente da quel che ne resta, è stata distrutta da un fulmine alcuni anni addietro.
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Il Campanile
la Pataréna Patarina di Croce
Uno tra i tanti nuclei abitati sparsi della comunità di Croce è conosciuto col nome di Patarina (Pataréna in dialetto), toponimo che non ha alcun significato o riferimento plausibile a motivi geografici o economici, né a nomi o soprannomi di persone o famiglie come nei tanti casi di Cà… Una possibile spiegazione del toponimo deriverebbe da Pataria, il movimento ereticale medievale che aveva membri, i Patarini, presenti in un quartiere riminese. Potrebbe essere stato un Patarino o una famiglia di Patarini accasati nel ghetto crocese ad aver dato il nome alla località. Nel Novecento la Patarina e la strada che ad essa conduceva erano abitate da numerose famiglie e da alcuni personaggi diventati proverbiali, come Bastón, Cucón, e Ministre, Giarbèl, Madór, Santnèl. C’era anche Gig è sartor, il sarto del paese, la Bituca d’la fusaja, una donnina zitella che viveva di piccoli lavoretti e della vendita domenicale dei lupini (la fusaja appunto). Altri personaggi erano la Miglia, un tipo estroso e da prendere con le molle, o Birlón al quale, pare, si potesse attribuire la famosa locuzione nomen omen.
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e Lavadur
Lavatoio di Monte Colombo
Il lavatoio di Monte Colombo ha caratterizzato la vita della comunità locale per tantissimi anni, anzi, nel corso degli ultimi secoli, visto che è già citato nei registri comunali come esistente dal 1739, menzionata come “una fonte ubicata in località Il Cece presente da tempo immemorabile”. La costruzione di quell’epoca, si può notare, ha inglobato quella più antica, ma al di là della sua datazione certa, è sempre stato un manufatto importantissimo per gli abitanti del borgo di Monte Colombo e, soprattutto, dei nuclei familiari dislocati nel territorio circostante: era infatti questo lavatoio, ubicato nel verde tra campi coltivati e alberi ad alto fusto, il luogo principale in cui le donne potevano lavare i panni, senza doversi recare in pratica al fiume Conca, dopo l’attuale frazione di Taverna. Dal 1949 inizia la costruzione dell’acquedotto pubblico a Monte Colombo e, di fatto, viene sancito il graduale abbandono del lavatoio, sia come utilizzo che come luogo di aggregazione. Il lavatoio è stato comunque oggetto di diversi interventi e si presenta ancora oggi con la sua caratteristica struttura “a trabocchi” in quanto le vasche di raccolta delle acque sono poste ad altezza decrescente. Il sito è tuttora visitabile ed è infatti facilmente raggiungibile percorrendo via Acquabona, una caratteristica strada selciata a gradoni di origine antichissima che congiunge le frazioni di Villa e Borgo, riscoperta solo nel 2004 grazie ad una ricerca sul Catasto Calindri con contestuale verifica tra le persone più
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anziane della zona, che avevano sentito sempre parlare di questa antica via di collegamento senza però averla mai vista. L’altro percorso per raggiungere il lavatoio parte dall’abitato di Ca’ Mini è la cosiddetta “via del lavatoio”, anche se è in effetti un sentiero naturalistico immerso nel verde. Poco distante è presente anche l’antica fonte, che insieme al lavatoio rappresenta uno spaccato di vita rurale del passato.
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Il Campanile
e Lavadur
Lavatoio di Montescudo
Se per le donne era il lavatoio dove lavare panni e vestiti, ma anche per incontrarsi e scambiarsi informazioni, notizie e piccoli grandi segreti, per i ragazzi della zona era invece la loro piscina estiva. Questa duplice funzione del “bottaccio” di Montescudo è ancora molto famosa tra gli abitanti del luogo, che ricordano con affetto sia l’uso tradizionale di questo manufatto, sia quello più giocoso e meno “regolare”. Si narra che d’estate, infatti, i ragazzi sfruttassero la vasca come una vera e propria piscina, tanto che a qualcuno venne perfino in mente di posizionare un cartello all’ingresso dalla strada con le indicazioni. Ovviamente il cartello fu prontamente rimosso dalle autorità locali, ma il fatto resta, soprattutto nelle chiacchiere tra i residenti. Il lavatoio è protetto da un muro di contenimento in ciottoli, ha un’unica grande vasca con bordi inclinati e sul fianco sinistro è presente una piccola vasca in pietra rettangolare. Più fantasiosa, ma sicuramente anch’essa con un fondo di verità, è la leggenda sulle proprietà curative dell’acqua che zampillava dalla fonte sotterranea del lavatoio. Sono diversi, infatti, i racconti su persone comuni e personaggi famosi della comunità che amavano rifornirsi di queste acque per berle e curare alcune specifiche patologie.
