Fischi di carta 37 (05/2016)

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Fischi

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di carta
Maggio 2016 n. 37 • anno 4 Genova […]
Aldo
Superwoobinda, Protezione
INDICE pag. 2 | Editoriale – F. Ghillino, M. Valentini 4 | Poesia – F. Ghillino 5 | Planetario autori – L. Calpurni, E. Garlaschi 8 | Le poesie dei lettori – I. Pozzoni 9 | Elementi riflessioni – F. Asborno, C. Calabresi, M. Podestà 14 | Migrazioni traduzioni – L. Battaglia 15 | Prossa nova racconti – M. Karoli 17 | Prossa dei lettori – N. Buccaran 18 | Infischiatene recensioni – F. Torre
sembrano questi granchi di Cesenatico sono ossessivi sono dei granchi umani io no perché ho i soldi la Visa io vado tranquillo io sto male.
Nove,
solare diciannove

EDITORIALE

LA CAROTA di Matteo Valentini

Mario Rossi è seduto al tavolo della sua cucina, chino sul computer, e sta cercando di guardare un documentario sul Malawi, paese in cui dovrà recarsi tra qualche settimana e di cui vuole raccogliere più informazioni possibili. «Vai a vedere che casino»: il messaggio di un amico interrompe la sua fuga da redirect e pop-up che intasano la pagina del desiderato documentario. Mario Rossi allora scorre via col dito l’sms e digita “facebook” sul suo cellulare: Accadde oggi: Isolata la Vitamina C; Isabelle Loria fidanzata ufficialmente con Carlo Piatti; Le canzoni inedite di Jeff Buckley; Austria costruisce “muro” anti-immigrati; Questa volta mi hai davvero deluso; ... Insoddisfatto dalla sua ricerca, Mario accende la televisione ed ecco le breaking news : una palazzina di Catania sta andando a fuoco, i pompieri sembrano non essere abbastanza numerosi e le persone si lanciano dalle finestre

PRIMAVERA di Federico Ghillino Questo ultimo mese di aprile che abbiamo vissuto, ognuno l’ha vissuto da solo, portando avanti la sua intima storyline personale, ma l’abbiamo anche vissuto tutti insieme. Non voglio parlare di un livello storico, degli avvenimenti che toccano tutti. Voglio parlare del livello concreto quotidiano, di tutto ciò che si condivide con gli altri perché con gli altri si vive, volenti o nolenti. Quando si condivide si parla, è inevitabile, ed è proprio questa fortunosa caratteristica –

per scampare alle fiamme. Nello spazio in basso a destra dello schermo fanno capolino i tweet riferiti ai contenuti che il telegiornale ha proposto fino a quel momento, con i rispettivi hashtag: #lavalicolfuoco; #luciononmorire; #islamerda; ... Mario Rossi continua ad ignorare di quale casino parli l’amico, ma si è fatto tardi e deve andare in palestra, quindi spegne tutto, esce da casa e s’infila in macchina. L’autoradio dice che, se gli fanno male i denti e ha problemi di alitosi, potrebbe soffrire di parodontite, «ma una soluzione c’è!». Con i media e con i social network, la realtà aumentata smantella i confini tra pubblico e privato, confonde la storia con la Storia, impedisce la riflessione proponendo esperienze immediate e non localizzabili, aspira a rendere l’individuo un animale globale, mostrandogli, del globo, la sola superficie. In risposta a questa distruzione della memoria e dell’atto narrativo (se raccontare è ricordare), in qualità di contastorie possiamo racchiuderci in una strenua “resistenza umanista” oppure asserragliarci nelle aule dell’accademismo più minuto. Ma se vogliamo indovinare lo “spirito del tempo” siamo obbligati ad attecchire nella temibile realtà aumentata e a mangiare ciò che questa è in grado di fornire. A noi tocca insinuarci in questo nuovo mondo con atteggiamento critico, trapassarlo fin che ci riesce, assorbirlo e ragionarlo, come una carota fa con la terra

di noi esseri umani –che ci danna e che ci salva.

Noi dei Fischi abbiamo fatto il nostro: gestito il bookcrossing con Officina Letteraria , Collettivo Linea S e tante altre persone all’ Edicolibro , in piazza della Meridiana; organizzato insieme a tutti i ragazzi di UGA e di Daleth a Sampierdarena l’ AcciUGA sotto sale , dove insieme abbiamo suonato, letto e cantato a squarciagola; a fine mese abbiamo ancora letto e cantato insieme e con tutti i passanti grazie alle sessioni di busking Musica a km zero , in piazza Caricamento; abbiamo vissuto, ragionato e scritto, ma all’inizio e alla fine di tutto abbiamo, inevitabilmente, parlato. Le parole non sono importanti perché si deve essere persone colte, conoscere la sconvenienza di certi termini o il peso di parole antiche e ricercate; non perché si devono saper usare le forme giuste al posto giusto, conoscendo le strutture grammaticali. Le parole sono importanti perché scolpiscono ciò che ci circonda, ed anche noi stessi. Sono necessarie per esperire il mondo ad un livello che non sia solo pratico, ci servono per creare strutture astratte, per interpretare, comprendere ed elaborare tutti i dati e le informazioni che vivere continuamente ci elargisce. Decido di fare ora questa riflessione perché in questo numero trattiamo spesso dell’importanza delle parole, in tanti sensi, ma soprattutto perché questo aprile appena trascorso, tutte queste esperienze condivise ed anche le mie esperienze personali, mi hanno insegnato che con le parole, come si usa dire, si possono davvero spostare i monti e solcare per i fiumi nuovi percorsi

RAGAZZA IMMAGINE ALLA FIERA DELL’AUTO di

Federico Ghillino

L’eroe col casco è nell’abitacolo e affronta la pista con stile da rally. Sgasa sul rettilineo: è come un susseguirsi razionale.

Dentro, la ragazza formosa in formalina affonda i fianchi nella carrozzeria dell’auto. “Come ti senti ad appoggiarti a un’auto, un’auto da trecentomila?”

“Tutti mi fotografano: sono bella. Le auto sono una scusa per le mogli, i mariti si sentono uomini guardandomi. Io formosa e bella più di loro, più di queste.”

Il picco fra accelerazione e decelerazione prima della curva ad U: la svolta di un pensiero.

Mi chiedo come sia vivere così, ad essere una cosa desiderabile vicino a una scusa così grossa. “Come ti senti?”

