Voci - Numero 4 Anno 3 - Amnesty International in Sicilia

Page 1

VOCI

«Io ho un sogno, che un giorno questa nazione si leverà in piedi e vivrà fino in fondo il senso delle sue condizioni: noi riteniamo ovvia questa verità, che tutti gli uomini sono creati uguali.»

DIAMO VOCE AI DIRITTI UMANI

i fatti e le idee

NOVEMBRE 2017

NUMERO 4 - ANNO 3

IL CORAGGIO DELLE PROPRIE IDEE STORIE DI DIFENSORI DEI DIRITTI UMANI

Martin Luter King Jr. (Washington – 28 agosto 1963)


VOCI VOCI - Rivista del

Centro di Documentazione per la Promozione e l’Educazione alla Tutela dei Diritti Umani “Peter Benenson”

COMITATO DI REDAZIONE Liliana Maniscalco Responsabile Circoscrizione Sicilia Amnesty International Giuseppe Provenza Responsabile della Redazione Carmen Cera Direttrice del Centro di Documentazione per la Promozione e l’Educazione alla Tutela dei Diritti Umani “Peter Benenson” Silvia Intravaia Responsabile grafica

COLLABORANO Giorgio Beretta, Daniela Brignone, Paola Caridi, Francesco Castracane, Vincenzo Ceruso, Mouhamed Cissé, Carmen Cera, Marta D’Alia, Chiara Di Maria, Aristide Donadio, Vincenzo Fazio, Maurizio Gemelli, Liliana Maniscalco, Monica Mazzoleni (Coord. Am. Latina), Andrea Pira, Giuseppe Provenza (Coord. Europa), Bruno Schivo (Coord. Nord America), Daniela Tomasino, Fulvio Vassallo Paleologo.

IN QUESTO NUMERO Il coraggio di essere il cambiamento

3

Educazione ai diritti umani e la nuova campagna “Coraggio“

5

Una risoluzione esemplare del parlamento europeo sui difensori dei diritti umani dell’Azerbaijan

6

La persecuzione del popolo Rohingya

8

di Chiara Di Maria di Carmen Cera

di Giuseppe Provenza di Mouhamed Cissé

Liu Xia, Poetessa cinese

10

David Kato

13

America Latina: il rischio di difendere

15

Mudawi, l’uomo che non smette di sfidare il governo

21

“La politica della morte“: interessi politici ed economici dietro le uccisioni di migliaia di difensori dei diritti umani

23

di Andrea Pira

di Daniela Tomasino di Ramello e Soro / Coord. America Latina di Martina Costa

di Daniela Brignone

TUTTI I GIORNI www.amnestysicilia.it /amnesty-sicilia /Amnestysicilia Amnesty In Sicilia /amnestysicilia /amnestysicilia

www.amnestysicilia.org ai.sicilia@amnesty.it Piazzale Aurora n. 7 90124 Palermo

/amnestysicilia Questa rivista non rappresenta una testata giornalistica in quanto viene aggiornata senza alcuna periodicità. Non può pertanto considerarsi un prodotto editoriale ai sensi della legge n° 62 del 7.03.2001. Le informazioni contenute in questa rivista, pur fornite in buona fede e ritenute accurate, potrebbero contenere inesattezze o essere viziate da errori tipografici. Gli autori di “Voci“ si riservano pertanto il diritto di modificare, aggiornare o cancellare i contenuti della presente senza preavviso. Alcuni testi o immagini inserite in questo blog sono tratte da internet e, pertanto, considerate di pubblico dominio; qualora la loro pubblicazione violasse eventuali diritti d’autore, vogliate comunicarlo via email. Saranno immediatamente rimossi. Gli autori del blog non sono responsabili dei siti collegati tramite link né del loro contenuto che può essere soggetto a variazioni nel tempo. Le opinioni espresse negli articoli presenti in questo numero non necessariamente rispecchiano le posizioni di Amnesty International. NOVEMBRE 2017 N. 4 / A.3 - Voci


Editoriale

IL CORAGGIO DI ESSERE IL CAMBIAMENTO di Chiara Di Maria

Ph.: Amnesty International

“Dove iniziano i diritti umani universali? In piccoli posti vicino casa, così vicini e così piccoli che essi non possono essere visti in nessuna mappa del mondo. Ma essi sono il mondo di ogni singola persona; il quartiere dove si vive, la scuola frequentata, la fabbrica, fattoria o ufficio dove si lavora. Questi sono i posti in cui ogni uomo, donna o bambino cercano uguale giustizia, uguali opportunità, eguale dignità senza discriminazioni. Se questi diritti non hanno significato lì, hanno poco significato da altre parti. In assenza di interventi organizzati di cittadini per sostenere chi è vicino alla loro casa, guarderemo invano al progresso nel mondo più vasto. Quindi noi crediamo che il destino dei diritti è nelle mani di tutti i cittadini in tutte le nostre comunità” (27 Marzo 1958, Eleanor Roosvelt, In Your Hands). Con queste parole, quasi 68 anni fa, Eleanor Roosvelt, attivista per i diritti umani, riconosceva il fondamentale ruolo di ogni singolo individuo nella lotta contro le violazioni dei diritti umani, la tutela dei quali comincia con l’impegno, la dedizione e il rispetto nei confronti degli indifesi a noi più vicini. Viene data una lettura moderna del ruolo della società civile nella lotta per il rispetto dei diritti fondamentali: si esorta ogni uomo, donna o bambino ad essere coraggiosi, per prendere parte attiva al processo di cambiamento nel mondo. Tale ruolo ottiene un formale riconoscimento internazionale nel 1998 con l’adozione della Dichiarazione sugli/sulle HRD (Human Rigths Defenders), ovvero la dichiarazione sul diritto

3

e la responsabilità degli individui, dei gruppi e degli organi della società di promuovere e proteggere le libertà fondamentali e i diritti umani universalmente riconosciuti, approvata all’unanimità dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Il documento, infatti, riconosce l’importanza insita negli attori della società per la difesa dei principi che sostengono i diritti umani. Attribuisce in modo cruciale agli stati la responsabilità di introdurre e rispettare tutte le sue disposizioni, in particolare il dovere di proteggere coloro che difendono i diritti dai danni conseguenti alla loro attività. In linea con la Dichiarazione degli/delle Hrd e altre norme internazionali, dunque, Amnesty International considera Hrd chi, a livello individuale o associandosi ad altre persone, agisce in difesa o a favore dei diritti umani a livello locale, nazionale, regionale o internazionale, senza ricorrere o propugnare odio, discriminazione o violenza. Ormai sono passati quasi 20 anni dalla Dichiarazione degli/delle Hrd e i governi si sono rivelati inadempienti circa l’impegno assunto di appoggiare coloro che difendono i diritti umani e a consentire loro di operare senza ostacoli né paura di ritorsioni. Le parole di quella Dichiarazione, infatti, appaiono oggi ampiamente screditate dall’attacco posto in essere dai governi, gruppi armati e aziende al diritto di fendere i diritti umani. Aumentano ogni giorno i luoghi in cui chi ha il coraggio di schierarsi a favore dei diritti umani finisce NOVEMBRE 2017 N. 4 / A.3 - Voci


Editoriale

sotto attacco e affronta intimidazioni, vessazioni, campagne di diffamazione, maltrattamenti e detenzioni illegali, che giungono perfino all’uccisione, solo per avere preso posizione in favore di ciò che è giusto. È il caso di Berta Càceres, importante Hrd ambientalista dell’Honduras, uccisa in casa sua il 2 marzo 2016; di Edward Snowden, wistleblower statunitense, che rischia una condanna a 30 anni di reclusione negli Stati Uniti, per aver rivelato informazioni di enorme interesse pubblico; di Carmen Aristegui, giornalista d’inchiesta messicana, che denuncia le violazioni di diritti umani schierandosi apertamente più volte contro la corruzione del Governo messicano; di Narges Mohammadi, giornalista e Hrd iraniana, condannata a 22 anni di reclusione per le sue attività sui diritti umani, compresa l’opera in campagne contro la pena di morte; di Taner Kiliç, presidente di Amnesty International Turchia, arrestato il 6 giugno 2017 a Smirne insieme ad altri 22 avvocati, attualmente detenuto per l’errata accusa di far parte del movimento guidato da Fethullah Gülen, che secondo le autorità turche ha ideato il fallito colpo di stato del luglio del 2016. Purtroppo questi sono solo alcuni dei difensori dei diritti umani che ogni giorno rischiano la propria incolumità, il loro lavoro, e la stessa vita in nome di un mondo in cui ogni essere umano possa vivere pacificamente la pienezza dei propri diritti. Nel 2016, infatti, almeno 22 paesi hanno registrato persone uccise per aver sostenuto pacificamente i diritti umani. In 63 paesi, le persone impegnate al riguardo hanno subito campagne diffamatorie. In 68 paesi, sono state arrestate o detenute esclusivamente per la loro attività pacifica. In 94 paesi, sono state minacciate o aggredite. Sono tutte persone, Hrd per l’appunto, che sfidano gli abusi di potere da parte dei governi e delle aziende, tutelano l’ambiente, difendono le minoranze, si oppongono alle tradizionali barriere opposte alle donne e alle persone Lgbt, si schierano contro le condizioni di lavoro illegali.

Tutte queste persone oggi stanno sostenendo l’urto di un attacco mondiale contro il diritto di denunciare. Le forze governative e le aziende demonizzano chi lotta per la tutela dei diritti umani facendoli apparire come una minaccia per la sicurezza, lo sviluppo o i valori tradizionali. Vengono poste in essere campagne di diffamazione intese a delegittimare gli/le Hrd e il loro lavoro. Così facendo viene sottratto il diritto alla protesta pacifica e, dunque il diritto di critica, così minando le fondamenta della crescita intellettuale, sociale e politica dell’uomo, verso una deriva sempre più autoritaria e repressiva. Ci si trova, infatti, in un panorama politico che spazia da leggi che autorizzano l’uso della forza contro manifestanti pacifici o consentono la sorveglianza di massa, fino al divieto di accedere a fondi esteri o all’imposizione di requisiti molto severi per registrare le organizzazioni con conseguente sempre meno spazio per l’azione della società civile. Su queste premesse Amnesty International ha lanciato la nuova Campagna Globale che chiede il riconoscimento e la protezione di coloro che difendono i diritti umani, così come la possibilità che possano operare in un ambiente sicuro. Il nome della campagna è: CORAGGIO 1. Ora più che mai occorrono persone che si schierino coraggiosamente contro le ingiustizie e contro chi mina i diritti umani di una falsa promessa di prosperità e sicurezza. È una campagna che parla a tutti noi, uomini e donne, chiedendoci, da un lato, di sostenere le persone che hanno coraggio, proteggendole e difendendole; dall’altro lato, di trovare il coraggio di agire a nostra volta ed essere attori del cambiamento che vogliamo nel mondo. Chiara Di Maria Vice Responsabile Circoscrizione Sicilia di Amnesty International Italia

