Fischi di carta 45 (estate 2017)

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Fischi di carta

E veramente siamo diversi. Coi ginocchi coperti o gli alti tacchi da donna, pensiamo di affrontare il mondo via via che il cuore si gonfia dentro il petto, e negargli lo sfogo ci sembra sia un dovere. Diventare grandi crediamo sia questo soffrire in silenzio, parlare per allusioni o fare gesti che abbiamo visto fare, mischiare veleno e miele dentro il cuore. Vasco Pratolini, Il Quartiere

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Numero Estivo 2017
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n. 45
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Genova
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Editoriale – A. Mantovani
Poesie – E. Pon, G. Cultrone, F. Ghillino
Planetario autori
E. Garlaschi
Elementi riflessioni
F. Asborno, D. Porcheddu
Migrazioni traduzioni
M. Brancaleoni
Prossa nova racconti – I. Buselli
– A. Moro, F. Gallo

EDITORIALE

Desidero congedarmi dai lettori per questo tempo estivo con una riflessione che è poi un tarlo piuttosto ricorrente. Molti giovani pensano che fare cultura sia solamente un bel passatempo o un qualcosa che si fa solo abnegandosi a valori di lettere ed etere quali la bellezza etc. Chi lavora nel campo, invece, è ben cosciente della concretezza dei problemi, degli ostacoli, degli scopi e soprattutto delle responsabilità. Fare una rivista o scrivere un testo di qualunque tipo (indirizzato verso il pubblico), persino partecipare ad eventi performativi è sempre fare cultura. Il punto è chiedersi se è buona o cattiva cultura, in poche parole, se è utile. Ma utile a cosa? Mi metto a parlare come un capitalista? Un momento. L’utilità di cui parlo si raffronta nella possibilità di azione sul campo del reale. Il mondo culturale di oggi è un mondo contraddittorio, pieno di angoli bui, di intermittenze e deficienze. Il risultato lo vediamo tutti: una scarsa diffusione (partendo dall’istruzione) e un ancor minore peso nei contesti socio-politici. La cultura è di per sé militante così come scrivere è di per sé un gesto politico. Anche il migliore lirico (e diciamoli grossolani Montale, Sereni etc) può portare nei suoi versi una focalizzazione critica verso ciò che riguarda tutti e non solo se stesso. Dunque, l’appello che faccio ai nostri – spesso giovani – lettori è il seguente: dando per scontata una non eccessiva severità con se stessi, siate coscienti di ciò che scrivete. Siate coscienti del fatto che potete scrivere, certo, la vostra lirichetta per il fidanzato/a, per il malessere etc, ma che quella cosa – a meno che non vi alleniate a diventare nuovi Montali e allora ben venga –deve essere accompagnata da un esercizio maggiore della letteratura in senso sociale. Abbandonate la psicosi collettiva che ci affligge ossia rendere ossessivamente pubblico il privato. Quel “pubblico” abbiamo bisogno di rifondarlo su nuove istanze, pensate e scritte con consapevolezza. Dobbiamo pensarci

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ALLA STAMPA

I (Primavera 2016)

La piazza vogliamo che sia come avesse il nostro nome inciso sui tavoli in ferro battuto di fuori, nelle gocce di liquore dell’ultimo bicchiere sorbito; e vogliamo urlarci al quadrato imperfetto dell’eco incastrata alla Stampa, da padroni di strada: predoni di sole, qui ed ora abitiamo la bolla di tempo che abbiamo fermato.

II (Primavera 2017)

Ora ci ha trovati la piazza fatti di un sole più fresco uguale e diverso, inaspettato portato dal vento nell’isolato – forse adesso per restare, forse adesso addomesticato.

Così ora a capitare è lo sguardo riaperto di getto sulla Stampa a posarsi su tavoli e bicchieri e volti rimasti in attesa l’uno dell’altro, alla finestra di quella bolla che sembra ieri.

Ci ha aspettati la piazza ferma – forse di noi si ricorda –, non una mossa: ci guarda conoscerci, studiare la smorfia rossa del cielo (esplode la bolla), tornare nell’orma e capire che questo tutto, torna.

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RACCONTO IN DUE TEMPI

di Gaia Cultrone

Chissà cosa avevo udito di quando mi facevi respirare, per vedere se qualcosa rimaneva appannato sulle vetrate.

Primo tempo, ovattato.

Restavi a guardarmi le vertebre, contarle come le sillabe dei miei versi tutti sbagliati.

C’era vetro spesso due dita, da spezzare tenere lontano per non tagliarsi.

Giocare a farci le smorfie le mani ad aderire contro come mimi, come soffocare

Guardandoti essermi pioggia mio malgrado, guardandoti io non ho saputo urlare.

Secondo tempo, rumoroso.

Il vetro caldo non brucia le mani di carne; l’urlo non si teme, ride piuttosto, danza sguaiato, anche se non si vede.

Sentirmi corpo senza tremare, senza vedere i contorni ma dietro il vetro, sento, sorride.

Guardandoti essere sole consapevole, credo insomma, sì, che il vetro si sia rotto.

Da sempre bambina irrequieta, a chiedere di aprire le finestre, «oggi fuori c’è il sole», accechiamoci, guardiamoci.

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SINFONIETTA PER VOCALE SCOMPAGNATA

Eravamo due vocali senza vezzi aggettivali, suonavamo bene insieme, ma non troppo, solo bene. Poi per una scordatura fummo iato da paura.