“Boh, non lo so. Forse normale. Ma non so bene cosa sia stare normali.”

Altro rettilineo, in fondo altra U. Il pensiero si dirama: sgommare e corrispondere alla strada o andare dritto fuori. Dico fuori contro il cemento: attento. È la fase in cui a volte muori.

Le sue colleghe meno formose, più plastificate, chiacchierano annoiate, in mezze pose su due auto vicine. Col culo schiacciato alla portiera le ammazzano di foto.

Forse quello è stare normali: calzare una vita con pungente senso d’assedio, stare, truccarsi di mediocrità, far del proprio medio.

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PLANETARIO

CESARE PAVESE

autori

QUESTE DURE COLLINE CHE HAN FATTO IL MIO CORPO di

Sentirò intorno a me scivolare gli sguardi/e saprò d’esser io… Cesare Pavese si affaccia alla poesia pubblicando nel 1936 la raccolta Lavorare stanca. Meditata e continuamente rielaborata, questa raccolta si fa strada quasi in sordina, lontana dal ruvido verso ermetico. Pavese è un giovane scrittore che ha passato l’adolescenza e gli anni di studio universitario affascinato dalle poesie di Whitman, prova e riesce a trascinare il suo mondo, il suo ricordo del mondo con voce nuova e acuta, dando una fisicità al verso come le letture degli scrittori americani gli avevano insegnato. L’abbandono della metrica per scivolare nel verso narrativo, nella prosa ritmica essenziale è l’espediente con cui, come scrive nel suo saggio Il mestiere di poeta, ricerca – quasi in maniera confusa – l’«essenziale di fatti essenziali». Il tono quindi non è mai didascalico, bensì in continua tensione, per poter adattare la dimensione poetica a quella più prosastica e quotidiana del vivere. La poesia è come tesa nella scoperta esistenziale di se stessa attraverso situazioni, luoghi e incontri: nasce nell’attesa ed in essa si compie; il poeta si nasconde nel verso e nell’affinità che lo lega ad un luogo, sia esso la terra che sporca le mani, la collina che rivela l’orizzonte o la luce che svela terre lontane. Pavese mescola il sangue e le carte che i personaggi usano per giocare la loro esistenza: tutto è ricerca, tutto si mostra ai loro occhi come una lunga e graduale formazione alla scoperta, che dalla

Paesaggio VIII, da Lavorare stanca

I ricordi cominciano nella sera sotto il fiato del vento a levare il volto e ascoltare la voce del fiume. L’acqua è la stessa, nel buio, degli anni morti.

Nel silenzio del buio sale uno sciacquo dove passano voci e risa remote; s’accompagna al brusio un colore vano che è di sole, di rive e di sguardi chiari. Un’estate di voci. Ogni viso contiene come un frutto maturo un sapore andato.

Ogni occhiata che torna, conserva un gusto di erba e cose impregnate di sole a sera sulla spiaggia. Conserva un fiato di mare. Come un mare notturno è quest’ombra vaga di ansie e brividi antichi, che il cielo sfiora e ogni sera ritorna. Le voci morte assomigliano al frangersi di quel mare.

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terra e dagli oggetti comincia e nella vita finisce.

I protagonisti vorrebbero essere tutto sebbene allo stesso tempo si annullino nel fumo di una sigaretta, nel volteggiare cercando i colori al di là delle strade lastricate di Torino, nel richiamo lontano di voci sempre più sconosciute; si è di fronte quindi ad una poesia dalla grande carica semantica, nella quale ogni oggetto, ogni forma, ogni avventura si appropria di una forza spietata che molto spesso non trova via d’uscita. Allora i personaggi, quasi sfogandosi, si gettano fuori dal controllo di una dimensione sociale e mentale alla quale vorrebbero appartenere, con un senso ed una personalità propria. Gettando un’occhiata,/mi vedrò tra la gente, tutto è proiettato nello sguardo, in una visione della moltitudine di una vita che trascina e confonde

BIBLIOGRAFIA

• Cesare Pavese, Le poesie, 1998, Giulio Einaudi editore, Torino.

• Le citazioni all’interno del testo appartengono alla poesia Agonia, sempre tratta da Lavorare stanca

EDWARD ESTLIN CUMMINGS

UN PUNTO DI DOMANDA di Edoardo Garlaschi

Cummings nacque nel 1894 a Cambridge, dove ebbe occasione di frequentare l’università di Harvard dedicando il suo discorso di laurea al movimento dei Preraffaelliti, vista la sua necessità, di trovare un equilibrio tra pittura e poesia. Il concetto di immagine è di primaria importanza nella sua poetica, tanto da farlo annoverare fra i padri della poesia visiva. In seguito si arruolò come autista di ambulanze per evitare il fronte e, una volta giunto in Europa, venne rinchiuso in un campo di rieducazione, a causa delle continue insubordinazioni che la sua simpatia per l’ideologia anarchica lo portava a compiere. Una volta liberato, scrisse The Enormous Room, romanzo che però non mostrava ancora lo sperimentalismo che sarebbe divenuto suo marchio di fabbrica, ben visibile, invece, a partire dalla prima silloge poetica, edita nel 1924, Tulips and Chimneys, per la cui genesi Cummings dovette recarsi nuovamente in Europa nel 1921, dove ebbe modo di visita-

re Rapallo insieme all’amico Pound, e Parigi con Picasso e Marinetti. In quanto cultore dell’immagine cercò di conferire alle parole la forma più pertinente al concetto: ad esempio “bIrd”, per simboleggiare un uccello che si alza in volo, “mOOn” per accentuare la forma della luna piena; o l’abitudine di usare il pronome “I” in forma minuscola, così come le iniziali del proprio nome. Il pensiero anarchico e il virtuosismo verbale di Cummings gli permisero di utilizzare le parole in maniera non convenzionale, tanto da trasformare sostantivi in verbi come in Thy fingers make early flowers of in cui leggiamo “we will go amaying”, tradotto come “andremo alla festa di Maggio”. Addirittura arrivò a completare gradualmente la parola “Star” in BrIght, scrivendola inizialmente come “S???” e aggiungendo le lettere ogni volta che la parola viene ripetuta. Vi sono due errori in cui si potrebbe incorrere approcciando la poetica di Cummings:

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il primo sarebbe pensare alla sua poesia come una sorta di sperimentalismo con atmosfere eccessivamente moderne o con tendenze iconoclaste. Non del tutto corretto, alla luce della sua tendenza a dilettarsi con immagini e atmosfere simil-romantiche, creando una difficile collocazione tra gli estremi “tradizione” e “innovazione”: ne sono un esempio i versi “Verdevestita il mio amore cavalcava/su un grande cavallo d’oro/nell’alba d’argento” in All in green went my love riding e “una notte/quando fra le mie dita/si piegò il tuo corpo lucente/quando il mio cuore/cantò fra i tuoi seni/stupendi” da

If i believe. A questo si aggiunge il pregevole utilizzo di arcaismi quali “Thy”, “thee” e “thou” come nella già citata Thy fingers make early flowers of. Il secondo errore, il più grave, sarebbe considerare questo poeta come esponente di un’avanguardia Americana ancora acerba. Occorre citare l’introduzione di is 5 del 1926, in cui l’autore stesso giustificò il proprio modus operandi come subordinato ad una “precisione” generatrice di movimento. Cummings è, infatti, talmente preciso e minuzioso nella trasposizione di immagini che non solo risulta difficile capire come e dove collocarlo, ma non sembra dire nulla di nuovo, perché ad essere nuovo è il modo in cui viene detto questo qualcosa. Rappresenta un nodo gordiano nel tessuto dello spazio-tempo poetico, impedisce al lettore di fare una cosa del tutto spontanea (su cui era incentrato l’editoriale del mese scorso e a cui abbiamo dedicato un evento): categorizzare e dunque etichettare, operazione di cui bisogna riconoscere sia l’utilità logistica che gli svantaggi concettua-

BIBLIOGRAFIA

li. Tuttavia al poeta deve essere riconosciuto un altro merito, ovvero come con lui si possa tirare, finalmente, un sospiro di sollievo, riuscendo a riavvicinarsi a ciò che probabilmente determina l’accostarsi di quasi tutti al concetto di cultura: un’emozione antica e quasi dimenticata.

Cummings è la Poesia che ritorna ad essere libertà.

starsene (solo) in qualche meriggio autunnale: a respirare funesta quiete; mentre questa enorme così paziente creatura (che mai da mai è spogliata del dì) di sempre si veste sempre di sogno, è assaggiare in-(oltre morte e vita)immaginabili misteri

• E. E. Cumming, Poesie, 1998, Giulio Einaudi editore, Torino

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POESIE DEI LETTORI

Ivan Pozzoni è nato a Monza nel 1976. Collabora e pubblica con numerose riviste italiane e internazionali, ha pubblicato raccolte poetiche, opere di divulgazione e riflessione filosofico-sociale e curato antologie di versi.

DECRETO SULLE EMISSIONI MASSIME CONSENTITE di Ivan Pozzoni

La burocrazia, madre di ogni stato civile, senza civili smentite, ha finalmente emesso un nuovo decreto sul valore sociale dell’arte da lasciare in bella vista, in sede prefettizia, sotto lussuosi fermacarte, in materia d’emissioni artistiche massime consentite.

La certezza è che qualsiasi forma d’arte sia fonte d’avvelenamento onde l’urgenza decretomaniaca di una inavvertita mitridatizzazione (della popolazione), ha condannato il senatore del Molise a un quarto d’ora di santa abnegazione, fino a scomodare i sonni sacri dei membri del nostro Parlamento.

Si ordina il fallimento di tutte le case editrici di modeste dimensioni, di tutte le associazioni a scopo culturale, dei giornaletti di rione, caso mai, con la cultura, ci scappino rivoluzioni, l’ultimo exit-poll mostra che il mix tra Faletti e Fabio Volo conduce a sedizione.

I nove senatori intervenuti al dibattito e alla votazione, hanno equivocato, con inattaccabile tempismo: verso l’arte l’italiano medio non ha nessuna vocazione, essendo destinato a morir di decretinismo.

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LE

ELEMENTI

RE(I)STITUIRE

Non si ha qui l’ardire di presentarsi in veste di giornalisti, ma a volte, quando ci si trova di fronte a persone che pendono dalla propria penna – come siete voi in questo momento – chi scrive è tentato di mandare tutto al diavolo e mettersi a raccontare fandonie insensate che commuovano fino a far ridere, sognare o piangere, così come piangeva il padre di quel famoso critico letterario mentre leggeva Les Misérables di notte, tenendo sveglia la famiglia coi suoi singhiozzi. Non è questo però quello che si farà e non è nemmeno questo il senso della letteratura: i facili sensazionalismi li lasciamo a quella nuova genìa di web-writer che con i loro romanzetti digitali definiti newporn soddisfano i pruriti di una generazione di lettori diventati, ahinoi, sordi alle voci che non somigliano a caciare tra trogloditi.

Ammettiamolo candidamente: ci siamo smarriti nella Selva e Virgilio stavolta è rimasto in panciolle nel Paradiso Terrestre. Continuiamo ad avanzare però, non arrendiamoci e cerchiamo un lume di raziocinio in questa masnada lanzichenecca e pestifera di terroristi della Parola, che foderano di prosciutto anche quelle orecchie che sarebbero ben disposte ad ascoltare.

Esiste una letteratura giusta e una sbagliata?

La risposta è no, perché giusto e sbagliato sono categorie troppo labili ed effimere per poter essere utilizzate in questo contesto, possiamo invece dire che esiste

una letteratura con un’anima e realizzata con maestria; un’altra che sopravvive solo grazie a un briciolo di maestria e un’altra ancora che è solo brusio insensato e inutile.

Quale direzione prendere allora? Come districarsi tra queste Paludi Morte?

La risposta sarebbe lì, facile, accogliente e comoda: puntiamo sui classici!

Quante volte si è sentita, quante volte sarebbe stata da rigettare, non tanto perché i classici non valgano, ma perché non sarebbero sufficienti: per districarci dal chiasso di una Biblioteca inflazionata di parole vuote e caotiche, serve sporcarsi le mani e andare a rovistare anche dove tutto sembra essere solo sozzura e lerciume, perché le pepite esistono ancora, sono rare, ma si trovano.

Non saranno fatti nomi, non siamo qui per dare indicazioni stradali, ma per cercare di distinguere il sicuro asfalto dalle sabbie mobili, per tentare di portare a casa la ghirba: a tanto siamo arrivati.