1  -  https://www.amnesty.it/campagne/coraggio/

CORAGGIO

Voci - NOVEMBRE 2017 N. 4 / A.3

4


EDU

EDUCAZIONE AI DIRITTI UMANI E LA NUOVA CAMPAGNA “CORAGGIO” di Carmen Cera

Ph.: Amnesty International

Questa campagna proprio perché punta a difendere e legittimare il ruolo dei difensori e delle difensore dei diritti umani e a denunciare le restrizioni dello spazio d’azione della società civile a cui oggi stiamo assistendo in varie parti del mondo, si presta in particolar modo ad essere supportata da attività di educazione ai diritti umani rivolte a diversi destinatari (ambientalisti, avvocati, giornalisti, donne, ma soprattutto studenti). Infatti se lo scopo principale dell’Educazione ai diritti umani è quello di accrescere e implementare i valori della giustizia sociale e della partecipazione democratica, il suo fine ultimo è quello di sviluppare l’attitudine ad attivarsi per produrre cambiamenti. Ecco perché questa Campagna, volta a difendere i difensori e le difensore dei diritti umani, quali individui che agiscono per promuovere e proteggere i diritti umani, è quasi empaticamente e imprescindibilmente legata all’Educazione ai diritti umani. In particolare qualsiasi attività ad essa legata non potrà prescindere dalla conoscenza delle storie di alcuni importanti difensori e difensore dei diritti umani e, attraverso una analisi geopolitica attuale, dalla conoscenza delle attuali restrizioni e violazioni sociali, civili e politiche. Conoscere l’attività “eroica” di persone appartenenti alla realtà contemporanea produrrà non solo empatia per le vittime delle violazioni, ma anche identificazione con i difensori e le difensore dei diritti umani, favorendo così lo sviluppo e la applicabilità di concetti che spesso restano generici e vagamente definiti, quali la libertà, la giustizia, la democrazia, la solidarietà. 5

Svolgere ricerche, documentarsi, confrontarsi con associazioni e organizzazioni per la tutela dei diritti umani, con categorie di persone i cui diritti vengono violati significherà scoprire se e in che modo nella propria comunità i diritti vengono rispettati. Attivare mobilitazioni, strutturare interventi di capacity building favorirà l’apprendimento delle skills per difendere i diritti umani, la partecipazione alla vita della comunità, la promozione della consapevolezza di poter agire dall’interno e dal basso dando il proprio contributo, supportando e diventando Human Rights Defenders. I difensori e le difensore dei diritti umani sono spesso persone comuni che si sono attivate riuscendo a coinvolgere una intera comunità, riuscendo ad ottenere risultati impensabili. Quale migliore esempio per convogliare positivamente il naturale protagonismo dei ragazzi e delle ragazze? Quale migliore esempio per diventare all’intero della propria scuola osservatori di fenomeni legati al bullismo e attivi difensori dei compagni e delle compagne vittime di tali atti? Conoscere persone comuni che diventano “eroi” ed “eroine” per il rispetto e l’applicabilità dei diritti umani, favorisce la consapevolezza del valore dell’attivismo e del cambiamento di cui ci si può fare portatori non solo a livello globale, ma anche e soprattutto a livello locale e comunitario. Carmen Cera Docente materie letterarie Referente educazione ai diritti umani Circoscrizione Sicilia di Amnesty International Italia

NOVEMBRE 2017 N. 4 / A.3 - Voci


Il Coraggio delle proprie idee

UNA RISOLUZIONE ESEMPLARE DEL PARLAMENTO

EUROPEO SUI DIFENSORI DEI DIRITTI UMANI DELL’AZERBAIJAN di Giuseppe Provenza

Manifestazioni delle opposizioni in Azerbaijan (Ph.: VOA)

Il 15 giugno 2017 il Parlamento Europeo ha approvato una risoluzione sul caso del giornalista e difensore dei diritti umani azero Afgan Mukhtarli, risoluzione che appare particolarmente importante poiché in essa si fa riferimento anche ad altri difensori dei diritti umani azeri, a favore di alcuni dei quali è intervenuta anche Amnesty International, come nei casi di Leyla e Arif Yunus, di Kadija Ismayilova, di Giyas Ibrahimov e di Bayram Mammadov e che, pertanto, suona come una severa condanna del regime azero che, come è ben noto, mantiene in carcere e persegue con processi iniqui chiunque, soprattutto giornalisti, sia critico nei suoi confronti e accusi il governo di corruzione. Nella risoluzione viene riportato che Afgan Mukhtarli, giornalista investigativo azero in esilio, che lavora per diversi organi di stampa indipendenti, tra cui Radio Free Europe/Radio Liberty, si era trasferito a Tbilisi (capitale della Georgia) nel 2015, da dove era scomparso il 29 maggio 2017 per poi essere ritrovato qualche ora più tardi a Baku (capitale dell’Azerbaijan). Sempre nella risoluzione viene riferito che, secondo il suo avvocato, Afgan Mukhtarli era stato fermato, spinto in un’automobile, percosso e condotto alla frontiera Voci - NOVEMBRE 2017 N. 4 / A.3

azera, dove gli sarebbe stata messa addosso a sua insaputa una somma pari a 10.000 EURO, da uomini non identificati, che presumibilmente indossavano la divisa della polizia criminale georgiana. Il Parlamento Europeo nella risoluzione ha quindi “condannato fermamente” il sequestro di Afgan Mukhtarli a Tbilisi e la sua successiva detenzione arbitraria a Baku, ritenendo che si sia compiuta una “grave violazione dei diritti umani”. Nella risoluzione viene quindi condannato “fermamente il procedimento giudiziario basato su false accuse a carico di Afgan Mukhtarli” e si ribadisce “che tale persecuzione si basa sulla sua attività di giornalista indipendente” e viene chiesto alle autorità azere “di ritirare immediatamente e incondizionatamente tutte le accuse contro Afgan Mukhtarli e di rilasciarlo” insieme a “tutti i prigionieri politici, compresi giornalisti, attivisti per i diritti umani e altri attivisti della società civile, tra cui Afgan Mukhtarli, Ilkin Rustamzadeh, Rashad Ramazanov, Seymur Hazi, Giyas Ibrahimov 1, Mehman Huseynov, Bayram Mammadov, Ilgar Mammadov,  1  -  Appello di Amnesty International Italia n. 146 dell’8/12/2016

6


Il Coraggio delle proprie idee

Araz Guliyev, Tofig Hasanli, Ilgiz Qahramanov, Afgan Sadygov”, nonché “il ritiro di tutte le accuse nei loro confronti e il pieno ripristino dei loro diritti politici e civili, anche per quanto concerne i prigionieri politici precedentemente detenuti e poi rilasciati, tra cui Intigam Aliyev 2 e Khadija Ismayilova 3”, e di “interrompere l’attuale persecuzione di Leyla e Arif Yunus 4” due difensori dei diritti umani ben noti agli attivisti di Amnesty International Italia per essere stati graditi ospiti dell’Assemblea Generale del 2017 tenutasi a Palermo. Nei riguardi di questi ultimi, peraltro, nella risoluzione viene ricordato che il 17 maggio 2017 la Corte d’Appello di Baku ne ha disposto il rientro in Azerbaijan dai Paesi Bassi, dove i due coniugi hanno ricevuto asilo politico, richiamando “l’attenzione di Interpol su questo caso in quanto politicamente motivato”. Oltre che sul caso di Afgan Mukhtarli, già delineato nella risoluzione del Parlamento Europeo, e su quello dei coniugi Yunus, già noto agli attivisti italiani, sembra opportuno soffermarsi sul caso, davvero esemplare, di Khadija Ismayilova, tipico caso di persecuzione di giornalista che abbia denunciato il governo del proprio paese, non soltanto perché non rispettoso dei diritti umani, primi fra tutti i diritti alla libertà di espressione e alla libertà di stampa, ma anche per averne denunciato la corruzione. Dai microfoni di Radio Free Europe/Radio Liberty, infatti, fin dal 2010 denunziava i rapporti di affari occulti ed i possedimenti all’estero dell’intera famiglia del presidente Ilham Aliev, mentre rendeva pubblici gli elenchi dei prigionieri politici dell’Azerbaijan. Khadija fu arrestata il 5 dicembre 2014 per evasione fiscale, appropriazione indebita ed attività illegale, nonché con l’accusa di istigazione al suicidio di un collega (su denuncia di quest’ultimo che aveva in seguito ritirato la denuncia) e condannata il 1° settembre 2015 a sette anni e mezzo di reclusione per tutte le accuse, tranne che per quella di istigazione al suicidio. La condanna fu confermata in appello il 25 novembre 2015. Il 25 maggio 2016 Khadija è stata rilasciata dalla Corte Suprema dell’Azerbaijan che ha anche ridotto la pena a tre anni e mezzo con la sospensione. Prima del ricorso a queste accuse del tutto infondate e quindi al conseguente procedimento penale ed al carcere, si era tentato di intimorirla nel marzo del 2012 con un ricatto a sfondo sessuale.

La giornalista investigativa Khadija Ismayilova - Azerbaijan

Le erano state recapitate delle immagini tratte da un filmato realizzato piazzando una videocamera nella sua camera da letto. Le immagini mostravano suoi momenti intimi con il fidanzato ed erano accompagnate da una lettera con cui si minacciava la pubblicazione del filmato, qualora essa non avesse desistito dalla sua attività giornalistica. La Ismayilova rifiutò pubblicamente di cedere al ricatto ed il filmato venne pubblicato su un sito internet. Per la persecuzione subita, prima con il ricatto e poi a livello giudiziario, e quindi con il carcere, Khadija ha ricevuto il sostegno sia a livello politico internazionale, e in particolare dall’Unione Europea, che ora l’ha anche citata nella risoluzione del 15 giugno 2017, dal Presidente dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa, dal Commissario Europeo per i Diritti Umani del Consiglio d’Europa, dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti d’America, sia da importanti organizzazioni internazionali non governative come Amnesty International, Reporters Without Borders, Human Rights Watch, Freedom House. Contro il procedimento penale e l’arresto in custodia cautelare prima della condanna, Khadija ha presentato ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. A gennaio del 2016, la nota avvocata Amal Alamuddin, moglie dell’attore George Clooney, ha annunciato che assumerà la difesa di Khadija in questo ricorso. Quest’ultima ha accettato.