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e Lavadur
Bottaccio di Santa Maria del Piano Difficile immaginare che sotto la strada principale che collega la frazione di Santa Maria del Piano al territorio marchigiano, sia stato costruito nel passato un manufatto importante come il “bottaccio”, il nome con cui gli abitanti della zona sono soliti chiamarlo. Ma esiste ancora oggi e lo si può scoprire percorrendo via Molino Genga, la continuazione di via Sant’Apollinare che costeggia il fianco sinistro dell’omonima Chiesa settecentesca, ovviamente continuando nel tratto non carrabile, fino a sotto la strada. Il “bottaccio” è ubicato infatti a metà strada tra il nucleo storico del borgo e una vecchia casa padronale, un tempo di proprietà della Curia, che si dice fosse la più antica di Santa Maria, oggi purtroppo abbandonata a una fine meno gloriosa. Tutta quest’area era chiamata in dialetto “podere d’la Curia” e comprendeva sia l’immobile che il lavatoio, il cui utilizzo fu concesso dall’allora parroco di Marazzano agli abitanti di Santa Maria del Piano probabilmente durante l’Ottocento. A poca distanza scorre il fiume Conca e sull’argine restano sparute tracce del molino Genga, da cui la strada prende il nome. Il “bottaccio” è una grande vasca a cui le donne che dovevano lavare i panni accedevano scendendo alcuni gradini, oggi per evitare cadute accidentali l’accesso invece è protetto da un muretto e da una recinzione. Quello che si vede, è però solo una parte del vecchio lavatoio, perché sotto alla terra che li ha coperti ci sono ancora i piani inclinati su cui lavare la biancheria. Nell’acqua trasparente del “bottaccio” non si lavano più i panni, ma oggi nuotano tranquilli alcuni pesci rossi che lo hanno trasformato nel loro acquario personale. A qualche metro di distanza è presente il vecchio pozzo, dove c’è la sorgente d’acqua disponibile tutto l’anno. ~ 90 ~
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Il Campanile
e Lavadur
Lavatoio di Taverna
La frazione di Taverna conserva ancora oggi il suo vecchio lavatoio costruito nel 1874, situato lungo il corso del Rio Calamino da cui prende l’acqua. Dalla fontana del paese, si raggiunge scendendo una piccola scalinata che conduce sotto il livello stradale. Il lavatoio si presenta subito con un aspetto autentico: ha un’unica grande vasca – al contrario di quello di Monte Colombo ad esempio, che si trova a poche centinaia di metri -, la quale presenta bordi arrotondati e inclinati per lavare i panni, mentre dall’alto della parete in ciottoli e mattoni sgorga l’acqua. L’importanza di questo manufatto e dello stesso luogo in cui sorge (che insieme all’antico ponte ha rappresentato ufficialmente il confine tra Montescudo e Monte Colombo fino agli inizi del XX secolo) è testimoniata in tantissimi modi, non fosse altro perché era situato nel cuore dell’abitato ed era in grado di rifornire di acqua un grande numero di famiglie durante tutto l’anno. Di fatto, fino all’arrivo della rete idrica pubblica, è stato uno dei principali luoghi di aggregazione di Taverna, salvo poi cadere in disuso e venire via via abbandonato. Proprio per preservarne il ricordo, però, nel 2002 il lavatoio è stato restaurato ed è attualmente visitabile nonché funzionante, anche se ovviamente non viene più utilizzato per lavare alcunché.
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la Fonta de Ciccun
Fonte e lavatoio di Valliano La sorgente di Valliano è conosciuta da tutti gli abitanti della zona come “la fonte dei Cicconi”, nome che deriva dalla importante famiglia che possedeva questo appezzamento di terreno, in passato coltivato a ulivi, e che fece erigere il lavatoio composto da una grande vasca rettangolare con bordi inclinati e per questo utilizzabile su tutti i quattro lati. E’ un manufatto molto basso che si trova a livello dei campi e ci si imbatte in esso, quasi per caso, passeggiando lungo il percorso escursionistico “Sentiero dei Musei”, che conduce attraverso una piacevole passeggiata tra ulivi e campi dal Santuario di Valliano alla Chiesa della Pace. Nonostante sia in disuso da anni, se si guarda con attenzione, però, si riesce ancora a scoprire che in uno dei lati verso monte c’è ancora lo zampillo dell’antica fonte, la stessa che un tempo riempiva la vasca centrale per permettere alle lavandaie di compiere le loro operazioni.
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Il Campanile
e Crusèt
L’incrocio dei vasai di Santa Maria del Piano L’attuale Strada Provinciale 42 che scende da Montescudo, lambisce oggi l’abitato di Santa Maria, incrociando via Santa Maria del Piano di Sopra, ma per i residenti queste strade avevano un significato molto diverso perché la viabilità di questi territori era molto differente: per chi abitava in quest’area, la strada che saliva arrivava a Rimini, mentre quella che scendeva andava a Cattolica e infine, quella che attraversava il nucleo di Santa Maria “veniva dalle montagne”, ovvero dal Montefeltro pesarese. Era un punto strategico quindi, per chiunque dovesse spostarsi in una di queste direzioni, dal mare alla montagna in pratica, ma c’era un’altra caratteristica, unica nel suo genere, che ha reso famoso questo incrocio: trattandosi di uno snodo particolarmente trafficato, le strade venivano utilizzate come “vetrine” a cielo aperto per far vedere e allo stesso tempo per asciugare le centinaia di terrecotte che venivano prodotte in questa frazione. Erano tantissime, infatti, le famiglie dedite a questa attività e diversi erano le botteghe per le terrecotte, da cui si ricavavano, come noto, i vasi che hanno portato in giro per l’Italia e non solo il nome di Santa Maria del Piano, non a caso, “il paese dei vasai”.