Marcel Proust tra il 1909 e 1922 ha scritto un libro che potrebbe rappresentare la cifra di ciò che si sta dicendo: qual è in fondo il senso della sua Recherche, se non descrivere il potere che ha la letteratura nel recuperare la bellezza degli attimi perduti durante la corsa del tempo? Attraverso la scrittura Proust riconquista tutto il tempo che è passato, in modo che non vada perso, ma ritrovato; badate bene che l’ultimo dei sette volumi della Recherche si intitolava

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appunto Le temps retrouvé (Il tempo ritrovato). Per Proust la scrittura non diventa quindi un momento di sospensione dall’esistenza, ma un momento in cui la vita viene resa eterna, così come nei sonetti di Shakespeare (Né dovrà la morte farsi vanto che tu vaghi nella sua ombra/Quando in eterni versi nel tempo tu crescerai/Finché uomini respireranno o occhi potran vedere/Queste parole vivranno, e daranno vita a te) ad esempio.

Cercare una letteratura con un’anima, significa andare a riscoprire gli attimi di una vita, significa andare a rimestare in quei libri in cui gli autori si sono spesi, dove hanno graffiato a loro modo la pagina non solo rovesciandovi sopra dell’inchiostro, ma lasciandoci un segno netto e incontrovertibile.

Perché gli scrittori migliori sono quelli con le unghie affilate, quelli che restano impressi su chi legge puntando alla più sublime delle espressioni; che scavano dentro loro stessi quasi fossero miniere di gemme da regalare.

I veri scrittori sono esseri egoisti: badano alle parole che vengono da loro e si-

LOGOPEDIA di Claudia Calabresi

Sono passati più di duemila anni da quando Parmenide disse che “il non essere non è e non può, in alcun modo, essere”; con questo, voleva dire che ciò che non esiste non può essere pensato e, dunque, detto. Il paradosso non sfugge: come è possibile, allora, che si possa pronunciare con tutta tranquillità il nome di cose che non esistono? E via con gli esempi più o meno po-

lenziano i pareri degli altri, perché solo così beneficeranno il prossimo; gli scrittori che valgono davvero si perfezionano al limite del maniacale, limano, sfrondano, cancellano, innestano, mostrano i pozzi luccicanti di tesori che possiedono, senza però permettere a chicchessia di avvicinarsi troppo, o il fascino che esercitano svanirà. Alla fine restano indefiniti, mai del tutto comprensibili, ma tremendamente familiari, simili ai ragazzi di Prevert che non ci sono per nessuno, perché alloggiano altrove molto più lontani nella notte: seduti al di là di tutto, fermi sull’ultima collina dell’universo, a chiedersi cosa ci sarà mai oltre la siepe.

Rassegnatevi: la letteratura giusta non esiste, esiste però una letteratura sana, una letteratura nata da un proposito cogente, ovvero da un autore che aveva qualcosa da dire e che l’ha detto nel modo a lui più congeniale, perché tutto quello che aveva dentro potesse in qualche modo essere eternato dalla magia della scrittura, in modo che tutto il tempo da lui vissuto non andasse perduto, ma ritrovato

polari dell’asino che vola, di mia nonna in carriola e via dicendo…

La parola può portare a verità e menzogne, e da questo cinquanta e cinquanta non si scappa.

Quando si parla del potere della parola, non può sfuggire quanto, persino nelle fiabe, l’uomo tenga conto di esso. Maghi, streghe e figure mitiche evocano qualsiasi sortilegio

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A Umberto Eco

– e negativo e positivo, naturalmente – semplicemente parlando. La parola avvera: “sì, lo voglio”. La parola distrugge: “l’Olocausto non è mai esistito”. Uno dei più importanti sforzi umani degli ultimi decenni è stato volto a trovare il modo di comunicare anche a distanza, purché si continuasse a farlo utilizzando la parola. Radio, telefono, televisione: un carosello di voci. Un’evoluzione continua verso l’alto, per annullare il silenzio, perché se si parla non si è mai soli (a meno che non si sia un po’ matti, naturalmente). La parola avvera e distrugge: medicina e veleno – d’altronde phàrmakon, in greco, voleva proprio dire entrambe le cose.

Perché abusare di un farmaco può essere molto rischioso, soprattutto quando un Paese non capisce ciò che dice chi lo governa. Non si può non pensare ai nuovi oratori del Duemila: si tratta, perlopiù, di capi di Stato nel senso più ampio del termine – non soltanto di segretari di partito o di ministri, ma di conduttori televisivi, giornalisti, cantautori famosi.

La parola avvera, distrugge, ma in entrambi i casi è legge.

Il monaco Luciano Manicardi, classe 1957, dice in un’intervista che in tempi attuali “si corre il rischio di non affidarsi più al potere della parola ma alla parola del potere, del capo, a cui non si può controbattere”. Un importante equivoco concettuale che a poco a poco sta erodendo la facoltà di comprendere ciò che ci viene detto: non è un caso che lo studio del greco e del latino, linguaggi fondati sul senso della realtà e della verità, sia perennemente sotto attacco. Il grande Socrate, ad esempio, riteneva che per tirare fuori ciò che di meglio si nascondeva in un uomo fosse necessario intavolare con esso un dialogo vivace e ben

strutturato nel quale il suo interlocutore finisse, sotto i sapienti colpi del filosofo, per autocontraddirsi e di conseguenza ad ammettere la verità che gli si stava via via disvelando, per poi darla alla luce: non a caso questo tipo di dialettica è chiamato maieutica: arte della levatrice. La psicoterapia moderna non è tanto lontana dalle concezioni di Socrate: in quarantacinque minuti di seduta si parla incessantemente fino ad arrivare al nocciolo del discorso. In anni e anni di quarantacinque minuti si dà un nome a cose che avevamo rimosso dalla coscienza; solo così le nostre paure si distruggono – e il sogno di stare meglio si avvera.

Ma se è indubbio l’effetto salvifico della parola, ciò che sarebbe meglio non dimenticare è il rischio che si corre a fidarsi di termini impropri, sottilmente illusori: la parola gridata, all’ordine del giorno, è un’instancabile divoratrice di neuroni. Basta aumentare i decibel ed è impossibile sottrarsi, il comando è perentorio e brutale: è sufficiente chiamare un concetto con un termine che non gli corrisponde ed eccolo spezzarsi, riaggregarsi, farsi altro da sé. Titoli di stampa campeggiano sui giornali e sulle nostre bacheche di Facebook inneggiando a verità poco sincere e ci sono relazioni tra attrici e calciatori più osannate di sagge analisi antropologiche. La parola abusata, sconvolta dal trauma, talvolta si fa patologicamente noiosa, ed ecco che dopo anni e anni “strage di migranti” non interessa più; “attentato dell’Isis” neanche. Fiumi straripanti parole formano una pappa informe in mezzo al fango quando basterebbero poche, asciutte, nuove frasi a restituire dignità a determinate notizie. Dunque la parola avvera, distrugge, ci tiene compagnia e talvolta, come una vecchia

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zia, ci annoia.

