L'ESPRESSO 28

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Settimanale di politica cultura economia N. 28 • anno LXVIII • 17 LUGLIO 2022 Domenica 3 euro L’Espresso + La Repubblica In Italia abbinamento obbligatorio alla domenica. Gli altri giorni solo L’Espresso 4 euro

POLITICA

GUERRA

IDEE

Zanda: Basta con le maggioranze innaturali

Nel Donbass, la terra per cui si muore

Si torna a viaggiare. E gli scrittori raccontano

Un’inchiesta internazionale svela chi ha lavorato a fianco del colosso della gig economy spingendo per cambiare le leggi anche in Italia. Renzi e Boschi nel governo, De Benedetti socio, Berlusconi fan occulto



Altan

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Sommario numero 28 - 17 luglio 2022

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Il caos della politica sulla pelle degli italiani

Opinioni

Lirio Abbate 11

Uber e i suoi chauffeur Paolo Biondani e Leo Sisti “Il mio lavoro? Aiutarli” colloquio con John Phillips Il racket dei rider pagati 3 euro Paolo Biondani e Leo Sisti Il governo di nessuno Susanna Turco Basta maggioranze innaturali colloquio con L. Zanda di Carlo Tecce Lui padre nobile, lei vecchia Loredana Lipperini Donbass, terra a pezzi per cui morire Sabato Angieri Difesa: li armiamo per negoziare colloquio con F. P. Figliuolo di Giancarlo Capozzoli Il gas argentino vale oro Ludovico Mori Pellet, la stufa russa non scalda più Alessandro De Pascale Stangata assicurata Vittorio Malagutti Giustizia, la toga si è ristretta Simone Alliva Il tuo smartphone ti sorveglia colloquio con David Lyon di Simone Pieranni Libertà, il contagio degli States Gaia van der Esch Talebani, l’anno nero del terrore Giuliano Battiston La Tunisia cambia in peggio Matteo Garavoglia Carta, l’inchiostro giovane Erika Antonelli

Idee

Le vacanze intermittenti Così ho scoperto la libertà Lo scandalo delle tre Marie Marras, caos sardo Quel piccolo neo bianco Due cartoline del nostro tempo Nel mio teatro racconto la realtà

Emanuele Coen Tim Parks F. Basso, S. Cacchioli, F. Delogu Giuseppe Fantasia Rossella Milone Guadalupe Nettel colloquio con O. Piccolo di Francesca De Sanctis

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Altan Makkox Panarari Corleone Varese Serra

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Rubriche La parola Taglio alto Bookmarks Ho visto cose #musica Scritti al buio Noi e voi

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COPERTINA Illustrazione di Stefano D’Oriano

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Storie I tuffatori in volo dallo Stari Most Il rientro degli expat: “La scintilla? Il lockdown” Dal cinema alla ricerca e ritorno L’Espresso fa parte in esclusiva per l’Italia dei consorzi investigativi

Marta Bellingreri 102 Alan David Scifo 108 Margherita Abis 112

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La parola

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vacanza «Vacantia» deriva dal latino «vacans»: essero vuoto, libero. Per gli antichi romani era il tempo dell’otium contrapposto a quello del negotium, degli impegni quotidiani e del lavoro in città. L’estate diviene così la stagione della libertà e dei viaggi alla scoperta di luoghi e persone nuove. Mai come quest’anno, dopo i lockdown dovuti all’emergenza Covid-19, le destinazioni turistiche sono piene, c’è un grande movimento tra le nazioni più diverse. Nonostante o forse proprio a causa della guerra, della crisi ambientale e sociale, la gente ha bisogno di “staccare” dalla routine quotidiana. Anche solo per pochi giorni (i tempi dilatati della villeggiatura sono ormai alle spalle da un po’). Ma la vacanza è soltanto evasione o può essere anche uno spunto per ritrovarsi? «Noi siamo abituati a fare grandi viaggi, ma non siamo abituati a varcare quei pochi centimetri che ci separano dalla nostra interiorità», «Nessun ritiro è più tranquillo e meno disturbato per la persona che quello che trova nella sua anima». Così Marco Aurelio in alcune delle sue celebri meditazioni. L’imperatore e filosofo romano ci indicava un luogo, l’anima, così vicino a noi eppure così difficile da varcare. Può lo spazio vuoto aperto dalla vacanza rendere meno complesso l’accesso alla nostra interiorità? Certo, rispetto ai tempi di Marco Aurelio è diventato ancora più difficile

ritirarsi in se stessi. Ormai Internet permette di connetterci anche nei posti più impervi e lontani e la condivisione delle nostre esperienze attraverso foto e video spesso precede la loro conoscenza effettiva. C’è il rischio che il virtuale renda ancora più difficile incontrare il reale in generale e la nostra anima in particolare. La vacanza assume così le caratteristiche di una giornata qualsiasi: viene concepita e organizzata con il prevalente intento di fare: arrivare in un luogo, mostrarsi, raggiungere obiettivi concreti. Come fare allora? I religiosi conoscono quella pratica di concentrazione su di sé che sono gli esercizi spirituali. Oggi questi, interpretati laicamente, dovrebbero prevedere una disconnessione sempre più ampia dalla rete in modo da rendere possibile la contemplazione di un paesaggio, delle onde e dell’azzurro del mare, della quiete dei monti, del verde della campagna o del silenzio di un borgo. Perché poi le emozioni vissute possano sedimentarsi e interiorizzarsi, modificandoci realmente. Scriveva Kundera che «esiste un legame stretto tra lentezza e memoria, tra velocità e oblio […]: il grado di lentezza è direttamente proporzionale all’intensità della memoria, il grado di velocità è direttamente proporzionale all’intensità dell’oblio». Ecco un’indicazione preziosa. Recuperiamo la lentezza: è forse lì la chiave per l’accesso alla nostra anima.

PADRE ENZO FORTUNATO 17 luglio 2022

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Cronache da fuori

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Makkox

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Editoriale

Lirio Abbate

Il caos della politica sulla pelle degli italiani

Illustrazione: Ivan Canu

Mentre nel palazzo si organizzano manovre di piccolo potere, il contagio peggiora e le prospettive economiche si fanno più fosche. Non è certo questo il modo per riconquistare la fiducia degli elettori

È

finale di partita per Giuseppe Conte e Mario Draghi. E su questo scontro in diversi si augurano di sentire dal Colle più alto il fischio dell’arbitro che potrebbe mandare tutti negli spogliatoi, senza alcun recupero. Non ci sono ripicche, ma la logica delle cose porta a guardare al M5S, l’unico partito a stare al governo dall’inizio della legislatura abbracciando tre diverse maggioranze, chiedendo se questo modo di agire non è in contrasto con la loro origine e cioè: stare dalla parte dei cittadini. Gli scossoni del Movimento hanno provocato profonde crepe nel governo Draghi, che sono strutturali, non sanabili nemmeno con i lavori del superbonus. Perché siamo nel pieno della pandemia, verso la quarta dose per gli over sessanta, con la guerra in Ucraina che non accenna a fermarsi, una crisi economica e finanziaria che stringe non solo le famiglie ma soprattutto le imprese medio piccole e le attività commerciali. La recessione si avvicina al galoppo. E i sindacati chiedono interventi urgenti a tutela di operai e dipendenti. Far cadere il governo sarebbe un grave errore, adesso, perché le macerie si abbatterebbero sugli italiani. E poi, come spiega il senatore Luigi Zanda intervistato nelle pagine seguenti da Carlo Tecce, Giuseppe Conte deve difendere non soltanto il M5s, ma pure la sua personale credibilità. Il senatore del Pd poi auspica per la prossima legislatura la nascita di due schieramenti, uno conservatore e l’altro riformista in competizione tra loro. Tornare a destra e sinistra, guidate da Fratelli d’Italia e Pd, con regole chiare per salvare la democrazia. Siamo quindi a un finale di legislatura che come ricorda Susanna Turco, tutto ha reso possibile: governi di segno opposto guidati dallo stesso premier, poi governi di tutti e, ormai, anche il governo di nessuno. In questi giorni difficili Mario Draghi ha l’incubo di finire come Mario Monti, il quale continuò a guidare l’esecutivo anche mentre la maggioranza gli andava in pezzi. Stavolta però a governare è il caos. E occorre tenere la barra dritta.

L’inchiesta di questa settimana fornisce uno sguardo senza precedenti sui modi in cui Uber ha sfidato le leggi sui taxi ed ha ribaltato i diritti dei lavoratori. L’indagine giornalistica si basa su una fuga di messaggi sensibili, e-mail, fatture, note informative, presentazioni e altri documenti scambiati da alti dirigenti dell’ex startup della Silicon Valley, burocrati governativi e leader mondiali in quasi 30 paesi. Rivela gli incontri segreti con i politici per chiedere favori, tra cui cambiare le politiche sui diritti dei lavoratori e che la compagnia usava oligarchi russi come condotti per il Cremlino, e sfruttava a proprio vantaggio d’immagine anche la violenza contro i suoi conducenti mentre era impegnata in lotte di potere internazionale con tassisti e legislatori contrari alla sua espansione. Mentre Uber si batteva per aprire la sua attività nelle città di tutto il mondo, ha risparmiato milioni di dollari in tasse instradando i profitti attraverso le Bermuda e altre giurisdizioni offshore. I documenti riservati, trapelati al quotidiano The Guardian, mostrano che Uber ha cercato di distogliere l’attenzione dai suoi debiti fiscali aiutando le autorità a riscuotere le tasse dai suoi conducenti. Il Guardian ha condiviso i documenti di Uber Files con l’International Consortium of Investigative Journalists, una redazione senza scopo di lucro e una rete di giornalisti con sede a Washington, di cui fa parte anche L’Espresso, per facilitare un’indagine internazionale a cui hanno partecipato pure Paolo Biondani e Leo Sisti. I dati raccolti mostrano come Uber abbia cercato di ottenere sostegno corteggiando con discrezione primi ministri, presidenti, miliardari, oligarchi ed editori. I messaggi trapelati suggeriscono che i dirigenti di Uber allo stesso tempo non si facevano illusioni sulla violazione della legge, con un dirigente che scherzava sul fatto che erano diventati “pirati” e un altro che ammetteva: «Siamo solo fottutamente Q illegali». © RIPRODUZIONE RISERVATA

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Prima Pagina RENZI E BOSCHI AL GOVERNO, DE BENEDETTI SOCIO, BERLUSCONI FAN OCCULTO MA CONSIDERATO “TOSSICO”. CHI HA PROVATO A SPIANARE LA STRADA AL COLOSSO DEL TRASPORTO VIA INTERNET

DI PAOLO BIONDANI E LEO SISTI ILLUSTRAZIONE DI STEFANO D’ORIANO


Esclusivo / Le carte segrete della lobby

Uber Files è il nome di questa inchiesta giornalistica che ha unito più di 180 cronisti di 44 testate internazionali, tra cui L’Espresso in esclusiva per l’Italia. I reporter di 29 nazioni hanno analizzato per più di sei mesi, insieme, oltre 124 mila documenti interni della multinazionale del noleggio di auto via Internet, ottenuti dal quotidiano inglese The Guardian e condivisi con l’International consortium of investigative journalists (Icij). Il materiale al centro della fuga di notizie va dal 2013 al 2017 e comprende circa 83 mila email dei manager di Uber, che rivelano una massiccia attività di lobby sui politici di decine di Stati per bloccare indagini, modificare leggi e stroncare la concorrenza dei taxi. In questi articoli, L’Espresso svela le manovre, finora tenute segrete, per favorire Uber in Italia.

I

L’Espresso fa parte del Consorzio internazionale dei giornalisti investigativi, una rete internazionale nata nel 1997 a Washington, che oggi conta 280 giornalisti d’inchiesta in 100 Paesi

l 25 gennaio 2016 il general manager di Uber in Italia, Carlo Tursi, scrive una mail ai vertici europei della multinazionale: «Ho appena incontrato il nostro azionista Carlo De Benedetti a Lugano. Incontro molto positivo, è impegnato e deciso a sostenerci come sempre». Il manager spiega anche come l'imprenditore italiano si stia spendendo per Uber, virgolettandone alcune parole: «Ha inviato una mail e un messaggio whatsapp al ministro Boschi, mentre ero lì, elogiando i benefici economici per un Paese di aziende come Uber, definendo questo fenomeno "inevitabile" e "inarrestabile" e rappresentandoci come un simbolo di modernità, che dovrebbe essere molto in linea con la filosofia di questo governo, soprattutto di "una millennial" come lei». L'obiettivo del colosso americano è ottenere dal governo Renzi una norma di favore. De Benedetti, riferisce sempre Tursi ai suoi capi, ha infatti «ricordato» al ministro «l'opportunità offerta dalla legge sulla Paolo Biondani concorrenza e il "grande la- Giornalista

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voro" svolto dai ministeri dei Trasporti e dello Sviluppo economico. Ha chiuso la mail dicendo che è consapevole che ci sono i tassisti e le elezioni amministrative sono alle porte, ma è sicuro che questo governo farà ciò che è giusto per modernizzare l'Italia». Questi messaggi riservati fanno parte degli Uber Files, oltre 124 mila documenti che svelano i segreti del colosso americano del noleggio di autisti via Internet. Carte ottenute dal quotidiano inglese The Guardian e condivise con l'International Consortium of Investigative Journalists (Icij), di cui fa parte L'Espresso. Tra mille manovre di Uber sui politici di 29 nazioni, i documenti sull'Italia, che vanno dal 2014 al 2016, rivelano una massiccia campagna di pressione sul governo Renzi per piegare agli interessi della multinazionale la legge sulla concorrenza. Domenica 10 luglio, quando 44 testate internazionali hanno cominciato a pubblicare gli Uber Files, l'autore della fuga di notizie ha deciso di uscire allo scoperto. È Mark MacGann, 52 anni, responsabile fino all’agosto 2016 delle politiche aziendali di Uber in EuroLeo Sisti pa, Africa e Medioriente: il Giornalista grande capo dei lobbisti.


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Foto: F. Fotia - Agf, S. Carofei - Fotogramma, A. Di Marco - Ansa, N. Marfisi - Agf

Che oggi spiega al consorzio: «Uber ha giocato con le vite della gente. Io sono disgustato e mi vergogno di essere stato parte di questa politica aziendale volgare e violenta. Convincendo i governi che Uber avrebbe avvantaggiato gli autisti rispetto ai taxi, abbiamo venduto una menzogna alla gente». MARIA ELENA LADY DI FERRO I manager americani definiscono Matteo Renzi «un entusiastico sostenitore di Uber». L'allora capo del governo italiano e i suoi fedelissimi sono al centro della campagna di lobby, chiamata «Operation Renzi», diretta a condizionare la legge sulla concorrenza. Come mediatore segreto, la multinazionale ha potuto utilizzare Carlo De Benedetti, che ha confermato al Guardian di essere stato azionista di Uber per molti anni, fino al 2020. Uno dei suoi interventi viene descritto così dal manager Tursi nel giro di mail del 25 gennaio 2016: «De Benedetti incontrerà il ministro Boschi il 3 febbraio e ha detto che ci aggiornerà. Mi ha confermato il suo appoggio incondizionato e la sua disponibilità ad aiutarci». Il dirigente sottolinea che «De Benedetti stima molto» Maria Elena Boschi, al punto da definirla «la prossima signora Thatcher dell'Italia».

NEI 124 MILA FILE SVELATI I RETROSCENA DEL PRESSING POLITICO. L’INGEGNERE, AZIONISTA FINO AL 2020, DESCRIVE L’EX MINISTRA BOSCHI COME LA NUOVA MARGARET THATCHER Contattata da L'Espresso, l'onorevole Boschi ha replicato con una nota scritta: «Non ho fatto approvare alcuna norma per Uber, non ho mai subito alcuna “influenza” dell’ingegner De Benedetti, che ho visto ovviamente in plurime circostanze istituzionali e conviviali, ma non ha mai posto quel tema. Quanto al paragone con Margaret Thatcher, siamo oltre ogni immaginazione: la lady di ferro ha scritto pagine di storie molto significative ed è stata una donna di grandi capacità, ma nella mia formazione di cattolica impegnata nel sociale è quanto di più lontano dai miei modelli politici». La deputata di Italia Viva precisa che «nel mio unico cellulare privato non vi è traccia del messaggio whatsapp di De Benedetti». L’ingegnere ha risposto con un breve messaggio: «Non ho mai fatto attività di

IL PARTITO TRASVERSALE L’ex premier Matteo Renzi, l’ex editore de L’Espresso Carlo De Benedetti, l’ex ministra Maria Elena Boschi e Silvio Berlusconi, leader di Forza Italia. Su di loro Uber ha fatto affidamento per ottenere la legalizzazione del servizio

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Esclusivo / Le carte segrete della lobby lobbying per Uber né per nessun altro». In quegli anni era ancora editore de L'Espresso, ma ha rispettato la libertà di stampa senza pressioni sui giornalisti: gli archivi del nostro settimanale documentano che non ha chiesto di pubblicare articoli a favore di Uber. MATTEO SUPPORTER, PISAPIA NO Già nel 2014 un dossier aziendale segnala che, quando l'allora ministro dei Trasporti, Maurizio Lupi, ha definito «illegale» l'ingresso della multinazionale in Italia, «il premier Renzi, 24 ore dopo, ha dichiarato che Uber è un grande servizio da lui usato a New York». A quel punto, evidenziano i lobbisti, «il ministro ha fatto retromarcia» dicendo che «Uber è una piattaforma e non si può considerarla illegale». L'allora sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, è invece «un grosso problema» per Uber, che aveva lanciato la sua piattaforma nel 2013 proprio nella sua metropoli, come sempre senza chiedere permessi e licenze. Quindi l'amministrazione comunale l'ha vietata, facendo fioccare le multe. I lobbisti cercano di avvicinare assessori e consiglieri, con scarsi risultati, e chiedono udienza al sindaco. Pisapia è «gentile», ma conferma che aggirare le regole sui taxi è «illegale». E gela i manager avvertendoli, da avvocato, che il loro modello aziendale rischia di esporli ad accuse di «sfruttamento dei lavoratori». A Roma invece l'«Operation Renzi» prosegue per tutto il 2015 con incontri riservati, telefonate, messaggi e contatti con parlamentari renziani del Pd, ministri, consulenti e capi di gabinetto. Il periodo cruciale si apre nel gennaio 2016: i manager americani si sentono sicuri che «il team di Renzi» inserirà nella legge sulla concorrenza «la norma che ci serve», ma sanno che altri partiti difendono i taxi e lo stesso Pd è diviso. Proprio allora un gruppo di tassisti pubblica su Internet due foto dei big di Uber in missione politica a Roma: MacGann, Tursi e David Plouffe. La seconda immagine immortala Tursi mentre entra nella sede del Pd. I commenti dei tassisti sono indignati: «Legge concorrenza, Uber dal presidente del consiglio: lobbyyyng!». «I tre Re Magi con oro... In sede Pd!». Non si sa chi abbia scattato le foto né quando, fatto sta che i manager se le scambiano via mail, il 17 e 18 gennaio, scherzandoci sopra. «Sembri proprio un boss». 16

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LO SCOGLIO DI MILANO L’ex sindaco di Milano Giuliano Pisapia oppose un secco no alle pretese di Uber. L’ex ministro Maurizio Lupi (a destra) sollevò parecchi dubbi, poi rientrati quando Matteo Renzi difese la bontà dell’operazione della multinazionale. In basso, Renzi con l’ambasciatore Usa John Phillips

L’EX AMBASCIATORE USA "IL MIO LAVORO? AIUTARLI” COLLOQUIO CON JOHN PHILLIPS L’agrodolce vita di un ambasciatore americano a Roma, innamorato dell’Italia, ma costretto per servizio a fare lobby sui politici per multinazionali come Uber. Dal 2013 al 2017 John Phillips è stato il capo della diplomazia statunitense a Roma, scelto personalmente dal presidente Barack Obama. L’ambasciatore vanta un’ascendenza italiana: emigrati negli Usa, i suoi nonni hanno americanizzato il nome di famiglia, da Filippi in Phillips. Già vent’anni fa era stato sedotto dalla grande bellezza della Toscana, dove ha acquistato terreni e si è impegnato, per circa un decennio, a restaurare un villaggio di ottocento anni fa. Oggi l’Antico Borgo Finocchieto è una splendida realtà. Anche Obama l’ha visitato. John Phillips ha concesso una lunga intervista a L’Espresso, che pubblichiamo integralmente su lespresso.it. E non si è sottratto alle domande più scomode sugli Uber Files. «Non è vero che fossi un grande fan di Renzi», si schermisce, contestando i giudizi attribuitigli dai manager di Uber. «L’ho incontrato per la prima volta quando era sindaco di Firenze, poi a Washington, nel 2009, nella mia residenza. Non credo di averlo più rivisto, fino a quando sono stato nominato ambasciatore e lui è diventato primo ministro. L’ho


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Foto: S. D’Alessandro - GettyImages, G. Nicoloro - Agf, A. Biagianti - Agf

L’EX MANAGER AUTORE DELLA FUGA DI NOTIZIE: “ABBIAMO VENDUTO UNA MENZOGNA, GIOCANDO CON LA VITA DELLA GENTE. DISGUSTATO DAI METODI VOLGARI E VIOLENTI”

incrociato in veste ufficiale in 4 o 5 occasioni, di solito con amministratori di aziende americane, ad esempio Jeff Immelt di General Electric, Tim Cook di Apple, a Palazzo Chigi o a Villa Taverna…. Non ricordo di aver mai pranzato o cenato con lui mentre era premier. È venuto all’Antico Borgo come mio ospite, per la prima volta, nel maggio 2017, quando era non era più presidente del consiglio». Sul tifo politico per Renzi, Phillips spiega: «È vero che l’amministrazione Obama sosteneva la sua agenda di riforme e ha appoggiato in particolare il referendum del 2016, ma l’obiettivo era dare stabilità al governo italiano. Uno dei motivi principali per cui gli investimenti statunitensi in imprese italiane sono insufficienti è proprio l’instabilità dei governi». Phillips conferma anche il suo interessamento per Uber, ma dice che gli sembra in linea con il ruolo di un ambasciatore. «Non ricordo di aver mai parlato personalmente di Uber con Renzi, ma ero consapevole dell’enorme resistenza che la società stava incontrando, sia negli Stati Uniti che all’estero. Tra le mie responsabilità principali, come ambasciatore, rientrava anche l’organizzazione di meeting con le compagnie americane, spesso con i loro amministratori, che avevano attività in Italia e dovevano affrontare problemi operativi. Dovevo assicurare che venissero trattate in modo equo». Dagli Uber Files emergono incontri e ripetuti contatti con un super lobbista di Uber, David Plouffe, che nel 2008 era stato lo stratega elettorale di Obama. Oggi Phillips giura di ricordare un solo incontro e ne minimizza l’importanza: «Nel 2015 David Plouffe mi chiamò e mi chiese di

incontrarlo a Roma. Ci siamo visti per circa un’ora nel mio ufficio in ambasciata. L’unica sua lamentela specifica, se ricordo bene, è che degli autisti di Uber a Milano erano stati aggrediti dalla criminalità organizzata». Phillips ammette invece che Jim Messina, l’altro grande lobbista internazionale di Uber, lo chiamò per parlargli di Renzi. «Messina mi telefonò, una volta, facendo presente che il mio sostegno al referendum, come ambasciatore americano, non era utile alla campagna di Renzi. Gli ho risposto che non ero impegnato pro o contro, stavo solo cercando di essere trasparente quando la stampa chiedeva informazioni sulla posizione dell’amministrazione Obama. Ricordo che sia Salvini sia Di Maio chiesero pubblicamente le mie dimissioni accusandomi di interferenza sulla sovranità degli italiani. Ho reagito dicendo: “Immagino che vogliano anche le dimissioni di Obama…”. Stavo semplicemente spiegando la posizione adottata dall’amministrazione americana. Come ambasciatore, non ho un ruolo indipendente: devo rappresentare il pensiero del governo degli Stati Uniti e del suo presidente. È ciò che ho cercato di fare». P.B. e L.S. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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Esclusivo / Le carte segrete della lobby NEL GENNAIO 2016 I TASSISTI DENUNCIANO CHE TRE DIRIGENTI DELLA SOCIETÀ SONO STATI FOTOGRAFATI NELLA SEDE DEL PD. LA SPALLATA FALLISCE E L’EDITORE VA A PRANZO CON IL PREMIER

IL RACKET DEI RIDER PAGATI TRE EURO «Abbiamo creato un sistema per disperati». È la confessione di una manager italiana di Uber Italy, intercettata dalla Guardia di Finanza ed evidenziata dal tribunale di Milano nel decreto che ha commissariato la filiale italiana della multinazionale, dall’aprile 2020 al marzo 2021, con l’accusa-shock di caporalato, cioè di sfruttamento criminale dei lavoratori attraverso un giro di intermediari. Le vittime sono centinaia di fattorini molto poveri, quasi tutti immigrati africani o asiatici, che consegnavano pasti a domicilio in bicicletta a Milano, ma anche a Torino, Roma, Rimini e altre città. Sfruttati. Sottopagati. E denigrati con insulti razzisti: «Schifosi», «Puzzano troppo, sono neri e hanno odori diversi dai nostri», si legge nelle chat aziendali. Però erano considerati «la gallina dalle uova d’oro». Perché

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lavoravano tutti i giorni fino a dodici ore per salari bassissimi, 3 euro a consegna per qualsiasi distanza, per 400-500 euro al mese al massimo, senza contratto e senza diritti, misure di sicurezza, assicurazioni, assistenza sanitaria e contributi. L’Espresso ha raccolto tutte le deposizioni delle vittime conosciute, quelle che Uber, dopo essere finita per un anno in amministrazione giudiziaria, ha accettato di risarcire. Sono persone fragili, emarginate, per lo più rifugiati stranieri, richiedenti asilo politico, che vivono in centri di accoglienza. Molti si vergognano di raccontare la loro storia di miseria e sfruttamento. Uno di loro, Osaradion Uwnmahongie, nato in Nigeria il 14 giugno 1995, ha accettato di farsi intervistare e filmare da L’Espresso, in un video pubblicato su lespresso. it. «Sono partito con un amico dalla Nigeria, dalla mia città, nel 2016. Siamo andati prima ad Abuja, la capitale, poi a Kanu e di qui a Katsina, vicino al confine con il Niger. Non avevamo passaporti, quindi abbiamo dovuto fare un lungo viaggio per evitare i controlli della polizia nel Niger. Nel deserto, siamo rimasti fino a cinque giorni senza cibo e acqua». «Dopo un mese, siamo arrivati in Libia. Abbiamo dovuto restare lì per altri 8-9 mesi. Poi siamo stati rapiti dalle gang. Non ti considerano un essere umano, ti vedono solo come un’opportunità di fare soldi. Ti sequestrano, è il cosiddetto kalabush. Ho chiamato mia mamma che mi ha mandato il denaro per il riscatto, tremila dinari, cioè 500 euro, tutto quello che aveva. Poi ho lavorato per un’azienda agricola nei campi di angurie, senza paga. Sono