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Trattandosi dell’ingresso del paese, anche in questo punto si trova una croce, la cui funzione era legata alle cosiddette “rogazioni”, ovvero delle preghiere specifiche che si facevano insieme alle processioni verso le croci installate nelle strade principali al fine di proteggere i campi e il raccolto stagionale dalle avversità.
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e Mulén dl’uliva
Mulino di Ca’ Renzo di Valliano
Quello che oggi appare come un rudere abbandonato al pari di tanti altri immobili sparsi per le colline romagnole, è stato invece, per lungo tempo, uno dei luoghi simbolo della cultura e della vita rurale dell’area di Valliano. Questo edificio situato nel piccolo e caratteristico ghetto di Ca’ Renzo, infatti, ospitava un mulino per la lavorazione delle olive, le quali venivano coltivate allora come oggi su tutto il territorio comunale. Tra i ricordi delle persone che lo hanno visto in funzione, ce ne è uno veramente particolare: più famiglie, infatti, portavano qui il loro raccolto di olive per la spremitura e ogni volta che veniva completata la lavorazione di un lotto, veniva avvisata la famiglia successiva tramite il suono caratteristico di un corno, che si sentiva riecheggiare per tutta la vallata. Colui che doveva suonare questo originale strumento era quindi una delle figure più importanti del mulino e di tutta la procedura di lavorazione delle olive, ma per professionalità, manualità e bravura, la persona più importante era un’altra, ovvero “l’om d’la foja” (l’uomo della foglia). Il nome dialettale deriva dalla particolarissima e sottilissima lamina di rame – come una foglia, appunto – con cui veniva raccolto solo sottile strato d’olio che si formava nella vasca di raccolta della spremitura.
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Ci volevano, quindi, una mano fermissima e una sensibilità fuori dal comune. A testimonianza delle tradizioni contadine e probabilmente anche dell’importanza che rivestiva questo edificio, si trova una nicchia contenente l’immagine della Vergine, la quale è ancora oggi mantenuta perfettamente e omaggiata di doni floreali dalla comunità locale.
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Il Campanile
e Mont di Ciuoc
Monte dei bambini di San Savino Anche se solo per 20 o 30 metri, la collinetta che si erge sopra San Savino è il punto più alto raggiungibile a piedi dal nucleo abitato: non proprio una montagna, ma per gli abitanti del luogo andava bene lo stesso per “respirare l’aria buona”. Un’idea che riecheggia ancora nei discorsi della gente del luogo, che ricorda come, tantissimi anni prima, le donne erano solite portare qui i bambini più piccoli (da qui il nomignolo “dei ciucci”, come i ciucciotti dei neonati) per fargli respirare l’aria più pulita possibile. Sopra la collinetta, infatti, non c’erano altro che qualche pino, erba e pietre. Ma c’era appunto “l’aria buona”, per cui anche chi soffriva di pertosse (“la tosse cattiva” si dice da queste parti) e altre malattie respiratorie veniva mandato quassù a passeggiare e poco importa se aveva smesso di portare il ciuccio da tempo.
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e Mulén d’Bernucc
Mulino Bernucci di Santa Maria del Piano Le testimonianze sul Mulino Bernucci sono molto antiche, tanto che era già presente nel Catasto Calindri del 1774 e per quasi due secoli è stato uno degli opifici da cereali (mais e farina) più famosi della Valconca, etichetta che gli è rimasta cucita addosso nonostante dagli anni ’60 circa del secolo scorso sia cessata l’attività. L’attuale struttura di proprietà privata, ubicata a ridosso del confine con il Comune di Gemmano, è costituita da un complesso di costruzioni aggregate che formano un nucleo abitativo a pianta irregolare, immerso in una rigogliosa vegetazione a pochi metri dal vicino fiume Conca. Nonostante sia cessata l’attività produttiva, l’impianto molitorio è stato completamente conservato e all’interno dello stesso si possono osservare le macine, le tramogge e ogni altra tecnologia che al tempo permetteva all’opificio di funzionare. L’ambiente di lavoro è rimasto infatti inalterato, dal santino con l’immagine della Madonna del Piano ancora affisso a una delle tramogge insieme a quello di Sant’Antonio da Padova che testimoniano la devozione popolare di chi lavorava a queste macchine, alle scritte impresse a matita su un muro con le quantità e i conteggi delle farine lavorate. Di fatto è l’unica testimonianza in queste condizioni di un’attività che per secoli ha caratterizzato l’intera valle del Conca, in passato costellata di mulini di vario tipo. ~ 106 ~
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la Cisa d’San Mèrc Oratorio di San Marco
Il piccolo oratorio dedicato a San Marco, in condizioni precarie dopo il crollo del tetto nel 2019 (che potrebbero determinarne, insieme alla vendita del terreno, la definitiva demolizione), è legato per diverse vicissitudini alla parrocchia di San Martino in Tours di Monte Colombo e alla locale comunità. L’edificio, infatti, era già citato nel 1793 come proprietà del Capitolo di Rimini e dopo le soppressioni napoleoniche venne assegnato al parroco di Monte Colombo, ma fu lasciato per anni in stato di abbandono. Nonostante la proprietà non fosse pubblica (Diocesi di Rimini, ndr), grazie ad una colletta della popolazione, venne poi restaurato e all’inizio degli anni Venti vennero realizzati altri lavori: fu edificata la sacrestia sul retro e il porticato anteriore, sostenuto da 4 colonne circolari in mattoni. La facciata, invece, è molto sobria: ci sono solo due piccole finestre ovali a lato del portone d’ingresso e si conclude con un timpano con lievi modanature sopra al quale svetta un campanile a vela.