Giuseppe Provenza  2  -  Appello di Amnesty International Italia del 16/02/2016

Responsabile del Coordinamento Europa della Sezione Italiana di Amnesty

3  -  Appello di Amnesty International Italia n. 50 del 22/04/2016

Membro del Gruppo Amnesty Italia 233

4  -  Appello di Amnesty International Italia n. 24 del 02/03/2016

7

NOVEMBRE 2017 N. 4 / A.3 - Voci


Il Coraggio delle proprie idee

LA PERSECUZIONE DEL POPOLO ROHINGYA di Mouhamed Cissé

Manifestanti bruciano un’effigie del Consigliere di Stato del Myanmar Aung San Suu Kyi durante una manifestazione sul genocidio contro i Rohingyas Kolkata il 4 settembre 2017. (foto IANS)

Da qualche giorno, il Myanmar è tornato ad essere al centro dell’attenzione di tutte le testate giornalistiche internazionali a causa delle violazioni dei diritti umani fondamentali subite dai Rohingyas. Avendo i Rohingyas il triste primato di minoranza più perseguitata e discriminata del mondo, l’insieme delle violenze che questi subiscono possono giuridicamente essere qualificati come crimine di genocidio e crimine contro l’umanità, il cui scopo è apertamente quello di cacciarli dallo Stato d’Arakan, nel Sud Ovest del Myanmar. Gli attori delle persecuzioni sono da una parte i buddisti appartenenti all’etnia maggioritaria, i barmans (70% della popolazione) dall’altra la giunta militare e quindi lo Stato. Le persecuzioni si traducono in una campagna di incitamento all’odio etnico religioso che si manifesta attraverso l’incendio delle moschee, delle case, l’indicazione che i buddisti ricevono di usare degli adesivi nei loro negozi in modo tale da mettere in evidenza la loro appartenenza religiosa. A questo si aggiunge una feroce campagna di sterminazione, di spostamento forzata della popolazione, di insulti e intimidazioni. I monaci buddisti, principali fomentatori degli attacchi, si considerano i veri birmani contro i Rohingyas, i quali rappresentando all’incirca 4% di una popolazione di 55 milioni di abitanti (di cui 135 gruppi etnici), sarebbero gli stranieri venuti dal Bangladesh durante Voci - NOVEMBRE 2017 N. 4 / A.3

l’invasione britannica. Sono anche considerati come dei traditori essendosi sempre coalizzati con gli occupanti per proteggersi da una continua campagna dei persecuzione nei loro confronti. La loro persecuzione e discriminazione non data pertanto di oggi ma si può far risalire all’indipendenza nel 1948. Adesso, la domanda è la seguente: che cosa è successo a Aung San Suu Kyi, colei il cui nome è stato considerato sinonimo di lotta per la difesa dei diritti dell’uomo del suo paese, il Myanmar, ed è stata anche a torto o a ragione paragonata a Gandhi? Dove si trova mentre una parte della popolazione del suo paese è vittima di pulizia etnica? Perché non eleva la sua voce e non usa il carisma che le è stato riconosciuto per denunciare le gravi violazioni dei diritti umani? In opposizione al silenzio assordante della prima, Tun Khin è un giovane attivista dei diritti umani Rohingya nato nello Stato d’Arakan. Nel 2005 diventa Presidente della Burmense Organisation nel Regno Unito un’organizzazione che denuncia le discriminazioni e persecuzioni etnico-religiose nei confronti dei Rohingyas in Myanmar. È molto attivo nella difesa della causa del suo popolo davanti alle più alte istituzioni politiche internazionali quali il Parlamento britannico, l’Unione Europea, il Senato americano e il Dipartimento di Stato Americano. È 8


Il Coraggio delle proprie idee

anche autore di numerosi scritti e interviste sui media internazionali sulla causa dei Rohingyas. Ma nonostante egli difenda una causa giusta, il suo messaggio non sembra andare oltre la solita retorica. Oggi, la comunità dei difensori dei diritti dell’uomo si sente tradita. Tante sono le voci che si oppongono all’indifferenza del Premio Nobel per la Pace birmano dinanzi alla situazione dei Rohingyas nel suo paese. Una parte degli osservatori della situazione birmana sostengono inoltre che in realtà Aung San Suu Kyi abbia sempre fatto parte del sistema. Nel 1947, il Generale Aung Sun, una delle maggiore figure politiche della Birmania moderna, padre di Aung San Suu Kyi, viene assassinato dai suoi ex compagni. Dal 1948 al 1962, il Myanmar vive un periodo democratico che termina nel 1962. Infatti, le numerose minoranze etniche e religiose del paese conducono una lotta continua contro l’etnia maggioritaria, ciò che conduce al colpo di Stato dei militari nel 1962. La moglie del Generale assassinato collabora con il regime, diventando Ambasciatore della Birmania in India. Sua figlia Aung San Suu Kyi frequenterà le più prestigiose università europee, lavorando anche per le Nazioni Unite. Tornata nel suo paese nel 1988 per le condizioni di salute di sua madre, Aung San Suu Kyi, creerà il suo partito politico (Lega Nazionale per la Democrazia) lo stesso anno, parteciperà alle elezioni generali del 1990 e ne conseguirà una vittoria schiacciante. I militari si rifiuteranno di riconoscere la sua vittoria. Vista la sua posizione di persona reclusa ai domiciliari per le sue opinioni politiche, la comunità internazionale farà della sua causa una questione internazionale e farà di lei un simbolo degli oppressi. Già quando Aung San Suu Kyi era in dei buoni rapporti con i militari, i Rohingyas subivano le discriminazioni che oggi tutti conoscono. Venivano espropriati delle loro terre, venivano negati dei loro diritti civici, sociali e politici. Non potevano studiare, né avere accesso alle cure mediche. Tutto era organizzato dagli organi statali per costringerli a lasciare il paese. Nel 1982, una legge ha revocato la loro cittadinanza facendo di loro degli apolidi a tutti gli effetti. Aung San Suu Kyi non ha elevato nessuna voce contro queste barbarie, nemmeno quando l’attenzione dei media internazionali si concentrò sulla sua lotta. Il premio Nobel continua, nonostante la sua vittoria alle elezioni del 2015 e la sua posizione di rilievo nella macchina statale, ad astenersi dal prendere una posizione chiara sulle violenze subite dai Rohingyas. Ancor di più stona il suo atteggiamento attuale nei 9

confronti dei Rohingyas se si considera che nel 2012, quando ebbe la possibilità dopo 28 anni di uscire dal suo paese, si recò a Bangkok per incontrare i Karens, un gruppo etnico birmano che vive nel campo profughi di Mae La. Essi sono buddhisti e rappresentano il secondo gruppo maggioritario del paese e quindi una base elettorale non trascurabile. Nell’autunno 2012, la minoranza Kachin aveva già espresso la sua diffidenza dinanzi al silenzio della “Dama di Rangun” di fronte alla decisione della giunta militare di perpetrare la repressione nei loro confronti e non accettare nessuna forma di negoziazione. Una lettura veritiera della storia del Premio Nobel Aung San Suu Kyi e delle sue prese di posizione “a intermittenza” a tutela dei diritti umani, portano a consigliare alle organizzazioni internazionali di difesa dei diritti umani di astenersi dal creare miti o mostri. Una personalità riconosciuta internazionalmente per la difesa dei diritti umani, considerati universali e assoluti, dovrebbe fare propria la causa dei Rohingyas, come di ogni altra etnia discriminata. Il popolo dei Rohingyas merita tutta l’attenzione della comunità internazionale. Aun San Suu Kyi non prende posizione e ciò che è peggio, accusa i Rohingyas di inventarsi gli stupri perpetrati nei confronti delle donne della loro etnia e gli incendi delle loro abitazioni. Dichiara che l’esercito agisce in modo tale da evitare danni collaterali. Queste affermazioni vengono smentite da osservatori e giornalisti internazionali che si trovano sul campo che raccontano invece di come l’esercito sia complice dei monaci e di come i militari e la polizia sparino ad altezza uomo sui Rohingyas che tentano di spegnere le fiamme appiccate alle loro case. Non è un dettaglio che Aung San Suu Kyi non abbia assunto un ruolo di terzietà rispetto alla situazione. Ricoprendo la carica di Consigliere di Stato in Myamar, essendo capo del partito maggioritario e facendo parte dell’etnia predominante, i Bamars, si può definire complice di quello che sta succedendo. I difensori dei diritti umani che subiscono essi stessi discriminazioni e gravi violazioni dei diritti umani vanno indubbiamente difesi, ma non santificati. Inoltre, cosi come si sta facendo con Harvey Weistein nel mondo del Cinema, si dovrebbero poter ritirare tutti i riconoscimenti ottenuti in qualità di difensori dei diritti dell’uomo a coloro le cui azioni assumono un orientamento opposto. Mouhamed Cissé Consulente per i diritti umani del Comune di Palermo Direttore della MhD Consulting

NOVEMBRE 2017 N. 4 / A.3 - Voci


Il Coraggio delle proprie idee

LIU XIA, POETESSA CINESE di Andrea Pira

Copyrights: Badiucao - www.badiucao.com

Ritratta come Mona Lisa, nei panni di Frida Kahlo, come la Ragazza con il turbante, meglio conosciuta come la Ragazza con l’orecchino di perla dipinta da Jan Vermeer. Il vignettista Badiucao, ironico critico della Cina comunista, si è chiesto chi sia Liu Xia, ritraendola nei panni delle protagoniste di alcuni dei più noti ritratti della storia dell’arte. Poetessa, artista, attivista e vedova del premio Nobel per la Pace, Liu Xiaobo, Liu Xia al momento in cui questo articolo è andato in stampa, è costretta da Pechino a una detenzione di fatto che perdura dal 2010 e senza che le sia stata mossa alcuna accusa. L’ultima volta che la si è vista in pubblico fu il 15 luglio scorso, in occasione della cerimonia funebre per il marito, morto di cancro al fegato due giorni prima, dopo una Voci - NOVEMBRE 2017 N. 4 / A.3

settimana di ricovero e sotto sorveglianza nell’ospedale di Shenyang, mentre scontava una condanna a 11 anni di carcere con l’accusa di incitazione alla sovversione dello Stato perché primo firmatario della Charta 08, un documento che riecheggiando quello dei dissidenti cecoslovacchi nel 1997 chiedeva alla dirigenza cinese riforme in senso liberaldemocratico. “Chiediamo che siano revocate le restrizioni su Liu Xia e che siano garantite le sue libertà d’espressione, di movimento e di poter incontrare altre persone”, recita la lettera promossa da PEN America e firmata da oltre cinquanta scrittori tra i quali figurano Chimamanda Adichie, Philip Roth, Margaret Atwood, Tom Stoppard e George Saunder. Il documento è stato diffuso