Prima Pagina LA VISITA AL NAZARENO

Foto: N. Marfisi - Agf

Il ceo di Uber in Italia, Carlo Tursi, al centro nella foto, accompagnato da due lobbisti, si reca in visita nella sede del Pd. A sinistra, Tursi varca la soglia del Nazareno. Nell’altra pagina, un rider al lavoro per la società

stato rapito di nuovo e portato a Sabratha, in una prigione gestita dalla mafia locale. Mi picchiavano ogni giorno. Poi, in poco più di due mesi, abbiamo segato le porte della prigione e siamo riusciti a scappare. Sono arrivato a Zuara, sul mare, e ho cercato di partire per l’Italia». «Ho pagato il viaggio grazie a mio zio. Non era una barca, ma un gommone, noi lo chiamiamo Lapa-lapa. Una notte abbiamo incrociato una nave di Save the Children, che ci ha salvato e portato in Sicilia. Era il 14 luglio 2017». «Siamo arrivati a Como il giorno dopo. Quando ho visto la polizia, ho avuto paura. Temevo che mi picchiassero come in Libia. Invece sono stati gentili. Sono stato portato alla Croce Rossa. Ho mangiato bene. Ho potuto lavarmi. Poi sono stato trasferito alla Caritas. A Como sono rimasto per un anno, andavo a scuola e imparavo l’italiano. Era il 2018». «Quindi mi sono messo a cercare lavoro a Milano e ho incontrato il signor Leonardo, che mi ha dato una borsa per il trasporto del cibo e i codici della app di Uber. Nella prima settimana avrei dovuto guadagnare 78 euro, ma non ho avuto niente: dovevo pagare la borsa. Nella seconda me ne spettavano 75, ma ne ho ricevuti solo 20: altre trattenute per quella borsa. C’era sempre una scusa per pagarci di meno. Molti clienti su Internet ci davano le mance, ma io non le ho mai viste». L’inchiesta, condotta dal pm milanese Paolo Storari, è nata nel 2019 dalla denuncia fatta da «rider» assistiti da un’avvocata di Torino, Giulia Druetta: è lei che, leggendo le chat degli intermediari, ha capito che in realtà lavoravano tutti per Uber. P.B. e L.S. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

«Io un agente dei servizi». MacGann scrive ai colleghi una beffarda protesta e la intesta al premier: «Caro Matteo Renzi, i tuoi paparazzi mi fanno sembrare ancora più grasso di quello che sono». Due mesi dopo, la festa è finita. I manager si dicono che «Renzi ha ceduto alle proteste dei taxi» e «fottuto Uber». A metà marzo MacGann detta la linea ai dirigenti: «Mettete questo direttamente sulle spalle di Renzi: "Primo ministro, ti eri impegnato personalmente a riformare le regole dei trasporti in Italia: perché adesso ti pieghi alle minacce?"». Intanto il numero uno Travis Kalanick spara l'annuncio bomba: Uber potrebbe lasciare l'Italia. Per riarruolare Renzi, torna in campo De Benedetti. Il 17 marzo Tursi manda ai capi di Uber un nuovo rapporto: «Parlato con De Benedetti alle 7.30. È molto deluso, ma non del tutto sorpreso. Raccomanda di non perdere la fiducia. Dice: "Questo è ancora il miglior primo ministro con cui Uber possa parlare, è pro-americano". Raccomanda di non minacciarlo. Ha in programma una colazione di lavoro con Renzi e si è offerto di parlargli di Uber. Dice: “So esattamente come farlo, quali leve tirare"». Nei mesi successivi la legge sulla concorrenza si arena. In dicembre Renzi subisce la fatale sconfitta al referendum costituzionale. E i manager di Uber lo scaricano, raccontandosi il velenoso epitaffio di De Benedetti: «Renzi è solo un gradasso». Il leader di Italia Viva ha mandato a L'Espresso una lunga risposta scritta, che pubblicheremo integralmente sul nostro si17 luglio 2022

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to (come tutte le altre che abbiamo ricevuto), nella quale smentisce le affermazioni dei lobbisti di Uber. «Il governo Renzi si impegnò in Parlamento, anche mettendo la fiducia, su molti altri argomenti, ma il dossier taxi fu sempre seguito a livello ministeriale, non dal primo ministro». «Renzi non ha fatto norme a favore di Uber» e «non ha avuto incontri coi suoi dirigenti», tantomeno nella sede del Pd. L'ex premier non smentisce una donazione di mille euro, di cui parlava nel 2014 una manager di Uber invitata a una cena di finanziamento, ma sottolinea che «partecipavano centinaia di esponenti della comunità imprenditoriale, i nomi sono pubblici». Renzi inoltre conferma che un famoso lobbista, Jim Messina, «ha collaborato alla campagna per il referendum», ma «non crede di aver mai parlato con lui di Uber». Caduto Renzi, la legge sulla concorrenza è stata approvata sotto il governo Gentiloni, ma senza la norma su misura di Uber. Che però rispunta nell'articolo 10, comma b,

Foto: M. Nagle - Bloomberg / GettyImages

LA NORMA INVOCATA DALL’AZIENDA È RISPUNTATA NELLA RIFORMA VARATA DALL’ESECUTIVO DRAGHI, ORA ALL'ESAME FINALE DEL PARLAMENTO. DONAZIONI ALL’ISTITUTO BRUNO LEONI della riforma varata dal governo Draghi, ora all'esame finale del Parlamento tra proteste e scioperi dei tassisti. Tre ministeri vengono autorizzati a emanare un regolamento con questo obiettivo: «Adeguamento dell’offerta di servizi alle forme di mobilità che si svolgono mediante l’uso di applicazioni web che utilizzano piattaforme tecnologiche per l’interconnessione dei passeggeri e dei conducenti». Manca solo la parola Uber. I documenti diffusi da MacGann si fermano al 2017: l'attività di lobby successiva resta segreta. Gli Uber Files offrono però forti indizi sugli ispiratori passati della norma pro Uber ora rilanciata. In primo piano c’è l'Istituto Bruno Leoni, il celebre centro di studi economici di scuola neo-liberista. Nelle carte di Uber è considerato un'agenzia di lobby esterna, che «fin dall'inizio ci ha fortemente aiutato» e «dato più vo-

AFFARI D’ORO La società, fondata nel 2009 , ha sede a San Francisco ed è presente in 77 nazioni e oltre 600 grandi città. Nel 2017 la compagnia è stata valutata 48 miliardi di dollari. Ha cause pendenti in tutto il mondo

ce». I suoi economisti, tra cui il presidente, che è fratello di Carlo De Benedetti, hanno partecipato a svariati convegni con i manager di Uber, organizzati dall'azienda o dall'istituto, con inviti reciproci. L'Espresso ha chiesto se il centro studi abbia mai ricevuto soldi da Uber, tra il 2013 e il 2017, e se i rapporti con un'azienda privata non rischino di minarne l'indipendenza. In una lunga risposta, il portavoce conferma che «Uber ha sostenuto l’Istituto attraverso due contributi da 10.000 euro ciascuno, nel 2014 e nel 2015, e un terzo da 12.500 euro nel 2017». E «anche grazie a questo supporto l’Istituto ha potuto dedicare risorse specifiche al tema del trasporto». L'Istituto sottolinea che «le donazioni di Uber corrispondono solo all'1 per cento circa delle donazioni annuali». E che gli studi favorevoli a Uber sono «in piena e assoluta coerenza» con la linea statutaria di sostegno del «libero mercato». Gli Uber Files documentano anche incontri e legami dell'istituto con burocrati e consulenti dei ministeri da cui dipende la legge sulla concorrenza. SILVIO E LA TRATTATIVA Nel marzo 2015 i vertici di Uber vengono informati che sono in corso «trattative riser17 luglio 2022

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Prima Pagina

Esclusivo / Le carte segrete della lobby lo, altrimenti danneggerebbe Uber. Valentino ha sottolineato che oggi in Italia questo vale non solo per Berlusconi, ma per qualsiasi appoggio politico. Uber ha bisogno di apparire scollegata dai partiti». L'avvocato del Cavaliere, Niccolò Ghedini, ha risposto a tutte le nostre domande chiarendo che «il dottor Silvio Berlusconi non ha mai avuto alcuna partecipazione azionaria o altro interesse economico in Uber», così come «nessuno dei suoi familiari». «Nel 2014 la società H14 ha sviluppato svariati investimenti nel settore digitale e ha valutato anche una potenziale acquisizione di quote, richiesta da Uber», ma poi «nessun investimento è mai stato effettuato». Mentre Valentini «non è mai intervenuto negli affari della famiglia Berlusconi»: ha partecipato solo a quell'incontro «a titolo di mera cortesia, per la sua perfetta conoscenza della lingua e perché Luigi Berlusconi in quel momento aveva problemi di salute». Gli Uber Files ora rivelano i retroscena di quell’affare mancato. Robinson era per il via

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TRATTATIVE PER L’INGRESSO DI EXOR. E CON LA HOLDING DEI FIGLI DEL CAVALIERE . I VERTICI DELLA MULTINAZIONALE SI DIVIDONO E POI RINUNCIANO: TROPPO RISCHIOSO RIVOLTE E PROTESTE I principali antagonisti di Uber sono i tassisti che pagano la licenza per esercitare il servizio di trasporto. La rete di privati di cui si avvale Uber abbatte i costi e va in diretta concorrenza con un sistema regolamentato per legge

libera: «Loro sembrano decisi e capaci di assicurarci l'influenza politica che stiamo cercando. Berlusconi è ancora molto potente». Benedetta Arese Lucini è contraria: «Oggi Berlusconi e il suo partito hanno pochissima influenza sull'opinione pubblica e sul panorama politico. E in 20 anni il suo governo è sempre stato dalla parte dei taxi». Due manager americani sono possibilisti: «L'investimento non verrebbe reso pubblico: non facciamo troppo i puri». A bloccare tutto è l'allora grande capo MacGann: «Odio rifiutare i soldi, ma sono contrarissimo a far entrare chiunque del giro di Berlusconi: è un uomo di ieri, le persone di cui si circonda non sono sempre le più raffinate e rispettate, e se il suo aiuto venisse scoperto, per noi sarebbe tossico. E comunque non ci serve: siamo già strapieni di finanziatori». Q ©RIPRODUZIONE RISERVATA

Foto: A. Morrone - Shutterstock

vate» per far entrare nell'azionariato due grandi gruppi italiani. Un dossier riassume le due «discussioni attive». «Agnelli/Exor: ci siamo sentiti al telefono la settimana scorsa, entro la fine di questa ci diranno se e come procederanno». «Berlusconi: rimangono molto interessati, ma dalla nostra parte c'è la sensazione che il rischio possa essere troppo alto». Exor non compare nei successivi dossier, per cui sembra aver rinunciato. Il possibile «investimento di Berlusconi» resta invece al centro del dibattito ai vertici di Uber. Il manager Fraser Robinson, il 9 marzo 2015, comunica che la trattativa riguarda la holding H14, che appartiene ai tre figli di Berlusconi e Veronica Lario e che controlla il 21 per cento della Fininvest. Il dirigente di Uber scrive di aver avuto «un buon meeting, venerdì a Milano, con il team investimenti di H14». Precisa che all'incontro, durato due ore, «era presente un politico, Valentino Valentini, molto vicino a Berlusconi». E riferisce che «loro hanno suggerito una strategia su due livelli per avere successo in Italia. Primo: lanciare Uber in una città con pochissimi taxi, con l'obiettivo di guadagnare in fretta un supporto locale. Secondo: H14 nello stesso tempo ci procurerebbe in via riservata una base di appoggio politico. Questo supporto però dovrà essere molto tranquil-



Partiti allo sbando

IL GOVERNO DI NESSUNO DRAGHI, CONTE, MATTARELLA: L’ATTO FINALE DI UNA LEGISLATURA ALL’INSEGNA DEL CAOS. MENTRE I 5S, ENTRATI IN 300 PER SCIOGLIERE LA VECCHIA POLITICA, HANNO SBRICIOLATO SE STESSI DI SUSANNA TURCO

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l’atto finale di una legislatura all’insegna del teatro, del Beckett mescolato alla commedia dell’arte, Godot a Pulcinella: il voto di giovedì a palazzo Madama come una mano di poker, con il governo appeso alle decisioni di Giuseppe Conte e ancor di più a quelle dei (suoi?) senatori, il balletto di chi entra e di chi esce e di chi resta sull’uscio, Salvini ringalluzzito, i gruppi parlamentari divisi per sottoinsiemi stile 1-2-X, la teoria dell’intenzionalità spuntata a un certo punto di un interminabile Consiglio nazionale M5S che avrebbe affermato l’esistenza di una misteriosa astensione «per protesta», diversa dall’astensione «per sfiducia», sono l’apoteosi e insieme la conclusione di una legislatura dove tutto è stato possibile. Una legislatura che tutto ha reso possibile: governi di segno opposto guidati dallo stesso premier, poi governi di tutti e, ormai, anche il governo di nessuno. In questi giorni difficili, Mario Draghi ha più volte spiegato nei colloqui riservati la sua volontà di non finire come il suo quasi omonimo Mario Monti, che Susanna Turco continuò a guidare l’esecutivo anche menGiornalista tre la maggioranza gli andava in pezzi. Ep-

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EX PREMIER A capo di due governi con due diverse coalizioni, Giuseppe Conte è il leader di quel che resta dei Cinque stelle


Foto: A. Casasoli / FotoA3 (2)

Prima Pagina pure anche quello dell’ex banchiere centrale è un timore in parte infondato. Perché stavolta a governare, a trionfare, è il caos. Generato a partire da un fatto storico, e ormai assodato. Il partito che aveva vinto le elezioni - i Cinque stelle - non è mai riuscito a guidare il gioco, mai. Né all’inizio, quando il capo dello Stato Sergio Mattarella dovette avviare in penombra e per mesi una ricerca degna di una caccia alla volpe per trovare un capo del governo grillinizzabile. Né con le ultime mosse, visto che persino la scissione guidata da Luigi Di Maio - e in teoria una scissione è il momento massimo dell’orgoglio identitario di chi si scinde - è stata letta come invece guidata dai Palazzi, da Chigi, dal Colle: in una parola eterodiretta, pure quella. I Cinque stelle, caso unico nella storia d’Italia: primo partito in Parlamento, doveva sciogliere la vecchia politica, ha finito per sciogliere se stesso, diventando così un buco nero dentro al Parlamento. Un vortice capace di risucchiare nel nulla non solo il tonno, ma pure la scatoletta. «Le proposte di Draghi sono il nulla o un nulla relativo», ha detto in questi giorni una voce dal vortice di quel nulla, quella di Alberto Airola. Un quinquennio che ha visto dunque in qualche modo un trionfo dell’antipolitica, questo sì: ma anzitutto ai danni di chi la propugnò. Erano partiti in più di trecento (330), i parlamentari grillini, di sicuro giovani e forse anche forti all’inizio della legislatura, il 23 marzo 2018. Dicevano: siamo diversi. Sono finiti, al momento di andare in stampa, a meno della metà: i 221 deputati sono diventati 105, i 109 senatori crollati a 62. Dicono, ora: siamo uguali. E la scissione record di Insieme per il futuro è solo un pezzo del tracollo. Il più importante, il più visibile, certo. Ma i Cinque stelle sono di fatto sfarinati in tanti gruppi e gruppetti, sono in altri partiti, hanno creato realtà parallele come quella di Sara Cunial e realtà aliene come quella di Italexit di Gianluigi Paragone. Tutt’altra storia, gli ultimi, dai primi che lasciarono il gruppo: senza riandare alla mirabile parabola di Andrea Mura, velista che nel luglio 2018 proclamò di essere più utile fuori dal Palazzo che dentro (e infatti se ne andò), sulla vicenda di Gregorio De Falco nell’inverno 2019 vi fu uno psicodramma che metteva in discussione l’intera politica pentastellata sull’immigrazione (era l’epoca dei decreti sicurezza e della nave Diciotti); e ancora per Paola Nugnes e la sua uscita, un anno e mezzo dopo le elezioni, era sorto il dibattito se cambiare gruppo le sarebbe davvero costato i centomila euro di penale minacciata da Casaleggio, alla faccia del mandato parlamentare senza vincolo. Adesso al Senato, più vasto del gruppo dimaiano che conta 10 senatori, vi è il mitologico gruppo dei 14 di Insieme per la Costituzione, guidato sempre da un ex grillino, Mattia Crucioli. Dentro vi è confluito quello che si può definire per iperbole il succo sgocciolato della scatoletta. Bastano i nomi ufficiali delle varie componenti del gruppo, la maggioranza delle quali di ascendenza grillina: Cal (acronimo per Costituzione, ambiente lavoro), P.C., Ancora Italia, Progetto Smart, Idv (quella lì) e Alternativa. Anche quest’ultima è una creatura doc: si tratta dell’ex “Alternativa c’è”, nome che raccolse 17 luglio 2022

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Partiti allo sbando

quanti fra i Cinque stelle non vollero votare la fiducia al governo Draghi e che adesso, aggiornato, serve a segnalare forse che l’alternativa non c’è più. Del resto anche un qualsiasi ordine è svanito. Proprio nel momento in cui nacque l’Alternativa (quella che «c’è»), nel febbraio 2021, a uscire dal Movimento era un suo simbolo - forse troppo politico - Alessandro Di Battista. Mentre a governare i Cinque stelle era Vito Crimi: il più preciso tra i tre capi che ha avuto il M5S, l’unico pronto ad applicare come si deve il meccanismo dell’espulsione (che infatti in quel caso comminò puntuale), il parlamentare ortogonale detto gerarca minore che era ritornato a guidare il Movimento dopo che s’era dimesso Luigi Di Maio, il più democristiano di tutti. L’ultimo barlume di ordine, Crimi, prima che arrivasse l’avvocato delle mezze misure, Giuseppe Conte: l’uomo capace di mettere insieme la fiducia e la sfiducia, il sì e il no, il governo, il non governo e il governicchio e di navigare così in un brodo che alla fine è fluido, no gender e quindi modernissimo, anche se politicamente fecondo quanto il numero in crollo di voti che tutti i sondaggisti gli prevedono. «Il Movimento deve recuperare voti fra i cittadini, non fra i peones che fra sei mesi spariranno nel nulla da cui vengono», è in effetti l’ultimo monito del gran consigliori Marco Travaglio. Un epitaffio abbastanza sorprendente, se si pensa che arriva da un, in teoria, amico dei Cinque stelle. Se questi sono gli amici, figuriamoci i nemici. Tutto del resto si è capovolto. Chi voleva multare i cambi di casacca ha finito per incentivare i cambi di casacca, chi predicava l’attacco finale ai Palazzi ha finito per diventare

I 221 DEPUTATI GRILLINI SONO DIVENTATI 105, MENTRE I 109 SENATORI SI SONO RIDOTTI A 62, IN UN GROVIGLIO DI SIGLE 26

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il sostegno vitale del Palazzo: «Dimostreremo che politica si può fare in maniera differente», diceva Luigi Di Maio nella prima riunione grillina di questa legislatura, il 21 marzo 2018. I Cinque stelle «stanno generando instabilità e stanno sostanzialmente mettendo a repentaglio gli obiettivi che tentiamo di raggiungere come Paese», dice il 12 luglio 2022 il Di Maio cambiato, quello che ha indossato la cravatta del potere proprio nel momento in cui, lasciando la guida del M5S, se la toglieva simbolicamente dal collo. «Non c’è la politica», dicono da Palazzo Chigi in questi giorni a precipizio. Non c’era nei giorni del Quirinale, quando nessun leader è riuscito a costruire una tessitura diversa dalla perpetuazione dell’esistente. Non c’è stata nei passaggi cruciali della legislatura: dal Papeete alla fine del governo Conte II. Lo stesso Draghi, del resto, è un tecnico: mai diventato politico. Il vortice dell’antipolitica ha risucchiato il resto, creando una paradossale equilibrio. Non sapendo governare, il vasto mondo grillino si è fatto governare, infiltrare dal Palazzo. Da una parte ha fatto l’abitudine all’auto blu, alla pacatezza, allo sbiancamento dei denti, agli agii in genere. Dall’altra si è fatto innervare dal Palazzo e dalla sua capacità di perpetuare se stesso. Si è affidato cioè ai mandarini. Anzitutto al principe dei mandarini, Ugo Zampetti. Già potentissimo segretario generale della Camera, dal 2015 passato in uguale ruolo al Quirinale, Zampetti continua ad avere a cuore la stabilità delle istituzioni. E anzi, in questi giorni difficili, è balzato di nuovo come si ritrovi sotto gli occhi una specie di cordone di sicurezza fatto di personalità ragionevoli posate in ogni ganglio. Vi è, giusto per fare un esempio tra tanti, l’avvocato Francesco Fortuna: vincitore di concorso presso il segretariato generale della presidenza della Repubblica, nel luglio 2018 è stato comandato al ministero dello Sviluppo economico, guidato prima da Di Maio e poi da Stefano Patuanelli, ministro che ha poi seguito come capo di gabinetto anche all’Agricoltura. Un singolo caso che esemplifica quanti cuscinetti invisibili vi siano, attorno ai visibili e fragorosi tentativi di accrocco grillino. Tentativi di razionalità nel trionfo dell’irrazionale, mentre quella che una volta fu chiamata la «rivoluzione gentile» scolora tra le onde gravitazionali. Q © RIPRODUZIONE RISERVATA

Foto: Agf, Getty Images

Mario Draghi. A destra, Luigi Di Maio


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Il commento di MASSIMILIANO PANARARI

Invocare il popolo per opporsi a Draghi

L’

invocazione del popolo è l’ultimo must della politica populista nostrana. Un eterno ritorno e nulla di nuovo, verrebbe (opportunamente) da dire. Eppure, ultimamente, il riferimento d’obbligo per qualunque populista in servizio permanente effettivo sembrava un po’ negletto e trascurato. A fare da denominatore comune a questa rentrée del popolo nel discorso pubblico nazionale sono le critiche e i distinguo a ogni piè sospinto che i populisti di governo - che pure sarebbero parte della maggioranza... - indirizzano all’operato di Mario Draghi. Contro il quale si levano le proteste della «nostra base che è già con un piede fuori» (Giuseppe Conte) e dei «militanti» (Matteo Salvini), che i leader dicono di non potere, e non volere, più frenare. Si è diffuso un forte «disagio» nella «comunità politica» (Conte) e, pertanto, è stato sfoderato tutto il catalogo delle “armi”, dalla dura «guerriglia parlamentare» (Salvini) al punto di non ritorno: in parole povere, la prospettiva del «Papeete 2.0». Ed è così ricomparsa - a proposito di “scongelamenti” e riemersioni - la spiccata inclinazione neopopulista per la campagna elettorale permanente.