In ogni caso ciò che più ci disturba è la sua assenza – ci si lascia quando si smette di dire “Ti amo”. Questo perché ormai siamo tossici della parola: ne dipendiamo. Stiamo ritornando al pensiero di Parmenide per cui, se si dice qualcosa, è perché esiste, altrimenti non c’è; e così la parola, una volta nobile mezzo, è diventato il fine della nostra esistenza. Siamo in balia di un’orgia di discorsi che ci anestetizza e

ci fa dimenticare che, per citare i dieci comandamenti – altro esempio di parola fatta legge – non bisognerebbe nominare la Parola invano.

Non tutto può essere detto. E a volte la miglior parola è proprio questa: il silenzio

UN ARTICOLO CHE VI FARÀ...

di Martina Podestà

Chiamato cliffhanger, negli ultimi anni è uno dei cardini della serialità e consiste in un finale in cui la narrazione si interrompe bruscamente in corrispondenza di un momento di grande suspense. Usato soprattutto nei finali di stagione (si veda la quinta serie di Game of Thrones), consiste solitamente nel lasciare uno dei personaggi principali tra la vita e la morte, o nel nonrisolvimento di un nodo enigmatico di grande importanza per la storia.

Quella del finale sospeso è però una tecnica usata da sempre sia in letteratura (si pensi ai romanzi d’appendice) sia al cinema, spesso in vista di episodi successivi (parliamo quindi di saghe), ma anche in narrazioni che non prevedono alcun seguito. È bene però precisare che non si parla qui di opere lasciate incompiute per svariati motivi, come la morte dell’autore, ma di opere concluse, con un finale intenzionalmente lasciato aperto dallo scrittore.

La domanda a questo punto sorge spontanea: perché un autore dovrebbe

volutamente lasciare sospesa la propria storia?

Una simile tecnica può essere usata con esito comico, come nella novella Romanzo medievale di Mark Twain, in cui l’autore crea un intreccio che, confessa alla fine, non è più in grado di sciogliere: «non troverete alcun finale in questa storia» – dice – «perché ho gettato l’eroina in un tale vicolo cieco che non mi resta che lavarmene le mani».

Può altrimenti essere usato con intento satirico: il finale sospeso è infatti la cifra stilistica della raccolta Woobinda e altre storie di Aldo Nove, in cui i racconti contorti, ossessivi e assurdi terminano spesso con una parola lasciata a metà. Obiettivo principale dell’autore, qui, è quello di dipingere una società afasica e farneticante: i suoi racconti vogliono riprodurre le chiacchiere inutili che caratterizzano i nostri tempi e, in questo contesto, il fatto che il finale sia lasciato sospeso è la conferma del vuoto di contenuti che mette alla berlina, della non

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importanza di ciò che si dice; le parole dunque restano a metà, si perdono nel vento, futili.

Fondamentale è poi questa tecnica per l’horror: moltissimi racconti brevi di questo genere, tra i quali ricordiamo quelli di Ray Bradbury, terminano senza una vera e propria chiusura del finale, lasciando il lettore a bocca asciutta. Un simile finale è efficace poiché permette di conservare il mistero, elemento fondamentale della narrazione noir, e richiede la collaborazione del lettore, che deve ricreare da solo il proprio scenario orrorifico. Il finale sospeso può essere dunque usato per far ridere, intimorire o riflettere; talvolta per provocare o sorprendere: il punto interessante è che in ognuno di questi casi è richiesto al lettore uno sforzo interpretativo. Di fronte a un finale sospeso, infatti, chi legge deve immedesimarsi per un attimo non nella storia, ma nell’autore e creare un suo finale con il solo ausilio dei dati forniti dal testo e della propria creatività; molto chiaro a questo proposito è Umberto Eco nelle sue Sei passeggiate nei boschi narrativi, in cui teorizza la figura centrale del Lettore che deve riempire gli spazi bianchi lasciati dalla narrazione con la sua attività inferenziale.

Se non nella ricostruzione della storia, lo sforzo di collaborazione è richiesto a chi legge per capire il senso della sospensione narrativa: nei racconti di Nove, ad esempio, è necessaria un’analisi contenutistica per capire il motivo della sua scelta. Talvolta il racconto può terminare non con una sospensione della narrazione, ma con una reticenza: al lettore sono cioè forniti tutti gli elementi per costruire il finale che però non viene descritto

dall’autore. In questo caso è richiesta una minima collaborazione – potremmo definirla “un gioco a unire i puntini” – che consiste solo nel raccogliere i dati presenti nel testo e nel creare la giusta sceneggiatura.

Oltre a quello letterario, anche il caso cinematografico offre interessanti spunti d’analisi per i finali sospesi: non possono non venire in mente Inception di Christopher Nolan, in cui ci rimane il dubbio se il mondo in cui si svolge la storia sia reale o immaginario; Shutter Island (Martin Scorsese), che non ci consente di sapere la verità sulla salute mentale del protagonista; Zodiac (David Fincher), che non ci svela l’identità del serial-killer, elemento ancora più sorprendente dal momento che il genere giallo-poliziesco prevede per sua natura un finale chiuso, dato che è consuetudine che il lettore/spettatore si metta in competizione col detective (o chi per lui) e pretenda un riscontro finale delle sue supposizioni. Pensiamo anche al caso italiano del Pasticciaccio gaddiano, primo giallo nostrano a sconvolgere la struttura del genere classico lasciando il lettore senza un finale.

Parliamo quindi di una tecnica narrativa molto esplorata e sfruttata dai media soprattutto per stupire, per rendere memorabile una narrazione, usata soprattutto in quelle brevi che richiedono un finale “a effetto”, quindi a sorpresa o sospeso, il quale oltre all’efficacia nel creare sgomento nel lettore gli permette di non essere solo spettatore passivo, ma di mettersi in gioco diventando co-autore e riempiendo tutto lo spazio bianco che chi scrive gli lascia sulla pagina

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MIGRAZIONI

traduzioni

Poesia di Ed Senders, dalla raccolta Poem from jail (Poesia dal carcere), 1963. Traduzione di Lorenzo Battaglia.