10


Il Coraggio delle proprie idee

pochi giorni prima del viaggio in Asia orientale del presidente Donald Trump, con tappa in Cina dall’8 al 10 di novembre. I firmatari fanno appello alla coscienza del presidente Xi Jinping esortandolo ad attuare le garanzie previste dalla stessa Costituzione della Repubblica popolare e in ottemperanza alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Ma quanto in Cina sia difficile l’applicazione di quanto previsto dalle stesse leggi del Paese lo dimostra la persecuzione contro gli avvocati per i diritti civili, alcuni dei quali ancora in cella dopo le retate di luglio 2015, quando fermi e arresti furono a centinaia. Liu “è in cattiva salute, è isolata da chi si può prendere cura di lei ed è in lutto per la scomparsa del marito”, continua la lettera. Gli appelli a Xi si moltiplicano. Sin dalla morte di Liu Xiaobo era apparso chiaro che la vedova avrebbe rischiato di essere ancora perseguitata. D’altra parte la stessa gestione degli ultimi giorni di vita dell’intellettuale aveva fatto emergere il nervosismo delle autorità cinesi. La diffusione di video sulla degenza di Liu attorniato da medici che si prendevano cura di lui (senza troppo concedere al rispetto della privacy), il via libera quasi all’ultimo momento affinché esperti statunitensi e tedeschi potessero assisterlo, volevano dimostrare gli strenui tentativi di salvarlo, pur avendo la malattia raggiunto lo stadio terminale. Pechino si è comunque sempre opposta a ogni ipotesi che il Nobel per la Pace potesse essere curato o potesse morire all’estero, volontà quest’ultima pare espressa in alcuni messaggi fatti trapelare dai suoi amici. In realtà verso metà agosto Liu Xia era in qualche modo ritornata a farsi vedere. Non di persona, ma in un video pubblicato su Youtube (piattaforma peraltro censurata nella Repubblica popolare e accessibile soltanto attraverso vpn). Come i filmati che documentavano la detenzione e la degenza del marito, anche in questo caso si ha l’impressione di un tentativo di propaganda, attuato da qualche settore dell’apparato cinese. Ad aver caricato il video fu un utente iscritto soltanto due settimane prima. Di sicuro Goudan Li, questo il nickname, non nasconde le posizioni filogovernative. Tra gli altri video del suo canale diversi attaccano il controverso miliardario Guo Wengui, nell’ultimo anno grande accusatore della nomenclatura rossa dal suo autoesilio di New York. In patria Guo è accusato di stupro e tirato in ballo in casi di frode che riguardano la sua azienda. Dagli Usa conduce una serrata 11

campagna di denuncia sulla corruzione degli alti dirigenti cinesi sfruttando Twitter e Facebook. Famosa divenne un’intervista all’edizione in mandarino di Voice of America, emittente finanziata dal Congresso statunitense. La diretta fu interrotta in maniera repentina, si dice per richiesta della diplomazia cinese. Guo, del quale Pechino vuole l’estradizione o almeno che non gli venga rinnovato il permesso di soggiorno, puntava dritto all’allora zar dell’anticorruzione Wang Qishan, andato in pensione nel corso dell’ultimo ricambio di leadership per sopraggiunti limiti d’età. Accuse che hanno smosso le acque e turbato le settimane precedenti il 19esimo Congresso del Partito comunista, attirando l’attenzione del pubblico per capire quanto di vero ci fosse nelle dichiarazioni del miliardario. Nel minuto di video su Youtube, Liu Xia siede su un divano del suo salotto e fuma, parlando direttamente in camera. Racconta di stare recuperando le forze e chiede tempo per poter elaborare il lutto. I dottori, aggiunge, “hanno fatto del loro meglio quando Xiaobo era malato”. Ora, continua “devo ricalibrare la mia vita, quando in futuro vedrò miglioramenti tornerò da tutti voi”. Quella degli scrittori statunitensi non è di certo stata la prima lettera a fare appello alla coscienza del presidente Xi. Nei giorni successivi alla scomparsa del Nobel erano partite petizioni rivolte alla dirigenza comunista. Una lettera aperta di Amnesty International, che nel giro di poco tempo raggiunse decine di migliaia di adesioni. Lisa Tassi, direttrice delle campagne Amnesty per l’Asia orientale ricordò come Liu Xia fosse stata punita semplicemente per non aver mai abbandonato la battaglia contro l’ingiusta incarcerazione del marito e per quello che ha definito l’atteggiamento “vendicativo” di Pechino. Atteggiamento del quale furono vittime anche altri sostenitori dell’intellettuale. Sei attivisti per i diritti civili nel Gungdong furono fermati per “assembramento illegale volto a disturbare l’ordine sociale” per aver partecipato a un memoriale per il Nobel. Più di recente, lo scorso 22 settembre, dopo circa un mese di fermo, le autorità hanno rilasciato il poeta Wu Mingliang, meglio conosciuto con il nome di penna di Langzi, finito nel mirino per un’antologia commemorativa del primo firmatario di Charta 08. Quanto la sola presenza di Liu sia un argomento sensibile per la dirigenza di Pechino lo dimostrerebbe la notizia, riferita da alcuni conoscenti e riportata dalla stampa di Hong Kong, secondo cui la poetessa sarebbe stata costretta a lasciare la capitale nei giorni del congresso del Pcc che si è concluso lo scorso NOVEMBRE 2017 N. 4 / A.3 - Voci


Il Coraggio delle proprie idee

Ph.: Ng Han Guan-AP, Dicembre 2012 - Liu Xia posa con una foto di lei e suo marito Liu Xiaobo, premio Nobel per la pace 2010, durante un’intervista nella sua casa di Pechino.

24 ottobre, senza che venisse indicato un chiaro successore del presidente Xi, quando scadrà il suo secondo mandato nel 2022 e anzi rafforzandone la figura con l’inserimento nello statuto del Partito del nome del capo di Stato assieme alla sua teoria del “socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era”. Un onore concesso in vita soltanto a Mao Zedong e al suo pensiero, ponendolo così un gradino sopra Deng Xiaoping. Ma proprio come dimostrato dal nervosismo attorno alle accuse del caso Guo Wengui, la concomitanza del conclave rosso ha reso forse ancora più complicata per il governo la gestione della detenzione della poetessa. Liu sarebbe stata portata “in viaggio”, fuori da Pechino. Inoltre, scrive Hong Kong Free Press, I familiari avrebbero chiesto all’organizzazione Information Center for Human Rights and Democracy di non contattarli, per scongiurare eventuali problemi. Già lo scorso luglio i giornalisti del Guardian che provarono a parlare con l’attivista (che le autorità cinesi continuano a dire sia libera di muoversi) furono bloccati da alcuni agenti di sicurezza in borghese a presidio della sua abitazione. Tom Philipps ha raccontato tutto l’episodio. Un uomo in pantaloncini e scarpe sportive ha provato Voci - NOVEMBRE 2017 N. 4 / A.3

a impedirgli di arrivare fino alla palazzina di quattro piani dove abita Liu Xia. In un secondo tempo si sono aggiunti un secondo agente, sempre vestito in nero, e un terzo uomo pronto a chiamare la polizia, negando di conoscere la poetessa. Una settimana prima era toccato a un collega dell’agenzia spagnola Efe prima minacciato da sconosciuti e poi fermato dalla polizia. Come spiega Radio Free Asia ci sono pochi segnali di un possibile alleggerimento della stretta repressiva che ha accompagnato il primo mandato dell’amministrazione Xi. D’altronde lo stesso imporsi del presidente potrebbe essere la conseguenza della paranoia che attanaglia il governo si dal biennio 2011-2012. Lo spiegava ai primi di ottobre un lungo articolo di Foreign Policy che legava l’emergere dell’uomo forte alla paura, rivelatasi infondata, che anche in Cina potesse verificarsi qualcosa di simile alle Primavere arabe e alla lotta di potere in corso prima dell’ascesa di Xi. Un clima nel quale si è inserita nell’ultimo anno la morte di Liu Xiaobo e la scomparsa della vedova Liu Xia.

Andrea Pira Giornalista, sinologo, si occupa e scrive di diritti umani e libertà civili

12


Il Coraggio delle proprie idee

DAVID KATO di Daniela Tomasino

L’omosessualità in Uganda è un reato, come in diversi Paesi con un passato da colonie europee, sin XIX secolo; proibizione confermata dal Codice Penale del 1950, emanato dopo l’indipendenza dalla Gran Bretagna. In particolare è sanzionata fino all’ergastolo dalle Sezioni 145 (atti innaturali : conoscenza carnale di un animale e sodomia 1 sia nei confronti di uomini che di donne), 146 (tentativo di commettere reati innaturali) e 148 (pratiche indecenti). La situazione dei diritti delle persone LGBTI in Uganda è considerevolmente peggiorata negli ultimi 15 anni. Nel 2005 è stato approvato un emendamento che proibisce il matrimonio tra persone dello stesso sesso. Nel 2012 il parlamento ha approvato l’Anti Homosexuality Act, presentato nel 2009, che inaspriva le pene, introducendo l’obbligo di denuncia entro 24 ore per le persone che ricoprissero posizioni “di autorità”, e rendendo illegale la promozione di diritti LGBT da parte di singoli o di associazioni. L’Anti Homosexuality Act è stato abrogato nel 2014 per motivi formali, ma resta ben vivo e condiviso nel Paese lo spirito che ha portato a festeggiare la sua approvazione “come un regalo di Natale”. Una ricerca del Pew Research Center ha mostrato che per il 96% degli Ugandesi l’omosessualità non dovrebbe essere accettata dalla società; nel Maggio del 2015 il Gay Happiness Index (GHI) di PlanetRomeo 2 ha piazzato l’Uganda all’ultimo posto nel mondo. Nell’ottobre 2010 la rivista ugandese Rolling Stones ha pubblicato in prima pagina nomi, indirizzi e fotografie di 100 ugandesi presunti gay e lesbiche, chiedendo la loro esecuzione, con il titolo “Hang them, they are after our kids: Pictures of top 100 homos”. Tra

David Kato Kisule, co-fondatore dello SMUG - Uganda

le 100 persone anche Kasha Jacqueline, Pepe Julian Onziema e David Kato, membri dello SMUG (Sexual Minorities Uganda) 3, che denunciarono la rivista. Nel 2011 Rolling Stones è stato condannato a pagare un milione e mezzo di scellini ugandesi (circa 350 euro) ad ognuno dei ricorrenti per aver violato la loro privacy e la dignità umana. Pochi mesi dopo la sentenza David Kato, del clan Kisule, considerato il padre del movimento LGBTI del Paese, venne ucciso.