Ancora una volta, è il paradosso elemento strutturale della politica postmoderna, specialmente in un Paese quale l’Italia che dell’eccezione ha fatto la consuetudine - a farla da padrone. Perché tale è la narrazione proposta da leader che si ritrovano a evocare i loro follower per legittimare il conflitto con il governo dentro cui siedono. Certo, si tratta per alcuni versi del paradigma della «following leadership», anch’esso tipico del neopopulismo che si avvale largamente della disintermediazione e monitora costantemente i sentiment più diffusi presso l’opinione pubblica per riproporli, con un effetto megafono, come parole d’ordine su cui chiedere voti. Ma qui c’è qualcosa d’altro, che va oltre il mantra di quelle che il sociologo Benedict Anderson aveva chiamato le “comunità immaginate”. Adesso, cambio di scena, i capi populisti si fanno scudo dei propri più circoscritti “popoli”, ovvero le constituency organizzative e i bacini elettorali. Difatti, se il concetto di comunità politica in senso moderno affonda l’origine nel Romanticismo delle lotte per l’indipendenza nazionale, dal XX secolo si rivela inseparabile dall’idea - in senso lato - di “interesse”. E, dunque, possiamo parlare di comunità-stakeholder,

CONTE E SALVINI RISFODERANO IL LINGUAGGIO DEMAGOGICO PER GIUSTIFICARE LE LORO MANOVRE

economiche, territoriali e simboliche (dal momento che gli scontri tra i partiti si combattono sempre di più a colpi di “politica dell’identità”, come da ultimo mostrano lo Ius scholae e la legalizzazione della cannabis). Nel documento-diktat recapitato da Conte al premier, si trovano le issues dei portatori di interessi Cinque Stelle: la residua base protestataria, i nostalgici dell’ortodossia delle origini, i percettori di reddito di cittadinanza e altri beneficiari che hanno alimentato la rete di clientele del Movimento. Mentre l’agitazione salviniana vuole dare voce, accanto ai vari elettori vicini al «novaxismo-putinismo» (e fin da subito ostili a Draghi), anche alle partite Iva e ai lavoratori che più subiscono sofferenze da questo stato di crisi permanente, sebbene il governo sia attivamente impegnato nel cercare di lenire la drammaticità dell’attuale contesto socioeconomico. Un segnale di come, tra pandemia e guerra in Ucraina, i partiti populisti in Italia, ma non soltanto (nel Regno Unito la caduta di Boris Johnson obbliga il Partito conservatore a cercare altre strade e, su un piano differente, l’assassinio di Shinzo Abe in Giappone costituisce la sanguinosa chiusura di un’altra stagione politica di populismo), siano in cerca di riconfigurazione. Col rischio (anche) dell’arrivo di un’offerta politica di nuovi soggetti iperpopulisti, in una logica di “overdose” ed escalation. Q © RIPRODUZIONE RISERVATA

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Politica / Gli scenari

BASTA MAGGIORANZE INNATURALI TORNARE A DESTRA E SINISTRA. GUIDATE DA FRATELLI D’ITALIA E PD. CON REGOLE CHIARE. PER SALVARE LA DEMOCRAZIA. CONTE SI GIOCA LA SUA CREDIBILITÀ COLLOQUIO CON LUIGI ZANDA DI CARLO TECCE 28

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lla fine di una lunga chiacchierata sulla politica cercando di raggiungere un punto di osservazione più in alto rispetto alle bizze che ogni giorno accadono in basso nei meandri dei palazzi, non per spirito trinariciuto, ma per necessità di esposizione, il senatore Luigi Zanda ha un unico momento di esitazione e trattenuta ilarità. Quando gli si chiede non che ne sarà delle nostre acciaccate istituzioni nella prossima legislatura e di quali disgrazie capiteranno ancora sul cammino, ma che ne sarà del suo posto di influente dirigente del Partito democratico: «Nella mia vita ho fatto tanti mestieri, tutti belli, non mi


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SENATORE

Foto: A. Serrano’ - Agf, G. V. Frau - Agf

Luigi Zanda, senatore del Partito Democratico, è stato capogruppo a Palazzo Madama dal 2013 al 2018. A sinistra: una manifestazione elettorale del Pd

sono mai preoccupato e occupato del mio futuro». Figlio di un capo della Polizia, ottant’anni da compiere a novembre, un piglio non adatto alle baruffe da talk show, Zanda viene definito con una certa approssimazione un «decano» della politica e però in carriera ha la metà appena dell’anzianità parlamentare di Pier Ferdinando Casini. Fu collaboratore di Francesco Cossiga nella stagione del terrorismo e durante il sequestro di Aldo Moro e per vent’anni ha ricoperto incarichi in azienCarlo Tecce de pubbliche e private, Giornalista nell’editoria al gruppo l’E-

spresso e nei grandi eventi col Giubileo di Francesco Rutelli sindaco. A palazzo Madama entrò nel 2003 con un’elezione suppletiva come candidato solitario per la Margherita e da lì è diventato capogruppo del Pd e poi tesoriere del partito con Nicola Zingaretti. Ne ha viste di ogni, ne prevede di peggio. Perché, senatore Zanda? «I Cinque Stelle sono l’unico partito italiano che è stato al governo da inizio legislatura e l’ha fatto con tre maggioranze diverse, dobbiamo augurarci che non decidano di sottrarsi alla fiducia proprio in questi giorni, durante la pandemia ancora in atto, la guerra vicina, una situazione economica pesante, una probabile recessione in autunno. Rischiare di far cadere il governo e di spingere alle elezioni anticipate, mentre il Pd vuole terminare la legislatura, sarebbe un grave errore con danni seri per l’Italia. Tra l’altro tutti si ricordino che favorire le elezioni non ha mai portato né voti né fortuna a chi le ha provocate. Giuseppe Conte deve difendere non soltanto i Cinque Stelle, ma anche la sua personale credibilità, mettere in pericolo il governo non lo aiuta. E poi c’è un discorso più ampio che riguarda la democrazia». Prego. Vista la disaffezione per la democrazia, questi sono discorsi da apprendere presto. «C’è una crisi generale e globale delle democrazie. Lo dimostrano l’apprensione con cui aspettiamo le elezioni di medio termine negli Stati Uniti, l’indebolimento di Emmanuel Macron con le legislative francesi, gli intoppi del passaggio fra Angela Merkel e Olaf Scholz in Germania, la conclusione ingloriosa della vicenda britannica di Boris Johnson. C’è una difficoltà dei sistemi democratici ad affrontare la complessità e la velocità delle trasformazioni del nostro tempo. Si risponde male e tardi». Qui quant’è fiaccata la democrazia? «Noi abbiamo complicato la situazione con l’abolizione della legge elettorale che porta il nome del presidente Sergio Mattarella, un sistema che garantiva governabilità e la rappresentanza attraverso i collegi. Gli italiani si sono disamorati della politica per tante ragioni e anche per come si vota. L’Italia ha gestito con leggerezza la mutazione leaderistica dei partiti. Abbiamo assistito agli effetti elettorali dei leader, da Silvio Berlusconi a Matteo Renzi, da Beppe Grillo e Matteo Salvini fino a Giorgia Meloni, ma nel frattempo 17 luglio 2022

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IL PARTITO DEMOCRATICO HA PAGATO UN PREZZO PER LA RESPONSABILITÀ. ORA SALARIO MINIMO E TUTELA DEI LAVORATORI PER AIUTARE I PIÙ DEBOLI

LEADER Il segretario del Pd Enrico Letta. Sopra: la presidente di Fratelli d’Italia GIorgia Meloni

gnanti di ogni ordine e grado e le forze di sicurezza e di polizia. Dobbiamo collegarci di più ai sindacati nella tutela degli operai». È paradossale che l’urgenza di sentirsi di sinistra arrivi con un segretario di formazione democristiana. «A differenza di quanto pensava Massimo D’Alema, io sono convinto che al fondo l’amalgama tra DS e Margherita sia andato bene. Non riesco più a distinguere fra chi nel Pd proviene da sinistra e chi dal centro. La base è compatta. Lo conferma il poco successo delle scissioni». Però il Pd ha impoverito i partiti quasi eliminando il finanziamento pubblico dopo anni, va ricordato, di ignobili truffe. «Sono contrario alle forme di finanziamento pubblico del passato, ma credo che per la democrazia italiana sia vitale attuare l’articolo 49 e contemporaneamente garantire ai partiti un aiuto pubblico, meglio in una forma ispirata al Parlamento europeo. Non un euro deve andare direttamente ai partiti, ma solo rimborsi su spese documentate che siano essenziali per il funzionamento della democrazia: la sede, pochi collaboratori, informatica, studi, ricerche, incontri politici, comunicazione e rapporti internazionali». Q © RIPRODUZIONE RISERVATA

Foto: A. Carconi - Ansa, V. Nuzzolese - SOPA Images/LightRocket via Getty Images

gli ideali e le strutture dei partiti crollavano. I partiti hanno una enorme responsabilità nel non aver attuato l’articolo 49 della Costituzione: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. È l’assenza di regole democratiche nell’organizzazione dei partiti che li fa scalabili facilmente e soprattutto li rende fragili. I leader sono ossessionati dalla necessità di mantenere il proprio potere e non dedicano attenzione alla struttura dei loro partiti». Oggi il leader più solido non ha volto né nome: è l’astensionismo. «È il risultato di una fase politica che i cittadini non comprendono. Si pensi ai cambi di maggioranza “innaturali” in questa legislatura, alle tensioni, ai matrimoni improvvisati fra partiti che avevano litigato un secondo prima. Il solo modo per contrastare questo fenomeno è aiutare la nascita di due schieramenti, uno conservatore e l’altro riformista in competizione tra loro». I molteplici leader non sembrano d’accordo. «A semplificare i due poli saranno gli elettori, non i leader. Col voto dell’anno prossimo emergeranno il Pd nel centrosinistra e Fdi nel centrodestra, almeno un 25 per cento ciascuno». Il Pd si muove da partito guida, o maggiore come dice, del centrosinistra. Eppure è straniero in molte categorie che la sinistra dovrebbe rappresentare, i ceti medio bassi, gli operai, i precari. Come se si trovasse più a suo agio con temi di bandiera, inchiodato al post-materialismo di Ronald Inglehart, e però a disagio in fabbrica e in periferia. «Da una dozzina di anni la politica non solo italiana ha visto avanzare in maniera prorompente populismi e sovranismi. Il Pd si è assunto il ruolo del partito della responsabilità. Senza l’argine del Pd, col Conte I avremmo perso o quantomeno indebolito la nostra partecipazione all’Unione europea e all’Alleanza atlantica. La nostra responsabilità ha avuto un prezzo. A me sembra che Enrico Letta stia dando due indicazioni forti: coerenza internazionale e altissima attenzione sociale. A questo secondo obiettivo dobbiamo dare concretezza: salario minimo, cuneo fiscale e trattamenti economici migliori per importanti comparti pubblici, come gli inse-

Politica / Gli scenari



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L’opinione

di FRANCO CORLEONE

Il Parlamento dimostri dignità e voti la legge sulla cannabis

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opo anni di ostruzionismo la Camera dei deputati è costretta ad occuparsi della questione della cannabis; se la Corte Costituzionale nel febbraio scorso non avesse deciso con una motivazione tutta politicista la non ammissibilità del referendum, il 12 giugno il popolo avrebbe eliminato le norme penali più repressive della legge antidroga che dal 1990 sommerge i tribunali e riempie le carceri. Ovviamente il Parlamento avrebbe evitato questa prova. Così non è stato e la destra becera minaccia fuoco e fiamme sul governo se il Parlamento approverà la proposta di Riccardo Magi, che ha superato il vaglio della commissione Giustizia e della discussione generale. Va detto che il testo non è di legalizzazione della cannabis, si limita a rendere legittima la coltivazione domestica di poche piante come anticipato dalla Cassazione e a prevedere un articolo autonomo per i fatti di lieve entità, differenziando tra le sostanze leggere e pesanti. La linea demagogica e propagandistica è scodellata: non si tratta di una priorità! Questa tesi è sostenuta da un coro di moralisti da strapazzo. Per smascherare questa falsità, basta leggere i provvedimenti che

hanno la precedenza e rischiano di far rimandare a settembre e magari nel mese del mai la canapa: una mozione sulla carenza di personale nei settori del turismo e dell’agricoltura e una sulla energia nucleare di seconda generazione; una proposta di legge sul volo di diporto e una proposta di legge costituzionale sulla insularità; la sperimentazione del voto telematico e infine un provvedimento sulle celebrazioni dell’ottavo centenario di San Francesco. Scherzi a parte, dal 1990 una legge proibizionista e punitiva ha trasformato una questione sociale in una criminale e dal 2006 al 2014 ha imperato la legge Fini-Giovanardi fondata sull’assioma che «la droga è droga», senza distinzione tra le sostanze con una pena carceraria da sei a venti anni per detenzione e spaccio. Solo grazie alla sentenza della Corte Costituzionale nel 2014 (relatrice Cartabia), quell’obbrobrio fu cancellato. Nel frattempo, nel mondo la via della war on drugs, è stata abbandonata dall’Uruguay, da molti Stati degli Usa come la California e dal Canada; per l’autunno la Germania si prepara a scegliere la legalizzazione. Purtroppo, in Italia le proposte di questo segno che io presentai nel 1995 e nel 1996, nonostante la sot-

MENTRE LA GERMANIA SI PREPARA A LEGALIZZARLA QUI PREVALE LO STIGMA 32

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toscrizione di oltre 150 deputati rimasero allo stadio iniziale. Vale la pena ricordare che la proposta n. 2362 era firmata da personalità autorevoli come Violante, Turco, Di Lello, Finocchiaro ma anche dai leghisti Bertotti, Marano e Maroni. Certo, era la Lega di Bossi e non di quella del mozzaorecchi del diritto Salvini, quale si rivela anche in questa occasione. Questa vicenda segnala un arretramento della cultura e della politica, anche a sinistra nonostante la dura replica dei dati della realtà. Il tredicesimo Libro Bianco sulle droghe, curato dalla Società della Ragione conferma la presenza in carcere del 35 per cento di detenuti per detenzione e piccolo spaccio. Il dato più impressionante rimane quello di un milione e trecentosettantacinquemila giovani segnalati alle prefetture dal 1990 ad oggi per mero consumo: di questi più di un milione per uno spinello. Una persecuzione di massa e una stigmatizzazione sociale pesante. Siamo di fronte ad una urgenza democratica. La delusione subita dai cinquecentomila firmatari del referendum non può essere aggravata dalla ignavia del Parlamento. Ancora una volta la frontiera dei diritti civili può costituire il discrimine per la dignità delle Istituzioni. Anche se la crisi politica precipitasse verso la caduta del governo, ci sarebbe spazio per un voto e per mettere al centro della prossima campagna elettorale un tema che divide tra libertà e autoritarismo. Q ©RIPRODUZIONE RISERVATA



L’intervento

LUI PADRE NOBI Alle discriminazioni sul lavoro e nelle istituzioni si aggiungono quelle anagrafiche. Non esiste la over 60 competente e saggia. Gli uomini hanno esperienza. Noi soltanto le rughe DI LOREDANA LIPPERINI a mia generazione ha perso, ma perdendo ha tenuto per sé i posti migliori. È verissimo: i sessantenni hanno occupato ogni possibile spazio a scapito di chi ha venti, trenta, quarant’anni. Però c’è un distinguo da fare, perché il fenomeno riguarda solo una parte di quei sessantenni. Qualche esempio. Scenario politico. Quanto si parla di donne, di quanto siano state e siano sentinelle del cambiamento, non è vero? Quanto si ripete che senza le donne il Paese non crescerà, giusto? Bene, contiamo i vertici. Una sola donna presidente di partito, ed è Giorgia Meloni, più una coordinatrice (Teresa Bellanova di Italia Viva, con Ettore Rosato però), più una portavoce anche qui ex aequo con un uomo, Marta Collot di Potere al Popolo. Non che in Europa vada meglio. Secondo Eige (Istituto europeo per l’uguaglianza di genere), nel 2021 le donne leader nei principali partiti in Unione Europea sono il 26.1 per cento contro il 73,8 per cento di uomini. Solo in Finlandia, Svezia e Danimarca le cose vanno diversamente (rispettivamente 66,7 per cento, 57,1 e 50). In Francia, Croazia, Repubblica Ceca, Polonia, Romania e Malta nessuna donna è ai vertici dei maggiori partiti presenti in Parlamento. Scenario economico. L’Istat, nell’edizione 2022 di “Noi Italia”, fa sapere che nel 2021 il tasso di occupazione sale, sì, ma che le donne occupate restano il 53,2 per cento a fronte del 72,4 per cento dei coetanei. Non solo. Le donne, a livello apicale, restano la minoranza: sono il 70 per cento delle occupate nella Sanità? Le primarie sono il 20 per cento, una cifra simile a quanto avviene in ambito universitario. In altre parole: gli uomini occupano l’81 per cento delle posizio-

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ni di vertice. Vale anche per le pensioni: il Rapporto annuale 2022 dell’Inps ci dice che per le donne la retribuzione è più bassa del 25% rispetto a quella degli uomini, anche perché hanno lavorato di meno. Dunque, le questioni sono due: una legata al genere di appartenenza e una legata all’anagrafe. Nel nostro strano Paese, il modo in cui si discute pubblicamente di problema generazionale non aiuta: ci sono, altrove, studi importanti sulla necessità di stringere patti intergenerazionali invece di alimentare le divisioni con decine di contrapposizioni. Durante la pandemia ne abbiamo avuto esempi pesantissimi, dove di volta in volta si accusavano le giovani persone di mettere a rischio i nonni con la loro mania dell’aperitivo o si accusavano i vecchi di egoismo per aver costretto, con la loro fragilità, a tenere i bambini chiusi in casa. Per quello che riguarda il lavoro, ripeto, la contrapposizione è vera: la cannibalizzazione da parte degli over 60 esiste, anche se i medesimi la negano dicendo che sono i giovani a non voler fare la gavetta. Peccato che non si precisi mai che i cannibali sono over 60 maschi (e bianchi, va da sé). Delle over 60, dette amabilmente “perennials” (non muoiono mai, insomma) si parla blandendole e dicendo loro che la vita comincia a sessant’anni, e che questo è il tempo della “greynassance”. Rinascimento grigio, già (però ci sono schiere assai malevole pronte a schernirti sui social se il grigio dei capelli si vede quando vai in televisione: è accaduto all’ultimo premio Strega). A dimostrazione del trionfo delle signore in età si citano le influencer che su YouTube istruiscono sul make-up perfetto dopo i sessanta come Tricia Cusden (ha anche un pubblicato un libro, “Living The Life More Fabulous”, con un sottotitolo che recita: “Beauty, Style & Empowerment for Older Women”. Tutto bello, resta da capire dove sia l’Empowerment). O l’adorabile novantaseienne Iris Apfel, quella degli occhialoni. Tutto qui? Non del tutto. Le over 60 sono rassicurate sul fatto che possono ancora innamorarsi, per esempio, e questo ripetono alle signore i libri e le serie televisive: a sessant’anni è tutto ancora possibile, ma quella possibilità sembra esistere unicamente per quanto riguarda la vita sentimentale, e tutto il resto scompare. Basta una ricerca veloce su Google: la maggior parte dei link riguarda l’amore o, certo, il modo di vestire. Quando Susan Sarandon osò un vestito con lo spacco a Cannes provocò un diluvio di interLoredana venti: a settant’anni la coscia non si mostra. Lipperini Giornalista A cinquanta si tagliano i capelli, per carità.


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LE, LEI VECCHIA I soliti social diventano illeggibili nel periodo di Sanremo, presidiati come sono da gruppi di signore, anche colte e raffinate, che spettegolano sul botox delle altre. Non sulle canzoni, figurarsi, ma sul grado di decenza dei ritocchi estetici. Alda Merini posò nuda, ma è stato un raro atto di libertà, in questa sotterranea denigrazione dove, peraltro, la consapevolezza del cambiamento dei corpi portata dalla vecchiaia viene chiesta quasi esclusivamente alle donne. Non esiste il corrispettivo femminile di José Saramago che sosteneva che più si diventa vecchi, più si diventa liberi, e più si diventa liberi, più si diventa radicali (e lo dimostrò eccome, sul suo blog). Le donne over 60 sono consapevoli, come disse Imre Kertész a proposito del Novecento - e perdonate quella che sembra un’irriverenza - che sono esposte, e chiunque può prenderle a fucilate. Non esiste la vecchia competente e saggia: esiste la vecchia. Se questo è l’immaginario, non ci si stupisca della mancanza di donne ai vertici della politica e delle istituzioni. Facciamo un passo indietro, fino al dicembre 2007. Sempre per gli smemorati, sarà bene ricordare il primissimo piano di Hillary Clinton nel pieno della campagna per le primarie americane. Il commento dell’ultraconservatore Rush Limbaugh sottolineò che esibire i segni del tempo in un corpo di donna non è piacevole, e non è soprattutto conveniente: «La politica è apparenza, sei quello che appari e Hillary come donna invecchierà peggio di un uomo,

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in quel lavoro alla Casa Bianca che logora chiunque, e noi americani passeremo quattro anni davanti allo spettacolo deprimente di una vecchia signora che perde ogni giorno la propria battaglia con il proprio aspetto. Un uomo anziano appare decisivo, autorevole, serio, una donna anziana è soltanto una vecchia». La vecchiaia maschile - quella dei potenti, almeno - ha dalla sua l’esperienza. La vecchiaia femminile no. Gli uomini diventano padri della patria, o almeno padri nobili. Le donne invecchiano e basta. In quello stesso dicembre, mentre Hillary mostrava le sue rughe, in Italia partiva una campagna pubblicitaria contro la burocrazia: i manifesti proponevano la caricatura di un’anziana signora con gli occhialini a farfalla, le labbra a cuore, un ridicolo cappellino rosa. Lo slogan era: ammazza la vecchia. Le conclusioni sono semplicissime: quando bisogna decidere un incarico di responsabilità e visibilità non conta neanche la regola del “ci vuole una donna” (che nei fatti non è una regola: è uno specchietto per le allodole che molto spesso ci si dimentica di usare). In quei casi, si passa direttamente a un uomo. In altri termini: se l’incarico viene dato a una donna, si prende in esame la sua immagine e la conformità del suo aspetto a come ci si immagina debba essere una persona che ha pubblica visibilità. Se viene dato a un uomo, conta la competenza. O almeno così ci vien detto. Q © RIPRODUZIONE RISERVATA

MAURO BIANI

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Guerra in Ucraina / Il fronte

DONBASS TERRA A PEZZI PER CUI MORIRE LA PROPAGANDA RUSSA FA BRECCIA SU UNA MINORANZA. LA GRAN PARTE SI SENTE SOLO TRADITA DA UN POPOLO FRATELLO. E GLI UCRAINI SCONTANO RECIPROCHE DIFFIDENZE DI SABATO ANGIERI DA KRAMATORSK

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«Se devo morire, morirò qui, a casa mia». Altrove questa frase avrebbe un retrogusto di sciovinismo, di cliché d’altri tempi, ma non nell’est dell’Ucraina dove decine di migliaia di persone vivono da mesi sottoterra in condizioni disumane. Nelle cantine riadattate a rifugi antiaerei non c’è luce, gas, acqua potabile e le linee di telecomunicazione sono interrotte. Si dorme su materassi sistemati alla buona in luoghi umidi e bui e più ci si avvicina al fronte meno ore di quiete vengono concesse dai colpi dell’artiglieria. Le giornate passano lente e monotone nell’attesa degli aiuti umanitari, mentre i militari ucraini spostano mezzi corazzati e armamenti da una postazione all’altra e quelli russi si avvicinano via terra. Negli appartamenti quasi non si sale più, molti sono pericolanti e c’è sempre il rischio che un missile colpisca il

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palazzo proprio mentre si è dentro. E allora cos’è questa casa per la quale gli abitanti del Donbass dicono di essere pronti a morire? Non è la patria, chiariamolo subito. La maggior parte di chi è rimasto qui ha più di cinquant’anni, è nato e cresciuto nell’Unione Sovietica e mantiene dei legami con la Russia, sia affettivi sia culturali, molto forti. Il russo è parlato da tutti e quasi ogni famiglia ha parenti oltre la frontiera nelle regioni di Belgorod, Kursk e Rostov. Ciò non vuol dire che siano tutti «filo-russi», come spesso li definiscono, banalizzando, i media internazionali o la stampa ucraina, ma semplicemente che i grandi cambiamenti sociopolitici che hanno sconvolto l’Ucraina dal 2014 in poi li Sabato Angieri hanno influenzati in modo Giornalista marginale. C’è una mino-


Foto: G. Garanich - Reuters/ Contrasto

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ranza, che quasi sempre si esprime con le parole d’ordine della propaganda del Cremlino, che crede che le bombe siano lanciate dall’esercito ucraino sul proprio territorio, che l’acqua sia dirottata verso le città dell’ovest e gli aiuti umanitari spediti altrove. Si tratta degli stessi che attendono l’arrivo dei soldati russi perché sperano di poter tornare a vivere in pace e sono persone emotivamente a pezzi. Riuscivano a rimanere impassibili di fronte al cielo che sembrava essersi rotto sopra le loro teste ma, bisognerebbe chiedersi, che costo ha quest’indifferenza? Il pianto, la paura, i tic nervosi, gli scoppi di risa improvvisi sono solo alcuni dei segni più superficiali dell’enorme carico emotivo e psicologico del quale l’invasione russa ha gravato la popolazione locale. A Siversk, qualche tempo fa, ho incontrato Sasha, un anziano che ogni giorno alla stessa ora indossava i guanti e inizia-

Un residente cammina di fronte a un edificio di appartamenti distrutto in un attacco militare, a Kramatorsk

va a tagliare la legna per la brace come se fosse un lavoro. Guardava l’orologio in continuazione e si fermava a intervalli prestabiliti, dando l’impressione che si sentisse controllato da un caposquadra. La prima volta ho pensato che lo facesse per far ridere le signore che stavano sedute sotto la tettoia del palazzo fuori dai rifugi, poi invece, quando si è arrabbiato con un altro vicino che l’aveva interrotto durante il “turno” ho capito che era serio. Valentina, una delle signore, si è messa a piangere silenziosamente mentre i due uomini litigavano e mi ha detto: «Bisogna trovare il modo di passare il tempo, altrimenti impazzisci». Negli stessi cortili c’è chi condanna l’invasione e l’operato di Putin pur non riuscendo a rinchiudere tutti i russi nel calderone dei nemici giurati; sono la maggioranza e non riescono a spiegarsi come un popolo «fratello» abbia potuto iniziare una guerra così 17 luglio 2022

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Guerra in Ucraina / Il fronte

I MILITARI DI KIEV CHIAMANO “MOSKALÌ” I LOCALI. E LORO, VITTIME DEL FUOCO INCROCIATO, MARCANO LE DISTANZE DICENDO DI NON CAPIRE L’ACCENTO violenta. Alcuni la vivono come una sorta di pugnalata alla schiena e anche questo è difficile da interiorizzare. Rendersi conto che l’ex-madre poi diventata fratello maggiore ora è il carnefice non è una consapevolezza che si accetta dal giorno alla notte, ma, almeno in questo, le bombe aiutano catalizzando i ragionamenti. In altri termini, esistono delle sfumature che, per fortuna, a cinque mesi dall’inizio della guerra, resistono alla barbarie del dualismo bellico. Anche per questo tra i militari ucraini e civili del Donbass c’è diffidenza. Molti dei soldati che vengono dall’ovest o dalle regioni centrali sanno già che si troveranno a dover combattere in una terra che li accoglie con freddezza, in mezzo ai moskalì (uno dei dispregiativi con i quali gli ucraini chiamano i russi). «Guarda che posto dimenticato da Dio», diceva Dima, un tenente dei Carpazi di stanza nei pressi di Izyum: «Non c’è nulla di bello, né montagne né mare, solo questo caldo opprimente e le zanzare in mezzo a tutta quella gente che ci vorrebbe morti». 38

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Persone in attesa di ricevere i pacchi con gli aiuti umanitari a Kramatorsk. Al centro, un edificio civile distrutto da un missile a Bakhmut

Per Dima e i suoi commilitoni dell’ovest, i civili del Donbass sono ignoranti, poco affidabili e spesso li chiamano «zombie» perché «hanno il cervello imbottito di propaganda russa». Tuttavia, a riprova ulteriore dell’importanza delle sfumature, Dima ha dato ordine che l’ospedale militare da campo fosse aperto anche ai civili: «Dove diavolo dovrebbero andare altrimenti quando hanno bisogno di un medico?». Dal canto loro, i civili dicono di «non capire l’accento» di quei soldati, che, per chi conosce la campagna, è una sentenza dai mille significati, e temono costantemente che gli si possa sequestrare la macchina o altro in virtù della legge marziale; ma dal medico militare c’è un viavai costante. Un altro elemento che ha creato forte discordia tra l’esercito e i residenti deriva da una necessità tattica. Non potendo rischiare di essere individuati dai nemici, gli artiglieri di Kiev sparano da una posizione e poi si nascondono in mezzo ai palazzi, sotto gli alberi delle vie periferiche, nei capannoni agricoli. Per i difensori, è una strategia efficace, la stessa, ad esempio, che gli ha permesso di resistere a Lyman così a lungo, ma i civili vedono solo che dopo il passaggio delle truppe ucraine i russi bombardano e colpiscono le loro case. Inoltre, da quando l’esercito di Mosca ha occupato le città di Rubizhne, Lysychansk e Popasna, le distanze da coprire si sono ridotte significativamente e i bombardamenti sulle città ancora in mano ucraina sono effettuati con armamenti desueti, vecchi mortai dell’epoca sovietica,


Foto: M. Djurica - Reuters/ Contrasto, N. Contreras - Anadolu Agency via Getty Images, F. O’Reilly - The New York Times / Contrasto