POEM FROM JAIL

[…] No, they have not halted hate. Yes, it is true; Death shall assume the continuum. If I am turned to atomic death here in my cell, Let I leave behind for earthologists a masturbation, poetry on toilette tissue, love-body of continuing nonviolence; and I shall project myself to that time where I am clad in feathers, & my mind is ejaculated into the Cosmos & I breathe the god-breath, & dance in the rays of Nonviolence, staring into forever.

POESIA DAL CARCERE

[…] No, Essi 1 non hanno fermato l’odio. Sì, proprio così; la Morte sola si fa carico del continuo delle nostre vite. E se ho osato rivolgermi qui, nella mia cella, alla morte atomica, Permettete signori che io lasci agli esploratori del futuro, l’esempio di una masturbazione, una poesia scritta sulla carta igienica, amore puro che si manifesta attraverso la Nonviolenza; & così potrò proiettare me stesso al momento dove sarò vestito di piume, & la mia mente sarà eiaculata nel Cosmo & allora respirerò nel respiro divino & canterò nella pioggia la Nonviolenza, fissando il mio sguardo all’eternità.

1 Qui l’autore si riferisce ai governi delle democrazie occidentali.

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PROSSA NOVA

racconti

In principio c’è la parola ma non si sa mai bene da che parte prenderla. Prima di lei non c’è niente, nasce da sé, come un germoglio che germogli da solo quando nessuno se lo aspetta, alla luce dei primi raggi dell’alba. Nemmeno Dio ci guarda da lassù, bisogna ancora che ce ne facciamo una ragione, che in grazia di Dio riceviamo un’anima, nasca la mentalità. Ed è Pace. Poi fa sera e fa mattina, ma in questo modo chi racconta ha solo due colori, il giorno e la notte, il bianco e il nero. Le lucciole rimangono imbrattate, nell’acqua rimasta a gocce sulle pareti, mentre cercano di liberarsi dall’acqua tesa, capillare, a intermittenza. Ed è Guerra. Sfortunatamente per gli uomini, però, poi fa sera e fa mattina, e il terzo giorno la parola è fiorita e si allontana dalla terra, ha piovuto tutto il pomeriggio e dappertutto sono i colori dell’arcobaleno. Ci sono tante tonalità, tanti fiori e bisogna fare attenzione a non confondere i petali di uno con lo stelo di un altro, le parole di uno con i desideri di un altro. Nonna ha preparato la fettina di vitello, e il pane con l’olio e l’origano profumato, e Milo bambino desidera che arrivi la sera per vederci di nuovo chiaro, per catturare le lucciole con le bottiglie rimaste vuote, comprate al supermercato.

Casa di nonna sta a Ponteggia, a una diecina di fermate di corriera da Villa Lata, e quando piove sembra venire giù tutta la montagna: le pietre franano sulla strada battuta, le ripe si sfaldano, gli ettari di proprietà

disperdono i confini e la facciata del colle è stravolta come una donna che si sia scordata di struccarsi, prima di mettersi a piangere. I nonni di Milo bambino venivano da Pedona, i soldi a debito del Banco Popolare hanno pagato quasi tutto, la pietra di Cerignola, il legno di abete rosso, le inferriate ai contorni del bosco e del roseto sul limitare dei terrazzamenti. Molti anni prima, in città, il nonno di Milo bambino aveva trascorso la guerra. I tedeschi, diceva, arrivavano in marcia nella piazza grande, l’avanzata guidata da un gigantesco carro armato costringeva tutti a rintanarsi nelle case o sotto i portici o negli anfratti dei canali. Il caporale uscì dal suo abitacolo con il fucile in mano, minacciando il nonno di sparare se non si fosse spostato. Ma un ragazzo, diceva, si chiamava Balilla, afferrò un sampietrino e lo lanciò diritto in testa al soldato tramorturo, spaccandogli il naso.

Milo ragazzo lo vide e gli assestò un pugno sulla faccia. Gli aveva mentito, lo aveva tradito e adesso era cieco di rabbia.

«Mi hai mentito» gli disse prendendolo per il colletto.

Chi si fosse soffermato, dall’autobus ancora in rimessa davanti alla fermata, avrebbe assistito ad uno spettacolo (subito ci fu un fragore, un fracasso di vetro in frantumi!): spaventato avrebbe creduto di vedere Milo ragazzo violentare una donna, col busto in avanti, l’eroe furioso che si schiacciava i

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quadricipiti contro la sbarra strutturale, orizzontale, dove si saldano i seggiolini per l’attesa, sulla quale pareva sedesse una donna a gambe aperte. E Milo, ragazzo, tra quelle sue gambe.

In realtà le gambe in considerazione erano del suo rivale, i due si erano ritrovati in quella posa tanto erotica nel momento in cui uno scaraventava l’altro contro il vetro della pensilina, mandandola in mille pezzi, intralciati soltanto da quella sbarra metallica ad altezza culo. L’altro era remissivo, colpevole, urlava di smetterla con il tono di chi ritiene di avere espiato a sufficienza, ma lascia alle ragioni dell’altro di decidere se continuare a pestare. L’occhio nero, ora Milo lo fa cadere sui vetri ma devono essersi feriti entrambi perché anche il pugno che colpisce gronda sangue. Qualcuno ha chiamato la polizia. Un negro che assiste cerca di fermarli. Colpito e insultato. C’è una macchina e Milo ragazzo costringe il rivale a salire, ma bisogna portarlo in ospedale. Sono partiti di corsa e poco dopo arrivava una volante e scendevano i poliziotti con gli stivali in una pozza scura. L’africano ha fatto in tempo a prendere la targa ma interrogato riusciva a dire solo: «Se le sono date di brutto».

Raccontare una storia soprattutto se triste è un duro compito per uno scrittore. Se sceglie di narrarla da fuori, da un punto di vista che rimanga esterno alle vicende trattate, l’autore ha la responsabilità di raccontare come sono andate le cose in maniera oggettiva, senza mai dare quella fastidiosa impressione di onniscienza, di presunzione, di patetismo. Quando incontra gli oggetti o i personaggi non deve cedere alla tentazione di chiamarli troppo facilmente per nome, di darli per scontati. Lo scrittore ha il dovere di costruire delle geometrie, delle prospettive

personali ma poi, da subito, esplicitarle: essere fotografico, mai pittorico. Così in quell’ospedale fu mattina e poi fu sera, e al narratore non resta che dire di Milo ragazzo mentre piange per l’amico che ha appena massacrato, per la donna che ha scoperto traditrice. Era stata pace, poi guerra, e il terzo giorno è molto più facile distinguere le parole tra di loro, le parole vere dai veri desideri, rivivere gli istanti di un passato tanto logico e capire che, in fondo, si è sempre stati ingannati.