Fu per un fatto di suono, non tradimento o perdono, più tono che sentimento, forse per liti d’accento, ma la vocale da sola anche se grida non suona e non basta chicchessia per tentare un’armonia. Se ci mette un po’ di testa può ambientarsi ad una festa ma il problema, quello vero, è quadrare con l’intero oltre l’attimo e il contesto: è inserirsi dentro un testo.

Signorine consonanti fanno cuore a tutti quanti: gutturali a cui risalta gonna corta e vita alta, palatali birichine con le calze parigine, le dentali con i tacchi, le labiali giacche a scacchi, poi ci sono le alveolari coi vestiti floreali.

Sono tutte meraviglia, caramelle, vetro, biglia, ma non voglio sillabare o sforzarmi di rimare, a me serve una vocale per serate da assonare per i giorni silenziosi di sussurri vergognosi: per suonare a tutto tondo cerco solo il mio dittongo.

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PLANETARIO

autori AMY LOWELL, DRAMMI E SILENZI

Dopo un «periodo calderone» definito, non si sa quanto correttamente, «Romanticismo Americano» in cui la letteratura fiorì e adattò se stessa al mondo circostante, grazie ai vari Poe, Withman, Melville e infine alla Dickinson, il testimone venne passato a un’altra generazione. La generazione dei Titani, di Eliot, Pound, di Gertrude Stein e di Fitzgerald. Ma per tutti quelli che hanno scritto la storia, per arrivare fino a noi, quanti sono rimasti nell’oblio?

È il caso di Amy Lowell, che intrattenne relazioni con questi esponenti dell’età dell’oro poetica senza condividerne la gloria culturale. Una donna che iniziò con il teatro, dopo il colpo di fulmine durante un incontro con Eleonora Duse in un tour di quest’ultima, nel 1902. Decise di dedicarsi al teatro «di una volta», non quello luminescente e gioioso di Broadway che tiranneggiava in America, ma quello dei monologhi, dei personaggi soli, sul palco e nella vita, e dalla scenografia minimale. Nacquero così i Little Theater, che potevano consistere in una semplice stanza, un garage, un salotto qualsiasi o, come nel caso del Wharf Theatre, un magazzino per il pesce vicino ad un molo di Cape Cod. Per questo motivo alcuni componimenti della Lowell, essendo destinati alla rappresentazione drammatica, superano anche i duecentotrenta versi, come nel caso di Causa Numero Tre e Il Giorno che fu quel giorno. Il passo verso la

poesia in quanto tale non sempre è scontato ma di sicuro è breve, soprattutto per la Lowell. È infatti innamorata del teatro ma affamata di drammaticità, di quella pura, non esprimibile tramite una susseguirsi di scene e atti, ma destinata al silenzio. Un’altra parte della sua eredità è, infatti, rappresentata da poesie molto brevi, condizionata sia dai componimenti giapponesi (che ebbe modo di studiare grazie al fratello Percival, che trascorse molti anni in Giappone, e a Pound, profondo conoscitore della cultura nipponica). Ne sono un esempio i Ventiquattro Hokku su di un tema moderno dove l’hokku rappresenta un componimento della stessa lunghezza dell’haiku (diciassette sillabe divise in tre versi) che però non necessariamente deve contenere il Kigo, ovvero il riferimento a una delle quattro stagioni. Questi componimenti brevi risultano dei piccoli quadri, altro elemento che condizionò la Lowell, essendo vicina agli ambienti delle gallerie d’arte, in particolare la 291 di New York.

Nonostante queste relazioni e queste continue influenze, Amy Lowell passò spesso in secondo piano, mai del tutto apprezzata, al punto che vinse il premio Pulitzer solo nel 1926, un anno dopo la sua morte. Venne spesso tenuta in considerazione ma come semplice conoscente dei grandi, quali Pound che, inoltre, le concesse l’utilizzo del termine imagismo. Per quanto interagisse in

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termini di quantità, la qualità e la profondità di tali interazioni sono discutibili. La Lowell rimase incatenata a se stessa e ai propri traumi. In un periodo in cui molti fuggivano dall’America, Amy non poté. Nel suo primo viaggio da bambina, in Europa, iniziò ad avere paura del buio, che si trascinò fino all’età adulta, e dopo la morte della madre partì per un viaggio sul Nilo che si concluse con un esaurimento nervoso. Esiliarsi nello spazio per lei risultava dunque impossibile e spesso nefasto: non le rimase che esiliarsi nel tempo. Invertì i suoi ritmi di vita, dormendo di giorno, scrivendo e incontrando gli altri di notte. Quasi paradossale, considerata la paura del buio giovanile, ma nella sua casa e nelle camere d’albergo in cui soggiornava, faceva montare pesanti tendaggi, non solo alle finestre ma anche sugli specchi. Amy Lowell non accettava il suo essere sovrappeso a tal punto da rifiutare la visione del proprio corpo. Esso rappresentava un impedimento, una zavorra per la sua interiorità e le rare volte che le capitava di cercare se stessa in uno specchio, in realtà cercava altro, come apprendiamo da Tempo: «Mentre mi guardavo nello specchio, / vidi, appena abbozzato, / il profilo di un airone / inciso sul metallo». La vita e la natura per lei sono un’opera teatrale da cui non può fuggire, portatrici di una delicata tristezza. In Dettaglio leggiamo «Sulle foglie dell’acero / brillano rosse gocce di rugiada, / ma sul fiore di loto / hanno la pallida trasparenza delle lacrime». Non si trattava dei capricci di una ricchissima ereditiera (la famiglia Lowell era, letteralmente, proprietaria dell’omonima città, dove nacque Kerouac), ma della delicatezza emotiva di una donna nella cui vita mancò sempre qualcosa. Un vuoto senza