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fondi di magazzino stipati in qualche armeria nelle regioni lontane dell’enorme territorio russo. Armi molto meno accurate di quelle contemporanee, spesso colpiscono fuori bersaglio, creando scompiglio e devastazione tra i residenti e lasciando sul campo molte vittime casuali. Possibile che neanche tutto ciò basti a convincere una persona a lasciare questa terra martoriata? Fuori Soledar, l’anziana Alina raccontava di dover rimanere per suo figlio che a breve sarebbe stato richiamato, non poteva permettere che a sera l’uomo trovasse una casa vuota. Suo figlio, senza farsi sentire, replicava che non poteva lasciarla lì da sola e che sarebbe stato impossibile staccarla dalla casa che si era sudata lavorando nelle ferrovie. Tale interdipendenza è abbastanza comune in Donbass, i giovani dicono di non poter abbandonare gli anziani e questi ultimi sentono di non aver nessun altro posto se non la propria comunità. Eppure, tutti sanno che a breve l’esercito russo riprenderà la sua avanzata verso Slovjansk e Kramatorsk, le due città più importanti della regione di Donetsk e le prossime fortezze designate. Sono settimane che qui si ammassano uomini e mezzi, da quando la ritirata da Severodonetsk era già in corso ufficiosamente. Ora i soldati ucraini dicono di essere pronti: «No pasaran», come piace dire a molti citando il motto del Fronte popolare spagnolo impegnato nella lotta ai franchisti durante la guerra civile. Mi sono sempre chiesto se pronunciando quella frase

Un soldato ucraino della 95a Brigata d'assalto aereo fuma accanto a un veicolo blindato prima di proseguire verso la prima linea vicino alla città di Kramatorsk

(spesso alzando il pugno chiuso) abbiano contezza del fatto che chi gridava quelle parole nel ’36 faceva parte di una coalizione con una forte componente comunista e nella quale l’Unione Sovietica, il nemico di oggi, aveva un ruolo di primo piano. È impossibile intavolare una discussione così nel breve spazio di un controllo documenti o di una sigaretta davanti a uno dei pochi chioschi aperti. Ma è significativo notare che l’Ucraina di oggi è un coacervo di sentimenti di ribellione all’oppressore, storicamente anti-autoritari, di nazionalismo esasperato, agli antipodi, di parole d’ordine prese dalle varie lotte di resistenza dell’ultimo secolo e di ardore patriottico ottocentesco. Il tutto filtrato dalla cultura di massa e reso inoffensivo all’occorrenza. Un mondo in cui resistono, tuttavia, nutrite sacche di popolazione legate a un’epoca ormai tramontata, che in questa complessità faticano a ritrovarsi e, anzi, ne hanno paura. È questa la casa della quale si diceva all’inizio, la sicurezza data dai luoghi consueti, accanto ai vicini di una vita, ai parenti più anziani e a quelli visti crescere. La stessa familiarità che crea la paura dell’ignoto, di un mondo diventato troppo grande per chi è nato più di mezzo secolo fa o di un Paese sconosciuto per chi non è mai neanche andato in gita a Dnipro. Alcune di queste persone si attaccano alla tradizione, impersonificata dalla Russia, altri solo al luogo geografico percepito come unica certezza in un momento storico in cui, letteralmente, tutto intorno crolla. Q ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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Guerra in Ucraina / L’Italia

DIFESA LI ARMIAMO PER NEGOZIARE COLLOQUIO CON FRANCESCO PAOLO FIGLIUOLO DI GIANCARLO CAPOZZOLI

Il generale Francesco Paolo Figliuolo in visita a una base aerea

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impiego dei nostri militari all’estero, il futuro della Nato e il modello di difesa europeo, sotto l’urgenza della guerra in Ucraina. Smessi i panni di commissario per l’emergenza Covid-19, il generale Francesco Paolo Figliuolo, già comandante Nato nei Balcani, è da sette mesi il comandante operativo di vertice interforze, il Covi, presso l’aeroporto militare di Centocelle, a Roma. Generale, praticamente, passa tutto da qui? «Il comando è prerogativa del capo di stato maggiore della Difesa, che normalmente lo esercita tramite il comandante del Covi a cui è affidata la pianificazione, il coordinamento e la direzione delle operazioni militari interforze svolte sia in Italia che all’estero e non solo sui tre domini classici - terra, mare, aria - ma anche su quelli cibernetico e spaziale». Qual è, al momento, il nostro impegno di pace fuori dai confini? «Quasi seimila donne e uomini delle forze armate e dell’arma dei carabinieri sono impiegati all’estero in 38 missioni e operazioni, in 21 diversi Paesi, sotto l’egida delle Nazioni Unite, della Nato, dell’Unione Europea o nell’ambito di quelle che vengono chiamate “Coalitions of the willing”, letteralmente, “Coalizioni dei volenterosi”. Siamo nei Balcani, in Kosovo con “Joint Enterprise” e in Bosnia Erzegovina con “Althea” . Contribuiamo al rafforzamento del fianco est della Nato con la missione “Baltic Guardian” in Lettonia, nell’ambito dell’ eFP, Enhanced forward presence. Di recente si sono concluse le operazioni di vigilanza aerea e air policing in Islanda e Romania, con i nostri velivoli F-35 e F2000 dell’Aeronautica militare e sta iniziando un’analoga missione in Polonia. In Medio Oriente siamo in Iraq, dove a maggio scorso abbiamo assunto il comando della missione Nato. In Libano, partecipiamo alla missione Unifil sotto egida Onu, con più di mille caschi blu dell’Esercito, il contingente più numeroso dopo l’Indonesia. In Africa operiamo con una missione bilaterale per supportare lo sviluppo delle Forze di sicurezza del Niger, nella missione europea in Sahel per la formazione delle forze armate locali, nella missione bilaterale in Libia, a Gibuti e in Somalia». E c’è poi l’impegno della Marina militare. «Le nostre navi controllano le acque del Mediterraneo con l’operazione “Irini”, quelle del golfo di Aden con l’operazione “Atalanta”, in funzione di anti-pirateria, e siamo presenti anche nel Golfo di Guinea e nell’Oceano Atlantico». Giancarlo Capozzoli Altri impieghi in vista? Giornalista «Pochi giorni fa il ministro della Difesa Lo-

renzo Guerini ha annunciato che il Parlamento sarà chiamato a decidere sull’avvio di altre due missioni, una in Ungheria, l’altra in Bulgaria, rivolte a rafforzare ulteriormente il fianco est dell’alleanza atlantica». Al vertice Nato a Madrid il segretario generale Jens Stoltenberg ha parlato di scelte epocali. È davvero così? Siamo a un punto di non ritorno? «Per usare le stesse parole del Segretario Stoltenberg, si tratta di un summit svoltosi “in tempo di guerra” che, tra l’altro, ha dato il via libera a due nazioni, la Svezia e la Finlandia, fino a ieri neutrali, di entrare a far parte dell’alleanza atlantica. E il ministro Guerini, parlando di momento storico, ha detto che sono state prese decisioni che assicureranno la nostra difesa collettiva negli anni a venire». La guerra in Ucraina ha imposto un radicale ripensamento? «Il conflitto sta inevitabilmente portando la Nato, e dunque anche l’Italia, a cambiare la sua postura sul fianco est, rafforzando la presenza di uomini e mezzi nei Paesi alleati dell’Europa orientale. Stoltenberg ha parlato di un incremento di soldati da 40.000 a 300.000, il più grande dispiegamento militare Nato in Europa dei tempi della Guerra Fredda. La Difesa italiana, come ha recentemente dichiarato il presidente Mario Draghi, contribuirà con il dispiegamento di un’ulteriore forza di duemila uomini tra Bulgaria e Romania e altri ottomila saranno in stato di prontezza in territorio nazionale. Ma anche grazie all’Italia è stato ribadito l’impegno per il fianco sud della Nato in Medio Oriente, Nord Africa e Sahel. È stata rimarcata l’importanza che il “Mediterraneo allargato” riveste non solo per gli interessi strategici dell’Italia, ma anche dell’alleanza atlantica». Cambiano i numeri, ma, soprattutto l’approccio strategico? «Lo scenario che si è aperto è quello di una rinnovata contrapposizione tra blocchi. Adesso quello che abbiamo di fronte è un avversario di tipo convenzionale, il cosiddetto confronto “peer to peer”. Un attore, però, con cui dobbiamo interloquire e confrontarci, non soltanto sul piano militare, ma anzitutto su quello politico e diplomatico. Dobbiamo assolutamente scongiurare, con una postura ferma e credibile, qualunque tipo di escalation della forza e arrivare al più presto a una cessazione del conflitto». L’impegno sul fianco est non avrà ripercussioni sulle altre aree, Mediterraneo e Balcani? «A maggio il ministro della Difesa ha emanato una direttiva sulla strategia di sicurezza e difesa per il “Mediterraneo allargato”, che include delle aree di importanza strategica per l’Italia e che versano ancora in condizioni di instabilità. Par-

“BISOGNA DIMOSTRARE NEI FATTI, IN NOME DI VALORI COMUNI, LA SOLIDARIETÀ A UN POPOLO AGGREDITO. L’OBIETTIVO È LA PACE, NON UN ACCORDO IMPOSTO” 17 luglio 2022

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Guerra in Ucraina / L’Italia

Soldati italiani impegnati nella missione in Afghanistan

traguardo importante, con la conclusione dei lavori della Bussola strategica. Credo che un ulteriore traguardo sia la costruzione dell’ambiente della difesa europea complementare alla Nato e che dovrà servire a contribuire alla protezione dei nostri valori fondanti e delle nostre istituzioni democratiche. Dobbiamo concentrarci su quei settori che consentiranno all’Europa di operare con maggiore prontezza e, se necessario, anche in autonomia. Certamente attraverso l'istituzione di una credibile capacità europea di dispiegamento rapido di forze (Eu Rapid deployment capacity), ma anche potenziando la cooperazione industriale e, sul piano dottrinale, procedendo nel definire le strategie a livello di Unione Europea in tutti i domini delle operazioni militari: in quelli tradizionali – vale a dire terrestre, marittimo e aereo – e in quelli di “nuova concezione”, ovvero il dominio spaziale e cyber». C’è però chi contesta l’aumento delle cosiddette spese militari sino alla soglia del 2% del Pil. «Per molto e troppo tempo le forze armate hanno sofferto di una certa scarsità e soprattutto incertezza delle risorse sul piano degli investimenti. Alle donne e agli uomini che servono il Paese ogni giorno lontano dalle luci della ribalta dobbiamo garantire il massimo della sicurezza in operazione. Penso alla difesa aerea, soprattutto a media gittata, ai sistemi di sorveglianza e acquisizione obiettivi, all’incremento della digitalizzazione e guerra elettronica, al potenziamento delle capacità satellitari e della sorveglianza marittima e aerea, alle piattaforme corazzate e ai sistemi di fuoco a lunga gittata con relative scorte di munizionamento. Avere materiali e mezzi consentirà inoltre al nostro Paese di continuare a rivestire un ruolo da protagonista nell’ambito dell’alleanza atlantica e nella costruzione della Difesa europea». Q © RIPRODUZIONE RISERVATA

“IL RAFFORZAMENTO DEL FIANCO EST È UNA PRIORITÀ MA L’ITALIA HA UN INTERESSE STRATEGICO ALLA SICUREZZA DEL MEDITERRANEO ALLARGATO” 42

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Foto: A. Masiello - Getty Images

lo della Libia, del Libano o del Sahel, dove si registra ancora una forte presenza di gruppi terroristici e di organizzazioni criminali transnazionali dedite alla tratta di esseri umani. Le crisi regionali sono sempre interconnesse e gli effetti del conflitto russo-ucraino possono manifestarsi anche in quest’area. Abbiamo assistito negli ultimi mesi all’ingresso nel Mediterraneo di ben diciotto navi e alcuni sommergibili della flotta della Federazione Russa. Per non parlare poi dell’influenza “maligna” delle compagnie private militari, come il noto gruppo filorusso “Wagner”. Questo per dire che dobbiamo continuare a preservare la nostra sicurezza a 360 gradi». Il Covi ha anche la responsabilità sulle armi che stiamo inviando all’Ucraina? «Sulla base delle direttive di governo e Parlamento, l’Italia si è impegnata a fornire assistenza umanitaria, finanziaria ed economica e a cedere apparati e strumenti militari che consentano all’Ucraina di difendersi legittimamente e proteggere la sua popolazione da un’aggressione militare violenta e ingiustificata. Un sostegno che, come ha sostenuto il ministro Guerini, è dovuto in virtù delle responsabilità che abbiamo nei confronti di un popolo aggredito e in nome dei comuni valori di civiltà in cui crediamo fermamente. La solidarietà va dimostrata con i fatti: continueremo a sostenere l’Ucraina con il supporto all’assistenza umanitaria e l’invio di armamenti per giungere a un negoziato che non sia imposto dai russi e che possa essere accettato da entrambe le parti». Il vertice di Madrid ha portato all’approvazione del nuovo Strategic concept della Nato, ma sul tema della difesa comune e della creazione di un esercito europeo, quali passi si stanno facendo? «Il tema della difesa comune europea è un argomento in primis politico e poi tecnico-militare, ma è stato raggiunto un



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L’analisi

di FEDERICO VARESE

Regno Unito, dopo Johnson meno tasse e meno welfare

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l Regno Unito ha assistito esterrefatto alle convulsioni degli ultimi giorni del governo Johnson. Dall’inizio di luglio fino alle sue dimissioni da leader del partito conservatore, 63 tra ministri e sottosegretari si sono dimessi, tra cui il ministro dell’Economia, Rishi Sunak, e quello della Salute, Saijd Javid. Johnson ha cercato di rimanere in sella fino all’ultimo, nominando ministri che si dimettevamo il giorno dopo l’investitura (come quello dell’Istruzione). Si è paventato un possibile intervento della monarca per sbloccare la situazione. Johnson ha comunque creato un cambiamento delle norme non scritte della politica inglese: è tradizione che dopo le dimissioni da leader del partito, seguano anche quelle dal governo e la immediata uscita di scena. Oggi non è più così: Johnson rimane primo ministro per gli affari correnti fino alla scelta del nuovo leader del partito ai primi di settembre. La sua strategia consiste nel cercare di influenzare il corso degli eventi e aiutare la sua candidata preferita, l’attuale ministra degli Affari esteri Liz Truss. Tutte le principali figure politiche legate a doppio filo a Johnson hanno già espresso il loro appoggio per la ministra, come ha fatto il quotidiano dell’establishment The Times. Il candidato da battere sembrerebbe essere Rishi Sunak, eppure questi non sembra essere così benvoluto dalla base del partito (che dovrà ratificare la scelta fatta dai parlamentari). Penny Mordant, ministra del Commer-

cio, molto critica verso Johnson e su posizioni abbastanza progressiste, appare come la preferita dei membri del partito in base ad un sondaggio pubblicato da Conservative Home. In ogni caso, i candidati, per ora, sono dieci, un gruppo foltissimo che mostra come il partito sia diviso su chi debba essere il futuro leader. Vi è qualcosa che però accomuna tutti i candidati, con la parziale eccezione di Rishi Sunak: tutti si dichiarano favorevoli ad abbassare le tasse e tagliare la spesa sociale da subito. Vogliono tagliare la national insurance, una tassa che pagano tutti i lavoratori che guadagnano più di 184 sterline a settimana; ridurre le tasse sulle imprese al 15 per cento; tagliare le tasse sul reddito, l’iva e l’accisa sul carburante delle auto; e ridurre le spese sociali. I candidati fanno a gara ad incorporare le proposte di tagli degli avversari e aggiungerne di nuovi. L’impatto economico di tagli generalizzati alle tasse (come ha sostenuto l’economista Gemma Tetlow dell’Institute of government) avrebbero solo l’effetto di aumentare la domanda interna, generare inflazione e costringere la Banca d’Inghilterra ad alzare i tassi d’interesse. Non avrebbero quindi alcun impatto nel ridurre gli effetti della crisi. La maggioranza degli economisti ha ammesso che la riduzione generalizzata delle spese di per sé non aumenta la crescita. Si potrebbe avanzare una riforma del sistema fiscale, agendo ad esempio in maniera progressiva, tassando le rendite e tagliando le tasse per gli strati più in difficoltà, ma nessuno si

sogna di adottare questa piattaforma. Inoltre, la popolazione del Paese sta invecchiando e le spese sanitarie e pensionistiche sono destinate a salire: gli uffici del governo predicono che le spese sanitarie in rapporto al Pil aumenteranno dal 9,1 per cento di oggi al 13,3 per cento nel 2061-62; i costi per la protezione degli adulti vulnerabili dall’1,2 per cento al 2,3 per cento, e le pensioni dal 5 al 7,3 per cento. Le spese totali per sanità e anziani aumenteranno dal 26,8 al 33,7 nello stesso periodo. Come sarà possibile pagare questo conto? Non dimentichiamo che anche le spese militari crescono. Altri temi cruciali sono scomparsi. Il programma di “livellamento sociale” introdotto da Johnson per ridurre le diseguaglianze regionali e offrire opportunità alle aree più depresse, le stesse che hanno votato per i conservatori alle ultime elezioni nel nord del Paese, è stato dimenticato. Infine, nessun candidato mette in discussione la Brexit oppure le politiche illegali di deportazione degli immigrati, e nessuno spiega come intende risolvere il problema dell’Irlanda del Nord, o del cambiamento climatico. Il partito conservatore insomma ignora del tutto le sfide che attendono il Paese e spera di fare presa sull’elettorato tradizionale del Sud. Riuscirà a convincere abbastanza elettori anche questa volta oppure andrà incontro ad una sconfitta elettorale? Watch this space, come dicoQ no gli inglesi. © RIPRODUZIONE RISERVATA

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Guerra in Ucraina / L’energia 1

IL GAS ARGENT IL PAESE SPERA DI SFRUTTARE AL MASSIMO IL BACINO DI VACA MUERTA. LA POPOLAZIONE DEI MAPUCHE DENUNCIA INQUINAMENTO E TERREMOTI

Operai speciallizzati di Ypf nel giacimento di Vaca Muerta. La Ypf è la società petrolifera dello Stato argentino ri-statizzata nel 2012 dal governo di Cristina Fernandez de Kirchner

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INO VALE ORO DI LUDOVICO MORI DA BUENOS AIRES FOTO DI GIANCARLO CERAUDO

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er un paese che tra un default e l’altro, da ormai troppi anni ricorda con nostalgia e rimpianto quando era «il granaio del mondo», è forse arrivato il momento del riscatto. La salvezza questa volta non verrebbe dalle coltivazioni della fertile regione della pampa centrale. È invece un altopiano roccioso e semi desertico, dal nome molto poco promettente, quello che potrebbe oggi consentire all’Argentina di risollevarsi una volta per tutte dalla crisi finanziaria che la attanaglia da decenni. Si tratta del bacino di Vaca Muerta, enorme giacimento non convenzionale situato nella regione patagonica di Neuquén. È considerato la seconda riserva al mondo di shale gas e la quarta al mondo di shale oil e, nell’attuale contesto geopolitico e con l’Europa alla ricerca disperata di petrolio e gas, si è trasformato in una risorsa dal valore quasi inestimabile. «Vogliamo diventare un fornitore stabile e affidabile di energia ed alimenti», ha detto poche settimane fa il presidente argentino Alberto Fernandez a ciascuno dei membri del G7 riuniti nel castello di Elmau in Baviera. In una conversazione con il presidente del Consiglio, Mario Draghi, Fernandez ha parlato in particolare di un progetto per la liquefazione e il trasporto del gas di Vaca Muerta. «Lo esamineremo e vedremo se ci sono le condizioni per proseguire», ha risposto Draghi. Con una guerra in corso, la cui conclusione non si scorge all’orizzonte, in nessuna delle due sponde dell’Atlantico si discute ad ogni modo sul fatto se estrarre petrolio e gas non convenzionali dalla roccia di scisto attraverso la tecnica del fracking sia in linea con gli obiettivi della transizione energetica e dell’Accordo di Parigi. Il ritorno del fossile, il possibile inquinamento delle falde acquifere della Patagonia e la comparsa di inediti fenomeni sismici nella regione appaiono oggi agli occhi dei governanti come un eventuale ed ulteriore danno collaterale della crisi globale causata dalla guerra. Di fronte all’urgenza dell’approvvigionamento energetico passa ad essere un dettaglio anche la sostenibilità economica del costosissimo processo di trasformazione del gas in gnl e del suo trasporto in nave da un emisfero all’altro. Interessano invece i tempi, e Ludovico Mori Giornalista l’Argentina promette in questo senso 17 luglio 2022

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Guerra in Ucraina / L’energia 1

Una trivellatrice nel giacimento di Vaca Muerta. Al centro, la periferia di Añelo, la cittadina alle porte di Vaca Muerta

che con l’aiuto di ulteriori investimenti occidentali per la costruzione di un nuovo gasdotto e di impianti di liquefazione, potrebbe essere pronta per iniziare ad esportare le sue risorse entro il 2024. Se la vastità geografica della Patagonia è di per sé sconcertante, l’impatto con Vaca Muerta, già a partire dal nome, è addirittura violento. Si tratta di una distesa di terra e sassi di 30 mila chilometri che immerge in un paesaggio lunare. Un luogo apertamente ostile alla vegetazione e all’uomo, battuto dall’incessante vento patagonico che i mapuche chiamano «kuruf». Qui non si intravede spazio per altro che non sia lavoro, duro lavoro, tanto per far crescere una pianta come per estrarre oro nero dal suolo. A Vaca Muerta ci si arriva dalla città di Neuquén, capoluogo dell’omonima provincia, percorrendo in direzione nord-ovest circa 100 chilometri di una strada provinciale asfaltata solo di recente. Il tragitto costeggia da una parte le pendici dello sterminato altopiano che ricopre il bacino, e dall’altra la valle del fiume da cui prendono a loro volta il nome il capoluogo e la provincia. Si tratta di un’arteria percorsa senza soluzione di continuità da centinaia di camion, camioncini e fuoristrada che trasportano materiale da costruzione, sabbia di silice per il fracking, e operai. L’unico centro abitato a cui si approda prima di arrivare a Vaca Muerta è la cittadina di Añelo. Fino a qualche anno fa era solo una manciata di case lungo una strada provinciale ancora sterrata. Oggi è una cittadina di ottomila abitanti che rischia di crescere fino a 25 mila nei prossimi anni, grazie all’incessante sviluppo dei giacimenti e dell’indotto legato all’industria petrolifera. Gli operai dei pozzi sono alloggiati in strutture modulari o in container all’interno di compound recintati come vere e proprie basi militari. Vaca Muerta non è fatta né pensata per le famiglie; è un posto di 48

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frontiera dove venire a fare soldi. L’80 per cento della popolazione è maschile, caratteristica che attrae con sé anche un fiorente business della prostituzione e della droga. Tra la popolazione locale che non lavora nell’indotto dei giacimenti e che cerca di difendersi dall’avanzata dei pozzi e del fracking, c’è la comunità indigena mapuche. «Non siamo contro lo sviluppo, siamo contrari a come si sta portando avanti, all’inquinamento», afferma Albino Campo Maripe, il capo (lonko) di una comunità di 14 famiglie che vive ai piedi di un giacimento di Pluspetrol, a una decina di chilometri da Añelo. «Stanno contaminando i fiumi, le falde, l’aria. Quando se ne andranno lasceranno morte e contaminazione», denuncia il lonko, che da dieci anni lotta per affermare i diritti della sua gente su dodicimila ettari destinati a pastorizia e oggi cosparsi di pozzi. «Ci accusano di chiedere soldi, di voler sfruttare la situazione. Il governo dice che dove si fa un pozzo appare un mapuche ma noi non è che siamo apparsi, siamo qui da sempre, quelli che sono apparsi sono i nuovi padroni della terra, le imprese multinazionali», aggiunge. «Il petrolio un giorno finirà e quelli che rimarranno saremo noi», denuncia. La prospettiva della costruzione di una nuova pipeline ha aperto un ulteriore fronte di conflitto con la comunità mapuche. Una sentenza della corte suprema argentina obbliga lo Stato provinciale ad accogliere i reclami delle comunità originarie ma molto di rado queste si vedono riconosciuti i titoli di proprietà. Fernando Cabrera, della Ong Observatorio petrolero sur (Ops), è una delle persone che più hanno seguito lo sviluppo del bacino di Vaca Muerta raccogliendo una solida documentazione sulle molteplici implicazioni negative del fracking a livello ecologico. Tre le problematiche principali riscontrate in quest’area, spiega Cabrera. La prima è l’au-


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Un chiosco di ambulanti nella periferia di Añelo. La cittadina è passata da 1.500 abitanti nel 2008 agli ottomila di oggi

mento esponenziale del volume dei residui tossici della perforazione. Il riferimento è principalmente al «cutting» (il fango di perforazione), al «flowback» (il fluido di ritorno del fracking) e ai cosiddetti «fondi» dei serbatoi. «Questi, oltre a contenere le sostanze chimiche utilizzate nell’intero processo di perforazione e frattura, spesso presentano tracce di sostanze depositate nel sottosuolo. Metalli pesanti come mercurio, cromo, piombo, cadmio, arsenico; o materiali radioattivi di origine naturale come uranio, torio, radio e radon». I residui vengono attualmente riversati in discariche a cielo aperto e il rischio concreto è quello della contaminazione oltre che dell’aria anche delle falde acquifere superficiali. La seconda problematica è legata alla possibilità concreta di fuoriuscite di petrolio. Una possibilità che, secondo Cabrera, è acuita notevolmente dalla complessità dei pozzi non convenzionali che prevedono trivellazioni sia in profondità che in orizzontale e che possono raggiungere un totale di 5 chilometri di lunghezza. Secondo un rilevamento recente effettuato da Ops ogni giorno si verificano almeno un «incidente ambientale» significativo e cinque incidenti minori. La terza problematica è legata alla comparsa di fenomeni sismici inediti associabili alle fasi più intense di frattura dei pozzi. Un rapporto della Ong Fundación ambiente y recursos naturales (Farn) denuncia che a partire dal 2018 si è registrato «un aumento eccezionale dell’attività sismica». Il documento dà conto di numerosi episodi, il più grave dei quali avvenuto nel 2019 nella località di Sauzal Bonito, a 20 chilometri da Añelo. Si è trattato di una scossa di magnitudo 5 della scala Richter. Se venisse dimostrato il suo legame con l’attività di frattura del suolo sarebbe il terzo terremoto mai registrato dovuto al fracking. L’epicentro di queste scosse è stato rilevato a po-

chi chilometri dalla superficie, a profondità analoghe a quelle dei pozzi non convenzionali. L’ordinamento federale dell’Argentina stabilisce che le risorse naturali siano amministrate dai governi provinciali così come i proventi che derivano dal loro sfruttamento. Nell’ultimo anno le entrate delle royalties del settore petrolifero sono passate a rappresentare il 40 per cento del totale delle entrate della provincia di Neuquén contro il 20 per cento del 2021. Con questi numeri, per il governatore Omar Gutierrez le problematiche legate al fracking rappresentano evidentemente un mero dettaglio. Su Vaca Muerta, afferma il governatore, sono già stati investiti 30 miliardi di dollari e saranno necessari investimenti per altri 65 miliardi per arrivare alla produzione massima stimata in 700 mila barili di petrolio e 140 miliardi di metri cubici di gas giornalieri. Ciò che preoccupa oggi le autorità provinciali e federali è piuttosto il fatto che il bacino si sta sviluppando rapidamente in assenza di infrastrutture essenziali, come un gasdotto che permetta non solo di trasportare il gas al resto del Paese, ma anche di esportarlo. La gara d’appalto per la costruzione di una pipeline di 600 chilometri è appena stata indetta. Se l’opera non verrà completata in tempo Vaca Muerta si troverà ad affrontare a breve un pericoloso collo di bottiglia. «Le infrastrutture sono al limite», ha ammonito Gutierrez. A un limite, ad ogni modo, sono arrivate anche le finanze dello Stato argentino, così come la tenuta del governo di Alberto Fernandez. L’esecutivo è infatti in balia di una feroce guerra intestina scatenata dalla vice presidente Cristina Kirchner. La crisi è sfociata all’inizio del mese nelle dimissioni del ministro dell’Economia, Martin Guzman, e il sogno di una rinascita argentina rischia adesso ancora una volta di naufragare in un default. Q © RIPRODUZIONE RISERVATA