1 - https://it.wikipedia.org/wiki/Sodomia

David Kato Kisule, nato nel 1964, era un insegnante che, nel 1998, dopo aver trascorso due anni in Sudafrica, in cui, la Costituzione emanata nel 1996, subito dopo la fine dell’apartheid, prevedeva,

2 - https://it.wikipedia.org/wiki/PlanetRomeo

3 - http://sexualminoritiesuganda.com/

13

NOVEMBRE 2017 N. 4 / A.3 - Voci


Il Coraggio delle proprie idee

per la prima volta in Africa, la condanna di ogni discriminazione legata all’orientamento sessuale. Sull’onda dell’entusiasmo per l’avanzamento dei diritti umani, e dei diritti LGBTI in particolare. Kato torna in Uganda e, primo nel Paese, fa coming out in televisione. Alla fine della trasmissione Kato viene picchiato ed arrestato dalla polizia, ma continua nel suo attivismo per i diritti. Mel 2004 contribuisce a fondare lo SMUG, un’organizzazione-ombrello che raggruppa tutte le 18 organizzazioni per i diritti LGBTI presenti in Uganda, che si impegna in varie campagne contro la criminalizzazione dell’omosessualità. È soprattutto grazie allo SMUG che il disegno di legge per l’inasprimento delle pene contro l’omosessualità, detto anche “Kill the Gays bill” (“legge ammazzagay”) diventa oggetto di condanna internazionale. In poco tempo diventa il volto dello SMUG, e nel 2010 lascia il suo lavoro per lavorare a tempo pieno proprio nell’associazione. Il nome e la foto di Kato sono al primo posto tra i bersagli indicati da Rolling Stone, proprio a causa della sua visibilità e del ruolo di leader del movimento LGBTI ugandese. In poco tempo diventa il volto dello SMUG, e nel 2010 lascia il suo lavoro per lavorare a tempo pieno proprio nell’associazione. Il nome e la foto di Kato sono al primo posto tra i bersagli indicati da Rolling Stone, proprio a causa della sua visibilità e del ruolo di leader del movimento LGBTI ugandese. Nel novembre 2010, Kato era stato presente al IV Congresso dell’Associazione Radicale Certi Diritti 4, dove aveva raccontato le persecuzioni e i linciaggi subiti in Uganda dalle persone LGBTI, compiuti da persone incitate da fondamentalisti religiosi cristiani. Il processo contro la rivista Rolling Stones si era svolto in questo clima d’odio, e gli attivisti che avevano denunciato il tabloid durante le udienze erano stati protetti da tentativi di linciaggio da volontari delle Ong internazionali e da diplomatici di ambasciate occidentali. Subito dopo il Congresso di Certi Diritti, Kato era stato anche audito dalla Sottocommissione Diritti Umani del Parlamento Europeo, che aveva approvato poche settimane prima una risoluzione di condanna nei confronti dell’Uganda, grazie alle pressioni di ONG come l’italiana Non c’è Pace senza Giustizia. Tornato da poco in Uganda, 23 giorni dopo la condanna del direttore della rivista Rolling Stones, David Kato Kisule viene massacrato a martellate nella sua abitazione, e muore nella strada verso l’ospedale.

Le informazioni sulla sua morte, come prevedibile, sono contraddittorie. I vicini riferiscono di aver visto un furgone davanti casa sua, le ONG non hanno dubbi sulla natura omofobica del delitto e da più parti si insinua che la politica ugandese sia implicata. Nel 2011 ugandese Stephen T. K. Katenta-Apuli, l’Ambasciatore dell’Uganda presso la Commissione Europea, dichiara in una lettera al presidente della commissione Europea allo scopo di “correggere l’impressione che può aver avuto Lei assieme a vari membri del Parlamento Europeo riguardo al fatto che l’omicidio di David Kato sia stato il risultato della sua campagna a favore dei diritti dei gay e delle lesbiche in Uganda. Ciò non può essere più lontano dalla verità”. Secondo Katenta-Apuli, voce del governo ugandese, Kato sarebbe stato ucciso per non aver pagato le prestazioni di un prostituto, e sarebbe quindi corresponsabile della sua morte. Nel novembre 2011 il presunto assassino, un giovane di nome Sidney Nsubuga Enoch, reo confesso, viene condannato a 30 anni per l’omicidio. Enoch aveva confessato di aver ucciso Kato come reazione a delle avances nei suoi confronti da parte dell’attivista. La famiglia ha dichiarato di non trovare la sentenza convincente e che la polizia non ha mai fatto delle indagini. A David Kato è stata dedicata una strada nel villaggio di Bukasa; l’associazione radicale Certi Diritti di Palermo, membro del Coordinamento del Palermo Pride, è dedicata a lui. Nel dicembre 2012 Rebecca Kadaga, la prima firmatrice del “Kill the Gays bill”, viene ricevuta da Benedetto XVI proprio nei giorni dell’approvazione del disegno di legge; il portavoce del papa smentirà poi che si sia trattato di una benedizione speciale legata proprio a quella legge. Dalla morte di David Kato la situazione dei diritti umani, ed in particolare per le persone LGBTI in Uganda non è migliorata. Il rapporto 2016-2017 di Amnesty International evidenzia come “Ad agosto, la polizia ha interrotto un concorso di bellezza organizzato a Kampala in occasione del Pride dell’Uganda. I poliziotti hanno arrestato 16 persone, in maggioranza attivisti per i diritti Lgbti, rilasciandole dopo circa un’ora. Un uomo è rimasto gravemente ferito dopo essere saltato giù dal sesto piano, temendo di subire abusi da parte della polizia.”

Daniela Tomasino Attivista per i diritti LGBTI e volontaria della Croce Rossa

4 - http://www.radioradicale.it/ucciso-in-uganda-david-kato-kisule-esponenteafricano-del-movimento-lgbt

Voci - NOVEMBRE 2017 N. 4 / A.3

14


Il Coraggio delle proprie idee

AMERICA LATINA: IL RISCHIO DI DIFENDERE di Ramello e Soro / Coord. America Latina

Una marcia a Tegucigalpa, capitale dell’Honduras, in occasione dell’anniversario dell’assassinio di Berta Cáceres, co-fondatrice del COPINH

Difendere i diritti umani è estremamente pericoloso in molti paesi dell’America Latina. Amnesty International registra costantemente omicidi, sequestri, minacce di morte, intimidazioni e aggressioni nei confronti di giornalisti, operatori della giustizia, sindacalisti e attivisti per diritti umani. L’obiettivo: ridurli al silenzio. Alcuni gruppi di difensori sono particolarmente vulnerabili ed esposti a gravi rischi di rappresaglie: coloro che difendono i diritti legati alla terra e all’ambiente, i diritti delle popolazioni indigene, i diritti delle donne e delle bambine, delle persone LGBTI, e i diritti dei migranti. Gli attivisti che appartengono a comunità storicamente emarginate sono ancora più a rischio essere vittima di violenza, di subire discriminazione a causa del genere, etnia od orientamento sessuale. E’ da sottolineare come, negli ultimi anni, in America Latina siano aumentate in modo preoccupante le violazioni dei diritti umani legate a conflitti ambientali e per la difesa della terra, in opposizione a grandi progetti di sviluppo e attività estrattive da parte di imprese multinazionali. Le aggressioni e gli omicidi di attivisti ambientali rappresentano una percentuale molto elevata: secondo l’organizzazione Global Witness, nel 2015 nel mondo sono stati assassinati almeno 185 attivisti dell’ambiente e difensori della terra e di questi 122 15

sono stati uccisi in America Latina, pari a circa il 70% degli omicidi documentati. 1 I passi avanti nelle indagini sulle aggressioni nei confronti dei difensori sono sempre scarsi e, in ogni caso, insufficienti ad assicurare i responsabili alla giustizia. Questo contesto di impunità cancella ogni possibilità che arrivi in modo forte alla società il messaggio che la violenza contro i difensori dei diritti umani non sarà tollerata. Al contrario, negli ultimi anni, si è registrato un aumento dell’uso indebito del sistema giudiziario per intimidire e reprimere la difesa dei diritti umani in tutta la regione e sono in allarmante aumento azioni di diffamazione e di criminalizzazione nei confronti dei difensori e delle organizzazioni per i diritti umani. La campagna “Coraggio” 2, lanciata da Amnesty International, evidenzia come sempre più governi attaccano gli attivisti che cercano di difendere i diritti altrui e che si oppongono agli interessi di gruppi politici, gruppi armati e grandi imprese. In un panorama abbastanza sconfortante, iniziamo la carrellata su alcuni casi di difensori dei diritti umani in America Latina con una notizia positiva: il leader comunitario e difensore dei diritti umani colombiano  1 - https://www.globalwitness.org/annual-report-2015/  2 - https://www.amnesty.it/campagne/coraggio/ NOVEMBRE 2017 N. 4 / A.3 - Voci


Il Coraggio delle proprie idee

Leyner Palacios Asprillas, Global Pluralism Award 2017 - Colombia

Leyner Palacios Asprilla ha vinto il Global Pluralism Award 2017, riconoscimento assegnato dal canadese Global Centre for Pluralism. Con la sua lotta per i diritti delle vittime del conflitto colombiano, durata oltre 20 anni, ha dato voce alla popolazione di Bojayá, nel dipartimento di Chocó, una delle zone più povere e remote e della Colombia. Le comunità locali, principalmente afrodiscendenti e amerindie, storicamente fra le più emarginate del Paese, sono state esposte a decenni di violenza e sfruttamento da parte della guerriglia da un lato e i paramilitari dall’altro, anche a causa del disinteresse del governo. Nel Chocó vi sono stati più di 15.000 morti durante i 52 anni di conflitto interno della Colombia. Nel maggio del 2002, gli abitanti di Bojayá, si sono ritrovati nel mezzo di uno scontro tra un gruppo paramilitare (AUC) e i guerriglieri delle FARC. La mattina del 2 maggio, quando i membri della comunità cercavano di rifugiarsi in una chiesa presso i missionari agostiniani, l’AUC occupò una scuola adiacente, usando i residenti come scudo umano. A seguito di ciò, le forze del FARC cominciarono a bombardare la chiesa, uccidendo 79 persone, tra cui 48 neonati e bambini. Uno dei sopravvissuti era Leyner Palacios Asprilla, che scoprì che 32 dei suoi familiari erano stati uccisi. Oltre 10 anni dopo, nel 2014, Leyner ha fondato il comitato per i diritti delle vittime di Bojayá, che rappresenta 11.000 vittime del conflitto colombiano. Da secoli, a causa della loro povertà e dell’isolamento, le comunità del municipio di Bojayá non avevano voce; ciascuna agiva in modo indipendente, rappresentando solo sé stessa davanti al governo, alle FARC o alle organizzazioni internazionali. Le comunità afrocolombiane e quelle native embera sono culturalmente

e linguisticamente distinte, e spesso diffidenti l’una verso l’altra; tuttavia, Leyner riteneva che molte voci insieme sarebbero state più forti e potenti e riunì tutte le comunità con l’obiettivo comune di fermare la violenza e lottare per i propri diritti umani. Organizzò assemblee con rappresentanti di ogni comunità di Bojayá e incoraggiò ciascuna di esse a includere una rappresentanza femminile. Ora queste comunità remote hanno creato una voce collettiva che richiama i diritti umani ai più alti livelli di governo e in tutto il mondo. Come risultato della sua lotta per la giustizia sociale, a Leyner è stato chiesto di rappresentare le vittime del massacro di Bojayá durante i negoziati di pace tra le forze della guerriglia e il governo. Per il suo ruolo nel processo, è stato candidato per il Premio Nobel per la Pace del 2016. Un ulteriore risultato è stato che le FARC hanno riconosciuto pubblicamente il proprio ruolo nella tragedia del 2002 e, in una cerimonia privata in una chiesa di Bojayá, hanno chiesto perdono. Mettendo insieme le comunità nella lotta per la giustizia sociale, Leyner ha capito quanto possa essere potente un coro di voci diverse. Oggi continua a chiedere che la Colombia abbracci la diversità rispettando i diritti di tutti i suoi cittadini, in particolare quelli più emarginati. 3 Purtroppo i vincitori di questo tipo di premi non sono famosi, oppure lo diventano solo dopo che sono stati uccisi. Ne è un triste esempio Berta Cáceres, ambientalista e attivista honduregna, leader del popolo indigeno Lenca e co-fondatrice del Consiglio delle organizzazioni popolari e indigene dell’Honduras (COPINH) che nel 2013 vinse il prestigioso premio Goldman (una sorta di Nobel per gli ambientalisti),  3 - http://award.pluralism.ca/2017-recipients/leyner-palacios-asprilla/

