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FARE RISTORAZIONE

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ABBINAMENTO

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Autrice: Giulia Zampieri

Quanto può essere importante un’attività di ristorazione per un piccolo borgo? In questi primi mesi dell’anno abbiamo già percorso un piacevolissimo itinerario lungo alcuni dei borghi d’Italia. Dal Trentino alla Liguria, dalla Toscana alla Basilicata: in più occasioni, parlandovi di ospitalità, abbiamo appreso che una sana attività di ristorazione ha un potere considerevole nei bilanci e nella notorietà di un borgo. In alcuni casi il ristorante è un vero traino per l’economia di quel luogo, dei suoi produttori e dei servizi connessi. Funge da collettore. In altri è l’ulteriore elemento di valore di una località già di per sé meravigliosa, che non può però essere priva di una buon indirizzo gastronomico. Ma quante altre cose si dovrebbero dire in merito?

Il borgo è un luogo d’incontro

Ogni volta che si esce da un borgo si porta La a casa qualcosa di persistente: il ricordo puro di uno scorcio, di un volto, di un sapore. Spesso è proprio in queste località che ristorazione si preservano i mestieri e si tramandano i saperi. Muovendosi al loro interno si posnei nostri sono incontrare norcini, pescatori, artigiani o imbattersi in straordinarie connessioni tra il cibo, il vino, le abitudini a tavola e i borghi riti popolari, custodite grazie all’isolamento e alla tenacia dei loro abitanti. Queste conoscenze fortuite rendono davvero unico, speciale, l’itinerario. Altre volte l’incontro avviene al contrario: è la curiosità che avvolge un’insegna che spinge a mettersi in viaggio. Pensiamo a Villa Maiella della famiglia Tinari nel borgo di Guardiagrele, in Abruzzo, o alla pizzeria Pepe in grani di Caiazzo, nell’Alto Casertano; traguardi gastronomici che si tramutano in piacevoli scoperte una volta giunti sul posto. In alcune circostanze la copiosa affluenza dei locali ha pure reso necessari interventi di ristrutturazione del borgo, dandogli vita nuova e generando belle opportunità per gli altri residenti. Di guide si parla sempre per altre ragioni, ma in realtà in questo contesto possono molto: possono indirizzare lo spostamento, allungare la permanenza in un territorio, dilatare l’esperienza proponendo consigli e visite ai produttori. Oggigiorno sono soprattutto le guide e gli altri strumenti digitali e il passaparola a stimolare movimento e a foraggiare la promozione turistica. E lo stesso ristoratore può trarre molto dai nuovi canali di comunicazione.

Il monte Vulture, Venosa e il verde circostante della vallata. Foto di Alessandro Di Tommaso

La Dispensa di San Felice a San Felice del Benaco,

sulla sponda bresciana del lago di Garda, ne è un validissimo esempio. Roberto Bontempi, appassionato di vini e gastronomia, l’ha inaugurata nel 1999 sulle orme della bistronomie francese. Modi informali, tavoli senza tovaglie, tantissime eccellenze in menu, poche elaborazioni in cucina e una polposa carta dei vini naturali. Michele Bontempi, figlio di Roberto, ci è cresciuto dentro e la sta coltivando con grande passione sfruttando al meglio anche gli strumenti digitali.

Negli ultimi tempi a La Dispensa hanno contato ol-

tre 20.000 coperti l’anno; la maggior parte dei clienti non è in visita a San Felice, viene appositamente per sedersi a questi tavoli che si affacciano al municipio. Solo dopo essere giunti a destinazione molti clienti scoprono una cittadina sviluppata su tre borghi antichi, più mite e vivibile di tante altre località del Lago di Garda prese costantemente d’assalto dai turisti. “Per fortuna San Felice è rimasto un borgo poco conosciuto, in cui c’è ancora quiete” - ci racconta Michele. “Il nostro sogno, tuttavia, sarebbe quello di poter fare rete con altre realtà simili alla nostra: la concorrenza, come la si intendeva anni fa, non ha senso di esistere, tanto meno nei borghi. Le relazioni tra attività che abitano lo stesso territorio può solo che essere un ulteriore elemento di crescita”. Ecco un’altra osservazione che mancava all’appello: il borgo dovrebbe essere uno spazio d’incontro non solo per chi arriva da fuori, ma anche tra chi lo dimora con la propria attività.