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Guerra in Ucraina / L’energia 2

PELLET LA STUFA RUSSA

NON SCALDA PIÙ MOSCA È IL TERZO ESPORTATORE MONDIALE DI BIOCOMBUSTIBILE. LE SANZIONI SONO UN ALTRO COLPO AL FABBISOGNO EUROPEO DI ALESSANDRO DE PASCALE

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yborg, ottantamila abitanti, regione di Leningrado, Russia europea, a 30 chilometri di distanza via terra dalla Finlandia. Sulla soglia del confine con l’Unione europea, c’è uno dei più grandi impianti per la produzione di pellet al mondo: sulla carta è in grado di realizzare circa un milione di tonnellate all’anno di cilindretti di legno vergine pressato. Visto il loro potere calorifero, quasi doppio rispetto alla normale legna da ardere, sono molto richiesti, sia dal comparto industriale, sia da quello domestico. Con questo combustibile vegetale ricavato dagli alberi, l’Europa del nord ci alimenta da tempo centrali elettriche e impianti per il teleriscaldamento. In Gran Bretagna, una vecchia centrale a carbone nello Yorkshire è stata, ad esempio, convertita a pellet. Dalla Russia, i sacchi di questo biocombustibile arrivano anche in Italia, dove però vengono usati quasi esclusivamente nel comparto domestico (stufe e caldaie). La conversione delle centrali a carbone italiane, a differenza del Nord Europa, è del resto avvenuta a favore del gas naturale che garantisce il 42,5 per cento del fabbisogno energetico, secondo i dati dell’Ispi, Istituto per gli studi di politica inter-

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nazionale, il 38,2 per cento del quale di provenienza russa. Da quando Mosca ha capito che la sviluppata Unione europea ha sete di energia, Vladimir Putin ha fatto monetizzare il più possibile anche gli alberi. E la Russia è il Paese più ricco di legname al mondo: 800 milioni di ettari di foreste, all’incirca il 20 per cento di quelle globali. Il 17 per cento di tutto il legname russo si trova proprio nella regione di Leningrado, dove le foreste di conifere ricoprono oltre la metà del territorio. E prima dell’invasione russa dell’Ucraina, in cima all’export di pellet russo c’erano la regione di Leningrado e l’area nord-occidentale del Paese che ha quasi la metà dei 600 impianti di produzione con seimila addetti. L’Unione era tra i clienti, dal momento che la produzione autonoma copre il 70 per cento della domanda. Era, appunto. Perché dall’inizio del conflitto alcuni organismi di certificazione hanno sospeso il rilascio dei nulla osta di sostenibilità per il pellet prodotto in BieloAlessandro De Pascale russia e Russia. Mentre l’Ue, con i propri Giornalista pacchetti di sanzioni, ha imposto lo stop al-


Foto: Getty Images

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le importazioni: il 4 giugno è stato bloccato totalmente quello prodotto da Minsk e il 10 luglio anche quello proveniente da Mosca. Ci sarebbe il pellet dell’Ucraina che però non può né produrlo per via della guerra, né esportarlo via mare, al pari del grano, dal momento che la Russia blocca i porti sul Mar Nero e per liberarli chiede l’eliminazione delle sanzioni internazionali. Così c’è anche questo capitolo nel libro della crisi energetica e alimentare mondiale innescata dall’invasione dell’Ucraina del 24 febbraio scorso. Ci sono ricadute, ovviamente, anche sull’economia russa per un comparto che piazza il Paese al terzo posto nell’export, dopo Stati Uniti e Canada, con un bacino prevalente, pari quasi al 90 per cento, in Europa. «Nel 2021 abbiamo esportato 2,4 milioni di tonnellate di pellet. I principali clienti sono Danimarca, Svezia, Paesi Bassi, Regno Unito, Belgio, Finlandia, Germania, Francia, Lituania ma anche la Corea del Sud e, naturalmente l’Italia», spiegano a L’Espresso i rappresentanti della United bionergy association (Uba), sigla di categoria con sede a San Pietroburgo, che rappresenta circa 45 produttori, commercianti, fornitori di servizi e associazioni di consumatori del settore. Secondo gli ultimi dati di

Uba solo i loro associati viaggiavano con forniture che vanno dalle 435 mila tonnellate della Danimarca alle 60 mila italiane. Nel nostro Paese, lo scorso anno, «sono state consumate 11,37 milioni di tonnellate di legna da ardere, 3,35 milioni di pellet e 1,36 milioni di cippato (scaglie e particelle)», spiega l’Associazione italiana energie agroforestali. L’Aiel, sede operativa a Legnaro, nel Padovano, 500 imprese della filiera legno-energia nazionale rappresentate, fa un paio di conti: «Produciamo in Italia tra le 400mila e le 450mila tonnellate l’anno di pellet. Circa l’85 per cento del nostro consumo è basato su materiale importato dall’estero, da Paesi comunitari o extracomunitari». Tra i quali per l’appunto ci sono anche Russia, Bielorussia e Ucraina. In base alle statistiche e ai dati dei flussi commerciali internazionali presenti nel database gratuito Un Comtrade, ancora nel 2021 in Italia sono state importate 102.860 tonnellate di pellet dalla Federazione Russa; 16.913 dall’Ucraina e 1.555 dalla Bielorussia che hanno coperto il 3,6 per cento dei consumi nazionali. Ma sono dati da maneggiare con cura, dal momento che, come avverte l’Associazione italiana energie agroforestali «persino i dati doganali sono spesso incerti e imprecisi». Quindi, «più realisticamente», l’Aiel stima a L’Espresso che, «nel 2020, le forniture di pellet proveniente da Russia, Bielorussia e Ucraina siano state poco più del 10 dieci per cento del totale consumato in Italia». Destinato «quasi esclusivamente al segmento domestico e solo per una piccola quota (5 per cento) a quello commerciale. Se lo stop alle importazioni in Italia incide per percentuali non altissime, a rischiare di patire le maggiori conseguenze è il nord del Continente. E per converso gli impianti russi, realizzati anche con il concorso di società europee. Come il maxi stabilimento di Vyborg della Vlk Llc. Attivo dal settembre 2010, realizzato dalla conversione della cartiera Vyborgskaya Cellulose (Ojsc), finanziato, secondo la rivista specializzata svedese Bioenergy International, dalla filiale francese della banca Vtb (una delle più grandi della Russia) e con attrezzature da 40 milioni di euro dell’austriaca Andritz. Dotato di un porto con 300 metri di banchine per l’attracco simultaneo di quattro navi, Vyborg ha un deposito per il legname da lavorare grande 25 ettari. E la sua storia è costellata da scandali e critiche, soprattutto sul fronte della sostenibilità ambientale da parte di numerose organizzazioni indipendenti. Per impossessarsi di quella che allora era solo una cartiera, l’ex senatore ed influente imprenditore di San Pietroburgo Alexander Sabadash, nel 1998, aveva assaltato gli stabilimenti con tanto di forze speciali al seguito per contrastare i picchetti degli operai. I lavoratori ebbero la meglio, prendendolo anche in ostaggio e ritardarono di due anni la ristrutturazione. Nel 2014 è finito in carcere per frode fiscale e da allora il Cremlino ne ha assunto il controllo proseguendo gli affari con l’Europa. Fino al 24 febbraio. Q © RIPRODUZIONE RISERVATA

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Costo della vita

STANGATA ASSICURATA SONO IN ARRIVO GLI AUMENTI DELL’RC AUTO. LE COMPAGNIE LI SPIEGANO CON L'INFLAZIONE. MA DURANTE LA PANDEMIA HANNO INCASSATO LAUTI PROFITTI DI VITTORIO MALAGUTTI ILLUSTRAZIONE DI GIOVANNI GASTALDI 52

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C

hiamatela stangata, se volete. Oppure «adeguamento delle tariffe all’aumento dei costi dei sinistri», come si sono affrettati a spiegare i portavoce delle grandi compagnie di assicurazioni. Sta di fatto che l’onda lunga dell’inflazione sta per investire anche le polizze Rc auto. Per il mercato è un cambio brusco di rotta. Da una decina di anni, infatti, il balzello annuale che tutti gli automobilisti sono per legge obbligati a pagare è in calo costante: siamo passati dai 520 euro circa del 2014 ai 353 euro del primo trimestre del 2022. Le statistiche, ovviamente, fanno riferimento a un importo medio, perché il valore di


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ogni contratto, così come la sua variazione nel tempo, dipende dalla storia assicurativa del singolo guidatore. Adesso, però, si cambia verso. Il prezzo delle polizze tornerà a salire, in linea, questa la spiegazione ufficiale, con i costi delle riparazioni e dei ricambi. Lo scorso 5 luglio, durante l’annuale assemblea dell’Ania, l’Associazione nazionale delle imprese assicuratrici, la presidente Bianca Maria Farina, ha preannunciato senza troppi giri di parole la Vittorio Malagutti svolta in arrivo. «DobGiornalista biamo però essere consa-

pevoli che stiamo entrando in una nuova fase», ha detto Farina con il tono di chi invita l’uditorio a rassegnarsi a una fatalità, a un evento imposto dalle dure leggi dell’economia. Questione di punti di vista. Dal fronte opposto, quello dei clienti, abbondano le voci di chi racconta un’altra storia. «Le compagnie possono far fronte alla situazione senza metter mano alle tariffe», attacca Furio Truzzi, presidente di Assoutenti. In sostanza, grazie ai ricchi profitti incassati negli ultimi anni, le assicurazioni sarebbero in grado di assorbire i prossimi rincari del costo dei sinistri, evitando così di trasferire ai clienti questi oneri supplementari. Questa, in breve, è la posizione di Assoutenti e di diverse altre associa17 luglio 2022

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Costo della vita ITALIA MAGLIA NERA

Italia

Andamento delle tariffe dell’assicurazione Rc auto nei principali Paesi europei. Dati in euro

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restrizioni varie hanno avuto come effetto collaterale una netta diminuzione degli oneri di bilancio alla voce risarcimenti. Si spiegano così, quindi, gli extraprofitti degli assicuratori evocati da Signorini. Ecco qualche numero che riguarda l’insieme delle compagnie attive in Italia. Nel 2020, il risultato tecnico della Rc auto è più raddoppiato rispetto al 2019 (da 644 milioni a 1,5 miliardi) e nell’anno seguente, il 2021, si è attestato a quota 731 milioni. A conti fatti, quindi, i profitti realizzati tra il 2020 e il 2021 superano i 2,2 miliardi, una somma pari al doppio dei guadagni incassati nei due anni precedenti (2018-19). L’aumento netto si aggira quindi intorno a 1,1 miliardi. Questo è quanto si legge nei documenti pubblicati il mese scorso dall’Ivass. Le compagnie di assicurazioni interpretano a modo loro i dati appena citati. Secondo l’Ania, per via della costante riduzione dei premi, nel 2021 gli italiani hanno pagato per la Rc auto 1,3 miliardi in meno rispetto all’ultimo anno prima della pandemia. E quindi, conclude l’associazione di categoria, «sarebbe stato «pienamente riconosciuto ai clienti l’effetto della minore incidentalità dovuta alle restrizioni della mobilità del biennio 2020-21». In-

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NONOSTANTE LA RIDUZIONE NEGLI ULTIMI ANNI LE TARIFFE IN ITALIA RESTANO LE PIÙ ALTE FRA QUELLE DI TUTTI I GRANDI PAESI EUROPEI do alla riduzione della frequenza dei sinistri, e quindi anche dei premi, di oltre il 20 per cento. Nel 2020, però, la pandemia ha cambiato completamente lo scenario e gli assicuratori hanno fatto il pieno di profitti. Che cosa è successo? Il fenomeno è stato a suo tempo riassunto dal presidente dell’Ivass, Luigi Federico Signorini, che ha spiegato come «un evento dannoso di proporzioni colossali, cioè l’emergenza sanitaria, ha determinato non trascurabili extraprofitti per il sistema assicurativo proprio nel ramo danni». Il boom degli utili delle assicurazioni si spiega con il crollo del numero degli incidenti durante la fase più acuta della pandemia, tra il 2020 e il 2021. Lockdown e

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zioni di consumatori. A prima vista i numeri di bilancio sembrano confermare questa lettura. Vediamo perché. È vero, infatti, che sul fronte Rc auto negli ultimi anni le compagnie hanno visto calare di molto i ricavi e anche i margini di guadagno. Nel 2012 gli italiani avevano sborsato 17,7 miliardi per le loro polizze obbligatorie, una cifra che l’anno scorso si è ridotta a 12,2 miliardi, con un calo di oltre il 25 per cento. D’altra parte, il risultato tecnico, cioè la voce contabile che misura i guadagni della gestione delle polizze, è passato dagli 1,8 miliardi del 2012 ai 644 milioni fatti segnare dall’insieme delle assicurazioni nel 2019. Nell’arco di un decennio, il mercato si è ristretto per effetto, tra l’altro, della diminuzione degli incidenti, dovuta anche all’introduzione di novità come la scatola nera. Secondo le rilevazioni dell’Ivass, l’Authority di vigilanza sulle assicurazioni, il dispositivo che registra spostamenti e velocità dell’auto avrebbe «favorito l’adozione di comportamenti di guida responsabili» contribuen-


Prima Pagina EFFETTO COVID Profitti del ramo danni realizzati negli ultimi dieci anni dall’insieme delle compagnie di assicurazioni italiane. Dati in milioni di euro 3.500

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somma, secondo questa versione dei fatti, gli extraprofitti sarebbero stati girati agli assicurati. Va detto che, per effetto di una diversa metodologia di calcolo, i numeri dell’Ania appaiono parzialmente in contrasto con quelli dell’Authority di vigilanza, che fissa a un miliardo circa (e non 1,3 miliardi) la diminuzione della raccolta premi nel 2020-21 rispetto al 2019. Inoltre, come fa notare più di un analista, senza la pandemia i margini di guadagno della Rc auto avrebbero molto probabilmente continuato a diminuire come già negli anni precedenti. Basti pensare che nel biennio 2016-17 i profitti delle compagnie in questo particolare business erano pari a quasi 1,4 miliardi e nel biennio precedente ammontavano addirittura a 2,5 miliardi. A ben guardare quindi, tenendo conto di questo trend negativo, gli extraprofitti citati dal presidente dell’Ivass sarebbero addirittura superiori al ricco tesoretto da 1,1 miliardi che emerge dal confronto tra gli ultimi bilanci. Difficile negare, comunque, che la pandemia abbia dato smalto ai conti del sistema assicurativo. Se poi si considera l’intero ramo danni, che comprende anche polizze diverse dalla Rc auto (dal comparto in-

SETTORE Federico Signorini, presidente dell’Ivass, autorità di vigilanza sul settore assicurativo. Sopra: Bianca Maria Farina, presidente dell’Ania associazione di categoria delle imprese del settore

fortuni e saluti a quello incendio e furti in casa), il risultato complessivo dei due anni della pandemia ha superato i 6,2 miliardi di euro, di cui 3,8 miliardi nel solo 2020. Un risultato eccezionale. E probabilmente irripetibile. Una volta chiusa, si spera per sempre, la fase delle restrizioni agli spostamenti legate alla pandemia, lo scenario previsto per quest’anno appare molto simile a quello pre-Covid. Rispetto al 2021 tornano ad aumentare gli incidenti e quindi anche i costi per i risarcimenti nei conti delle assicurazioni. Su quest’ultimo dato pesa anche l’inflazione. Secondo un rapporto presentato dall’Ania, a maggio il prezzo medio dei pezzi di ricambio per le auto aveva già fatto segnare un aumento del 4,2 per cento rispetto a dodici mesi prima. Per l’immediato futuro sono previsti ulteriori rincari ed è per questo che gli assicuratori mettono le mani avanti paventando ritocchi al rialzo per le nuove polizze. E così il gruppo Unipol, leader in Italia nel settore Rc auto, «ha realizzato una serie di interventi che hanno determinato un rallentamento nel trend di discesa del premio medio», come spiega un portavoce della società. Mentre nei prossimi mesi «andrà tenuto conto» della crescita dell’inflazione, che «produce effetti significativi sulla crescita del costo medio dei sinistri». Non è solo questione di prezzi, però. Secondo Signorini, sul mercato gravano anche alcune «distorsioni» che finiscono per penalizzare gli automobilisti. Nella sua relazione all’assemblea dell’Ania, il presidente dell’Authority di vigilanza ha per esempio citato il sistema bonus malus che «presenta evidenti segni di usura», visto che ormai il 90 per cento dei veicoli si trova in classe 1. Succede quindi che le assicurazioni hanno preso l’abitudine di introdurre «classi interne» che secondo Signorini non sono, «né trasparenti né universali». Del resto, anche le compagnie chiedono da tempo una revisione complessiva di un meccanismo ormai datato. Questo tema, come pure la riforma dell’indennizzo diretto, è da tempo al centro di diversi progetti in discussione in Parlamento. Intanto però, a pagare il conto sono ancora i clienti: nonostante il netto calo degli ultimi anni, in Italia le tariffe Rc auto sono ancora le più elevate tra quelle di tutti i grandi Paesi europei. Q ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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Effetto riforme

GIUSTIZIA LA TOGA SI È RISTRETTA PENSIONAMENTI, STOP AI CONCORSI, IMPROCEDIBILITÀ. MANCANO 1.442 MAGISTRATI. TRE ANNI PER I NUOVI ASSUNTI. “COSÌ IL PENALE VA AL MACERO” DI SIMONE ALLIVA

L’

allarme lanciato dal Consiglio superiore della magistratura si dipana sotto silenzio, in tono minore. Scivola nella categoria “notizie smarrite”, quelle che circolano per un momento e poi si estinguono senza che nessuno le raccolga, sopraffatte dall’ondata delle altre. In tutta Italia mancano 1.442 magistrati rispetto quelli previsti in organico. Il tasso di scopertura a livello nazionale si avvicina ormai al 15 per cento. Il dato è rintracciabile dai primi di luglio nel periodico diario sull’attività del Csm pubblicato sul sito del gruppo di Area e fa riferimento in particolare alle corti d’Appello. Per i consiglieri di

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Area la questione della copertura degli uffici «sta diventando molto delicata, tenuto conto che, se tutto va bene, i prossimi magistrati in tirocinio prenderanno le funzioni solo a partire dalla seconda metà del 2024». È una storia politica scappata di mano, e bisogna avere la pazienza e l’attenzione di decifrarla. Quando qualcosa accade è perché è già successo. «Da Castelli a Renzi arrivando a Cartabia, non c’è mai un approccio razionale alla giustizia. Ai tempi di Castelli bisognava Simone Alliva chiudere i rubinetti della Giornalista giustizia, non mandare ri-


Foto: Pierpaolo Scavuzzo / AGF

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sorse o personale, come se ci fosse un disegno per cui la giustizia non dovesse funzionare. Poi è arrivato il giovanilismo renziano del “mandiamo tutti a casa”. Politiche dissennate sugli organici e sull’età pensionabile. Dalla mattina alla sera è stata svuotata la Corte di Cassazione. Se uno pensa al pensionamento come slogan senza rendersi conto dell’effetto che fa sulla macchina giudiziaria si fanno questi disastri. E infine il tema dell’improcedibilità: il frutto dell’incapacità di questo governo di trovare un punto di equilibrio tra chi non voleva, almeno nominalmente, che si toccasse la prescrizione, cioè i Cinquestelle, e chi voleva intervenire in modo significativo: la Lega è un disa-

La cerimonia inaugurale dell’anno giudiziario. Nei vari distretti della penisola si registra un preoccupante vuoto d’organico. La corrente Area della magistratura stima che i posti vacanti siano attualmente 1.442

stro», spiega a L’Espresso Eugenio Albamonte, pubblico ministero a Roma e Segretario di Area democratica per la giustizia. Una storia vecchia venti anni, dunque. Inizia con il blocco del periodo 2001-2006 dell’era Castelli, in attesa dell’entrata in vigore della «riforma epocale» che non ha bandito i concorsi. Da una situazione di copertura quasi totale dei posti previsti nell’organico della magistratura si è passati alla fine di quella legislatura a una notevole scopertura, difficile da superare data la complessità delle procedure concorsuali. E non sembra essere bastato il tentativo del ministro della Giustizia Andrea Orlando nella XVII legislatura di 17 luglio 2022

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Effetto riforme organizzare il bando di due concorsi all’anno per il reclutamento di nuovi magistrati. La pandemia è entrata in scena e ha messo in fermo il tutto. «La prima cosa da fare è coprire le piante organiche. La situazione è questa: qualche anno fa il ministro Bonafede ha fatto un significativo ampliamento della pianta organica. Un fatto indubbiamente positivo, anche se alcuni uffici sono stati dimezzati e altri no, eppure dal punto di vista astratto il numero dei giudici previsto è senza dubbio aumentato. A questo però non ha fatto seguito l’assunzione di giovani colleghi. I fattori sono vari, pensiamo al fallimento dell’ultimo concorso per i 310 posti di magistrato ordinario, bandito nel 2019 e slittato per due anni a causa del Covid-19: non sono stati coperti tutti. Ora c’è un nuovo concorso a 500 posti, i candidati sono 6524 e a loro è arrivato l’augurio della ministra Cartabia. Ma i tempi per far entrare in servizio i nuovi colleghi sono lunghi, ci vogliono due anni. Non è problema di facile soluzione ma certamente le procedure vanno accelerate perché senza i magistrati presenti i processi non si fanno, a prescindere dalle regole», riflette Maurizio De Lucia, Procuratore della Repubblica di Messina. Il surreale cortocircuito di questo sistema giudiziario sguarnito dagli addetti ai lavori va a ricercarsi, come spesso accade, in una mancata visione politica a lungo termine, ricorda De Lucia: «Tutto viene sempre fatto senza una programmazione completa. Trovo sia giusto mandare in pensione i settantenni, come ha fatto il governo Renzi. Però questo va fatto tenendo conto delle conseguenze. Aver mandato in pensione in una sola volta molti magistrati ha creato diversi effetti. Uno di questi, ad esempio, è che in realtà molti magistrati non vanno più in pensione a 70 anni ma a 66. Un tempo si entrava in magistratura relativamente giovani e va detto, oggi quelli che si rendono conto di non poter aspirare a incarichi direttivi, rinunciano agli ultimi quattro anni di carriera e se ne vanno in pensione. La scopertura viene quindi anticipata rispetto ai tempi previsti. Molti escono e pochi entrano per riempire il vuoto. Non c’è programmazione. Non siamo in grado di sapere né quanti colleghi se ne vanno e neanche quando verranno sostituiti dai nuovi. Si parla tanto di aziendalismo ma la prima co58

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PROCURA Raffaele Cantone, ex capo dell’Autorità anti-corruzione, dirige la procura della Repubblica di Perugia. In alto, il pm di Roma Eugenio Albamonte, segretario della corrente Area. A destra, il Csm

sa è saper gestire le piante organiche e integrarle. I tempi dei nostri concorsi non sono compatibili con le esigenze che sono quelle di avere presto un giudice in servizio». Eppure qualcosa si muove, la riforma Cartabia ha ripristinato il concorso di primo grado che concede l’accesso libero a tutti i neolaureati in Giurisprudenza che possono tentare subito l’ingresso in magistratura. Un modo per accorciare tempi biblici che prevedevano, dopo la laurea quinquennale, dei corsi che duravano altri due anni, più i tempi della selezione. Ma, specifica De Lucia: «L’intera carriera andrebbe pensata non in maniera estemporanea a seconda degli umori del governo». Anche Raffaele Cantone, oggi procuratore capo a Perugia, in passato alla guida dell’Anac, l’Autorità nazionale anticorruzione vede con favore il ripristino del concorso di primo grado: «Non servono meccanismi di ingresso straordinario. La magistratura ha bisogno sicuramente che questi posti siano coperti ma con qualità. Interventi straordinari rischiano di abbassare il livello qualitativo che è l’ultima co-


Foto: Ansa, FotoA3(2), Agf

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sa che ci possiamo permettere. Sono tanti i giovani che aspirano a fare i magistrati: si possono aumentare i numeri dei posti messi a concorso e credo sia proprio questa la soluzione, sperando che nel giro di due o tre sessioni la situazione migliori». Sui vuoti delle corti d’Appello pesa l’appetibilità degli incarichi. «Soprattutto nel penale, c’è una parte tutta cartolare, poco attraente dal punto di vista processuale. Bisognerebbe creare meccanismi di incentivazione affinché i magistrati ci vadano», aggiunge Cantone. Intanto, nei giorni scorsi, è partita la complessa macchina organizzativa che deve portare nuova linfa nelle fila della magistratura italiana, grazie al concorso per 500 nuove assunzioni. Un appuntamento delicato, al quale il presidente dell’Associazione nazionale magistrati Giuseppe Santalucia guarda con speranza per risolvere la questione dei posti vacanti in magistratura: «Abbiamo fatto pressing sulla ministra perché indicesse questi concorsi. Nonostante questi dati siano davvero preoccupanti, aggravati anche dalla questione Covid-19,