contorni precisi, qualche pezzo d’esistenza che provò ad aggiungere e raggiungere nelle atmosfere dei suoi componimenti come in Dopo una tempesta: «Cammini sotto gli alberi di ghiaccio / ma sei più abbagliante dei fiori di ghiaccio, / e il latrare dei cani / per me non è forte come il tuo silenzio». Nell’epoca di una poesia «nuova» che non sapeva ancora a cosa doversi protendere, Amy Lowell forse fu capace di raggiungere proprio il concetto di poesia, intesa come era solito fare Pound: la danza dell’intelletto tra le idee.

Sereno con leggeri venti variabili

La fontana si piegava e si drizzava nel vento notturno, sbocciando come un fiore. Luccicava e scintillava, un alto giglio bianco, sotto l’occhio d’una luna d’oro. Da una panca di pietra, sotto un tiglio in fiore l’uomo la osservava.

E lo spruzzo insistente picchiava sull’erba opaca ai suoi piedi.

La fontana gettava l’acqua, sempre più in alto, come sfere d’argento. È un braccio che vede?

E per un istante coglie l’insinuante curva di una coscia?

La fontana gorgogliava e spruzzava, e il volto dell’uomo era bagnato.

È un canto che sente? Come una filastrocca per giocare a palla?

La luna risplende sulla dritta colonna dell’acqua,

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attraverso vede una donna, che getta bolle d’acqua. Il suo seno proteso, e i suoi capezzoli come boccioli di peonia. I suoi fianchi ondeggiano mentre gioca, l’acqua non è più sinuosa delle linee del suo corpo.

“Vieni, poeta!” è il suo canto “Non sono più degna delle tue dame solari, coperte di goffe sciocchezze, irreali, inattraenti? Perché hai paura di prendermi? Non è forse per il poeta la notte? Sono il tuo sogno, ricorrente come l’acqua, sbocciato insieme alla luna!”

Ella avanza verso il bordo della fontana e l’acqua le corre, battendo, sui fianchi. Stende le braccia, e l’acqua scorre dietro di lei come un velo aperto.

Al mattino i giardinieri vennero al lavoro.

“C’è qualcosa nella fontana”, disse uno. Rabbrividirono nel distendere il loro padrone morto sull’erba.

“Gli chiuderò gli occhi”, disse il capo giardinieri, “è strano vedere un morto fissare il sole”.

Assenza

La mia coppa è vuota questa sera, freddi e vuoti i suoi bordi, raffreddati dal vento che entra dalla finestra aperta. Inutile e vuota, risplende di bianco nella luce lunare. La stanza è colma dello strano profumo dei glicini. Oscillano nella radiosità lunare e battono dolcemente contro la parete. Ma la coppa del mio cuore è immobile, e fredda, e vuota.

Quando vieni, trabocca rossa e tremante di sangue, sangue del cuore per la tua sete; per riempire la tua bocca d’amore e del sapore dolciastro di un’anima.

Fuggitiva

Luce del sole, tre calendule, e un baccello di papavero porpora scuro –da questi ho creato un mondo bellissimo. Tu li vuoi –splendore, oro, e un sonno di sogni? Sono piaceri fragili, certo, ma dove ne puoi trovare di migliori? Non si sceglie la rosa perché vive a lungo, e Giugno è solo di trenta giorni.

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Crepuscule du matin

Per tutta la notte ho lottato con un ricordo che bussava insistente ai cancelli del pensiero. Le macerie degli anni passati hanno foggiato la disillusione; ora chiedo soltanto la pace, la forza di dimenticare la menzogna che la speranza troppo a lungo ha sussurrato. Così ho cercato il sonno che non veniva, la notte era carica di antiche emozioni che piangevano silenziose. Ho sentito ancora la tua voce, e sapevo che le cose da te promesse eran solo vuoto vanto. Ho sentito la stretta delle tue mani mentre le ampie ali della notte custodivano nel buio il nostro amore. Dal giardino un uccello ha levato improvviso il tremito di un canto, come un rimprovero. Nulla stringevo tra le braccia, solo il vuoto di un’aurora.

Proporzione

Nel cielo, luna e stelle, e nel mio giardino falene gialle che svolazzano intorno a un bianco cespuglio di azalee.

TESTI TRATTI DA:

Amy Lowell, Poesie, a cura di Barbara Lanati, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1990.

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ELEMENTI

IL DÉJÀ-VU DI ROGER WATERS di Federico Asborno

A venticinque anni dall’ultimo lavoro da solista, dal 2 giugno è disponibile in Italia il nuovo album di Roger Waters (ex bassista, voce e compositore di gran parte dei testi dei Pink Floyd) intitolato Is This The Life We Really Want?. Nelle ultime settimane, sono stati rilasciati i tre singoli: The Last Refugee, Smell the Roses e –soprattutto – la già monumentale Déjà-vu , subito acclamata come uno dei migliori lavori di Waters. La canzone presenta un testo ricco di significati e rimandi a una tradizione letteraria ben nota all’autore, oltre che a inserirsi perfettamente nella sua linea poetica e nella sua dialettica. I topoi ci sono tutti: le urla; le esplosioni; la critica all’avidità; l’ambientalismo; il pessimismo verso un’umanità ottusa e ancora prigioniera del muro già cantato trentotto anni fa, e infine l’amore, l’unica, catartica palingenesi capace di riabilitare l’essere umano.