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la Cisa d’Palazén
Oratorio Palazzini di Croce La parte più alta della frazione e della parrocchia di Croce è il Monte (e Mont in dialetto); si tratta del proseguimento del crinale di sinistra della vallata del Conca verso Cevolabbate e San Clemente. In questa area abitavano diverse famiglie poi emigrate come Biscèr, Campanac, e Ros, Rundèl. Altre conservano un insediamento storico, in particolare i diversi ceppi di Palazzini (Palazèn in dialetto). Una famiglia Palazzini nella prima metà dell’Ottocento costruì, tra la casa padronale e la strada, un oratorio mariano privato. Si tratta di una chiesolina di piccole dimensioni, eretta a comodo della famiglia come spesso succedeva nei secoli scorsi, ma che in particolari occasioni veniva officiata ed aperta al pubblico, ad esempio durante il mese mariano di maggio. La motivazione della costruzione è piuttosto incerta: sembra sia avvenuta come espiazione per un fatto di sangue commesso da un membro della famiglia; secondo altre versioni sarebbe avvenuta per una sorta di ringraziamento alla Madonna a seguito della positiva soluzione del caso giudiziario aperto col citato fatto di sangue.
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e Comun
Palazzo comunale di Monte Colombo Il borgo di Monte Colombo gode di una magnifica posizione di dominio a 315 metri sul livello del mare, fra i fiumi Conca e il Marano. Dell’antica rocca malatestiana restano ancora oggi la porta d’accesso con arco a sesto acuto, a cui è affiancato un torrione di forma circolare, e parte delle possenti mura (anche se un tempo le torri dovevano essere un numero maggiore, probabilmente sei). Il feudo, strategico per diversi motivi, fu ceduto da Federico Barbarossa a Rimini nel 1157, poi seguirono anni di aspre contese tra i riminesi e la chiesa di Ravenna fino a quando nel 1238 i Malatesta si impadronirono del territorio per quasi tre secoli. All’inizio del Cinquecento passa quindi ai Veneziani e, successivamente allo Stato Pontificio. Passeggiare oggi tra le strette vie del borgo permette quindi di respirare anche l’aria di una storia antica, di cui le mura e altri elementi architettonici sono ancora oggi testimoni. Di epoca molto più recente, invece, sono le costruzioni civiche, come il Palazzo Comunale. L’edificio è ancora oggi il più imponente di tutto il borgo: si presenta infatti distribuito su tre piani e, sopra l’ingresso principale che prospetta su piazza Malatesta, è inserito lo stemma in pietra del Comune. Tra il 1920 e il 1935 fu interessato da alcuni lavori di ampliamento, come risulta ben leggibile sulla facciata ovest, contraddistinta dal severo stile architettonico razionalista, sottolineato dalle imponenti coppie di colonne poste ai lati dell’ingresso e rafforzato dai due elementi verticali aggettanti.
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Nel tempo, invero, le sue funzioni sono state diverse, soprattutto all’indomani della fusione dei due Comuni di Montescudo e di Monte Colombo: il Palazzo Comunale, pur rimanendo ufficialmente la sede legale del nuovo Municipio, ha ospitato negli ultimi anni le sedute del Consiglio Comunale, fino all’avvio dei lavori di restauro, che si sono conclusi a fine 2020. A causa dell’emergenza sanitaria, i locali appena restaurati sono stati utilizzati per ospitare anche alcune classi delle scuole (un “ritorno”, di fatto, visto che negli anni ‘30 del secolo scorso l’edificio era adibito proprio a scuola) in attesa di poterne disporre un diverso e nuovo uso per il futuro.