È il momento di un breve escurso sulla storia di Eunice. Il nonno di Eunice bambina viveva per il suo lavoro. Da giovane aveva fatto le scuole ed era stato in marina e negli anni ’50, all’età di ventisei anni, col fido del Banco Popolare aveva potuto comperare i macchinari necessari a mettersi in proprio: guarnizioni navali e riparazioni. L’attività era molto cresciuta negli anni: Pedona è città di mare e il duro lavoro, parallelamente a una concezione solo “tripartita” della nozione di utile – in ordine prioritario: il dovuto agli operai, il dovuto ai fornitori, il restante alla famiglia (ciocchè almeno filosoficamente rendeva un ingiusto discredito al ruolo sociale occupato dal Fisco) – consentiva a qualunque piccola impresa familiare di moltiplicare il proprio capitale nell’arco di due o tre decenni. I genitori di Eunice iniziarono presto a lavorare per il nonno, la famiglia negli anni ’80 aveva una casa proprietaria, venti lavoratori a tempo indeterminato e due officine, al 9 e all’11 di via Gramsci. È nella prima di queste due palazzine che venne su il figlioletto unico ed è sempre lì che, alcuni anni dopo, nella stessa casa, fu allevata Eunice bambina. Questa passava molto tempo nell’officina, poteva disegnare coi pastelli e imparare ad andare con la bicicletta. Una volta un operaio col suo camion era entrato di corsa

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ma aveva dovuto inchiodare, per non investire Eunice che pedalava. Un’altra volta un grosso topo le aveva tagliato la strada, e questo secondo incidente segnò definitivamente la fine della sua passione per la bici. Così adesso accompagnava a piedi la nonna per le sue faccende: la messa per l’anima, la banca per gli assegni, la gioielleria per il lusso ed infine, per gli oggettini, Chan.

Chan era ometto dall’aspetto puntuale, i capelli tagliati corti e le guance rasate filo filo, si era trasferito a Pedona da alcuni anni, viaggiando per centinaia di migliaia di chilometri in nave, partito dal porto di Yuan-Chu. Ma le sue dita erano goffe mentre toccavano il denaro, mentre riponeva la merce negli scaffali, e la nonna andava matta per tutte quelle cineserie che virgola dopo virgola, congiunzione dopo congiunzione, per un narratore sarebbero forse soltanto enumerative, inutili a restituire l’esotismo della sua bottega. Quel giorno però, sorprendentemente, anche il nonno varcava la soglia di Chan.

Imprenditore intuitivo e vivace, il nonno di Eunice bambina aveva deciso di fare un

coraggioso viaggio d’affari, voleva estendere la sua attività all’economia di un continente che da alcuni anni prometteva di espandersi sempre maggiormente.

«Impara sempre le lingue, non avere mai bisogno di un interprete», aveva detto, in effetti, il nonno a Eunice ragazza qualche anno dopo: «Specialmente negli affari, perché non sai mai cosa potrà dire al posto tuo».

E all’epoca l’unico cinese che abitava in tutto il quartiere era forse, in effetti, proprio Chan.

Il nonno entrò deciso, col fare di chi sa che la fermezza, di per sé, bene atteggiata è sufficiente a convincere se stessi e gli altri delle proprie manovre e così, dopo quell’ingresso improvviso e qualche ulteriore breve colloquio, non si voltò pagina al calendario dei santi della Quercia Nera che il buon lavoratore e il suo interprete erano in partenza per il porto di Yuan-Chu, alla scoperta di nuove possibilità di mercato.

Eunice non sopportava che Milo uomo… (continua)

PROSSA DEI LETTORI

Questo testo era in attesa da due anni circa, me ne ero dimenticato, certo che ne è passata di acqua sotto i ponti, sono cresciuto nel frattempo. Per ragione di affiliazione sono tenuto a fare pubblicità a un blog di nome Alka-Seltzer, ci son ben nove autori credo, ed è pieno di poesie contemporanee e prose.

IL MESSO DI ARIMANE di Niccolò Buccaran

Questo è l’estratto di un racconto che potete trovare, nella versione integrale, sul nostro sito web.

Aveva piovuto nei giorni precedenti e la terra era fangosa quel 13 settembre del

1916; restavano le tracce degli uomini sulla terra e le persone che vennero quel gior-

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no si sporcarono. Portarono Mary più gli altri quattro elefanti, affinché assistessero e gli fosse di monito, ed essi erano già attesi, che a frotte quel giorno giunsero i cittadini per l’insolito spettacolo. […] Vi erano parecchi bambini tra loro e grandi e piccini si appressavano nel cantiere della società ferroviaria Clinchfield. Chi aspettava in silenzio assorto nelle sue preoccupazioni o forse teso per l’avvenimento, chi vociferava con il vicino, sempre tenendo un occhio ai pachidermi, chi si scambiava qualche battuta per passare il tempo [...]. Finalmente incatenarono Mary al binario di una ferrovia, mentre il carroponte la sovrastava e, poi, cautamente, le fecero passare intorno al collo una catena, adeguato capestro di ferro. Mansueta, abituata alla folla, se ne stava e l’emozione crebbe nel silenzio non appena l’improvvisato argano cominciò, lentamente, inesorabilmente, in uno stridio, a tirare. Torse la testa, barrì e fu un lamento di straziante dolore quando la catena che la doveva uccidere, man mano che l’aveva sollevata, trovò la resistenza della catena che la legava alla ferrovia: ché qualcuno si era dimentica-

to di scioglierla dalla zampa destra. Nulla fu fermato, i più vicini, ammutoliti dall’orrore, sentirono il rumore dei tendini che si spezzano; poi, per la eccessiva trazione, anche la crudele catena si ruppe e la grande Mary cadde a terra. La folla di esseri umani temendo la vendetta e la furia sciamarono via come mosche, ma annichilita, gravemente ferita, scioccata, essa non poteva rialzarsi, accasciata respirava pesantemente e si guardava intorno con il piccolo occhio marrone folle di terrore. E si riavvicinarono cauti i bipedi e un’altra catena fu approntata e stralunati, infarciti di adrenalina, le cinsero di nuovo il collo. La catena tornò a scorrere e Mary, come per miracolo, prese il volo, sospesa nell’aria, si innalzò; quattro metri la separavano dal suolo quando morì e tutti i presenti lo videro, videro l’elefante dondolare all’incupire del giorno, penzolava. Allora fu vero,un elefante si dondolava sopra il filo, ma non era di una ragnatela e non chiamò nessun altro elefante, perché era crepato, e io risi sguaiatamente quando si rilasciarono le viscere e ne precipitò una cascata di merda. […]