Si comincia con un primo verso programmatico (e che in origine doveva anche essere il titolo della traccia): «If I had been God», ripetuto anaforicamente come una sorta di mantra polemico. Il concetto è semplice: che Dio esista o meno, viste come stanno andando le cose del mondo, il poeta si sente autorizzato a fingersi nei panni della divinità fantasticando su cosa avrebbe fatto se fosse stato Dio. La conclusione della prima strofa è forte e polemica:

«I believe I could have done a better job» («Ritengo che avrei potuto fare di meglio»). Il tema del rapporto invertito tra uomo e Dio era già stato indagato nel precedente album solista di Waters, Amused to Death (1992), nella canzone What God Wants (suddivisa in tre parti e della quale Déjà-vu costituisce un ideale seguito). La riflessione che ne scaturiva era appunto quella su un Dio lontano, distante, incapace di fare il suo lavoro in un mondo ormai annichilito da avidità, egoismo e guerre. Proprio il tema bellico è l’ideale protagonista della seconda strofa, sintetizzato nella figura del drone che diventa la seconda e ultima maschera dell’Io lirico.

La terza strofa è composta invece da un caleidoscopio di immagini evocative, simili a uno stream of consciousness di orrori, utile a riepilogare quali sono i problemi cruciali che Waters ravvisa nella società odierna: la cultura sempre più residuale, dimenticata e lasciata ad appassire, vestigia cadente di un passato che stiamo smarrendo («The temple’s in ruin»); l’avidità dilagante, fonte di disuguaglianza e sopraffazione («The bankers get fat»); un ambiente avvelenato dall’incuria e dall’inciviltà dell’uomo, concetto simbolicamente espresso con l’estinzione del bisonte («The buffalo’s gone»); l’incapacità di accettare le diversità sessuali che

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derivano dalla stessa natura, tematica espressa con l’efficace immagine della trota ermafrodita; infine l’incoscienza politica di chi predica bene, ma razzola male, sostenendo la sinistra, ma votando una destra malvagia e inumana, della quale Trump è il campione indiscusso (durante tutto il Us + Them Tour, Waters ha proiettato sui maxischermi la poco fraintendibile scritta «Trump is a pig»).

All’ultima strofa è affidato il melanconico lamento finale, unito però a una commovente dichiarazione di umanità, di fraternità, di sopravvivenza, che non può non ricordare il «Together we stand, divided we fall» con cui si chiudeva Hey You in The Wall. Con «And it feels like déjà-vu / The sun goes down and I’m still missing you / Counting the cost of love that got lost» Waters dichiara allo stesso tempo che dalla galleria di orrori precedentemente descritta non esiste via di fuga, ma che nonostante tutto nell’amore – e nel ricordo di un amore –è racchiusa la forza per sentirsi di nuovo umani, aggrappati a un sentimento non alienante, anche nel dolore, anche nello spiacevole conteggio di tutto ciò che a causa dell’amore si è dovuto soffrire.

Dopo quest’ultimo baluginio di positività si ritorna nell’onnipresente dimensione pessimistica del poeta: dopo aver indicato agli uomini qual è l’unico appiglio che hanno per salvarsi dal naufragio, Waters si paragona a un ciclone circolare, cupo e minaccioso, sovrastante un’umanità alienata e smarrita, composta da «drunkards and fools» (ubriaconi e folli).

Da Leopardi (l’amore e le illusioni come strumenti per allentare la morsa

soffocante della vita) a Foscolo (l’uomo come mero ingranaggio di una realtà alienante); da Orwell (la critica al potere) a Thoreau (il ritorno a una vita più in contatto con la natura), passando anche attraverso Kafka (l’individuo che ha smarrito il suo posto nella società, paragonabile a un ubriaco o un folle) e Proust (il ricordo dotato del potere di far rivivere la realtà del passato) si può vedere come la poesia di Waters non sia assolutamente da relegare all’ambito esclusivo della musica, ma debba essere valutata anche e solo come testo, senza che perda nulla della sua forza, della sua veemenza polemica e della sua capacità di trasmettere messaggi scomodi, antifrastici, ma non per questo meno validi solo perché accompagnati dalla musica (sublime, sia chiaro!) di uno dei più grandi poeti, cantanti, musicisti e pensatori dell’età moderna

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GLI ALTER EGO NEI ROMANZI DI CAROFIGLIO

Gianrico Carofiglio, classe 1961, ex sostituto procuratore della direzione distrettuale antimafia di Bari, è ormai stabilmente riconosciuto come il padre fondatore del legal thriller all'italiana, grazie alla fortunata serie I casi dell'avvocato Guerrieri, pubblicati da Sellerio all'inizio degli anni 2000.