MINISTRA Marta Cartabia, ex giudice e presidente della Corte Costituzionale, guida il ministero della Giustizia del governo Draghi dal febbraio del 2021

possiamo essere speranzosi. Certo, i concorsi non hanno tempi rapidissimi». Non celeri, in effetti. Le prove di concorso che cominceranno questo mese si trascineranno per un anno e mezzo. Un altro anno e mezzo passerà per via del tirocinio. I 500 magistrati, dunque, entreranno in servizio soltanto fra tre anni e sei mesi. Dentro questo tempo un continuum di pensionamenti e posti che si svuotano. «Il combinato disposto degli spaventosi vuoti di organico in magistratura e della disciplina di improcedibilità porterà al macero il settore penale», è la fosca previsione di Giovanni Zaccaro, presidente della terza commissione del Csm che si occupa dell’accesso in magistratura e anche dei concorsi delle nuove toghe. Zaccaro è stato giudice a Bari, fa parte di Area: «In questo momento a Bologna mancano 13 sostituti ma a Modena ne mancano sette e a Parma 14. I vuoti non li copriremmo automaticamente tutti se adesso facessimo il concorso. Perché accade anche che la gran parte dei magistrati opti per le sedi considerate più appetibili come Roma, Milano, Napoli e Bologna. Per converso, rischierebbe di svuotarsi la Calabria, dove si va solo come prima nomina, al pari di Sardegna, Friuli, Piemonte settentrionale e da dove si va via alla prima opportunità. Bisogna stare attenti quando si fanno queste riforme che sembrano a costo zero. Tutti gli uffici giudiziari sono scoperti, non solo quelli delle capitali: Crotone, Locri, Castrovillari, Enna, Caltanissetta». Come in un gigantesco domino, ogni variazione delle tessere pregiudica le altre. E così al blocco dei concorsi, al prepensionamento, a due anni di fermo da pandemia, all’aumento delle piante organiche mai riempite, si aggiungono gli effetti dell’improcedibilità. È quello che Zaccaro chiama «combinato disposto»: «Segnaliamo da tempo la disaffezione per i posti di secondo grado, cioè le corti d’Appello. Non ci vuole andare nessuno e non da ora. Adesso saranno sempre più vacanti per colpa di questa nuova riforma che impone la cessazione dei procedimenti in due anni. I giudici sono disincentivati perché hanno questa tagliola che pende. Non è bello dire che un processo è improcedibile se non si riesce a fare in due anni». Q © RIPRODUZIONE RISERVATA

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Tecnologia e diritti

IL TUO SMARTPHONE TI

Cina. Telecamere di sorveglianza a Shanghai

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Prima Pagina IL CONTROLLO DA PARTE DI STATI E BIG TECH AVVIENE ACCUMULANDO DATI CHE NOI STESSI CONCEDIAMO. UNA TENDENZA ACCELERATA DA GUERRA E PANDEMIA. PARLA UN ESPERTO COLLOQUIO CON DAVID LYON DI SIMONE PIERANNI

Foto: Getty Images

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l concetto di sorveglianza si è evoluto nel tempo, passando da un atto compiuto da un’autorità - ad esempio attraverso le telecamere per la strada - a uno strumento per ottenere altri risultati. Questo cambiamento è avvenuto principalmente a causa dello sviluppo tecnologico, dell’arrivo di sistemi di tracciamento molto più evoluti che hanno finito per comportare una responsabilità anche nostra, dei cittadini. La sorveglianza oggi è diffusa e si basa principalmente sui dati che vengono raccolti, ovunque e in ogni momento, in modo talvolta subdolo, sempre più spesso “volontario” da parte nostra. La sorveglianza oggi è un processo di raccolta di dati di ogni persona, affinché con quei dati si possano produrre altri comportamenti: elettorali, su acquisti, gusti, o come reazione rispetto a una guerra ad esempio. E i sistemi basati sull’accumulo dei dati finiscono per essere convertiti in modo decisamente rapido per altre evenienze, come accaduto per la pandemia. È una delle tesi presenti nell’ultimo libro di David Lyon “Gli occhi del virus, pandemia e sorveglianza” (Luiss University Press, 2022, 16 euro). Lyon è un veterano nello studio dei sistemi di sorveglianza e ha modificato il suo sguardo a seconda di come sono cambiati i modi attraverso i quali le nostre vite sono finite al setaccio di aziende e Stati. Ma nel libro precedente - “La cultura della sorveglianza” (Luiss University Press, 2020) - Lyon aveva già evidenziato come ormai non ci siaSimone Pieranni no solo controllori istituGiornalista zionali: noi stessi siamo

ormai diventati, a nostra volta, controllori. La pandemia ha “esploso” questa prassi attraverso un evento “emergenziale” nel quale sono emerse tutte le caratteristiche dell’attuale mondo della sorveglianza. Un’emergenza che ha finito per planare anche su un’altra emergenza, come ad esempio la guerra in Ucraina. Il sistema di sorveglianza messo in piedi dallo Stato russo ha permesso una immediata repressione delle voci dissonanti rispetto all’“operazione speciale” voluta da Putin. Ma la guerra ha finito per creare anche altri cortocircuiti. Aziende spregiudicate nella raccolta di dati come Clearview hanno provato a ripulire la propria immagine fornendo i propri servizi allo Stato ucraino. Clearview è una società di sorveglianza che «raccoglie tutte le foto che trova su Internet pubblico - come riportato dalla ong Privacy International - e le archivia nel suo database. Quindi vende l’accesso al suo database a vari clienti, in particolare alle forze dell’ordine, che possono eseguire ricerche nel database caricando foto di soggetti di interesse e trovare volti corrispondenti. Questa raccolta indiscriminata di foto e altre informazioni personali, all’insaputa o al consenso delle persone, minaccia i diritti e le libertà di tutti online e offline e l’uso del database di Clearview da parte delle autorità rappresenta una notevole espansione del regno della sorveglianza, con un potenziale reale di abuso». Nel sottobosco di queste “emergenze” lavora sempre in modo incessante la raccolta dei dati, il vero petrolio della nostra epoca. «A cambiare le cose rispetto al passato», dice all’Espresso David Lyon, «sono stati i social media e le app e principalmente lo smartphone come estensione dei no17 luglio 2022

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Foto: Getty Images

Tecnologia e diritti stri corpi». Nel libro Lyon sostiene che spesso si interpreta la sorveglianza come «la condizione di essere osservati da qualcuno», ma oggi l’osservazione «non è più principalmente letterale, si esercita soprattutto attraverso i dati» e il connettore principale tra persone e sorveglianti è lo smartphone che Lyon definisce “Personal Tracking Device”. Le nostre reazioni ai fatti, come ad esempio una guerra, attraverso like, condivisioni di contenuti, commenti, sono immagazzinate e poi potenzialmente utilizzate anche per modificare la nostra percezione di quanto accade intorno a noi. Ogni evento, anche avverso, costituisce un’occasione per raccogliere dati. Nel suo ultimo libro David Lyon ricorda il tentativo di Alphabet, cioè Google, di creare un’utopia tech, una smart city a Toronto. Progetto poi rifiutato da residenti e istituzioni e infine abbandonato. Ma rimane un sintomo, secondo Lyon, del costante tentativo da parte delle corporations (e degli Stati) di mettere mano ai nostri dati. E quando capita una pandemia i dati sanitari di milioni di persone sono un bottino ambito. Da questo contesto, durante l’epidemia di Covid, è nata una sorta di ideologia, quella del “tecno-soluzionismo”, ovvero credere che la tecnologia possa essere una risposta a tutto anche quando le soluzioni non sembrano funzionare, per niente. L’esempio degli esempi, secondo Lyon, è il contact tracing, diventato, o meglio “venduto”, come “la soluzione”. «La parola fuorviante “soluzione” – spiega Lyon - iniziò a essere usata nella pubblicità verso gli anni ’90 e si basava sulla presunzione che un’azienda potesse risolvere qualsiasi problema. La malattia del “soluzionismo” ha poi preso definitivamente piede dopo l’11 settembre, quando il “problema” è stato definito come terrorismo e scoprire terroristi e complotti terroristici era diventata la priorità. Telecamere di sorveglianza, biometria, sistemi di rilevamento di ogni tipo sono diventati popolari tra le agenzie di “sicurezza” e sono state numerose le iniziative per indebolire le “minacce terroristiche” basate sull’ottenimento e l’analisi dei dati. E dato che in molti paesi la pandemia è stata definita tanto un problema di “sicurezza” quanto un problema di “salute pubblica”, sono stati adottati gli stessi tipi di approcci “solu-

PRIMA LA LOTTA AL TERRORISMO POI LA POLITICA SANITARIA HANNO GIUSTIFICATO QUESTE PRATICHE. MA IL TRACCIAMENTO HA MOSTRATO DI NON FUNZIONARE

STUDIOSO David Lyon studia da tempo i problemi della sorveglianza digitale. Il suo libro più recente è “Gli occhi del virus. Pandemia e sorveglianza” (Luiss University Press, 176 pagine, 16 euro)

zionisti”. Ma spesso mancavano di un’analisi attenta del problema, venivano testati in modo inadeguato e, ovviamente, dipendevano ancora una volta dall’adozione e dal loro utilizzo da parte delle persone. La stessa Organizzazione mondiale della sanità ha visto il tracciamento dei contatti come un dispositivo possibilmente utile, ma ha messo in guardia contro l’eccessivo affidamento su di essi, in parte per questo motivo». In un modo o nell’altro, nei paesi democratici come in quelli autoritari, il sistema di tracciamento ha mostrato limiti e in molti casi non ha funzionato per niente. E in diverse occasioni ha dimostrato di poter essere un ulteriore sistema di controllo. In alcuni paesi i dati sanitari sono finiti alle polizie locali; in altri paesi autoritari, come la Cina, il sistema di tracciamento (a sua volta adattato sul sistema di sorveglianza già preesistente) è diventato in poco tempo uno strumento nelle mani dello Stato per gestire l’ordine pubblico. Alla base di tutto, come sostiene Lyon, c’è la raccolta dei dati, come se fosse un’attività ingorda e costante a prescindere dall’esito immediato di tale raccolta. I dati vengono raccolti, ogni occasione è buona e poi si vedrà: a qualcosa prima o poi serviranno. Sui Big Data Lyon spiega che la problematica principale riguarda «gli attuali accordi di dipendenza del governo dalle piattaforme e l’ossessione delle piattaforme o di ottenere contratti governativi o di assumere effettivamente funzioni governative, attraverso le smart city, ad esempio». La gestione dei dati, poi, «è diventata essenziale per ogni sfera della vita in molti paesi e quindi la politica dei dati è diventata una delle aree più importanti per il dibattito politico. Uno dei motivi principali per cui ciò è problematico è che le disposizioni 17 luglio 2022

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LA QUESTIONE RIGUARDA I PAESI AUTORITARI COME LE DEMOCRAZIE. TUTTI DOVREMMO ESSERE COINVOLTI POLITICAMENTE PER SCRIVERE NUOVE REGOLE attuali tendono alla riproduzione e all’esacerbazione delle disuguaglianze già esistenti nella popolazione di qualsiasi paese». È una questione che ormai non riguarda più solo il concetto di privacy: «La sorveglianza produce effetti non solo individuali, ma anche profondamente sociali. La sorveglianza ci rende visibili ad altri sconosciuti in modi che non hanno precedenti, e attraverso l’analisi dei dati da parte degli algoritmi ci rappresenta anche in modi particolari, e da questo dipende anche il modo in cui veniamo trattati da aziende o istituzioni. Questa è una questione sociale e politica, motivo per cui, sebbene la privacy sia importante, dobbiamo andare oltre la privacy per cercare di ottenere più diritti nella gestione dei dati. Credo che abbiamo bisogno di un nuovo contratto 64

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In alto: una dimostrazione di Intelligenza artificiale applicata al riconoscimento facciale in una folla di persone

sociale digitale, appropriato per i tempi in cui viviamo, e arrivare ad accordi veri e consapevoli su come vengono utilizzati i dati, dove e quando. Cosa è lecito nel mondo e cosa dovrebbe essere bandito? Qualcosa del genere potrebbe essere davvero molto utile quando affronteremo la prossima pandemia globale». Già ma cosa fare nel frattempo? Secondo Lyon, «siamo in un momento di opportunità poiché la pandemia è diventata meno grave e stiamo imparando a conviverci. Molti hanno parlato in termini “apocalittici” della pandemia, sottolineandone gli effetti disastrosi. Ma “apocalisse” nella sua origine greca non riguarda solo una catastrofe ma anche la possibilità di svelare, di mettere a nudo. E la pandemia ha messo a nudo, sì, ha rivelato ancora di più: il rapido tasso di crescita di nuove forme di sorveglianza. E questo ha fatto sì che la sorveglianza sia diventata una questione pubblica importante che richiede attenzione ai nuovi danni che essa comporta. E poiché siamo tutti coinvolti nell’uso delle tecnologie, dovremmo essere tutti coinvolti, politicamente, nel superare i problemi causati da Big Data, AI, Machine Learning eccetera. Questo compito non può e non deve essere lasciato solo alla politica». Q © RIPRODUZIONE RISERVATA

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Tecnologia e diritti



I pericoli della democrazia

LIBERTÀ IL CONTAGIO DEGLI STATES

TRUMP NON È STATO SOLO UNO SBAGLIO MA IL SINTOMO DI INCERTEZZE, PRECARIETÀ E DIVISIONI. CHE DECLASSANO I DIRITTI UNIVERSALI A OPINIONI DI GAIA VAN DER ESCH

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li Stati Uniti non mi hanno mai affascinata. Da adolescente non sognavo viaggi tra i grattacieli ma in posti con culture diverse, e così dopo gli studi tra Roma, Berlino e Parigi, sono partita a lavorare in Africa e Medio Oriente, con vacanze in Asia o America Latina. Mai gli Stati Uniti. Ma mi interfacciavo con loro ogni giorno. Lavoravo su crisi umanitarie con finanziamenti europei ma anche americani. Seguivo ogni loro annuncio o decisione politica perché avrebbe avuto ripercussioni sul mio lavoro e sulle vite di milioni di persone. Mi interfacciavo con la loro politica estera e con i loro militari, per strada in Iraq o nei bar la sera. Pian piano sono poi iniziati i miei primi viaggi di lavoro tra Washington e New York. Finché un giorno, nel 2018, ho deciso di lasciare la mia posizione dirigenziale a Ginevra per ritornare studentessa, alla Kennedy school of government di Harvard. Ed è così che è iniziata la mia esperienza degli Stati Uniti dall’interno. Con i Repubblicani al gover-

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no, molti politici e funzionari democratici erano venuti ad insegnare ad Harvard - per poi ripartire dopo le elezioni del 2020 a ricoprire ruoli apicali nel governo Biden. Come direbbero in America, «I learned from the best». Con Trump e l’ascesa del populismo in Europa, si dibatteva a scuola di democrazia, populismo, diritti. Parlavano ancora con fierezza delle loro battaglie per esportare la democrazia e io non potevo non pensare alle conseguenze catastrofiche che avevo visto in Medio Oriente. Parlavano della forza della loro democrazia ed io, oltre all’autoritarismo di Trump, su cui eravamo tutti d’accordo, non capivo come non vedessero che il potere, negli Stati Uniti, venisse tramandato tra dinastie. Parlavano come se fossero il Paese dei diritti e delle libertà, quando era chiaro che esistevano quasi solo su carta - come dimoGaia van der Esch strato dal MeToo e dal Black lives matter, Manager emersi durante i miei 2 anni a Bo-


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Foto: T. Coskun - Anadolu Agency via Getty Images

La polizia blocca manifestanti pro aborto a Manhattan

ston. L’autoreferenzialità era alle stelle, e accecava tanti dal vedere e affrontare la realtà: Trump non era uno sbaglio incomprensibile – di cui ridere per non piangere – ma un segnale di incertezza, precarietà e divisioni profonde, nonché un inizio di un trend di polarizzazione che avrebbe dominato gli anni a venire. Un trend a cui bisognava rispondere, democratici e repubblicani insieme. Ritrovando il bi-partisanship che ha segnato la politica di molti Presidenti americani – quell’american dream che ha reso gli Stati Uniti il Paese più ricco e potente al mondo nel giro di pochi decenni. Il risultato di questo accecamento lo stiamo testimoniando in queste settimane: non si è riusciti a ricostruire il tessuto sociale e la divisione è ormai così radicata nelle istituzioni e partiti da non riuscire più a lavorare per il bene del Paese. I massacri di bambini non bastano a riformare (e fermare) l’utilizzo delle armi. I diritti costituzionali, come l’aborto, sono stati declassati da diritti a una questione di opinione. Le testimonianze del colpo di stato del 6 gennaio

confermano che neanche la democrazia sembra essere un ideale condiviso. Con una minoranza (tra giudici, senatori, lobby e funzionari che controllano i processi elettorali) posizionata dai Repubblicani in ruoli chiave, i Democratici non riescono a reagire e far avanzare la propria agenda. I media e la società civile provano a compensare ma con il limite che possono dire più che fare. E così gli index globali della democrazia hanno declassato gli Stati Uniti dal 2016 ad oggi: sono al livello di Panama e Romania, sorpassati dall’Argentina e la Mongolia. La più grande democrazia al mondo (almeno così si è sempre auto-percepita), che si vantava di esportare diritti ed istituzioni, sembra oggi più fragile che mai. Facendo crollare un baluardo globale sulla funzionalità e stabilità del modello democratico e lasciandoci tutti sotto shock. Cosa ci aspetta quindi? Come esperta di policy, politica estera e anche di Stati Uniti, lo scenario più probabile è una crisi della democrazia americana per gli anni a venire. Come analizzato per Foreign Affaires da Steven Levitsky, professore di Governo ad Harvard, ci si deve aspettare un’alternanza tra democrazia e «autoritarismo competitivo» – con elezioni ma anche abusi di potere da parte dell’esecutivo. Con un ruolo cruciale dei media, della società civile e delle parti ancora indipendenti del legislativo nell’arginare questa alternanza e far sì che anche se gli Stati Uniti non sono più un porto sicuro per la democrazia, rimangano perlomeno inospitali all’autoritarismo vero e proprio. Nel 2020 pubblicavo un articolo sulla Kennedy school review, intitolato “Polarizzazione e speranza: cosa gli Stati Uniti possono imparare dall’Italia”. Come millennial, parlavo delle divisioni valoriali in cui sono cresciuta e degli abusi dell’era Berlusconi, e suonavo l’allarme sul fatto che sia un circolo vizioso difficile da spezzare: speranza e visione comune sono gli ingredienti imprescindibili per farlo ma in Italia nessuno è riuscito ancora. Oggi scrivo questo pezzo in senso contrario: per far riflettere noi su cosa possiamo imparare dagli Stati Uniti. L’America è l’esempio lampante di qual è lo scenario che ci aspetta se non saremo capaci di cambiare passo. Mai prendere i nostri diritti per certi, dall’aborto che rimane spesso su carta, al razzismo e sfruttamento dei migranti che dilagano in Italia, fino al diritto alla cittadinanza che neghiamo a tante e tanti (nei fatti) italiani: dobbiamo cambiar passo. E mai prendere la nostra democrazia per un dato di fatto: è già disfunzionale e con le elezioni in vista rischiamo di vedere una polarizzazione partitica che amplierà divisioni nelle nostre case e comunità piuttosto che colmarle, portandoci pericolosamente vicini allo scenario americano. Sta quindi ad ognuno di noi diventare un argine, organizzandoci per eleggere nel 2023 una classe politica capace di lavorare insieme per il bene del Paese, spezzando questo circolo vizioso come unica via per proteggere la Q nostra democrazia. © RIPRODUZIONE RISERVATA

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Afghanistan

TALEBANI L’ANNO NERO DEL TERRORE RIVENDICANO IL CONSENSO DEL POPOLO E LA PRESA DI KABUL CONTRO IL CAOS. E INTANTO SOFFOCANO IL DISSENSO CON IL SANGUE E LA PAURA DI GIULIANO BATTISTON DA KANDAHAR

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l vecchio regime aveva il sostegno dell’America, ma non quello della gente. Per questo era debole. La nostra resistenza è stata forte grazie al sostegno della popolazione: rappresentiamo 40 milioni di afghani». La versione dei Talebani, tornati al potere il 15 agosto scorso dopo vent’anni di guerriglia, è nelle parole di Noor Ahmad Saeed. Barba lunga, profonde occhiaie e un abito bianco, è il responsabile del dipartimento per l’Informazione e la Cultura della provincia di Kandahar. Il suo ufficio non è lontano da Shaheedan chowk, la “rotonda dei martiri” e una delle vecchie porte di Kandahar, città-simbolo nella storia del Paese. I martiri della rotonda sono i mujahedin che, nell’Ottocento, combatterono contro gli inglesi. Per i Talebani, non sono poi così diversi dai militanti del gruppo che quasi un anno fa hanno cacciato gli eserciti

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occupanti. Rendendo possibile la restaurazione dell’Emirato islamico, già proclamato nel 1996 proprio qui a Kandahar dallo storico leader mullah Omar e poi crollato sotto le bombe dei cacciabombardieri Usa, nell’inverno 2001. Quella del mawlawi Noor Ahmad Saeed è una voce unica e tipica. Unica per l’adesione precoce al movimento: «Sono passati così tanti anni che non mi ricordo bene. Forse 25, forse 28 anni fa. Gli anni non contano: conta l’impegno, la militanza, l’obbedienza». Tipica perché nelle sue parole passano molti dei temi che, ci siamo accorti viaggiando da Mazar-e-Sharif a Ghazni, da Herat a Lashkargah, da FaGiuliano Battiston rah a Kabul, ricorrono tra i giornalista funzionari dell’Emirato,


Foto: G. Battiston

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ora liberi di rivendicare, di gridare vittoria e spiegare le proprie ragioni. Noor Ahmad Saeed la prende larga. È un’altra pratica ricorrente: per spiegare quel che è venuto dopo - i 20 anni di guerriglia, i tremila morti civili ogni anno, gli 80 mila soldati afghani uccisi, le stragi nelle città - molti esponenti del movimento jihadista partono dal 2001, l’anno spartiacque. Offrendo ricostruzioni storiografiche contestabili, ma istruttive. Per Saeed nel 2001 tutto andava bene, «il Paese era unito dopo anni di conflitti interni, non c’erano divisioni tra Nord e Sud, la sicurezza garantita. Ma poi gli americani non hanno voluto negoziare su Osama bin Laden», il responsabile degli attentati dell’11 settembre 2001 architettati in Afghanistan, «e hanno distrutto l’Emirato, portando guerra e distruzione contro il popolo: tutta colpa del presidente Bush e di Rumsfeld», il segretario alla Difesa Usa che

Donne attraversano l’area di un bar ritrovo di Kabul

l’1 maggio 2003, di fronte ai soldati statunitensi a Kabul, dichiara «conclusi i combattimenti maggiori», annunciando «un periodo di stabilizzazione e ricostruzione». Per Rumsfeld è stabilità e ricostruzione, per il religioso di Kandahar un’inutile farsa: «Gli americani hanno messo al potere i signori della guerra, hanno edificato un sistema che provocava uccisioni e stupri e l’hanno chiamato democrazia. Per capire che la resistenza dei Talebani è la resistenza del popolo afghano, ci hanno messo venti anni. Poi se ne sono andati». L’ultimo soldato straniero ad abbandonare il Paese è il maggiore Chris Donahue, comandante della 82esima divisione aerea degli Stati Uniti. Nella notte tra il 30 e il 31 agosto 2021 il portellone del cargo militare Boeing C-17 si chiude dietro di lui, nel buio dell’aeroporto di Kabul, dove nei giorni precedenti era andato in scena lo spet17 luglio 2022

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Afghanistan tacolo-simbolo della debacle ventennale: migliaia di afghani costretti a calpestarsi e a trascorrere giornate intere nei canali di scolo pur di lasciare un Paese dal futuro più incerto che mai. Due settimane prima, i Talebani erano entrati a Kabul. Anche in questo caso, la loro versione è pressoché unanime. La si sente a Kandahar, culla del movimento, ma anche a Farah, a diverse ore di strada infuocata più a ovest, una delle province che i soldati italiani, per anni responsabili dell’area occidentale rivolta verso l’Iran, non sono mai riusciti a “stabilizzare”. Qui la voce ufficiale del movimento è del mawlawi Abdul Hai “Sabawoon”, un religioso di bassa statura e dallo sguardo sospettoso. Prima reticente, dopo ore di colloquio, tazze di tè e una gita in città tra strade in ricostruzione e resti archeologici da tutelare, diventa loquace. «Non volevamo entrare a Kabul, ma siamo stati costretti a farlo: l’alternativa era il caos», spiega Sabawoon con parole simili a quelle che avevamo sentito pochi giorni prima a Herat: «Lo abbiamo fatto per proteggere la popolazione, non c’era più ordine e controllo». Una versione che combacia con quella di Zalmay Khalilzad, l’ex inviato speciale per la riconciliazione in Afghanistan del governo Usa. L’uomo che ha condotto i negoziati che hanno portato all’accordo di Doha tra americani e Talebani del febbraio 2020. Presentato come preludio alla pace, si limitava a garantire la sicurezza dei soldati americani nel ritiro. Tante concessioni ai Talebani, la garanzia più importante per gli americani, il governo di Kabul tagliato fuori: una vera manna per Haibatullah Akhundzada, l’Amir ul-mumineen, la guida dei fedeli e leader supremo dei Talebani. I quali, secondo Khalilzad, il 15 agosto 2021 si trovano spiazzati. «Fino alla fine», ha so-

Il luogo della prima di due esplosioni in una scuola maschile a Kabul, nell’aprile scorso, durante un attacco terroristico in cui hanno perso la vita 100 persone

MENTRE EMERGONO LE PROVE DI ESECUZIONI DI MASSA, HANNO IMPOSTO L’APARTHEID ALLE DONNE. DA 300 GIORNI, PER LORO, SCUOLE VIETATE 70

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stenuto in un’intervista al Financial Times, «avevamo un accordo con i Talebani per non farli entrare a Kabul». Il presidente Ashraf Ghani sarebbe dovuto rimanere al suo posto fino a quando non si fosse raggiunto un accordo sul nuovo governo. Ghani, però, il 15 agosto fugge. E il mullah Abdul Ghani Baradar, artefice dell’accordo di Doha, chiama il generale statunitense Frank McKenzie, proponendogli di assumersi la responsabilità di tutta Kabul o del solo aeroporto. Il presidente Biden sceglie la seconda ipotesi. I Talebani conquistano Kabul. «Per volere del popolo afghano», ribadiscono ora i funzionari dell’Emirato da Herat a Kandahar. È su questo punto, e su quello che viene dopo, una volta inaugurato il governo provvisorio, che le versioni non combaciano. A divergere non sono soltanto le versioni di Kabul e di Washington, che ha congelato i fondi della Banca centrale afghana, di cui circa 7 miliardi custoditi alla Federal Reserve di New York, e portato all’isolamento del sistema bancario ed economico, finito sotto sanzioni. Ma quelle tra i Talebani e buona parte della società, soprattutto nelle aree urbane. «Consenso? Ma quale consenso, quale rappresentanza del popolo! Il loro potere si regge sulla violenza, sulle armi, sulle intimidazioni». Così ci dice un’interlocutrice a Kandahar. Donna di mezza età,