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~ 117 ~ Fototeca IBC del Servizio Patrimonio culturale della Regione Emilia-Romagna
e Comun e Teatre
Palazzo comunale e teatro di Montescudo Dopo aver varcato le possenti mura di cinta che costeggiano via Roma, si giunge nel cuore del borgo, sulla piazza del Municipio. Oltre che dal grande palazzo che ospita anche il Teatro intitolato a Francesco Rosaspina, questo ampio spazio è racchiuso su due lati da alcune abitazioni private e dall’imponente torre civica, mentre l’altro lato è occupato da un giardino arricchito da una fontana circolare e da una magnifico panorama che spazia fino al mare. Al centro della piazza, sopra un basamento, è presente un grande pozzo in pietra di forma ottagonale e dotato della caratteristica carrucola. L’edificio più grande che prospetta sulla piazza è il Municipio di Montescudo (oggi sede del Comune di Montescudo-Monte Colombo, mentre il Municipio del nuovo Comune dopo la fusione è l’omologo palazzo nel borgo di Monte Colombo). Si tratta di un palazzo semplice ma massiccio, che si sviluppa su due piani: il primo piano è dotato di un balcone da cui sventolano le bandiere e dove è inserito lo stemma comunale. La particolarità di questo edificio, come accennato sopra, è che al suo interno ospita il teatro intitolato a Francesco Rosaspina, nato a Montescudo nel 1762 e divenuto un celebre incisore, nonché professore dell’Accademia di Belle Arti di Bologna, di cui è considerato uno dei grandi Maestri del Settecento. ~ 118 ~
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Il primo documento ufficiale in cui si menziona il teatro è il censimento dei teatri del 1868, ma, in mancanza di dati certi, la sua costruzione potrebbe risalire tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento. Il teatro presenta una struttura all’italiana a forma di ferro di cavallo: sono presenti la platea sormontata da un ordine di sette palchetti e loggione. Questo teatro ospita continuamente eventi culturali, concerti musicali ed esibizioni di danza, ma soprattutto rappresentazioni di commedie dialettali, che non di rado raggiungono il “tutto esaurito”, con tanti spettatori che giungono da tutta la Valconca. Si tratta, invero, di un luogo di aggregazione per tutta la comunità: qui si svolge il Consiglio Comunale in alternativa alla sala del Municipio a Monte Colombo, ma spesso è la sede scelta dai novelli sposi per celebrare il proprio matrimonio con rito civile, così come è il luogo di incontro privilegiato per le riunioni e gli incontri delle tante Associazioni del territorio. Tante occasioni che ne fanno, di fatto, il “cuore” del borgo, ma anche di tutta la comunità locale.
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e Palaz d’l’Avuchéd
Palazzo Orlandi-Contucci di Monte Colombo
A pochi metri dalla porta d’accesso di Monte Colombo e dal maestoso torrione da cui partono le mura malatestiane, si trova un grande palazzo signorile che, in verità, in origine era l’antico cassero del castello e dimora del capitano della guarnigione militare. Era la “casa del signore del paese”, come la ricordano alcuni dei residenti più anziani, ai quali è stata tramandata tale idea ovviamente, perché nessuno può aver vissuto quell’epoca. Difatti, già nel 1700 l’edificio passò nelle mani dell’importante famiglia Contucci (Francesca Contucci, moglie del grande letterato Venerio Orlandi a cui furono intitolate le scuole di Monte Colombo, ad esempio, era infatti figlia del Presidente del locale Tribunale, già Governatore di Rimini al tempo del Plebiscito) e poi, verso la fine del 1800 (più o meno l’epoca in cui fu restaurato completamente), non avendo i proprietari eredi maschi, la proprietà passò al genero, afferente alla famiglia Orlandi originaria delle Marche. La famiglia, poi, all’inizio del Novecento si spostò prevalentemente a Roma, abbandonando pian piano il palazzo come residenza.
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L’edificio è oggi ricordato come “Palazzo dell’avvocato”, in onore della professione di diversi membri della famiglia Orlandi Contucci, ma probabilmente di Antonio, tra i più noti avvocati di Roma, tanto da ereditare lo studio di Alessandro Fortis (che all’epoca, nel 1905, divenne Presidente del Consiglio dei Ministri). Ma non tutti gli inquilini sono stati realmente anche i proprietari e, sicuramente non appartenevano alla famiglia Orlandi Contucci, come ricordano i residenti più anziani, perché durante la Seconda Guerra Mondiale fu occupato dalle truppe tedesche, che si stabilirono qui perché era l’unico edificio del borgo che aveva a disposizione l’acqua corrente. Non si trattava però dell’acquedotto pubblico, ovviamente, ma l’acqua era trasportata fino al palazzo da un mulino a vento - sarebbe più corretto indicarlo come “pompa eolica” - ancora visibile all’inizio del paese, che trasformava l’energia eolica in energia meccanica per movimentare l’acqua.