Questa è la frase per cui opterebbe un editor che volesse una quarta di copertina sintetica e rassicurante: un ex magistrato con la passione per la scrittura, che utilizza la sua competenza legale per descrivere correttamente l'andamento dei processi nel romanzo. Tutto chiaro, anzi, cristallino. E tuttavia, da essa rimarrebbe esclusa la vera essenza dei lavori dell'autore, il vero quid pluris che dovrebbe spingere il lettore a portare il libro dallo scaffale alla cassa. Sarebbe difficile infatti immaginare un così forte, profondo, quasi adolescenziale desiderio di comprensione di se stesso, e di riflesso degli altri, da parte di un uomo adulto, di un professionista affermato. Addirittura poi da parte di un giudice, che dell'animo umano dovrebbe essere esperto, in quanto chiamato a categorizzarlo in buono o cattivo.

Eppure la forza dei romanzi di Carofiglio è paradossalmente appunto la sua debolezza, i dubbi sulla sua integrità, sulle sue scelte professionali e di vita: in sostanza, il suo mettere da parte i panni del freddo leguleio per raccontare la storia di una personalissima catarsi,

delegata interamente ai personaggi principali delle sue numerose opere. Che, attenzione, non appartengono tutti al mondo dei processi e dei tribunali, come ci si potrebbe aspettare. Abbiamo sì l'avvocato dei primi romanzi, ma andando avanti con la bibliografia troviamo anche poliziotti, carabinieri, scrittori, editor, le cui vicende sono spesso inframmezzate da flashback in cui la loro versione adolescente, rigorosamente in prima persona, racconta episodi emblematici nel percorso verso la ricerca della propria identità.

Quelli che Carofiglio tratteggia sono eroi solitari e riflessivi, con un forte desiderio di entrare in contatto con il senso più profondo del proprio essere, ma senza un'idea precisa di quale sia la loro vera natura; per questo molto critici verso se stessi e verso gli errori compiuti durante la loro vita, spesso a loro dire vissuta in modo passivo e distaccato, lasciandosi influenzare da fattori esterni o da convinzioni poi rivelatesi errate. Questo struggente desiderio di comprensione di se stessi li porta a cercare l'ordine e la razionalità nel mondo esterno, ricavandone solo aspettative deluse.

Rivela il protagonista di Non esiste saggezza (2010) a una signora appena incontrata in aeroporto: «Ho fatto il poliziotto perché pensavo che avrebbe reso più semplice le cose: buono e cattivo, giusto e ingiusto. Ovviamente

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non funziona così».

Non è infatti un caso che un leitmotiv ricorrente nelle vite dei personaggi sia il loro rapporto tormentato con la facoltà di giurisprudenza, universalmente ritenuta l’anticamera di un futuro chiaro, solido e prestigioso, una garanzia di sicurezza, che nei romanzi di Carofiglio non viene però mai scelta per passione, ma piuttosto per imporre un’autorevole e artificiale direzione ai propri fumosi desideri e alle ancor meno definite inclinazioni e capacità. E così gli studi vengono o portati a termine con dubbi e rimpianti, o addirittura abbandonati a pochi esami dalla laurea, come nel caso di Giorgio, protagonista di Il passato è una terra straniera (2004), che preferirà dedicarsi a truffare sconosciuti nelle bische del sordido quartiere Libertà. Della sua vita prima della svolta egli dirà: «Avevo ventidue anni e, fino a pochi mesi prima, nella mia vita non era successo quasi nulla».

La mancanza di definizione dei protagonisti, (in questo vagamente sveviani, anche se non certo inetti),

combinata con la loro incessante e mai soddisfatta ricerca fa sì che si ritrovino in relazioni sentimentali di cui non saranno mai davvero convinti, ma che porteranno avanti per illudersi di mantenere una sorta di ruolo, di appartenenza a qualcosa. Oppure che prendano parte a gruppi politici, ma sempre dal punto di vista laterale del soggetto troppo indipendente per esserne davvero partecipe, o per giustificare rapine che portano il nome fittizio di «espropri proletari» come accade ne Il bordo vertiginoso delle cose (2013) al futuro scrittore Enrico Vallesi.

Tuttavia non si ha la sensazione che la sehnsucht del personaggio sia definitiva, insormontabile. O meglio, essendo strutturale al suo carattere, forse non se ne andrà mai completamente, e anche lui ne è consapevole: fatto sta che ogni romanzo termina con un episodio, un incontro, un'epifania, che ha il sapore di una flebile speranza.

Di una pace non raggiunta, ma che, magari sotto il cielo azzurro barese, sembra più vicina.

Pensi che non hai alcun motivo per tornartene a casa a Firenze, che nessuno ti aspetta per festeggiare con te. Te lo dici senza commiserazione, ma anzi, con un brivido di allegria. Come se qualcuno ti stesse offrendo gratis una nuova possibilità.

Chissà cosa succede poi, dopo aver parlato.

Dopo l'ultima pagina, quando il romanzo finisce.

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MIGRAZIONI

traduzioni

Poesie di Herman Melville tratte da The poems of Herman Melville edited by Douglas Robillard, The Kent State University Press, 2000.

Traduzione di Maurizio Brancaleoni .

THE APPARITION (A Retrospect)

Convulsions came; and, where the field Long slept in pastoral green, A goblin-mountain was upheaved (Sure the scared sense was all deceived), Marl-glen and slag-ravine.

The unreserve of Ill was there, The clinkers in her last retreat; But, ere the eye could take it in, Or mind could comprehension win, It sunk!—and at our feet.