Foto: K. Hayeri - The New York Times / Contrasto, D. Etter - Redux / Contrasto

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anni di attivismo tra associazioni della società civile e organizzazioni umanitarie, non vuole più metterci la faccia, preferendo l’anonimato. A dispetto dell’amnistia proclamata nel settembre 2021, nell’Emirato si rischia troppo. Gli spazi di libertà si sono ristretti, fin quasi all’asfissia. Venire rintracciati è molto più facile. I rischi sono enormi. Non vale solo a Kandahar, dove risiede con grande segretezza la “guida dei fedeli” Haibatullah Akhundzada, che qualche giorno fa, in una grande assemblea a Kabul, ha rivendicato l’autarchia come via privilegiata per l’Emirato. Vale ovunque. Anche al Nord. A Mazar-e-Sharif, per esempio, nella provincia settentrionale di Balkh, abbiamo incontrato attiviste costrette a rimanere in casa per timore di ritorsioni; giornalisti divenuti elettricisti per evitare guai; giovani poeti sbattuti in carcere per aver manifestato per strada; genitori alla ricerca dei propri figli, prelevati da uomini del nuovo regime e spariti. A Jalalabad, nella provincia orientale di Nangarhar, drenando un canale in cui era precipitato un ragazzo, i residenti hanno trovato cento corpi in decomposizione, qualcuno senza testa, altri legati a pesanti mattoni: secondo un recente rapporto di Human Rights Watch, sono le vittime della campagna dei Talebani contro i presunti membri dello Stato isla-

Due ragazze vicino a un negozio a Kabul. Alle donne è vietata l’istruzione: da 300 giorni per loro è scattata la chiusura delle scuole

mico. Tra le minoranze non pashtun, l’etnia maggioritaria del Paese e quella da cui provengono i Talebani, abbiamo registrato molti timori, oltre alle denunce su terreni e case sottratti con la forza e sulla distribuzione iniqua degli aiuti della comunità internazionale. Nelle aree rurali, per esempio nella provincia meridionale dell’Helmand, non mancano contadini che apprezzano la fine delle ostilità, delle incursioni aeree, del conflitto intorno e sui loro terreni. Ma la pretesa del mawlawi Noor Ahmad Saeed, responsabile del dipartimento dell’Informazione di Kandahar, non regge: «Rappresentiamo 40 milioni di afghani», ripete convinto. Di fronte alle nostre obiezioni, corregge il tiro: «In un governo, non tutti possono essere rappresentanti. Funziona così anche in America, con i democratici e i repubblicani: è normale». A non essere rappresentate, però, qui in Afghanistan sono le donne, per le quali i Talebani hanno edificato un vero e proprio apartheid di genere. Ne sono un simbolo le scuole superiori, chiuse da circa 300 giorni. Da quasi un anno le studentesse dagli 11-12 anni in su non possono andare a scuola. È l’unico caso al mondo, ma al mawlawi Nawed non sembra così anormale: «Risolveremo presto anche questo problema», assicura. Q © RIPRODUZIONE RISERVATA

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Mediterraneo

LA TUNISIA CAM

Dal colpo di mano del 25 luglio 2021 da parte di Kais Saied, due carri armati presidiano Avenue Habib Bourguiba, luogo simbolo delle manifestazioni politiche tunisine

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BIA. IN PEGGIO IL 25 LUGLIO SI VOTA LA NUOVA COSTITUZIONE ULTRA PRESIDENZIALE VOLUTA DA KAIS SAIED: L’ATTO FINALE CHE SEPPELLISCE LA STAGIONE NATA CON LA RIVOLUZIONE DEI GELSOMINI DI MATTEO GARAVOGLIA DA TUNISI FOTO DI GIOVANNI CULMONE

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ei ritmi lenti di Tunisi dove la vita quotidiana viene scandita principalmente dalle temperature a tratti insopportabili e da un clima allegro legato alla festa del sacrificio dell’Eid al-Adha, c’è un particolare che emerge in un Paese che si presta a porre fine a undici anni di democrazia: la totale assenza di qualsiasi propaganda elettorale. Nelle lunghe strade trafficate della capitale, nelle vie principali o nelle piazze che nel 2011 videro migliaia di persone invocare la fine del regime autoritario di Zine El-Abidine Ben Ali, del referendum costituzionale previsto il prossimo 25 luglio non c’è traccia. Eppure si tratta di un appuntamento destinato a cambiare profondamente gli equilibri del piccolo Stato nordafricano per i prossimi decenni. I tunisini sono chiamati a votare una nuova Costituzione dopo quella promulgata nel gennaio 2014 a seguito della cosiddetta Rivoluzione dei gelsomini. All’epoca, il testo venne accolto come «il più democratico e aperto del mondo arabo». Oggi viene messo in discussione a favore di un progetto ultra presidenziale, pensato e proposto da un uomo che da un

anno esatto ha il controllo totale sulla Tunisia: il presidente della Repubblica Kais Saied. Sconosciuto ai più fino alle elezioni del 2019, è stato eletto sulla scia di una crisi politica ed economica strutturale che ancora oggi sta interessando il Paese. Una crisi tangibile, dalle regioni più ricche della capitale e della costa a quelle più marginalizzate dove iniziarono le proteste di massa del 2011. Il Mercato centrale di Tunisi rappresenta l’epicentro del deterioramento delle condizioni economiche e sociali della popolazione. I prezzi nel corso degli anni sono aumentati a vista d’occhio, lo si nota passando dalle bancarelle del pesce a quelle della carne diventati ormai prodotti di lusso. Il malcontento dei tunisini è diffuso e mitigato soltanto da una persona: Kais Saied. «Sono contento della nuova Costituzione, il nostro presidente ha fatto bene. Gli ultimi undici anni sono stati catastrofici, la gente qui fatica a mangiare. Ci sono ancora dei problemi da risolvere ma la direzione è quella giusta», sono le parole di Bechir Marzouk, in pensione dopo una vita di lavoro in Francia e impegnato a Matteo Garavoglia fare le ultime compere Gornalista prima che il Paese si 17 luglio 2022

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Mediterraneo fermi per l’Eid al-Adha. Sguardo glaciale, linguaggio del corpo serioso e distaccato, nonostante i suoi 64 anni e un passato da docente di diritto costituzionale all’università La Manouba di Tunisi, Saied è il volto nuovo della politica tunisina. Nel 2019 si assicurò le elezioni e un posto al sole al palazzo di Cartagine, sede della presidenza della Repubblica, grazie a una campagna estremamente sobria e chiara: lotta alla corruzione, aiuti alle fasce più povere della società, lotta ai partiti che avevano impoverito la Tunisia e una nuova forma statale che desse più centralità alle regioni svantaggiate ma con una leadership forte basata a Tunisi. Dopo due anni di aperti contrasti con il governo di Hichem Mechichi e sull’onda lunga di una crisi sanitaria ed economica che stava travolgendo il Paese, il 25 luglio 2021 con un colpa di forza arbitrario il presidente della Repubblica ha sciolto l’esecutivo, appoggiato dal partito di ispirazione islamica Ennahda, congelato il Parlamento e di fatto cominciato a governare con pieni poteri dopo l’applicazione dubbia dell’articolo 80 della Costituzione del 2014 che permette di imporre misure eccezionali al Paese in momenti di «pericolo imminente per la sicurezza dello Stato». Da allora ha programmato un referendum costituzionale il 25 luglio ed elezioni anticipate il 17 dicembre 2022, anniversario dell’immolazione di Mohamed Bouazizi nel 2010 che diede il là alle cosiddette Primavere Arabe in gran parte del Nord Africa e Medio Oriente. In seguito ha nominato un governo senza poteri reali, ha azzerato il Consiglio superiore della magistratura, arrestato attivisti, rappresentanti dei partiti politici con cui era in contrasto e imposto le dimissioni a 57 giudici. Il 30 giugno Saied ha ufficialmente presentato la nuova bozza costituzionale. «Quello che sorprende in questo testo non sono i riferimenti all’Islam o al ruolo della famiglia, i quali sono stati tolti dall’articolo 1 e posizionati in altre parti per non scontentare partner regionali come gli Emirati Arabi Uniti o l’Arabia Saudita. Mi stupisce che ci siano articoli sulla disciplina parlamentare, i deputati saranno controllati da vicino. Dal 25 luglio il presidente avrà in mano tutti i poteri, esecutivo, legislativo e giudiziario. Sarà al 74

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ELETTO SULLA SCIA DELLA CRISI POLITICA ED ECONOMICA, IL CAPO DELLO STATO DA UN ANNO HA ASSUNTO IL PIENO CONTROLLO DI UN PAESE STREMATO La via principale della Medina di Tunisi, luogo affollato sia da turisti che da locali

centro di tutto e preponderante nella nomina delle istanze di controllo», commenta Vincent Geisser, islamologo e politologo francese. Kais Saied diventerà così il capo supremo delle forze armate, potrà definire la politica generale dello Stato, nominare il governo senza approvazione del Parlamento e proporre testi legislativi che dovranno essere esaminati «con priorità assoluta». Nonostante l’inserimento di un’Assemblea nazionale delle regioni oltre al Parlamento già in essere, emerge il ruolo estremamente ridotto che avranno le due Camere. La vibrante società civile formatasi dopo la cacciata di Ben Ali nel 2011 ha reagito preoccupata temendo per il proprio futuro. La popolazione invece rimane a favore della riforma presidenziale, come testimoniano le parole di Ibrahim Sayah, fruttivendolo da 30 anni al Mercato centrale della capitale: «Cos’altro poteva fare


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il nostro presidente? Sono dieci anni che ci parlano di Rivoluzione ma non c’è mai stata in Tunisia. C’è una crisi economica mondiale e i nostri partiti non hanno fatto niente. Qui i prezzi sono aumentati e la colpa è solo degli islamisti». Gli islamisti di cui parla Ibrahim Sayah hanno un nome e un volto molto chiaro: si tratta del partito Ennahda, il quale si ispira alle posizioni dei Fratelli musulmani, guidato dall’ex presidente del parlamento Rached Ghannouchi. Una forza politica che dalla cosiddetta Rivoluzione dei gelsomini del 2011 è stata al centro degli equilibri istituzionali del Paese e considerata la prima causa del degrado economico della Tunisia. Oltre a una forte richiesta di democrazia, i tunisini si aspettavano importanti miglioramenti da un punto di vista economico e una maggiore dignità sociale che non sono mai arrivati. Anzi. Dal 2011 le casse dello Stato si sono progressivamente svuotate, il tasso di disoccupazione ha superato il 16 per cento e la guerra in Ucraina ha impattato enormemente sul tasso di inflazione e l’importazione di materie prime come il grano. Per questo motivo il governo di Najla Bouden Romdhane nominato da Kais Saied ha approfondito i colloqui ufficiali con il Fondo monetario internazionale (Fmi) per una nuova linea di prestiti da 4,2 miliardi di dollari, la quarta in pochi anni: «In Tunisia c’è una crisi strutturale legata al modello di sviluppo che è in corso da 30 an-

Mercato all’aperto di Rue Sidi El Bechir a Tunisi

ni. Recentemente ci sono stati due shock esterni, la crisi sanitaria e l’invasione in Ucraina della Russia. Quello che è determinante oggi sono i negoziati con l’Fmi. Dalle bozze che sono uscite, il governo sta trattando su un piano economico che non conosce nessuno. Si prevede un congelamento delle assunzioni nella funzione pubblica, la sospensione dell’aumento dei salari e una progressiva cancellazione delle sovvenzioni statali sugli idrocarburi e i beni di prima necessità a favore di aiuti mirati alle fasce più povere. A perdere sarà soprattutto la classe media che sta già soffrendo molto. L’impatto sarà enorme», è l’analisi di Amine Bouzaiene, economista dell’osservatorio democratico Al Bawsala. Il presidente della Repubblica è dunque chiamato a rispondere urgentemente alla crisi economica del Paese, il vero fattore di instabilità che promette di riportare i tunisini a manifestare, come conclude il politologo Geisser: «La forza del presidente è la debolezza degli attori politici. I partiti che sono stati esclusi in quest’ultimo anno non hanno la capacità di unirsi a protestare. Il regime che si sta creando non è aperto a negoziare. Nei prossimi mesi la disillusione della popolazione potrebbe incontrare una risposta securitaria e di repressione da parte dello Stato». Oggi il consenso di Kais Saied rimane alto, attorno al 70 per cento, e il responsabile di Cartagine è visto dai tunisini come l’ultima ancora di salvezza. Al netto della repressione già in corso nel Paese, la politica e i diritti civili in questo momento sono diventati un aspetto secondario rispetto all’urgenza legata all’economia. Tuttavia, sempre al Mercato centrale di Tunisi, c’è chi mostra reali inquietudini riguardo al futuro della Tunisia. Come denuncia Amani Mkaouer, attivista per i diritti umani in una Ong locale: «Siamo molto spaventati, da quello che vediamo e leggiamo, il rischio è di entrare in una nuova dittatura. Io sono già stata arrestata dalla polizia durante le proteste del 2021. Le persone hanno paura che tornino gli islamisti e temono per le proprie condizioni economiche. Non penso che abbiano capito che a rischio c’è il futuro democratico della Tunisia». Q © RIPRODUZIONE RISERVATA

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CARTA L’INCHIOSTRO GIOVANE IN CONTROTENDENZA, SFIDANDO GLI STEREOTIPI, GLI UNDER 30 RISCOPRONO LA STAMPA. E NASCONO REALTÀ INDIPENDENTI DA MIGLIAIA DI COPIE DI ERIKA ANTONELLI

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uò essere una postura o un punto di vista il nome che Edoardo Bucci e Tommaso Salaroli, entrambi poco più che ventenni, hanno scelto di dare al loro progetto editoriale nel 2016: Scomodo. La redazione under 25 più grande d’Italia fino a oggi ha coinvolto mille tra ragazze e ragazzi, stampato 315 mila copie e ne ha distribuite gratuitamente quasi 280 mila. In controtendenza nell’era di Internet e della velocità, ha scelto di fare informazione con lo strumento considerato da molti ormai un retaggio del passato: la carta. Non è l’unica. Tutti i protagonisti di questo articolo, giova-

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ni, moltissimi ancora al liceo, hanno fatto questa scommessa. Convinti del fatto che l’inchiostro sulle pagine sia ancora il modo migliore per spiegare il mondo ai loro lettori. «Volevamo coniugare senso di comunità, impegno sociale e politica», racconta Bucci. Per non appiattire la complessità del reale e anzi restituirla così com’è. «Siamo intenzionati a fare il massimo per raccontare la frammentazione di determinate dinamiche, un aspetto spesso mancante nel mondo dell’informazione. Oggi, in parte, il giornalismo prefeErika Antonelli risce polarizzare la discusGiornalista sione senza scendere nel


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dettaglio. Nel nostro piccolo pensavamo invece di rendere giustizia alla profondità, riportandola a chi legge». Con articoli lunghi, di approfondimento. «Abbiamo scelto di fare un periodico non solo per la forma di scrittura o il tipo di contenuti che è possibile trattare, ma anche per il lavoro che c’è alla base. Le connessioni tra le persone, il giusto tempo per fare bene e approfondire». La redazione è composta da 50 tra collaboratori e redattori, che arrivano a 200 se si contano anche i contributi per l’online. Perché Scomodo non è fuori dal suo tempo, ha un sito Internet ed è presente sui social. Solo, crede che il modo migliore per capire e far capire la realtà passi attraverso le pagine di un giornale. «Ci muoviamo anche sul web, ma la carta ci

Scomodo, realtà romana, nata nel 2016 è fatta da una redazione ampia che si ritrova come una comunità capace di fare rete. Nell’altra pagina, dall’alto la redazione di Quelli che Ivrea, un giovane lettore di Scomodo, un incontro promosso dalla rivista e la redazione

permette di costruire una dimensione di lettura nuova, soprattutto per quella parte del nostro pubblico, i liceali, che usa spesso il cellulare. Il cartaceo è in grado di creare una rete con i territori, facendo nascere lì una redazione e alimentando il dibattito». Non a caso, il loro motto è «mettiti scomodo». Bucci lo spiega così: «Rimanda a tante cose. All’atteggiamento verso la società e all’autonomia dal punto di vista editoriale. Nel tempo, ognuno gli ha dato il suo significato, quello più importante è di non accomodarci e privilegiare l’azione e l’impegno». Per questo, secondo Bucci e Salaroli, la scrittura ha anche una funzione educativa. «Cerchiamo di fare un percorso di crescita con gli adolescenti che hanno voglia di scrivere e il mensile è 17 luglio 2022

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il mezzo ideale. Si costruisce in modo lento e si presta a momenti ampi di confronto con i ragazzi, offrendogli la possibilità di migliorare, essere affiancati da persone più grandi». È lo stesso principio da cui muove Zainet, il laboratorio giornalistico di media literacy dedicato alle scuole superiori italiane. «La rivista che facciamo ha un obiettivo più profondo del dare voce agli studenti o creare un giornalino scolastico nato dai giovani per i giovani. Vogliamo fornire loro gli strumenti per orientarsi nel mondo dell’informazione, imparare a gerarchizzare le notizie nell’era dei social network», dice Chiara Di Paola, caposervizio e tutor. Zainet produce un mensile spalmato però su nove pubblicazioni per seguire i ritmi scolastici. Coinvolge quasi tremila scuole e conta 651 giovani reporter. Gaia Canestri, 18 anni, è una di loro. È molto legata al suo primo articolo su carta, dedicato a sua madre infermiera e uscito durante il picco della pandemia. «All’inizio non era stato concepito per venire pubblicato, poi la mia professoressa mi ha spinto a condividerlo. Ci tengo molto». Vorrebbe diventare giornalista e ama fare interviste «perché è affascinante dialogare con chi stimi e riuscire a farlo senza difficoltà». Anche Greta Borgonovo, 19 anni, non esclude di lavorare con la scrittura in futuro. «Trovo interessante parlare di attualità, parità di genere e politica, perché è un buon modo per informarsi. La carta la adoro fin da piccola, ho tantissimi libri in camera e dei giornali mi piace il fatto che rimangano». La stessa passione che ha spinto Lorenzo Chiaro a creare il suo progetto editoriale, 78

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Edera. «Da piccolo mio nonno mi aveva abbonato alle riviste cartacee. Mi piace sfogliarle, guardare le foto, leggere le inchieste e i reportage. All’università ho pensato di provare a farne una io, magari affiancato da altri giovani. Mi sono confrontato con il mio amico, Enrico Tongiani, ed eccoci qui». Secondo Chiaro «è la carta a rendere il progetto concreto, reale. Il fatto che si possa trovare in giro e sia reperibile in edicola. La cosa bella è che tutti i giovani under 30 possono scrivere su Edera, ed è una soddisfazione. Siamo nati cinque anni fa, quando il cartaceo affrontava uno dei suoi momenti peggiori. Questo ci ha stimolato ancora di più a cercare di rinnovarlo». Già dal nome, suggerito da una studentessa di Agraria durante una delle prime riunioni. «La nostra frase è “la cultura cresce ovunque”, proprio come fa questa pianta. Sulla nostra rivista infatti spaziamo raccontando di musica, sport, cinema, attualità. E poi l’edera cresce velocemente ed è difficile da tagliare, una metafora della nostra attività». In abbonamento, il periodico arriva in tutta Italia e in alcuni casi anche fuori. Ma è radicato sul territorio di Firenze e città metropolitana, perché è lì che i ragazzi trovano spunti per le storie da raccontare e consegnano fisicamente le copie alle edicole. Sulla dimensione locale ha puntato anche Quello che Ivrea, dal nome del comune pie-


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REDAZIONI

montese in cui è nato il progetto. Diviso in due fasi, una campagna con l’obiettivo di raccogliere pareri e voci dei giovani sulla città e i suoi spazi e la loro successiva trasposizione sul giornale, creato da una redazione under 30. «Abbiamo pensato alla carta perché è qualcosa di durevole e può essere consultata più volte», spiega Giulia Serracchioli, operatrice culturale. Raccontare il luogo in cui vivono ha permesso ai venti ragazzi coinvolti di esprimere il loro punto di vista e costruire relazioni tra di loro. «Il fil rouge è stata la città, attorno a cui abbiamo costruito i racconti. Un altro numero, invece, ruotava attorno a come la pandemia ha cambiato il mondo dei giovani», aggiunge un’altra operatrice, Chiara Luna Targhetta. Debora Romano, 26 anni, laureata al Dams, ha deciso di scrivere per Quello che Ivrea per provare qualcosa di nuovo. «Aspettavo da tanto un’attività che coinvolgesse i miei coetanei. Mi è piaciuto fare gruppo con persone accomunate dagli stessi miei interessi, la passione per la creatività, per la scrittura. Volevo mettermi alla prova, ho studiato cinema ed ero entusiasta all’idea di scrivere qualcosa che fosse davvero mio». Francesca Zanetto, 17 anni e iscritta al liceo artistico, invece ha trovato nella redazione lo stimolo per guardare Ivrea con occhi nuovi. «Già il progetto di per sé rende più vivibile la città perché mi fa

Lettura in classe di Zainet, il laboratorio giornalistico di media literacy dedicato alle scuole superiori italiane. Al centro, processi di stampa di Quello che Ivrea. Nell’altra pagina, una iniziativa promossa da Edera

venire voglia di uscire per realizzarlo. E costituisce un’occasione per spunti e riflessioni. Se c’è qualcosa che non ti piace infatti non lo tieni per te, lo comunichi. Si crea una sinergia con gli altri e magari le cose cambiano. Condividiamo per riuscire ad agire in maniera collettiva». Poi aggiunge: «Ho avuto modo di conoscere tante belle persone, con voglia di fare. Sono appassionata di storytelling, dell’idea di rendere visivo il comunicare. Penso che raccontare quello che vivo, la mia esperienza e i luoghi che abito sia quello che voglio fare nella vita. A Quello che Ivrea sono arrivata perché pensavo di non saper comunicare con gli altri. Oggi, credo di aver imparato a farlo meglio». Sul perché il mezzo ideale sia la carta ha le idee chiare: «È un modo di trasmettere l’esperienza con diversi sensi, la vista, il tatto, l’odore. E poi il cartaceo rimane, funziona come “memento”. Una rivista è sempre lì. La vedi una volta e non ti incuriosisce, la seconda può darsi che ti avvicini a guardare di cosa si tratta. Il gusto di avere tra le mani un oggetto da sfogliare non si batte». E allora, “scomodo” non è la postura che hanno scelto solo i fondatori della rivista che porta questo nome, ma l’atteggiamento di tutti i giovani che hanno deciso di credere in un nuovo progetto editoriale. Che è partito da uno degli strumenti più antichi del mondo, la carta, provando in parte a reinventarlo. Per raccontare, analizzare, informarsi. Senza appiattirsi sulle semplificazioni, ma guardando alla complessità e accettando la sfida di restituirla a chi legge. Sarà pure scomodo, ma da lì la vista è migliore. Q © RIPRODUZIONE RISERVATA

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L'estate in bilico

Le vacanze

intermittenti Ferie brevi, a budget ridotto, col rischio Covid e di voli cancellati. Gli italiani riprendono a viaggiare in uno scenario di grande incertezza. E gli scrittori portano parole nuove di Emanuele Coen illustrazione di Emiliano Ponzi


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L'estate in bilico

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o dicono i numeri, nell’estate della grande incertezza gli italiani hanno ricominciato a viaggiare. Vacanze più brevi, a budget ridotto, soprattutto in Italia. Ma incombono il rischio Omicron 5, l’inflazione che gonfia le spese per hotel, aerei, benzina e ristoranti, l’inquietudine per la guerra, l’imprevedibilità da cambiamenti climatici, i voli cancellati all’ultimo minuto. Quello che i numeri non dicono è che dopo due anni e mezzo di Covid nulla sarà più come prima. Il ritorno alla normalità, ammesso che sia auspicabile, resta una chimera. Chi parte è combattuto tra la frenesia di prenotare un biglietto e lo spaesamento per un gesto divenuto trasgressivo. L’esplorazione di questa terra incognita ha bisogno di un immaginario, nuove parole per riconnettersi con il pianeta. Editori, scrittori, autori di reportage e guide turistiche calibrano il tiro per raccontare luoghi rimasti uguali solo in apparenza. Libri scritti dopo la deflagrazione del Covid, oppure subito prima, narrano città e territori fino a ieri snobbati

“In questo periodo abbiamo l’occasione di conoscere meglio l’Italia, entrare in contatto con la comunità, interrogarci sulla sostenibilità ambientale dei viaggi” perché troppo domestici, riscoprono le grandi capitali d’Europa, itinerari slow in bici e a piedi, illuminano luoghi ormai irraggiungibili a causa della guerra. «L’ideale sommo del viaggiare è che il viaggiatore cambi. I viaggi che soddisfano questa aspirazione sono stancanti e irti di difficoltà, richiedono tempo e fatica. Dobbiamo ribellarci alla perdita di incanto del mondo», esorta nel suo libro “Viaggiare istruzioni per l’uso” (Edt, traduzione di Enrico Ganni) Ilija Trojanow, scrittore, saggista e poeta bulgaro-tedesco. Secondo Trojanow il viaggio come tecnica culturale era agonizzante ben prima della pandemia, sopraffatto dalle regole di un sistema basato sull’omologazione. «Dobbiamo restituire significato alla parola viaggio. Con il turismo 82

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ipertrofico tutto viene banalizzato, invece basta visitare piazza San Marco all’alba per evitare la folla», dice Angelo Pittro, direttore di Lonely Planet Italia, che organizza UlisseFest, la Festa del Viaggio (a Pesaro fino al 17 luglio). «Il periodo che stiamo vivendo offre una grande occasione per conoscere meglio l’Italia, entrare in contatto con la comunità, interrogarsi sulla sostenibilità ambientale dei viaggi», aggiunge Pittro. Non a caso, per la prima volta la casa editrice ha pubblicato la guida sulla Calabria e un libro in sintonia con i tempi: “In viaggio con i numeri” (Edt) di Silvia Benvenuti, dieci passeggiate per mateturisti curiosi in giro per l’Italia. Per chi non lo sapesse un mateturista è un viaggiatore (pare siano sempre più numerosi) che ama osservare paesaggi, opere d’arte, capolavori dell’architettura con sguardo matematico, che gli consente di vedere, ad esempio, le circonferenze concentriche e le linee invisibili del caravaggesco “Martirio di San Matteo”, oppure le simmetrie rotazionali della Torre di Pisa. Chi trova la matematica indigesta può ripiegare su soluzioni meno impegnative e seguire Francesco Rutelli, romano doc con un passato di sindaco della capitale, oggi presi-


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Foto: GettyImages (4), Rosebud2, Agf