Voci - NOVEMBRE 2017 N. 4 / A.3

16


Il Coraggio delle proprie idee

Bertha Cáceres Zúñiga, coordinatrice del COPINH, in una marcia per commemorare l’omicidio di sua madre - Honduras

uccisa nel 2016. Neanche un premio internazionale così importante l’ha messa al sicuro. In Honduras, gli attacchi contro i membri del COPINH sono proseguiti, nonostante il clamore per l’uccisione di Berta. Il 15 marzo di quest’anno Nelson García, membro del COPINH, è stato ucciso mentre si stava recando a casa, nel Dipartimento di Intibucá. Stava organizzando la comunità contro uno sfratto previsto per quel giorno. Il 15 aprile, mentre si dirigevano verso il fiume Gualcarque nell’ambito di una mobilitazione per un incontro internazionale dei popoli indigeni, membri del COPINH e di altre organizzazioni nazionali e internazionali hanno subito un’aggressione da parte di uomini armati, mentre la polizia, che assisteva alla scena, non ha fatto nulla per impedire gli attacchi. Alla fine di giugno, anche Bertha Zúniga, figlia di Berta Cáceres e ora coordinatrice del COPINH, ha subito un’aggressione, insieme a dei colleghi, mentre stavano viaggiando in auto e sono stati fermati da degli individui che brandivano dei machete e hanno cercato di colpirli. L’Honduras è il paese con il più elevato numero di uccisioni di attivisti per la difesa dell’ambiente e della terra in rapporto alla popolazione. Il Guatemala condivide questo triste primato, come evidenziato dal rapporto di Amnesty “Difendiamo la terra con il nostro sangue. Difensori della terra, del territorio e dell’ambiente in Honduras e Guatemala”. 4 Il conflitto armato che si è concluso nel 1996 continua ad avere ripercussioni sulla situazione dei diritti umani

nel paese. La dottrina del “nemico interno” che ha etichettato qualsiasi voce o opinione dissenziente come nemico, continua oggi in atteggiamenti che considerano i difensori, in particolare dei diritti ambientali e territoriali legati all’accesso alla terra come oppositori, “nemici dello stato” e persino terroristi. E’ emblematico il caso di sette difensori del diritto all’acqua e alla terra del dipartimento di Huehuetenango, a riprova di una tendenza crescente da parte delle autorità - evidenziata dalle ricerche di Amnesty International - che mira a stigmatizzare e screditare i difensori dei diritti umani. Il processo nei confronti di Rigoberto Juárez Mateo, Arturo Pablo Juan, Francisco Juan Pedro, Domingo Baltazar, Sotero Adalberto Villatoro Hernández, Bernardo Ermitaño López e Mynor López è iniziato il 6 luglio 2016. Il Pubblico Ministero li accusava di reati tra cui detenzioni illegali, coercizione, minacce, istigazione a delinquere e ostacolo alla giustizia, reati che sarebbero stati commessi nel corso di tre manifestazioni pubbliche tra il 2013 e il 2015. Le accuse si basavano sul loro ruolo di leader di comunità locai, considerandoli automaticamente come organizzatori delle manifestazioni e, inoltre, responsabili di eventuali danni causati. Il 22 luglio 2016, il Primo Tribunale Penale di Città del Guatemala ha assolto i sette difensori dalle accuse di detenzione illegale, minacce e istigazione. Tuttavia, i sette avevano ormai trascorso più di un anno in detenzione preventiva. Inoltre, alcuni di loro sono

4 - Indice: AMR 01/4562/2016 – 1 settembre 2016

17

NOVEMBRE 2017 N. 4 / A.3 - Voci


Il Coraggio delle proprie idee

Rigoberto Juárez Mateo, Arturo Pablo Juan, Francisco Juan Pedro, Domingo Baltazar, Ermitaño López, Adalberto Villatoro e Mynor López durante il processo a Città del Guatemala nel luglio 2016 - Guatemala, 6 Luglio 2016 ©Amnesty International / Anaïs Taracena,

stati condannati per altri fatti specifici avvenuti in alcune delle proteste e per altri sono ancora in corso procedimenti relativi ad altre manifestazioni. La campagna “Coraggio” 5 lanciata quest’anno da Amnesty International ci presenta il caso di un difensore dei diritti umani in Cile: Rodrigo Mundaca Cabrera. Il Movimento per la Difesa della terra, la protezione dell’ambiente e l’accesso all’acqua (MODATIMA) lavora per far conoscere il problema dell’estrazione illegale dell’acqua e il suo impatto sulle comunità rurali della provincia di Petorca, nel Cile centrale, una regione gravemente colpita dalla scarsità dell’acqua. Il 28 marzo del 2017, una persona non identificata ha minacciato di morte al telefono il difensore dei diritti umani Rodrigo Mundaca Cabrera, membro e portavoce del MODATIMA. Egli e altre persone appartenenti dell’organizzazione avevano già subito minacce in occasioni precedenti, come nel marzo 2015, quando Rodrigo Mundaca fu aggredito alle spalle da persone non identificate. I membri di MODATIMA hanno paura di lasciare le loro case perché temono che queste minacce di morte diventino realtà. Rodrigo Mundaca ha riferito ad Amnesty International che i difensori dell’acqua di Petorca si trovano ad affrontare gravi ostacoli e stanno perdendo il posto di lavoro a causa della loro attività contro l’estrazione illegale dell’acqua nella regione. Rodrigo Mundaca ha iniziato nel 2012 a denunciare l’illegale estrazione dell’acqua nella zona da parte di politici e di imprese. A causa di queste azioni coraggiose, le autorità hanno avviato quattro cause penali contro di lui. Una di esse ha portato a una condanna a 61 giorni di carcere, sospesa a condizione  5 - https://www.amnesty.it/campagne/coraggio/

Voci - NOVEMBRE 2017 N. 4 / A.3

che Rodrigo Mundaca si fosse presentato mensilmente alla polizia per un anno. 6 Nel 2010 le Nazioni Unite hanno inserito l’accesso all’acqua potabile e ai servizi igienico-sanitari tra i diritti umani essenziali. La risoluzione è stata approvata con il voto favorevole di 122 paesi, tra cui quello del Cile. Nel testo si ricorda che “l’accesso a un’acqua potabile sicura è parte integrante della realizzazione di tutti i diritti umani”. In Paraguay, recentemente, a subire gravi minacce di ritorsione sono stati dei giornalisti. Menchi Barriocanal e Óscar Acosta sono una coppia di giornalisti che nel giugno 2017 è stata minacciata di arresto da parte del presidente Horacio Cartes, con una falsa accusa di istigazione alla violenza. I due giornalisti, nel marzo 2017 avevano rivelato una manovra appoggiata dal presidente del Paraguay per emendare la Costituzione in modo da permettere la sua rielezione. La rivelazione di questa proposta causò proteste popolari, a cui la polizia rispose con l’uso di gas lacrimogeni e proiettili di gomma. Dopo il voto di riforma costituzionale, manifestanti appiccarono fuoco al palazzo del Congresso, e la protesta culminò con una morte, decine di feriti e oltre 200 arresti. Rappresentanti del partito al governo (Partido Colorado) accusarono pubblicamente Menchi Barriocanal e Óscar Acosta di aver scatenato le proteste e di aver causato incidenti violenti, mentre i due giornalisti avevano semplicemente informato sul tentativo di modifica della Costituzione in Parlamento. Il 23 e il 27 giugno, in due incontri pubblici, il presidente Horacio Cartes riprese le accuse contro di loro, affermando che avrebbero dovuto trovarsi in  6 - https://www.amnesty.org/es/get-involved/take-action/protect-chile-humanrights-defender-rodrigo-mundaca-and-modatima-members/

18


Il Coraggio delle proprie idee

Rodrigo Mundaca Cabrera, difensore dei diritti umani e membro portavoce del MODATIMA - Cile

carcere, facendo riferimento a un attivista di un partito politico dell’opposizione, arrestato con accuse legate ad incidenti avvenuti durante le proteste. Inoltre già da marzo si erano registrati altri atti di intimidazione e attacchi nei confronti di operatori dei mezzi di informazione che avevano criticato l’operato del governo durante le proteste. I tre principali sindacati nazionali di giornalisti hanno chiesto alla Procura generale di avviare indagini su questi attacchi, ma non è stato aperto alcun fascicolo al riguardo. Amnesty International ha lanciato un’Azione Urgente in loro favore, e il loro caso è stato ripreso da mezzi di informazione in vari paesi. In seguito alla mobilitazione e all’eco ottenuta, le minacce di arresto da parte del presidente sono cessate. Tuttavia, il loro caso presenta bene l’atteggiamento di chi detiene il potere, sempre meno disposti ad accettare critiche e dissenso, e ricorrono a un’ampia gamma di tattiche per ridurli al silenzio. Questi atti di intimidazione e di accusa contro giornalisti mostrano un modello di pressione che mette in pericolo i giornalisti e gli operatori della comunicazione e che viola il diritto alla libertà di espressione.

I giornalisti Menchi Barriocanal e Óscar Acosta - Paraguay

lo stupro. All’età di nove anni, è fuggita nella capitale dove ha vissuto per strada, esposta a una crescente violenza da parte di membri di bande, di agenti di polizia e dei clienti e all’abuso di droga. Nel 1993, un ufficiale dell’esercito le ha sparato nove volte, causandole gravi lesioni e un coma di due mesi. Queste esperienze continue di violenza e di lotta per la sopravvivenza quotidiana hanno trasformato Karla in un’attivista per i diritti umani. Nel 1992, è diventata una delle prime donne trans in El Salvador a rendere pubblico il suo status HIV positivo per ragioni politiche e ha combattuto per un’adeguata assistenza sanitaria per le persone LGBTI con HIV, specialmente per coloro che sono privati della libertà. Negli anni seguenti, è stata nuovamente vittima di gravi aggressioni, nonché perseguita per aver agito per legittima difesa, ferendo in un’occasione uno degli uomini che avevano tentato di uccidere lei e un amico. Per questo è stata condannata a diversi anni di carcere, trovandosi in cella con persone che avevano cercato di assassinarla anni prima, con conseguenti violenze e torture, senza accesso alla giustizia e privata del suo diritto a cure mediche.