So, then, Solidity’s a crust— The core of fire below; all may go well for many a year, But who can think without a fear Of horrors that happen so?

L’APPARIZIONE (A posteriori)

Vennero gli spasmi; e dove riposava da tempo il campo nel verde pastorale, una montagna stregata si sollevava (certo i sensi spauriti ingannava) forra di marna e gola di scoria minerale.

Là era la chiarezza del Male, le pomici nella nicchia più fonda; ma anzi che l'occhio potesse assorbire, o la mente potesse capire, crolla ai nostri piedi, sprofonda.

Perciò, allora, la Solidità è una crosta; il nocciolo di fuoco è celato; se anche va tutto bene per anni come si può pensare senza affanni a un orrore così inaspettato?

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PROSSA NOVA

Sei avvolta da tentacoli. Il tuo petto sembra alzarsi e abbassarsi al loro ritmo; gli occhi, invece, non si muovono.

Dalla mia sedia, accanto a te, l’unica cosa che avverto è l’incertezza. Non sento il dolore che devi aver provato nell’impatto, non sento né la tua né la mia paura. Sento solo il tuo corpo in bilico tra lo sforzo della resistenza e la tentazione di cedere; sento il bordo freddo del tuo letto contro il mio ginocchio, l’unico confine possibile tra la mia carne viva e il tuo pallore immobile.

Agonia vuol dire lotta – me l’hai spiegato tu – una lotta che ora vibra in questo pezzo di metallo che circonda il tuo letto, lucido e freddo contro la mia pelle, una spada che non sono in grado di impugnare.

Se potessi sentirmi, forse mi insegneresti tutte le etimologie di questa brutta storia. Mi diresti qual è il vero significato di “trauma cranico”, rideresti della mia incredulità, liberandoti con quella risata dai tentacoli di plastica che cercano di tenerti in vita.

Invece la piovra ti tiene a sé, copre alla mia vista parti della tua pelle, mi ruba centimetri.

Per ognuno di questi centimetri la spada affonda nelle mie viscere, perdo sangue ma il sangue è il tuo, sporca le mie mani, i miei vestiti e questo pavimento bianco appiccicoso.

«Non provare a buttarmi il telefono in faccia. Non ci provare», ti ho detto.

E tu mi hai dato retta, non hai riagganciato. Mi hai buttato in faccia un urlo, e le tue carni stritolate, mi hai buttato in faccia lamiere deformate, ma non il telefono; ho sentito lo schianto, la tua distrazione e il nostro litigio a distanza che finiva, insieme a tutto il resto, su quell'autostrada.

Mentre ti parlo mi accorgo che il volume della mia voce continua a salire, eppure non riempie il silenzio con cui la accogli: le parole che mi cadono di bocca adesso non possono sostituire le altre, quelle che solo un paio d'ore fa non sono riuscito a trattenere.

La piovra è uno strano animale: ha tre cuori, ma nessun’attitudine al perdono

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INFISCHIATENE

INTERVISTA A LAIA JUFRESA AUTRICE DI UMAMI (SUR, 2017)

Intervista a Laia Jufresa, autrice di Umami (Sur, 2017), e alla traduttrice Giulia Zavagna, tenuta alla libreria falsoDemetrio di Genova, a cura di Ilaria Crotti e Andrea Benei (07 giugno 2017).

1. Questo è il tuo romanzo d’esordio, dopo essere stata una scrittrice di racconti. Come è nato? Qual è stata la sua genesi?

L’idea di Umami nacque mentre stavo partecipando ad un gruppo di scrittura su internet, per fare esercizio. L’obiettivo era quello di scrivere un romanzo di almeno cinquantamila parole in un mese. Alla fine del mese avevo scritto circa quattrocento pagine, spazzatura per la maggior parte, ma io avevo sentito che da qualche parte, nel corso della stesura, c’era stato un momento magico: quello fu il nucleo da cui nacque Umami. In realtà nel romanzo che leggete ora solo alcuni pezzettini risalgono a quella prima stesura: ho preso tanto di alcune voci, ma poco di altre.

Le voci che ho recuperato maggiormente, quelle che mi convincevano di più, erano voci femminili: pensai di farne una raccolta di racconti, dove però vi fosse un filo rosso rappresentato dal fatto che le varie protagoniste abitassero tutte nello stesso comprensorio. Iniziai così a lavorare su ogni singola voce pensando di dedicare ad ognuna un racconto, ma quando facevo leggere ad altri gli appunti che stavo scrivendo, tutti commentavano: «questa non è una raccolta di racconti, è un romanzo!» Ho lasciato così che si instaurasse un liberatorio

gioco di vasi comunicanti fra le varie voci, mentre gradualmente si aggiungevano altri personaggi. Dopo un anno venne fuori Alfonso, e fu lui a prendere il microfono in mano.

2. Leggendo il romanzo avevo avuto invece l’impressione che tutto il romanzo fosse stato costruito proprio intorno a lui. Dunque non è così?

Alfonso esisteva già in origine, quando ho iniziato a scrivere, ma non avevo pensato alla morte di sua moglie. Quando lui ha cominciato a parlare, ha iniziato a parlare di lei.

3. Tu hai una qualità rara, che è quella di instaurare una grande empatia con tutti i tuoi personaggi. Questa caratteristica è un dono, oppure è un effetto che ti sforzi di raggiungere? Come lo ottieni?