INFISCHIATENE

EVGENIJ ZAMJATIN

L'INONDAZIONE ( VOLAND, 2016 ) di Francesca Torre

recensioni

L’inondazione, pubblicato per la prima volta nel 1929 , è uno dei primi titoli della collana digitale e.klassika, dedicata a capolavori della letteratura russa oggi introvabili. Il nome stesso dell’autore forse dice poco ai più; eppure la sua opera più importante, Noi, rappresenta nientemeno che l’antecedente della letteratura distopica novecentesca e in particolare di 1984. L’inondazione, come ci spiega la curatrice Daniela di Sora: «solo in apparenza non ha la carica accusatoria delle opere precedenti». Nell’incipit, l’autore focalizza lo sguardo su una Russia che ha visto la guerra

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e la rivoluzione, eppure che appare sempre uguale a se stessa; solo il carbone è cambiato («prima veniva da Cardiff ed ora dal Donec»), forse addirittura in peggio. Questa Russia è lo sfondo e insieme la proiezione della vicenda di una coppia dall’equilibrio precario. Microcosmo e macrocosmo, ordine naturale, destino universale e storia privata sembrano aver stretto un legame inesorabile. «Per tutta la notte il vento del litorale batté alla finestra facendo tintinnare i vetri, l’acqua della Neva saliva. E come legato alla Neva da invisibili fili, anche il sangue saliva». Alla tensione del fiume risponde il sangue dell’uomo, che ribolle nelle vene poco prima dell’amplesso, ma anche il «sangue di donna», tanto naturale quanto indesiderato, anticipato da un incubo. È anche attraverso l’ambiguità fra sogno e realtà che il narratore mette a nudo l’essenza dei due protagonisti, tanto più sottile e resa in maniera efficace quando vediamo Sof’ja correre, singhiozzare, inciampare, cadere, toccare «qualcosa di umido» e solo alla fine svegliarsi dallo spavento, con le mani sporche di sangue. Trofim Ivanyč e Sof’ja vivono come una vera e propria frustrazione l’attesa del figlio tanto desiderato che ogni mese manca al suo appuntamento. Decidono così di adottare Gan’ka, la figlia di un falegname malato di tifo, quando la piccola rimane orfana. Ma Gan’ka si relaziona solo con il padre adottivo, mentre si limita, in alcuni momenti, a guardare fisso Sof’ja attraverso i suoi occhi verdi da gatto. Un giorno, tornata a casa prima del solito, «sulla soglia apparve Gan’ka, scalza, con indosso solo una spiegazzata camicia rosa. Si fermò impietrita, la bocca e gli occhi spalancati su Sof’ja. […] Quasi immediatamente entrò Trofim Ivanyč. Era vestito, evidentemente non aveva ancora fatto in tempo a spogliarsi […].»

Gli argini del cuore di Sof’ja non possono più contenere la piena dei suoi sentimenti, proprio come quelli della Neva la furia dell’acqua: il mondo sembra essersi fatto carico del dramma, fino a sfociare nell’inondazione, che può essere facilmente letta come una metafora concretizzata all’ennesima potenza dall’autore. Poco più avanti, il cuore della donna verrà di nuovo inondato, questa volta dall’odore del sudore della ragazzina: così, in un attimo, Sof’ja abbatte una scure sopra di lei. Zamjatin privilegia il silenzio, si affida a immagini che si susseguono alla maniera di un film muto. L’autore sceglie, a seconda della necessità, di allargare e restringere l’inquadratura e di soffermarsi su questo o quel particolare dell’ambiente (le nuvole; una mosca, prima prigioniera in un barattolo, poi attirata dal cadavere) e dei personaggi (le labbra di Sof’ja; il suo ventre che brucia; l’odore di Gan’ka, la frangia bionda, le ginocchia tenute larghe; i denti dell’uomo) che ricorre, esemplificando un sentimento. Il cuore di Sof’ja scandisce un tempo tutto suo, che sembra influenzare il pendolo, più volte paragonato a un uccello agitato: lo stesso animale simbolo della donna, così come, per antitesi, il gatto rappresenta Gan’ka: ambiguo, espressione di una certa sensualità (la stessa della ragazza, attratta dai giovanotti del vicinato e desiderata dal padre adottivo). L’azione, rapida e lineare, deve molto a un linguaggio essenziale, che si nutre della metafora e della similitudine, che si affida non alla retorica e alla descrizione, ma all’incisività dell’impressione per meglio rappresentare la tensione. Zamjatin riesce così a farsi interprete di un clima di precarietà e di violenza, rappresentando il fallimento di una Rivoluzione che non ha significato la liberazione della donna dal peso della maternità a tutti i costi e dal servilismo (Sof’ja), che ha lasciato i più deboli vittime di soprusi e del proprio destino (Gan’ka), mentre l’operaio «Trofim Ivanyč non somiglia affatto al costruttore di un mondo nuovo», come scrive Daniela di Sora. Una voce vitale, originale e coerente che merita davvero di essere riscoperta

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Federico Ghillino Alessandro Mantovani Emanuele Pon

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Carlo Meola Amelia Moro Matteo Valentini

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Federico Asborno, Lorenzo Battaglia, Gaia Cultrone

COLLABORATORI

Riccardo Bettini, Maurizio Brancaleoni, Irene Buselli, Claudia Calabresi, Laura Calpurni, Marta Cristofanini, Anna Denaro, Giorgia Erriu, Giulia Gambardella, Edoardo Garlaschi, Andrea Lanzola, Pietro Martino, Paolo Palermo, Martina Podestà, Diletta Porcheddu, Francesca Torre

ILLUSTRAZIONI

Matteo Anselmo

GRAFICA Beatrice Gobbo

Fischi di carta è stampata presso:

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