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e Castél ad Crosc Castello di Croce
Le prime tracce documentali per Croce (Crosc in dialetto) risalgono al 998 d.C.: in quell’anno papa Gregorio V rinnova i diritti sul Castri Crucis all’arcivescovo di Ravenna. Meno di un secolo dopo, nel 1059 il vescovo di Rimini Uberto concede al conte Everardo e a sua moglie Marozia metà dei beni della cappella del castello di Croce. All’inizio del XIII secolo Croce torna ad essere indicato come appartenente all’arcivescovo di Ravenna e come tale entra nelle contese con il comune di Rimini. Dall’inizio dell’epoca malatestiana è inserito nel territorio riminese, ne seguirà le vicissitudini e i cambi di gestione. Dal XVI alla fine del XVIII secolo è appodiato di San Clemente, comune dal quale si distacca nel 1817 per essere aggregato a quello di Monte Colombo. La comunità ha sempre avuto un ampio territorio, la parrocchia in parte anche nel comune di Montescudo. Si trattava di un territorio agricolo caratterizzato da forte frazionamento proprietario, con molte case sparse e piccoli nuclei abitativi, una caratteristica particolare con pochi altri esempi nella vallata del Conca.
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L’impianto castellano viene progressivamente superato a partire dal XVII secolo, per l’allargamento dell’abitato, le distruzioni delle mura a causa di incendi (testimoniata dal nome Via Bruciata alla strada tra le mura e la chiesa parrocchiale) e per la necessità di recuperare i materiali edili per i restauri alla chiesa e alla casa pubblica. Attualmente del castello restano brani della rampa di accesso che porta alla casa pubblica (diventata nel tempo scuola elementare e oggi abitazioni Iacp) e delle mura lato sud, sulla scarpata che da fine XIX secolo è stata rialzata per realizzare la strada provinciale 42. Un altro ricordo dell’antica cinta muraria è nel nome dialettale che identifica una precisa area a scarpata a nord: “sota la tora”, sotto la torre.
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la Ròda di Urfanèl
la ruota dei bambini di Montescudo
Nell’antichità era abbastanza comune, in diverse popolazioni, abbandonare i neonati presso altre famiglie o nuclei familiari perché potessero dargli più speranza di vita di quante ne avessero insieme ai genitori naturali. Anche a Montescudo evidentemente non era una pratica sconosciuta, tanto che in via dell’Ospedale pare ci fosse una “ruota degli esposti”, una bussola girevole di forma cilindrica ma divisa in due parti chiuse da un unico sportello: questa strana conformazione serviva infatti a collocare, senza essere visti dall’interno, proprio i neonati abbandonati, gli “esposti”, poi, facendo girare la ruota, la parte esterna si scambiava con quella interna, permettendo di prelevare il bambino. Il luogo preciso si è perso nel corso del tempo: dalle testimonianze raccolte anni fa, si narra fosse infatti tra la prima e la seconda casa di via dell’Ospedale, ma gli edifici sono poi stati trasformati più volte dopo la Seconda Guerra Mondiale. Probabilmente erano presenti sia la classica campanella per avvisare dell’abbandono sia una feritoia per lasciare qualche offerta per il sostentamento dei neonati. Ma anche, non di rado, documenti o segni distintivi, nel caso in futuro se ne volesse attestare comunque la parentela. Dopo la guerra, però, la “ruota” di Montescudo cadde in disuso e i bambini abbandonati venivano portati direttamente a Rimini, dove proprio in quegli anni era stato allestito un servizio molto più organizzato.
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la Cisa d’Valién
Santuario e Museo di Valliano Il complesso architettonico di Valliano si fonde visivamente agli ampi spazi verdi che lo circondano, ma questo connubio si rivela ancora più marcato a livello storico, essendo in questo luogo intrecciate sia la vita religiosa che quella legata alle attività rurali e alle tradizioni contadine: del resto, anche il Santuario e il Museo Etnografico condividono infatti uno spazio comune e si alimentano l’un l’altro, creando una sinergia unica nel suo genere, che unisce e rafforza la comunità locale, molto devota ma anche fortemente legata alle attività tradizionali, tanto da mantenerne in vita appunto un intero museo con tante iniziative collaterali. Molte di esse si svolgono all’esterno della Chiesa, che resta però il fulcro di tutte le attività, oggi come in passato: l’attuale struttura, infatti, è stata costruita nel XV secolo, ma prima di essa, anzi, sotto di essa, c’era già una chiesetta medioevale dedicata a Santa Maria Succurrente. Da tempo immemore, quindi, attorno a questo edificio di culto si ritrova la comunità locale, che ha anche potuto giovarsi, fin dalla fine del XV e per alcuni secoli, della presenza dei Padri Domenicani di San Cataldo.
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Purtroppo, nel settembre del 1944, anche il Santuario subì i danni della Seconda Guerra Mondiale: il campanile ne uscì solo con lievi danni, mentre crollò il tetto con parziale perdita della parete di fondo. Sono stati quindi diversi gli interventi di restauro, anche interni, i quali hanno portato alla luce gran parte degli affreschi che oggi si possono ammirare e aumentato la leggibilità di quelli già conosciuti, dando anche la conferma della presenza di affreschi più antichi al di sotto dell’importante ciclo pittorico che attira ogni anno tantissimi appassionati. Attiguo alla Chiesa, come detto, si sviluppa il Museo Etnografico che detiene una ricca raccolta di oggetti legati alla vita rurale della collina romagnola e illustra gli antichi mestieri, le tradizioni, l’organizzazione della vita della campagna, dalla lavorazione del maiale alla raccolta delle olive, dell’uva e del miele, fino alla produzione di tessuti di canapa e alla lavorazione dell’argilla.