Costruire voci diverse è per me la cosa più importante: scrivere è vivere molte vite. A volte gli scrittori bravi “si siedono”, si limitano a scrivere pagine belle, ma fredde, senza lasciarsi pervadere dai personaggi e dalle storie che raccontano. Per farlo ci vuole umiltà, è qualcosa di primordiale. Io cerco di tenermi sempre esercitata partecipando ai gruppi di scrittura.

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Trascrizione dell’intervista a cura di Amelia Moro

4. In Italia le voci femminili sono considerate generalmente più deboli e stereotipate di quelle maschili, ma non ho ritrovato in te queste caratteristiche. Cosa ne pensi?

Credo che tutti noi siamo cresciuti, nella lettura e nella scrittura, formandoci su voci maschili. Io non mi prefisso mai a tavolino i temi da trattare, ma credo sia comunque importante dare sempre voce a dei personaggi femminili. Nella letteratura messicana raramente sono presenti personaggi femminili di spessore: di solito sono stereotipati, piatti e scialbi. Tra l’altro, anche le scrittrici generalmente cercano, per farsi accettare, di uniformarsi a questo canone. Bisogna trovare il coraggio di scrivere da dentro.

5. Ho trovato il tuo romanzo molto equilibrato, sia nei contenuti che nello stile. C’è la rappresentazione della follia, ma non è stereotipata, il linguaggio è originale, ma mai strabordante. Questa armonia è stata ottenuta con un lungo lavoro di editing?

Il romanzo ha richiesto più di un anno di riscrittura lavorando da sola, successivamente l’ho sottoposto ad altre persone e poi l’ho ulteriormente ripulito. Siccome avevo molti particolari ed accadimenti da inserire nel racconto, per creare equilibrio all’interno del romanzo ho lavorato sulla temporalità, frantumando le vite dei personaggi all'interno di una linea che muove a ritroso dal 2004 al 2000 (e poi si ripete per cinque volte con lo stesso andamento). Così facendo ho potuto dare ai protagonisti la possibilità di cambiare opinione, crescere, mutare; insomma sono riuscita ad evitare che alcuni dettagli apparissero semplici ripetizioni, impedendo anche di far apparire stereotipati alcuni atteggiamenti (o trasformare i personaggi in semplici macchiette di se stessi). È stato come giocare a tetris. Tuttavia, ogni capitolo

in sé è concluso, termina senza lasciare nulla in sospeso. Pur facendo parte di un’unica grande storia, ogni segmento può essere letto come un racconto: il lettore dopo aver terminato un capitolo può andare a letto tranquillo!

6. Il tuo romanzo è ambientato in Messico, tuttavia ha riscosso un grande successo anche al di fuori del paese. Che cosa c’è di universale nella storia di Umami?

Non saprei dire cosa ci sia di universale in Umami, ma sono grata che sia piaciuto in molte parti del mondo. Quello che so è che questo è un romanzo messicano, ma non vuole essere una caricatura del Messico. Poi è ambientato in un luogo chiuso, dentro un comprensorio, le preoccupazioni dei personaggi sono comuni e quotidiane… penso che il lettore, affrontando questo libro, non abbia l’impressione di fare un giro per Città del Messico, ma piuttosto di fare conoscenza con una famiglia che vive lì. Io ho una pessima memoria, ma ricordo bene gli spazi. Spesso di un viaggio ricordo piccoli particolari insignificanti legati all’architettura – come l’aspetto di una scala – a volte non so neppure se li ho visti davvero o se li ho solo letti e immaginati. Per questo volevo che il mio comprensorio fosse uno spazio accogliente, dove il lettore potesse sentirsi a casa.

7. Il romanzo è corredato da una mappa che rappresenta la pianta del comprensorio, ma che nello stesso tempo ricalca la sagoma di una lingua, suddivisa nelle varie zone adibite alla percezione dei diversi sapori. In che momento della creazione del romanzo l’hai ideata?

Il mio comprensorio ospitava quattro famiglie, più una scuola, dunque cinque elementi in tutto, come i sapori che la nostra lingua può percepire, così è nato questo

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tipo di rappresentazione. Inizialmente ho fatto la cartina per me, per avere qualcosa di visivo che mi aiutasse nella scrittura, solo all’ultimo ho pensato che potesse risultare utile anche per il lettore, e ho chiesto al mio editore di inserirla.

8. Mi ha colpito il modo efficace con cui riesci ad inserire elementi inquietanti nella tua scrittura, anche questo è un tratto raro nella scrittura italiana al femminile. Come ci sei riuscita?

Non amo ciò che riguarda l’oscurità, ma per questo romanzo ne avevo bisogno, perché nella trama mancano dei misteri: gli elementi inquietanti, dunque, servono a tenere avvinto il lettore. Inoltre, credo che tutti i personaggi veramente complessi abbiano un lato oscuro, che va esplorato e raccontato. Non volevo dare un’immagine secca dei miei personaggi, ma sfaccettata, sempre diversa a seconda del punto di vista di chi racconta.

9. È in previsione una traduzione dei tuoi racconti?

Per il momento, sul sito di Sur trovate la traduzione di uno dei miei racconti. Poi, si vedrà. Spesso si dice che i racconti non vendono, anche se io ne sono stupita, visto che siamo nell’età di Twitter e delle narrazioni brevi e istantanee.