Karla Avelar ha dedicato la sua vita a difendere, a livello nazionale e internazionale, i diritti umani delle persone LGBTI, persone affette da HIV, migranti, persone prive di libertà in situazioni di vulnerabilità e le vittime di discriminazioni dovute al loro orientamento sessuale o all’identità di genere. Nel 1996 Karla è stata uno dei fondatori di ASPIDH, la prima associazione di persone trans in El Salvador, e nel 2008 ha fondato la prima organizzazione di donne trans affette da HIV, COMCAVIS TRANS.

Nel 2013 Karla è diventata la prima donna trans a comparire davanti alla Commissione Interamericana dei Diritti Umani (IACHR) e denunciare lo stato di El Salvador per discriminazione e reati di odio contro le persone LGBTI. Due anni dopo, ha partecipato alla Revisione Periodica Universale (UPR) al Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite a Ginevra. Collaborando con altre ONG, ha presentato un rapporto alternativo, che ha portato alla prima raccomandazione delle Nazioni Unite allo stato del Salvador per le questioni LGBTI.

Karla è una donna transessuale, cresciuta in un ambiente caratterizzato da continui abusi, compreso

Negli ultimi anni Karla è stata costretta a trasferirsi numerose volte per ragioni di sicurezza, in seguito a

19

NOVEMBRE 2017 N. 4 / A.3 - Voci


Il Coraggio delle proprie idee

Karla Avelar, nominata per il Martin Ennals Award - El Salvador (Ph.: EFE)

ripetute minacce di morte. La sua determinazione a denunciare le agenzie governative per la loro inazione e la mancata risposta in merito alle aggressioni e gli omicidi di persone LGBTI compiuti da membri di bande di strada, agenti di polizia, ufficiali militari e squadre della morte, l’hanno anche esposta alla persecuzione politica. Per la determinazione nella lotta per i diritti LGBTI, ha ricevuto nel 2017 una menzione al prestigioso premio Martin Annals per i diritti umani. Nonostante le minacce di morte, Karla continua con determinazione la lotta per l’attuazione di riforme legislative che garantiscano i diritti umani delle persone LGBTI. Il suo sogno è quello di percorrere le strade di El Salvador senza essere accusata, discriminata o criminalizzata, vivere in sicurezza e godersi la vita con la sua famiglia. Per attivisti di Amnesty International incontrare personalmente difensori che nel loro paese subiscono ingiustizie e rischi a causa del loro impegno è estremamente motivante e coinvolgente. Così è stato quando abbiamo avuto l’opportunità di incontrare Valdênia Paulino, difensora dei diritti umani in Brasile. Avvocato, attivista per i diritti umani, Valdênia da anni lavora in prima linea in difesa delle comunità emarginate delle favelas, in particolare donne e bambini, prime vittime della violenza dilagante nelle grandi città del Brasile. Fin da bambina, a São Paulo è stata testimone della fame, la morte, il lavoro infantile e la violenza istituzionale, in particolare l’uso arbitrario della forza della polizia nelle favelas, della discriminazione razziale e sociale, dell’indifferenza delle autorità. Ciò la portò a “voler far qualcosa”. E già da molto giovane si è impegnata nella difesa delle donne, organizzando Voci - NOVEMBRE 2017 N. 4 / A.3

Valdênia Paulino, avocata difensore dei diritti umani - Brasile

una comunità di recupero per ragazze coinvolte nella prostituzione, per poi dedicarsi alla creazione del CEDECA - Centro per la difesa dei diritti dei bambini e degli adolescenti, e del Centro per i diritti umani di Sapopemba (nella periferia di São Paulo), attraverso il quale denuncia le violazioni dei diritti umani compiute nei confronti dei gruppi più vulnerabili della popolazione. Le coraggiose accuse delle violenze compiute dalla polizia di São Paulo le sono costate ripetute minacce, che l’hanno portata nel 2007 ad abbandonare temporaneamente il Brasile per motivi di sicurezza, ed è stata accolta dalla sezione spagnola di Amnesty International in uno specifico programma di protezione per i difensori dei diritti umani. Al ritorno, si è trasferita a Paraiba, nel nordest del Brasile, dove ha continuato la sua lotta nel Centro per i diritti umani Oscar Romero, che lavora per la protezione dei diritti degli indigeni locali. Nel 2011 è diventata Ombudsman presso la polizia di Paraiba – prima donna a ricoprire quella carica. L’incarico la portata a notevoli conflitti con i poteri costituiti. Ha subito molte angherie, da incursioni contro gli uffici del Centro per i diritti umani, a minacce di morte, a violenza sessuale. Ma il suo impegno a favore della difesa dei diritti di chi non li ha non si ferma. Le sue parole: “I diritti umani sono il passaporto di chi vive nella povertà per essere riconosciuti come esseri umani e come cittadini, perché essere consapevoli dei propri diritti è il punto di partenza per superare la povertà”. Ramello e Soro Coord. America Latina di Amnesty International Sezione Italiana

20


Il Coraggio delle proprie idee

MUDAWI, L’UOMO CHE

NON SMETTE DI SFIDARE IL GOVERNO di Martina Costa

Dr. Mudawi Ibrahin Adam - Sudan

Quella di Mudawi Ibrahim Adam è la storia di un dottore, attivista e noto difensore dei diritti umani, che opera in Sudan e in particolare nella regione del Darfur. È possibile concludere oggi la storia di Mudawi con un lieto fine. E sebbene sia inusuale cominciare un racconto dalla fine, per quella di Mudawi vale proprio la pena fare un’eccezione. Arrestato nel dicembre del 2016, il 29 agosto 2017 Mudawi è stato rilasciato dal governo sudanese e le accuse a lui rivolte sono cadute. Oggi continua a lottare al fine di abrogare tutte le leggi che consentono la detenzione arbitraria e che vietano la libertà di espressione, la libertà di stampa e le dimostrazioni pacifiche. Ma facciamo un passo indietro. Il dottor Mudawi, nato nel 1956 in Sudan, oggi padre di quattro figli, è un ingegnere meccanico, professore all’Università di Khartoum dal 1982. Parallelamente a questo lavoro, ha fondato l’Organizzazione per lo Sviluppo Sociale in Sudan (SUDO), un’organizzazione di volontariato creata al fine di promuovere la tutela dei diritti umani e uno sviluppo ambientale sostenibile, 21

attraverso la riqualificazione delle acque, della salute e della sanità. L’organizzazione intende inoltre porre fine ai conflitti che ormai dal 2003 dilaniano il territorio. Le dinamiche sociali del Sudan si inseriscono in un contesto storico-politico complesso. Il Sudan copre un territorio vasto e con una popolazione di quasi trenta milioni di persone originarie da diverse etnie, la sua composizione è quanto mai frammentata. La fragile politica interna ha inoltre condotto il paese a un controllo esterno sempre più marcato, il che non ha permesso il completamento del processo di unificazione. Il conflitto armato in Darfur, che va avanti ormai da 14 anni, non si presta a terminare: attacchi via terra e i raid aerei continuano a distruggere interi villaggi. Stupri, uccisioni illegali di uomini, donne e bambini e attacchi chimici da parte dalle forze governative sudanesi, continuano ad alimentare un conflitto in netta violazione del diritto internazionale e dei diritti umani. Uno degli obiettivi di Mudawi era anche quello di portare all’attenzione mondiale lo stato di abusi e NOVEMBRE 2017 N. 4 / A.3 - Voci


Il Coraggio delle proprie idee

di violazione dei diritti umani presenti nel Paese. Ha criticato il governo, rischiando la sua stessa vita, lottando costantemente per la pace. Per il lavoro svolto, nel 2005 ha ottenuto due premi: Front Line Award for Human Rights Defenders at Risk e Human Rights First Award. Mentre a livello internazionale il suo lavoro veniva riconosciuto e appoggiato - nel 2007 prese anche parte alla Conferenza mondiale dei dissidenti a Praga - nel suo paese, l’abilità di lavorare con persone di diversa etnia, il suo incrollabile impegno per la verità e giustizia, la sua credibilità internazionale sono stati viste come qualità pericolose. Per questo le autorità del Sudan perseguitano Mudawi da 14 anni. Il primo mandato di arresto risale infatti al 2003, quando, con l’accusa di crimini contro lo Stato, viene detenuto per circa otto mesi; e poi ancora nel 2005 e nel 2011 per un totale di tre mesi, molti dei quali in isolamento. Nel 2009 il governo sudanese ordinò la chiusura di SUDO e gli uffici vennero presi sotto il controllo del NISS (National Intelligence and Security Service), i servizi segreti sudanesi. La decisione arriva il giorno dopo la condanna della Corte Penale Internazionale, che incriminava il Presidente Omar al-Bashir per crimini contro l’umanità in Darfur. Tredici organizzazioni internazionali operanti in Sudan vennero chiuse e diversi attivisti espulsi o arrestati. L’ultimo mandato arriva il 7 dicembre 2016, quando Mudawi è stato arrestato insieme al suo autista, Adam El-Sheikh Mukhtar, all’università di Khartoum. L’arresto arbitrario ha coinvolto anche altri individui, anche loro accusati di minare il sistema costituzionale del Paese e di intraprendere una campagna militare contro lo Stato, entrambe le accuse punibili con la pena di morte. Molti di questi difensori sono stati sottoposti a torture, maltrattamenti oltre che a una detenzione arbitraria prolungata. Inoltre la detenzione è avvenuta in isolamento e in località sconosciute, senza la possibilità di ricevere visite o cure mediche. Diverse organizzazioni internazionali hanno richiesto il rilascio dei difensori dei diritti umani. Tra le tante, anche Amnesty International 1 ha lottato per il rilascio di Mudawi e dei suoi compagni. Secondo quanto emerge da un Rapporto di AI, la libertà di espressione e di associazione è fortemente mitigata 2. In questo contesto, arresti arbitrari e restrizioni della libertà personale, sono i mezzi più efficaci per un governo che intende reprimere il dissenso. Il Niss ha  1 - https://www.amnesty.org/en/latest/news/2017/06/sudan-end-the-miscarriageof-justice-against-dr-mudawi-and-his-colleague/  2 - https://www.amnesty.org/en/documents/afr54/101/2004/en/

Voci - NOVEMBRE 2017 N. 4 / A.3

impedito a diverse associazioni e partiti di opposizione di organizzare attività pubbliche. In un contesto in cui il dissenso non è ammesso, i protagonisti di questa repressione non possono che essere membri dei partiti politici d’opposizione, difensori dei diritti umani, studenti e attivisti politici. Possiamo dire con certezza che il sistema sudanese è stato caratterizzato per decenni dalla sistematica violazione dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario. La tendenza generale delle autorità è quella di restringere la libertà di associazione ed espressione, attraverso il controllo, l’intimidazione e interferendo nelle organizzazioni della società civile, censurando i media indipendenti. Le forze di sicurezza anche hanno usato metodi letali (come dimostra un Rapporto di AI 3) per disperdere le proteste. Uso eccessivo della forza, arresti arbitrari, limitazione della libertà di espressione e associazione, sono aggravati poi dal mancato accertamento delle responsabilità. Il governo si è premurato di garantire una certa immunità per i crimini commessi dalle forze di sicurezza. Il Sudan continua a mantenere quelle forze paramilitari abusive, come il National Intelligence and Security Service o le Rapid Support Forces, che legittimano l’uso eccessivo della forza e gli arresti arbitrari dal National Security Act del 2010. Inoltre il governo sudanese non ha reso conformi al diritto internazionale le sue riforme legislative e in particolare quelle riguardanti la sicurezza 4. Il 29 agosto del 2017, inseguito al perdono del Presidente Omar al- Bashir, Mudawi è stato rilasciato insieme a Hafiz Idris, Tasneem Taha Zaki, Abdelmukhles Yousef Ali, Abdelhakim Noor e Mubarak Adam Abdullah. Gli sforzi del governo sudanese di costruire un caso penale contro Mudawi la dice lunga sulla loro necessità di metterlo a tacere ma lui non si arrende ed anzi afferma 5: “Bisogna resistere e persistere, bisogna continuare a lottare insieme alle comunità per cui si lavora”.