La trattoria Due Mori di Asolo

La sala de La Dispensa a San Felice

Come dovrebbero muoversi i ristoratori

Ne abbiamo parlato con Stefano De Lorenzi, chef della Trattoria Due Mori di Asolo, indirizzo di riferimento nel borgo più conosciuto della pedemontana trevigiana. Asolo è un luogo incantevole: un centro antico cosparso di edifici storici, tenuto come un gioiello dai suoi abitanti e dall’amministrazione comunale. Raggiungendolo si incontrano dolci pendii intervallati da filari di vigne, giardini rigogliosi e dimore signorili; il tutto culmina con una rocca medievale raggiungibile a piedi a partire dal centro storico. Sono diverse le attività di ristorazione qui, più o meno attinenti alla tradizione. Tra queste c’è appunto il Due Mori; noto, tra le altre cose, anche per avvalersi esclusivamente della cucina economica. Si cuoce tutto con la cucina a legna, come si faceva una volta. “Prima di arrivare al Due Mori mi stavo concentrando su una cucina moderna in un ristorante in campagna” - inizia così Stefano De Lorenzi, qui in cucina da oltre cinque anni. “Avevo la strada già piuttosto chiara ma giunto ad Asolo ho capito che non potevo portare avanti il mio progetto allo stesso modo. Qui ci sono logiche e sistemi completamente diversi, non si può ragionare slegati dal contesto che ci circonda. Nei giorni di chiusura ho fatto visita a diversi locali nelle mete turistiche più ambite - per esempio Venezia - ed ho appreso quali erano i limiti di certi ristoranti. Un locale ubicato in un borgo antico o in una città d’arte non può trattare il cliente come un turista, a prescindere che sia italiano o straniero. Questo è un fatto piuttosto ricorrente che brucia molte opportunità per il turismo e l’economia locale. Ai nostri occhi chiunque arrivi deve essere ospite!”. L’altra cosa che balza all’occhio quando si siede al Due Mori oltre al metodo di cottura ancestrale è il menu scritto in dialetto veneto e arricchito con alcuni detti popolari. “Agnelo soe bronse, ovi e sparesi, sgropin… c’è una motivazione seria dietro a questi nomi che per alcuni potrebbero sembrare goliardici. Abbiamo la possibilità di fungere da ponte tra l’ospite e il territorio anche attraverso i dettagli. L’identità del menu è un dettaglio di molto conto: scriverlo in dialetto fa sorridere e rievoca qualche ricordo nei clienti del posto, al tempo stesso incuriosisce l’avventore alla prima esperienza. Credo che l’ambizione del ristoratore del borgo debba essere far conoscere il popolo, le sue usanze, le ricchezze anche più semplici che lo circondano”. Dalla cucina a vista di Stefano escono piatti genuini, preparati con pazienza, grande riguardo per la tradizione e rispetto per le fatiche dei produttori. Anche questa non è una scelta casuale ma dettata dal bisogno di armonia. “Il ristoratore dovrebbe sempre lavorare rispettando la storia e il lavoro altrui ma in un borgo storico le responsabilità si acuiscono. Puntiamo alla coerenza con lo stile del luogo e ci impegniamo per far emergere l’identità. Un altro aspetto importante riguarda il conto: si dovrebbero calmierare i prezzi per favorire un’affluenza costante, quindi evitare che ci sia concentrazione eccessiva solo nel fine settimana, così vengono disperse le opportunità”. Giosuè Carducci ha definito Asolo la Città dei cento orizzonti e il motivo è chiaro: i panorami che offre sono mozzafiato. Uno scorcio suggestivo si può ammi-

rare, al tramonto, pure dalla terrazza del Due Mori, affacciata sulle linee sinuose delle colline asolane. Anche concedere una vista memorabile ai propri ospiti, predisponendo una terrazza o allestendo una grande vetrata (qui c’è pure quella), è un gesto che avvalora il borgo. “Non possiamo permetterci di lavorare in una scatola chiusa. Siamo in luoghi privilegiati e abbiamo possibilità di rendere ancora più belli e pregnanti i ricordi delle persone che vi fanno visita”.

In più occasioni in questa rivista abbiamo raccontato come non ci sia angolo nel nostro Paese privo di bellezze più o meno intatte, dietro cui spesso si celano storie autentiche. Pochi sottolineano però che molte, moltissime, di queste sono custodite proprio nei nostri borghi. Spazi silenziosi, identitari e in genere pure difficili da raggiungere, che dovrebbero essere custoditi attraverso una presenza turistica contingentata ma costante; andrebbero irrorati di percorsi condivisi tra imprese ed enti territoriali, e soprattutto urge che vengano ripopolati con intelligenza, riequilibrando un sistema fortemente sbilanciato che vede ormai le metropoli e le città off limits. Negli ultimi anni si è propagata l’espressione ‘albergo diffuso’ nata dall’idea di utilizzo a fini turistici delle case vuote ristrutturate coi fondi del post terremoto del Friuli (1976). Questo modello di ospitalità è stato messo a punto da Giancarlo Dall’Ara, docente di marketing turistico. Si tratta di un’impresa ricettiva alberghiera situata in un borgo, formata da più case, preesistenti e vicine fra loro, con gestione unitaria e in grado di fornire servizi alberghieri a tutti gli ospiti. Una soluzione che accresce le opportunità di questi piccoli centri e di cui (purtroppo) pochi ristoratori conoscono l’esistenza. Eppure gli alberghi diffusi, così come l’affermarsi del lavoro da remoto (specie tra i giovani) o l’innovativo progetto di case a un euro, rappresentano dei segnali che dovrebbero spingere ad investire in questi luoghi. A patto che tali idee di investimento siano progetti di ristorazione educati, in sinergia con le altre attività della zona, e che rispettino - come afferma Stefano De Lorenzi - tutto ciò che hanno attorno. Dall’altro lato è bene ricordare che le responsabilità non sono solo dell’imprenditore. Il visitatore ha degli oneri importanti, anche se si reca in un borgo solo per una cena o una degustazione. Deve entrare nella dimensione lenta del luogo, averne rispetto dall’arrivo alla partenza, in ogni gesto. Il viaggio mordi e fuggi solitamente intrapreso nel fine settimana o durante le festività se fatto con poca coscienza può essere solo che un danno e sfumare in una raccolta fotografica inconsistente. Questi luoghi meritano di più. Non dobbiamo ricordarci dei nostri borghi solo quando stiamo programmando un viaggio o dobbiamo soddisfare la nostra curiosità gastronomica. Dobbiamo averne cura sempre, custodendone le memorie e promuovendone la valorizzazione.

La famiglia Tinari di Villa Maiella

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