10. Qual è attualmente la situazione per gli intellettuali e gli scrittori in Messico?

PAUL BEATTY

LO SCHIAVISTA (FAZI, 2016) di Francesca Gallo

Lo schiavista di Paul Beatty è un libro pungente, arguto, dissacrante, non a caso vincitore del rinomato Man Booker Prize. Con

Attualmente io non vivo più in Messico, a causa di un episodio violento. Posso dire che attualmente la situazione è molto ambigua, sicuramente rischiosa per i giornalisti. È difficile purtroppo dare dei dati certi, si parla di 27.000 desaparecidos, ma sappiamo che le informazioni che ci giungono sono molto parziali, probabilmente sono molti di più. Gli scrittori di finzione, invece, godono di una posizione privilegiata perché non si occupano di attualità e di politica, in Messico si legge poco e il governo li finanzia e li sostiene con un atteggiamento paternalistico. Io avevo tentato di affrontare il tema attraverso la “porta sul retro”, scrivendo una commedia commerciale che aveva però un fondo di critica politica, ma non credo uscirà mai a causa della censura. Per quel che riguarda la figura dell’intellettuale, in Messico è molto forte l’idea che uno scrittore debba anche essere un pensatore, tenuto a dare la propria opinione in campo politico. Io ritengo di non avere le competenze per questo, preferisco far riflettere i miei lettori attraverso la scrittura, generando empatia. Non scrivo mai di argomenti direttamente politici, ma questi sono presenti nel nucleo profondo della narrazione. Ad esempio, Umami è un’esplorazione del lutto, e ritengo che questo tema sia particolarmente importante da affrontare in una terra come il Messico, un paese così colpito dal lutto da non avere modo di elaborarlo

uno stile sarcastico e intelligente, l’autore ambienta la propria storia nella California quasi contemporanea del mandato di

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Obama e tratta il tema del razzismo nell’ultimo modo che ci si potrebbe aspettare. Il protagonista, un agricoltore californiano di colore chiamato Bonbon (dalla parola con cui vinse una gara di spelling del quartiere), vive in un ghetto nella periferia di Los Angeles, Dickens, un posto tanto insignificante da essere cancellato, di punto in bianco, dalle mappe. Tra il ribaltamento di cliché e battute politicamente scorrette, l’autore immerge chi legge in una realtà difficile da afferrare per chi non la vive, dove, nonostante la formale assenza di razzismo, tutto è basato sulla razza. È lo stesso concetto di razza a rovesciarsi: i neri tra di loro si danno del negro, discriminano i messicani e danno spregiativamente del bianco a chi è mulatto. La California di Bonbon infatti non è certo quella patinata delle serie televisive: è un luogo estraneo al nostro immaginario, dove i neri muoiono per strada senza motivo, dove le gang non sono come le immaginiamo, dove persino guidare un autobus, mestiere di Marpessa, il grande amore di Bonbon, ogni giorno è un’impresa. Per salvare Dickens dall’oblio, il protagonista si ritroverà nella paradossale situazione di ripristinare la segregazione razziale e possedere, suo malgrado, uno schiavo, fatti che lo porteranno davanti alla Corte Suprema.

Con un’ironia che ricorda Swift e un sarcasmo a tratti feroce, l’autore, imbastendo una narrazione piena di digressioni, interruzioni, flashback e frasi fulminanti, tratta questioni secolari, in maniera sempre provocatoria. Quello che fa è gridare “al fuoco” in un teatro pieno di gente o, per citare il protagonista, «ho sussurrato “razzismo” in un mondo post razziale». Proprio questo stile sempre in bilico tra sberleffo e serietà, tra un’osservazione amara e l’autoironia, ha le sue fondamenta nell’uso brillante che Beatty fa del linguaggio: se il

lettore italiano può goderne deve ringraziare l’eccezionale traduzione di Silvia Castoldi, chiamata ad assolvere un compito davvero complesso. Tuttavia, nonostante questo straordinario lavoro, molti dei riferimenti culturali alla vita quotidiana in America, dal baseball al basket, dai personaggi minori della tv, a canzoni misconosciute, vanno inevitabilmente persi.

Beatty non si pone mai in modo pedante nei confronti del lettore, non offre analisi storiche o sociali strutturate; tuttavia, usando come armi lo humor e l’autoironia, dissemina lungo il testo piccole osservazioni che permettono al lettore di porsi interessanti domande, lasciandolo contemporaneamente con una sensazione di disagio e lieve frustrazione perché, a fronte di tanti interrogativi e sollecitazioni, non vengono offerte risposte definitive. Davvero siamo contro il razzismo? Ha senso bandire la parola negro? Quanto sappiamo realmente della discriminazione? Il lettore, nel corso del libro, è costantemente messo alla prova nelle sue convinzioni: Beatty sembra sfidare chi lo legge a farsi un esame di coscienza, punzecchiando con maestria e leggerezza le nostre convinzioni. Come argutamente nota il primo giudice del processo: «L’imputato ha fatto emergere una debolezza fondamentale nel modo in cui noi americani sosteniamo di considerare l’uguaglianza. “Non mi importa se sei nero, bianco, marrone, giallo, rosso, verde o viola”. L’abbiamo detto tutti. […] eppure, chiunque di noi, se venisse dipinto di viola o di verde, sarebbe fuori di sé dalla rabbia. Ed è questo ciò che sta facendo l’imputato. Ci sta dipingendo tutti […] per vedere chi ancora crede nell’uguaglianza»

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