Martina Costa Responsabile Campagne Circoscrizione Sicilia di Amnesty International Italia

3 - https://www.amnesty.org/en/documents/afr54/4877/2016/en/  4 - https://www.amnesty.it/rapporti-annuali/rapporto-annuale-2016-2017/africa/ sudan/  5 - https://medium.com/@RadioBullets/sotto-tiro-dottor-mudawi-la-voce-che-nonsentirete-6f11e39444c7

22


Il Coraggio delle proprie idee

“LA POLITICA DELLA MORTE”:

INTERESSI POLITICI ED ECONOMICI DIETRO LE UCCISIONI DI MIGLIAIA DI DIFENSORI DEI DIRITTI UMANI di Daniela Brignone

Manifestanti e capi indigeni a Londra

Secondo lo scienziato del Green Theory Thomas Homer-Dixon, le risorse ambientali sono una delle più frequenti cause di conflitto mondiale tra le nazioni. Le più grandi ingiustizie nel mondo in tale ambito sono generate da poche comunità privilegiate intente ad appropriarsi di gran parte di tali risorse che le sfruttano per il loro avanzamento tecnologico a scapito delle nazioni in via di sviluppo. La green theory, fautrice della non violenza, pone l’accento sulla relazione tra ambiente e globalizzazione, quest’ultima come portatrice di un afflusso di materiale e persone, di capitali, che stravolgono i sistemi locali senza alcun controllo da parte degli enti governativi, spesso compiacenti. Come sostiene l’economista J.K. Galbraith, l’economia si fonda sulla comprensione del rapporto tra la gente e la terra. Ma ovunque nel mondo si moltiplicano i casi in cui si verifica la profonda spaccatura tra la mancata comprensione e il prevalere degli interessi, in nome di un potere che destabilizza ed esercita pressioni, che mortifica e detta regole. La salvaguardia della terra e del lavoro spesso sono in contrasto con le leggi dell’imprenditorialità e del capitale. 23

L’assenza di democrazia, di eticità e di trasparenza nelle procedure della gestione dei beni ambientali provoca interessi lesivi nei confronti dei più deboli e di chi denuncia le distorsioni che alimentano forme più o meno organizzate di protesta da parte di attivisti locali, prontamente represse anche in modo violento. Honduras, Nicaragua, Brasile sono i Paesi dove più forte è la repressione per queste cause. Il crimine è la pratica più diffusa per il controllo dei territori. I giornalisti Paola Totaro e Mathew Ponsford, lavorando fianco a fianco con le organizzazioni umanitarie, ne hanno esaminato i casi evidenziandone gli elementi comuni che hanno condotto al sospetto di una connessione tra queste morti e la lotta per la difesa della propria terra, denunciandone l’entità e gli episodi nel progetto giornalistico diretto dalla Totaro “The politics of death” contenuto all’interno del sito www.thisisplace.org 1 che raccoglie i reportage da tutto il mondo prodotti dalla Thomson Reuters Foundation. Ma non tutti i casi vengono segnalati. A molti di questi, infatti, non viene dato risalto o vengono liquidati come morti accidentali o come regolamento di conti. Spesso  1 - http://www.thisisplace.org/shorthand/politics-of-death/ NOVEMBRE 2017 N. 4 / A.3 - Voci


Il Coraggio delle proprie idee

Marcia di protesta a Tegucigalpa - Congo

sono i sicari a fare il lavoro sporco: ingaggiati dalle organizzazioni, sono mercenari o bande criminali che hanno in mano la vita di chi il potere non ce l’ha. Totaro e Ponsford la definiscono necropolitica, termine coniato nel 2003 dal filosofo Achille Mbembe, che traccia i confini del potere di uccidere, di decidere della vita altrui e che, nei tempi odierni, ha sviluppato innumerevoli modalità di azioni (dalla persecuzione, all’apartheid, alla violenza politica e alla morte) per assoggettare chi lotta per la propria dignità e per la propria terra. Nel 2016 si sono contati più di 1.000 cittadini di 25 paesi uccisi, aggrediti, imprigionati o intimiditi mentre combattevano per i propri diritti. Questi numeri, destinati ad aumentare, hanno destato l’attenzione di organizzazioni per i diritti umani che hanno iniziato a svolgere indagini per identificare le uccisioni avvenute per tali cause. Purtroppo su alcuni di esse cala il silenzio: spesso la polizia non apre nemmeno l’indagine ed è arduo ricondurre ogni crimine ad una matrice comune. La paura di ritorsioni blocca la ricerca dell’intervento da parte delle forze dell’ordine. In alcuni casi sono gli stessi funzionari governativi ad essere coinvolti in un sistema di corruzione che non lascia scampo alle popolazioni indigene. “Nella grande maggioranza dei casi documentati nel 2016, le uccisioni sono state precedute da avvertimenti, minacce di morte e intimidazioni che, quando sono state segnalate alla polizia, sono state regolarmente ignorate”, riporta Andrew Anderson, direttore esecutivo di Front Line Defenders, l’organizzazione irlandese che si occupa della protezione dei difensori dei diritti umani. Tra i casi emersi quello dell’attivista Berta Caceres in Honduras, uccisa perché protestava contro la Voci - NOVEMBRE 2017 N. 4 / A.3

costruzione di una diga che avrebbe comportato lo sfollamento di centinaia di persone. Per la sua attività nel 2015 le fu attribuito il premio Goldman, diventando un punto di riferimento per chi continua a soffrire per i soprusi. Ma in Honduras si protesta anche per le miniere e per i metodi distruttivi usati in agricoltura che minacciano l’habitat, oltre che la sopravvivenza dei popoli indigeni. Il giudice Celedonia Zalazar Point è stata recentemente assassinata insieme al marito dai coloni che terrorizzano i territori indigeni del Nicaragua per salvaguardare i propri interessi illeciti legati all’agricoltura, all’allevamento del bestiame e all’attività mineraria. Tanti casi, migliaia, in paesi dove le pressioni e la corruzione regnano sovrani e dove la gente vive nella paura. In Messico sono tante le persone rapite perché oppongono resistenza alla distruzione delle foreste. Questi hanno imparato a difendersi contro i cartelli della droga che sfruttano il suolo in modo illecito per la coltivazione di avocado minacciando la sopravvivenza dei suoi abitanti. In Kenya gli sfratti forzati sono frequenti: la gente è cacciata fuori casa per consentire la realizzazione di una strada che attraversi la loro proprietà. E’ gente che si oppone allo sfruttamento del proprio territorio e all’abolizione delle proprie tradizioni contro la distruzione operata da organismi finanziati da poteri forti dell’economia che promuovono un progresso volto ad annientare un ecosistema che le popolazioni tentano disperatamente di preservare. E’ gente che, sradicata dalla propria vita, dalle proprie abitudini e tradizioni per un mero fine economico, si aggrappa saldamente a quella terra trasmessa dagli avi, ai pochi beni faticosamente accumulati, perché sa 24


Il Coraggio delle proprie idee

Pescatori in Brasile

che lontano da essa non avrà i mezzi per sopravvivere. Il trasferimento forzato delle popolazioni indigene attua uno sradicamento fisico e psicologico che mina il senso di sicurezza delle comunità che nella propria terra avevano trovato il luogo ideale per abitare. Per sopravvivere, in altri luoghi, sono costrette ad adattarsi a lavori differenti e spesso pericolosi come quello all’interno delle miniere e nelle dighe che generano la morte dell’anima, prima ancora che fisica. E’ gente che combatte per difendere i territori la cui ricchezza di materie prime scatena gli appetiti degli investitori: diamanti, oro e argento in Africa, miniere di carbone in India e in Bangladesh, legni preziosi in America Latina e fertili terreni agricoli dell’Asia sudorientale. Le riserve dei metalli utilizzati nelle nuove tecnologie informatiche e nella costruzione di armi, quali il litio, il cadmio, il cobalto e il rodio stimolano l’avidità in nome della quale è concessa qualunque distruzione o omicidio. In particolare, l’approvvigionamento del cobalto, utilizzato per lo stoccaggio di energia, ha fatto emergere lo sfruttamento di oltre 100.000 uomini che lavorano nelle miniere spesso a mani nude o con l’ausilio di piccoli strumenti. I tentativi di ribellione da parte di queste comunità sfociano in forme di attivismo preoccupanti per i governi e gli oppositori vengono segnalati. Le ONG si ritrovano da sole in questa battaglia, spesso in balia degli eventi e dei criminali. Il percorso per sradicare questo sistema è ancora lungo. Sicuramente “non esistono luoghi sicuri al mondo per i difensori dei diritti nel periodo storico in cui viviamo”, secondo Michel Forst, relatore speciale per le Nazioni Unite sulla situazione dei difensori dei diritti umani ed ex 25

Minatore lavora al Tilwizembe

direttore generale di Amnesty International. Quel che è certo è che grazie al lavoro capillare svolto a livello giornalistico e dalle ONG in tutto il mondo si inizierà a considerare il fenomeno con grande attenzione. Per approfondimenti: http://www.thisisplace.org/ http://news.trust.org/

Daniela Brignone Storica dell’arte e critica

NOVEMBRE 2017 N. 4 / A.3 - Voci


«Qui ad Atene noi facciamo così. La libertà di cui godiamo si estende anche alla vita quotidiana; noi non siamo sospettosi l’uno dell’altro e non infastidiamo mai il nostro prossimo se al nostro prossimo piace vivere a modo suo. Noi siamo liberi, liberi di vivere proprio come ci piace e tuttavia siamo sempre pronti a fronteggiare qualsiasi pericolo.» (Pericle – Discorso agli ateniesi – 461 a.c.) www.amnestysicilia.org

VOCI

DIAMO VOCE AI DIRITTI UMANI

i fatti e le idee


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.