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La creazione del Museo Etnografico “unisce” idealmente questo sito religioso all’altro luogo di culto più importante della zona, la Chiesa della Pace, al cui interno (nella canonica) è ospitato il Museo della Linea Gotica: i due siti sono collegati da un percorso - il “Sentiero dei Musei” appunto – facilmente percorribile costeggiato da ulivi e campi coltivati.
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Sott e pont
Sotto il ponte di Santa Maria del Piano La strada più antica del paese di Santa Maria del Piano si trova proprio a ridosso del ponte che porta all’incrocio con la SP42, anzi, “sotto” ad esso, da cui prende appunto il nome che le hanno dato i residenti. Si tratta invero di una strada pedonale, utilizzata al tempo anche per i carretti, ma la cui funzione è venuta meno con l’avvento dei mezzi a motore, che necessitavano di una strada più moderna, come appunto quella che si sviluppa sul ponte di fianco e che prende il nome, non a caso, di “via Santa Maria del Piano di Sopra”.
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e Turión Torre civica di Albereto
All’interno dell’antico Castrum Albareti si erge, maestosa, la torre campanaria che rende riconoscibile anche da lontano questo piccolo e caratteristico borgo malatestiano, di cui faceva parte al tempo anche l’oratorio di San Bernardino (e la canonica annessa), andato distrutto durante i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale. Negli ultimi anni soprattutto, diversi edifici (l’unica proprietà non privata all’interno delle mura è appunto la torre) sono stati restaurati e, dopo la creazione del residence e del ristorante, è diventato un una meta turistica molto affascinante ed esclusiva. L’elemento caratterizzante di Albereto resta comunque la sua torre, posta sul margine meridionale della piazza, da cui si gode un ampio panorama sulla costa e, rivolgendo lo sguardo a sinistra, sul Monte Titano della Repubblica San Marino. La torre campanaria ha un’altezza di circa 12 metri e, attraverso una scaletta interna, è possibile salire fino alla sua sommità. Da quest’altezza si ha una vista a 360 gradi dalla valle fino al mare, mentre alzando lo sguardo è possibile notare gli stalli per la campana, ora vuoti.
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e Campanón Torre civica di Monte Colombo
La porta di accesso al borgo di Monte Colombo è posta al centro fra due torri: il torrione circolare e la torre civica, che gli abitanti del paese chiamano con simpatia mista a riverenza “e campanón”. Quest’ultima, in verità, fu costruita nel 1864 sopra le rovine di una preesistente torre di epoca malatestiana: come si può notare da un attenta osservazione, la muratura è in sassi nella parte più antica (quella più bassa), mentre per l’innalzato ottocentesco è stato utilizzato il laterizio, in modo da rendere leggibile il tratto originale. La torre è a pianta quadrata e nella parte terminale è inserito l’orologio e al di sopra una cella campanaria aperta su quattro lati da finestrelle a tutto sesto. Tutti questi elementi sono poi arricchiti da cornici aggettanti.
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e Campanón Torre Civica di Montescudo
Il centro storico di Montescudo è ben riconoscibile da qualunque direzione si arrivi, essendo caratterizzato dall’alta torre civica, databile al 1300, che aveva appunto funzioni di avvistamento. Sotto alla torre, all’interno del basamento a scarpa in pietra, infatti, è presente un camminamento sotterraneo che, attraverso dei cunicoli, portava in sicurezza fino alla rocca. Ancora oggi la sommità della torre è raggiungibile attraverso una scalinata, mentre all’interno del basamento a forma pentagonale è possibile visitare un ambiente molto suggestivo, composto da un ampio spazio centrale e dalle diramazioni dei numerosi passaggi sotterranei caratterizzati da archi in mattoni e pietra. La torre è a base quadrata e risulta composta principalmente da mattoni. Ovviamente, la cella campanaria e l’orologio sono stati aggiunti alla costruzione originaria nel corso del tempo, quando la torre non dovette più svolgere le originali funzioni di avvistamento, bensì divenne a tutti gli effetti la torre civica.
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Acuaviva Torre casa di Acquaviva
In località Chitarrara, tra la frazione di Croce e quella di Taverna, si staglia dal campo pianeggiante una robusta casa torre, costruita a pochi metri dal torrente Conca. Oggi l’edificio è circondato da fabbricati più recenti costruiti dopo gli anni ’60, ma la sua antica e possente struttura è ben riconoscibile: la costruzione si sviluppa infatti su ben tre piani fuori terra, ha base quadrata ed è in ciottoli e mattoni alternati, mentre la sommità è composta solo da laterizi. Non è dunque un caso che durante la Seconda Guerra Mondiale l’edificio fu occupato dai soldati tedeschi, che lo scelsero per i grandi spazi, l’ottima posizione e anche per la visuale che poteva offrire. L’ultimo piano della torre, oltre ad essere di un’altezza minore rispetto agli altri piani, è sottolineato da un cordolo in mattoni disposti a “dente di sega” il quale era un elemento architettonico caratteristico delle colombaie, questi due indizi fanno ipotizzare il suo impiego per l’allevamento di colombi, come solitamente succedeva nelle abitazioni di campagna. Ed è a quel contesto rurale che ci si deve rapportare anche nella datazione della costruzione, che probabilmente risale al Settecento, mentre il toponimo “acquaviva” potrebbe riferirsi alla vicinanza con il torrente Conca e alla sua ricchezza ed energia. Nel giardino di pertinenza, invero, è presente una quercia dalle dimensioni enormi che diversi agronomi hanno stimato avere più di 300 anni.
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e Grutén
L’Osteria del Torrioncino di San Savino Il Castello di San Savino mostra ancora oggi i suoi due caratteristici torrioncini, all’interno dei quali si svolgevano in passato attività fondamentali per la comunità. Se in quello verso il mare c’era infatti la fucina del fabbro Bartolucci, in quello verso Croce era stata allestita l’osteria di Carlini: il tetto molto basso e i locali che ricordano più dei cunicoli che delle sale da pranzo, facevano sembrare l’ambiente più simile a una grotta che a un pubblico esercizio, da qui il nome dialettale “e grutén”. Si trattava di fatto dell’unico vero centro d’aggregazione quasi esclusivamente per gli uomini, che qui potevano gustarsi un bicchiere di vino dopo le lunghe ore di lavoro, o dilettarsi con i giochi del tempo, come ad esempio le carte (all’interno dei locali) e le bocce (nel giardino esterno). Le donne non erano solite aggregarsi in questi luoghi, mentre i bambini erano attratti da queste rare occasioni di mondanità e spensieratezza, trasformando quindi non solo gli spazi angusti dell’osteria, ma anche tutti gli ambienti circostanti, in una grande “sala giochi” arricchita e resa più golosa anche dai carretti con i “brustolini”, la “fusaia” e la frutta secca, che si disponevano in zona tutte le domeniche e i giorni festivi. Ovviamente per quello che poteva offrire quel periodo. A quel tempo, infatti, un semplice bastone poteva essere una spada o un fucile, un sasso poteva sembrare una bomba sparata dal carrarmato e così via. Mancavano tante cose, ma non la fantasia.
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e Turión
Torrione di Monte Colombo Accanto alla bella porta d’accesso con arco a sesto acuto del borgo di Monte Colombo, è edificato un torrione circolare. Esso è caratterizzato da una muratura principalmente in sassi, mentre il portone e le finestre sono ingentilite da una cornice costituita da laterizi. I mattoni sono utilizzati anche nel cordolo che corre a metà altezza lungo la circonferenza della struttura. Probabilmente in origine questo torrioncino era di altezza maggiore e il castello doveva contare più torri difensive e di avvistamento: esso fu infatti edificato dai Malatesta durante il XIV secolo e le necessità militari erano ben diverse da oggi. Nel corso della storia, infatti, diverse sono stati gli utilizzi di quello che gli abitanti del paese chiamano semplicemente “e turión”: nella seconda metà del Novecento, ad esempio, aveva qui la sua bottega “Petruz”, l’artigiano del paese che aggiustava le caldaie; poi è stata sede di varie associazioni fino ad essere trasformata nella sala della biblioteca.
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e Vigulac
Il Vicolo (via G. Matteotti) - Taverna
Il borgo di Monte Colombo è collegato alla frazione di Taverna da una ripida strada che transita nell’abitato di Ca’ Mini, prendendo solo nell’ultimo tratto il nome di via Matteotti. E’ proprio quest’ultimo tratto che viene comunemente chiamato dai residenti “e vigulac”, perché dopo pochi metri diventa strettissimo e molto ripido. Inoltre le case, che sono state costruite su entrambi i lati della carreggiata, formano anch’esse una strettoia, che permette il passaggio di una sola autovettura alla volta. E’ interessante notare, quindi, come il nomignolo romagnolo etichetti in maniera negativa questa stradina, mentre l’utilizzo che gli stessi residenti ne fanno è al contrario un fatto positivo, perché si tratta di una vera e propria scorciatoia per spostarsi da Monte Colombo a Taverna senza dover passare per altre strade sicuramente più comode, ma anche più lunghe.
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il
Dialetto aguzza l’ingegno
“Ti ricorderai per sempre del luogo che stai visitando”
Progetto realizzato da: Comune di Montescudo-Monte Colombo con il contributo di IBACN. Coordinatrice: Federica Fanti Testi a cura di Daniele Bartolucci, Maurizio Casadei, Federica Fanti Progetto Grafico: Eyescream.it Riprese e Editing: E sarà Gioia Realizzazione Ceramiche: Geo Casadei
Si ringraziano: Pro loco di Montescudo, Pro loco di Monte Colombo, Comitato Turistico di Valliano, Associazione Noi del Campanone, Associazione E Poz d'la Piva, Quei dla Madona de Pien.
Stampato da: Tipo Lito Silvagni Snc - Rimini nel Mese di Aprile 2021 / c.300
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Comune di Montescudo Monte Colombo