A lato, in senso orario: New York; Parigi; le Dolomiti. A destra, dall’alto: Lauren Elkin; Enrico Brizzi; Jhumpa Lahiri

dente Anica. Il suo libro “Roma, camminando” (Laterza), diciotto passeggiate tra centro e periferia, è in classifica da settimane: negli inconsueti panni di flâneur l’ex primo cittadino guida i lettori, anche dal vivo con tanto di megafono e comitiva al seguito, dal Tevere a Torpignattara, dal Ghetto ebraico alla via Ostiense, passando per i luoghi della politica dell’antica Roma. E dalla capitale si dipana anche il libro di Tim Parks “Il cammino dell’eroe” (Rizzoli, trad. di Eleonora Gallitelli), un viaggio che lo scrittore di Manchester, nel nostro Paese da oltre quarant’anni, ha intrapreso con la moglie Eleonora sulle orme dell’eroe dei due mondi, quando decide di non arrendersi dopo il fallimento della Repubblica romana. Nel 1849 parte alla testa di un gruppo di volontari per proseguire altrove la lotta per l’unità d’Italia, risale l’Appennino insieme ai suoi fedelissimi, incalzato da francesi e austriaci: 640 chilometri tra Lazio, Umbria, Toscana ed Emilia-Romagna, fino a Ravenna. E a proposito di affinità elettive con la nostra lingua, il 13 settembre uscirà il libro “Racconti romani” (Guanda) di Jhumpa Lahiri, che ha scelto di scrivere in italiano e al festival Pordenonelegge 2022 (14-18 settembre) riceverà il

Premio FriulAdria “La storia in un romanzo”. Nella nuova geografia delle emozioni anche il concetto di prossimità viene declinato in forme inaspettate, si allarga alle capitali europee tornate finalmente vicine. È emblematico il titolo del libro di Giuseppe Culicchia, “Berlino è casa” (Laterza): l’autore propone una originale rilettura “domestica” della capitale tedesca, in cui strade, piazze, edifici vengono collocati in una abitazione immaginaria: ingresso, corridoio, cucina, camera da letto e così via. «Di Berlino mi sono innamorato prima ancora di andarci. Bastarono poche righe di “Berlin Alexanderplatz” di Alexander Döblin a folgorarmi», scrive Culicchia nell’incipit, prima di cominciare la sua esplorazione spazio-temporale. E se Vittorio Del Tufo nel suo “Parigi magica” (Neri Pozza) si immerge nei misteri della Ville Lumière, risvegliando demoni, sogni e leggende nere, Lauren Elkin restituisce dignità alle donne che con le strade cittadine hanno intrattenuto un legame profondo: nel suo “Flâneuse” (Einaudi, trad. di Katia Bagnoli) la scrittrice parte dai sobborghi di New York, si muove nella Parigi rivoluzionaria, con George Sand che si destreggia sulle barricate

LE VIE DEI FESTIVAL

Tornano dal vivo i festival dedicati ai viaggi e le rassegne letterarie danno ampio spazio all’esplorazione. L’Ulisse Fest di Lonely Planet a Pesaro (fino al 17 luglio); Festivaletteratura a Mantova (7-11 settembre); Pordenonelegge (14-18 settembre); Festival della letteratura di viaggio a Roma (29 settembre-2 ottobre)

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L'estate in bilico

A fianco: veduta aerea delle Saline di Marsala. Sopra: l’isola di Favignana. In basso: Tim Parks

Così ho scoperto la libertà Lo choc della pandemia, la ripartenza, la paura che divide. Lo scrittore britannico: “Tornare a viaggiare è un atto di fede” di Tim Parks

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Non sai quello che hai finché non lo perdi. A marzo 2020 stavo giusto scrivendo le ultime pagine del mio libro “garibaldino” quando Conte ha chiuso l’Italia. Pagine che parlavano di partenze all’alba, zaino in spalla, io e mia moglie Eleonora, giorno dopo giorno, scampagnata dopo scampagnata, sulle orme dell’eroe dei due mondi nel 1849. Sceglievamo noi i sentieri, da Roma a Cesenatico; ci fermavamo dove volevamo, senza prenotare; chiacchieravamo con tutti, per strada, nei locali. Poi, a un tratto, ecco l’autocertificazione, la mascherina, i guanti di gomma, un blindato dell’esercito all’angolo della strada. E ho scoperto la libertà; ormai persa. Viaggiare, o almeno viaggiare per piacere, è l’espressione più schietta della libertà individuale. Parti per le vacanze e non sei più prigioniero di casa tua, del capoufficio pignolo, dei parenti e degli amici. Ti liberi pure della tua routine, le tue abitudini. Per forza: a Delhi o a Glasgow è inutile aspettarsi un buon cappuccino; non si sfoglia la Gazzetta sulle spiagge cubane. Anche per questo a qualcuno viaggiare fa un po’ paura. Ci si può perdere. E così sceglie viaggi organizzati, durante i quali tutto è già deciso e ogni pericolo debellato. Magari con un gruppo di amici. Controllando regolarmente sul cellulare le tappe del Tour de France tra le varie


Idee in stivali e redingote, va a Londra con Virginia Woolf e a Venezia con Sophie Calle, e poi a Tokyo, a Parigi e di nuovo nella Grande Mela, dove l’autrice si perde. È sospeso tra due mondi anche Romeo, che atterra a New York dall’Italia, il protagonista di “Empire State”, secondo e conclusivo volume del graphic novel “Il viaggiatore distante” (Coconino Press) di Otto Gabos, che trasporta il lettore in un thriller intorno al mistero di Sal Bagatta, l’architetto morto in strane circostanze mentre progettava un nuovo luna park a Coney Island. Ora New York ridiventa prossima, le distanze si accorciano sulla spinta della memoria. Altre mete invece restano imperscrutabili, come il fiume Amur sembrano minacciose,

Foto: GettyImages (3)

“La notte sopra di me risplende di stelle; nell’immenso cielo della Mongolia, la Via Lattea scorre in un gelido torrente di luce. Poi l’alba diffonde un chiarore flebile” chiamate a casa per l’onomastico della nonna. La pandemia ci ha uniti e divisi in molti modi. Soprattutto ha diviso chi aveva paura da chi non l’aveva. Chi non voleva saperne della mascherina all’aria aperta da chi la portava pure nella più sperduta campagna. La paura è il grande nemico della libertà. Nell’estate del 2020, con il primo allentamento delle regole, abbiamo provato a fare un bis garibaldino con una marcia dal Lago Maggiore al Lago di Garda, il percorso dei Cacciatori delle Alpi del 1859. Ma già a Como abbiamo mollato. Era troppo triste. Nessuno si salutava più sui sentieri. Gente che si girava dall’altra parte per paura del contagio. Musei ancora chiusi. Negozianti guardinghi. Ma è stato in Sicilia nel giugno del ’21 che abbiamo sentito la massima tensione tra chi voleva ripartire e chi no. Prendendo un traghetto dall’isola di Favignana a Marsala, per arrivare, come i garibaldini, dal mare, ci siamo ritrovati assillati da un capitano con la barba nera che minacciava di sanzionare chiunque abbassasse la mascherina anche un millimetro sotto il naso. Ed eravamo quattro gatti. Come non pensare all’uomo sul ponte del vapore Lombardo che urlava: «Sono Nino Bixio! Dovete obbedirmi tutti; guai chi osasse una alzata di spalla». Ma loro andavano in guerra. Al castello di Salemi, il vecchio custode ci ha negato l’entrata perché il termometro a pistola non voleva misurarci la febbre. Eravamo gli unici

sulla scia del conflitto in Ucraina. Per scrivere “Tra Russia e Cina” (Ponte alle Grazie) Colin Thubron, uno degli ultimi grandi viaggiatori del Novecento, a ottant’anni ha seguito per tremila miglia il corso d’acqua che segna il confine tra i due Paesi. Un avvincente resoconto di viaggio che mescola geografia, sociologia, antropologia. «La notte sopra di me risplende di stelle; nell’immenso cielo della Mongolia, la Via Lattea scorre in un gelido torrente di luce. Poi l’alba diffonde un chiarore flebile, quasi alieno», scrive lo scrittore londinese, alimentando il fascino di quei luoghi remoti. Lo stesso enigma avvolge gli agglomerati urbani di fantasia de “Le città invisibili” di Italo Calvino. «Sul meccanismo della non riconoscibilità, l’invenzione dell’altrove, si basa la serie di relazioni di viaggio che Marco Polo fa a Kublai Khan per descrivere le città visitate nelle sue ambascerie. Città immaginarie, fuori dallo spazio e dal tempo, ciascuna chiamata con un nome di donna», sottolinea Antonio Politano, direttore artistico del Festival della letteratura di viaggio (Roma, 29 settembre-2 ottobre), che in occasione dei 50 anni dalla pubblicazione del

visitatori. C’erano 40 gradi. Forse troppi per il termometro, posizionato su un cavalletto al sole. Non è che a fine pandemia viaggiare cambierà per tutti nello stesso modo. Chi ha faticato ad accettare le restrizioni magari insisterà a fare vacanze più avventurose, deciso a tutti i costi a vivere intensamente. Che potrebbe voler dire movida sfrenata, immersioni ardite, foreste amazzoniche. In molti hanno addirittura lasciato il lavoro per essere più liberi e fare viaggi più lunghi, senza chiedersi quando torneranno. Ma c’è chi si è sentito protetto durante il lockdown e, ricominciando a viaggiare, cercherà ogni possibile garanzia, prenotando con largo anticipo, studiando le mete meno frequentate. Conosco chi ha trovato alloggio nella montagna più remota per limitare al massimo i contatti. E chi ha dovuto irrompere in casa della sorella e tirarla fuori di forza da un’incarcerazione autoimposta. Tornare a viaggiare è un atto di fede. Ad agosto noi faremo un’altra passeggiata, questa volta sulle orme di D.H. Lawrence nel 1913, da Costanza a Milano passando per il San Gottardo. Grande viaggiatore, per quanto di salute cagionevole, Lawrence odiava la paura. «Ti viene addosso», scrisse, «l’assoluta necessità di muoverti». So esattamente cosa voleva dire. Q ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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celebre volume ospiterà un incontro-confronto tra circoli di lettura sui “libri di viaggio” di Calvino e Giorgio Manganelli. Per alcuni editori, inoltre, la pandemia è stata l’occasione per spingere l’acceleratore sui viaggi “impossibili”, nel momento in cui spostarsi era proibito o quasi, sollecitando riflessioni su temi cruciali come ambiente e cambiamenti climatici. La natura, un’isola deserta circondata dalla barriera corallina, fa da sfondo potente al romanzo di Daniele Pasquini “Un naufragio” (Sem), i cui protagonisti, Valentina e Tommaso, sposi novelli già in crisi, sopravvivono a un disastro aereo dopo il viaggio di nozze alle Seychelles, finiscono su un atollo e lì trovano finalmente il coraggio di guardarsi dentro. Mentre nella collana The Passenger, Iperborea ha pubblicato “Spazio”, “Nigeria” e ora “Oceano”, titoli interessanti svincolati dai flussi turistici. «Viaggi impossibili se non sei Elon Musk», ironizza Pietro Biancardi, alla guida della casa editrice che alla crisi ha reagito puntando su Italia e mete estreme. «A settembre uscirà il volume dedicato a Barcellona. Abbiamo scelto una destinazione del turismo di massa: perché con la pandemia è cambiato, forse per sempre, il rapporto tra gli abitanti e le città in cui vivono. A Barcellona, Parigi o Venezia non vogliono più essere sfruttati dall’industria dei viaggi», aggiunge l’editore. Per cambiare prospettiva occorre rallentare il passo, assaporare la lentezza, entrare in sintonia con la natura. Guardare il mondo dalle due ruote, come Enrico Brizzi nel monumentale “Il fantasma in bicicletta” (Solfe-

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Dall’alto: la città di Torbole, in Trentino, sulle rive del lago di Garda; Firenze

rino), quasi 750 pagine all’inseguimento di Giovannino Guareschi e del suo “giretto” del 1941, un anello di oltre 1.200 chilometri da Milano alla Riviera romagnola e ritorno via Ferrara, Verona, Lago di Garda. Un percorso fisico estenuante e uno letterario altrettanto impegnativo sulle orme di uno scrittore popolare e controverso. Oppure bisogna salire in montagna come Caterina Soffici, che si ritrova quasi per caso a 1.700 metri in un borgo sotto il ghiacciaio del Monte Rosa. Il suo libro “Lontano dalla vetta” (Ponte alle Grazie) narra il piacere di una vita più semplice, grazie a un gregge di caprette, un branco di lupi, un’aquila e alcuni personaggi usciti da una favola. «Nella nostra collana Passi, con il Cai, la montagna è protagonista in tutte le sue declinazioni. Ma è una montagna non agonistica né competitiva», sottolinea Cristina Palomba, responsabile editoriale, insieme a Vincenzo Ostuni, di Ponte alle Grazie: «È una tendenza visibile: in questo periodo si moltiplicano i libri che parlano di viaggi a piedi, nella natura e all’aria aperta. Un turismo di prossimità lento e poco costoso. MiQ croavventure in un altrove vicino». ©RIPRODUZIONE RISERVATA

Foto: Agf, GettyImages

L'estate in bilico



Regime e censura

LO SCANDALO DELLE

Tre Marie di Francesca Basso, Serena Cacchioli, Federica Delogu 88

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Idee Un libro scritto da tre donne parla di sessualità e ridicolizza l’idea del maschio. Nel 1972, nel Portogallo della dittatura. Che ritira il volume e processa le autrici

Foto: Jorge Da Silva Horta

È

Qui sopra, da sinistra a destra: Maria Teresa Horta, Maria Velho Da Costa e Maria Isabel Barreno all’uscita del tribunale di Lisbona nel 1973

un Paese conservatore e immobile, da più di quarant’anni intrappolato in una dittatura colonialista, il Portogallo in cui nel 1972 esce “As novas cartas portuguesas”, “Le nuove lettere portoghesi”. Un libro scritto da tre donne in un Paese dominato dagli uomini, che parla di sessualità e piacere femminile, ridicolizza l’idea del maschio, ne smaschera vizi e presunzioni. E infatti il regime portoghese, che cadrà solo due anni dopo, il 25 aprile 1974, reagisce al libro scandaloso di Maria Isabel Barreno, Maria Teresa Horta e Maria Velho da Costa ritirando il volume tre giorni dopo la pubblicazione e incriminando e processando le autrici. Loro, da quel momento conosciute come le Tre Marie, avevano già pubblicato, ognuna per proprio conto, altre opere ritenute immorali dal regime. L’ultima a farlo, Maria Teresa Horta, l’unica delle tre ancora oggi in vita, aveva subito, per il suo libro di poesie “Minha Senhora de mim”, “Mia signora di me,” persecuzioni personali, telefonate notturne e un pestaggio per strada. Horta, giornalista del quotidiano A Capital, in quel periodo aveva intervistato Maria Isabel Barreno, a sua volta amica di Maria Velho da Costa. Ne era nata un’amicizia e le tre avevano iniziato a incontrarsi ogni settimana per pranzo al ristorante Treze, ritrovo di giornalisti e intellettuali nel quartiere Bairro Alto di Lisbona. Fu proprio durante un pranzo al Treze che nacque l’idea delle Novas Cartas. L’arrivo di Horta piena di lividi dopo l’aggressione scosse le compagne che reagirono con la frase che diede inizio all’opera: «Se un libro scritto da una donna sola ha provocato tanto scalpore, immaginatevi che succederebbe se a scriverlo fossimo in tre».

Le Novas Cartas ricalcano, stravolgendolo, il modello di un’opera epistolare amorosa del Seicento, in cui una monaca portoghese, Mariana Alcoforado, languisce d’amore per un soldato francese con cui aveva una relazione clandestina. Le Tre Marie riprendono la storia e le sofferenze di Mariana, riscattandola dalla sua posizione subordinata. Nelle Novas Cartas compaiono voci di donne che si intrecciano, dialogano, raccontano, si ribellano e ridono di un sistema che le penalizza e ne perpetua l’oppressione. È un’opera arguta e ironica, che indica, precisa e dissacrante, tutte le contraddizioni sociali e politiche della società portoghese, dalla guerra coloniale alla situazione delle donne. «La scrittura a sei mani fu un gesto di solidarietà meraviglioso, sorprendente», racconta Maria Teresa Horta a L’Espresso: «Un giorno, dopo la mia aggressione, Isabel tirò fuori dalla borsa tre fogli di carta e ci disse: “Ecco, prendete, questo è il primo testo. Volevate scrivere un’opera epistolare? Ecco qua”. L’unica cosa che ci dicemmo sempre fu: la prima lettera è di Isabel, il resto nessuno saprà chi lo ha scritto. Fu un processo molto interessante, una delle cose più belle della mia vita». Dopo l’uscita del libro le tre autrici furono sottoposte a interrogatori separati, ma non rivelarono mai chi avesse scritto cosa, nonostante l’insistenza della polizia che chiedeva chi di loro fosse l’autrice dei testi considerati più scabrosi. Si rifiutarono di rivelarlo anche successivamente. Gli interrogatori furono condotti dall’equivalente della buoncostume italiana, e non dalla Pide, la polizia politica, nel tentativo di sminuire e strappare all’opera il suo vero portato, non riconoscendone la profonda dimensione politica. Un libro non concepito come fem17 luglio 2022

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Regime e censura

minista, ma che finì inevitabilmente per diventarne un manifesto, grazie anche alla lettura che ne fecero le femministe francesi e inglesi. Se in Portogallo infatti il regime lo censurò quasi immediatamente, il libro ottenne successo e notorietà all’estero. «Un amico di Maria Isabel Barreno portò il nostro libro in Francia. Non potemmo parlarne al telefono, né per posta. Ci incontrammo di persona e lui partì con due o tre copie», racconta ancora Horta. L’opera arrivò a Marguerite Duras, Simone de Beauvoir, Doris Lessing e Iris Murdoch e soprattutto in Francia divenne un simbolo della ribellione femminile contro il potere oppressore. Fu lanciata una petizione di mobilitazione internazionale per chiedere il rinvio del processo e organizzate manifestazioni di solidarietà. Al Congresso della National Organization for Women (Now), nel giugno del 1973 a Boston, si parlò delle Tre Marie e furono 90

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distribuiti volantini con il resoconto delle udienze. L’eco internazionale non arrivò però in Portogallo, ancora colpito da una pervasiva censura di regime. Antonio de Oliveira Salazar era morto nel 1970, due anni dopo una caduta da una sedia che lo aveva costretto a lasciare il governo a Marcelo Caetano. Nonostante la promessa di apertura del regime, Caetano aveva proseguito la politica dittatoriale, mentre cresceva nel Paese il malcontento per la decennale guerra coloniale in Africa. Arrivò solo, quasi nascosta e su pochissimi giornali, la notizia del processo che le tre scrittrici subirono nell’ottobre del ‘73. Qualche giornale ne parlò, dando conto della decisione del giudice di evacuare l’aula del tribunale dove si erano date appuntamento intellettuali straniere e portoghesi, giornalisti e osservatrici dei movimenti femministi.

Fu solo dopo il 25 aprile del 1974, con la fine della dittatura, che le tre Marie vennero definitivamente assolte. Un mese dopo la ritrovata democrazia il giudice Acácio Lopes Cardoso lesse la sentenza: «Il libro non è pornografico né immorale. Al contrario: è un’opera d’arte, di alto livello, come gli altri che le stesse autrici avevano scritto in precedenza». “È un’opera senza eguali - spiega Manuela Tavares, attivista femminista e fondatrice dell’UMAR, storica associazione di donne - perché ha fatto entrare per la prima volta nella sfera pubblica portoghese le questioni intime e private delle donne. Durante la dittatura lottare per i diritti delle donne e definirsi femminista significava esporsi pericolosamente”. Tavares racconta che “per l’Estado Novo il femminismo era un nemico ideologico perché andava contro tutto quello che la dittatura pretendeva dalle donne: una vita di sottomissione, casa, figli, marito”. Se da un lato, dopo il 25 aprile 1974, l’uguaglianza di genere si è fatta strada nella politica e nel dibattito pubblico portoghese, i temi “scandalosi” delle Novas Cartas rimangono centrali per la lotta femminista anche molto dopo la fine della dittatura. “In un paese che ha depenalizzato l’aborto solo nel 2007 - sostiene Tavares - il termine femminismo continua a essere una parola poco amata ben dopo il 25 aprile”. Per questo e per la loro valenza letteraria, conclude, le Novas Cartas rimangono un testo fondamentale: “Quando entrai in contatto con il libro, molto tempo dopo la fine del regime, sentii che era imprescindibile che le donne portoghesi lo leggessero e ci riflettessero sopra. E continua ad essere rilevante ancora oggi, a cinquant’anni di distanza, e non solo per ragioni di memoria storica, ma perché è un’opera ancora in grado di scandalizzare e sorprendere”. Q © RIPRODUZIONE RISERVATA

Foto: Jorge Da Silva Horta, Alamy - IPA

A lato: le Tre Marie. Sotto: donne che protestano davanti all’ambasciata portoghese all’Aja, in Olanda, il 25 ottobre 1973


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Moda e vita

Marras D

a un album colorato, tira fuori la foto di un bambino con indosso un abitino pied de poule, giacca e pantalone. Ha un uovo di Pasqua in mano, ma sta piangendo disperatamente. «Quel bambino sono io», dice Antonio Marras: «E questa foto esprime al meglio il mio stato d’animo. Sono così: un mix d’inquietudine e di malinconia, mi salva il mio spirito sarcastico e autoironico, a tratti divertente, direi, per pochi intimi. Mi piace cazzeggiare. Ho la capacità di complicare tutto e faccio diventare ostico ciò che non lo è. Ho la propensione al martirio, mi piace crogiolarmi nel dolore e nel tormento, non mi rendo conto degli altri interlocutori, ma li rispetto e mi piace pensare che, anche se a pochi, i miei messaggi e le cose che faccio prima o poi arrivino». Uno, (mai) nessuno e centomila. È così lo stilista algherese e milanese d’adozione. Osserva, si alza, si siede di nuovo e inizia a disegnare, «perché aiuta la concentrazione». Usa come colore base il caffè raffermo che ha in ciotole e tazzine. Unito al blu e al rosso, dà forma ai personaggi simbolo del marchio di moda che porta il suo nome, una storia di vita e di vite intrecciate, splendide quanto complicate, la storia di una passione e di un sapere misto a improvvisazione, professionalità ed esperienza che lo hanno reso il grande artista - perché Marras non è solo uno stilista - che è oggi. Nella sua casa-studio ad Alghero con vista su Capo Caccia – «il nostro gigante che ci protegge, custodisce e abbraccia da lontano»- tutto parla della sua storia, un susseguirsi di giorni e di stagioni mai uguali, in cui la regola non scritta è “non fermarsi”. «Ho fatto del movimento perpetuo una ragione di vita. Non ho un posto dove andare, dice la mia amica Fam, la critica d’arte Francesca Alfano Miglietti, e ha ragione. Sono

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CAOS SARDO Stilista e artista, intreccia poesia e materia, ricerca e tradizione. Senza fermarsi mai. “Sono un nomade, un transumante. La cosa che mi spaventa di più? La noia” di Giuseppe Fantasia un errabondo, un nomade, un transumante nell’animo e nel corpo. La destinazione non è mai l’obiettivo per me, l’arrivo non è il punto finale. Preferisco il “durante”. Mi devo sempre spostare in un caos che poi riordino. Vivo e creo in un caos ordinato di cui solo io conosco le regole. La cosa che mi ha sempre spaventato di più è la noia ed è anche per questo che faccio tante cose insieme. Quando le elenco, non ci credo neanche io e penso spesso che non ce la farò mai, ma in realtà, trovano la loro strada in un mix di tempi, luoghi e spazi ben annotati su un calendario che è la mia mappa concettuale, altrimenti non ricorderei nulla». Nel frattempo, continua a disegnare, poi smette, si alza, prende altri fogli che non sono quasi mai bianchi, risponde a un messaggio, abbraccia i suoi cani («i miei ragazzi») Tore, Gilla e Jacopo Urtis - l’ultimo arrivato ma già padrone - torna a sedersi e a parlare gesticolando, per poi disegnare e ricominciare. «C’è sempre in me il bisogno e il tentativo di fare delle cose. Nasco minimalista, ma poi nel processo sporco tutto. Mi piace toccare, ricamare, disegnare, cucire, scarabocchia-

re, mettere sopra, poi sotto e poi ancora sopra, aggiungere e togliere, tagliare e rattoppare, imbrattare. Alcune mie collezioni si chiamano non a caso Laboratorio, perché nascono con scampoli e pezzi di stoffa recuperati qua e là che diventano poi magici. Le mie carte, i miei disegni e gli oggetti che mi circondano mi ispirano, ma poi mi chiedono pietà ed è a quel punto che capisco che sono finiti. Non ho mai un progetto scritto ma tutto è frutto di circostanze e della mia follia». Che merita sempre i suoi applausi, diceva Alda Merini, e nel caso di Marras sono davvero tanti considerato quello che ha fatto e che continua a fare. Dalla sua prima collezione a Roma, nel 1987, «in un palazzone parallelepipedo sulla Tibbburtina», come dice lui imitando un accento romano - che con sua moglie Patrizia chiamarono Piano Piano Dolce Carlotta, in omaggio all’omonimo film di Robert Aldrich e al loro idolo, Bette Davis, è stato un susseguirsi di eventi. L’Alta Moda, grazie a Dominella che lo fece sfilare per la prima volta con il suo nome, fino alla sfilata al Petrovsky Passage di Mosca prima della


Idee

Foto: L. Bacci

Il fashion designer Antonio Marras, 61 anni, insieme alla sua famiglia

guerra, il cortometraggio “Aspetta” girato nel borgo fantasma di Rebeccu e la sfilata tra i boschi bruciati di Santu Lussurgiu danneggiati dagli incendi, la mostra al museo Archeologico di Sassari e l’ultima a Villa Carlotta, sul Lago di Como. Prima c’è stata l’enorme retrospettiva a lui dedicata alla Triennale di Milano e nel mezzo, gli 8 anni a Parigi da direttore creativo di Kenzo, «ci trattavano come divinità, ma ci siamo, mi sono salvato». Il merito? «Va alla mia famiglia. A mia moglie Patrizia, in primis, che mi è stata e mi è sempre vicina. Quello che sono lo devo a lei. Mi ha esortato e spinto a fare ogni cosa, soprattutto quelle che non avrei mai fatto. Ha una sensibilità speciale nel cogliere ciò che non riesco a vedere e percepire. È la mia più grande sostenitrice nonché

la critica più feroce e spietata che ho e, purtroppo - devo ammetterlo con una certa incazzatura - ha sempre ragione lei». «Patrizia sa» è una frase che Marras – che lei invece chiama sempre per nome e cognome in qualunque contesto si trovi - ripete spesso. Patrizia sa dove sta una foto, un vestito o un oggetto che lui vuole in quell’istante; Patrizia sa le date esatte di ogni cosa o evento, il nome di un autore o un musicista da chiamare, cosa si mangia, chi saranno gli ospiti del weekend. Patrizia sa, punto. Con lei ha due figli: Efisio, anche lui nella moda e da poco tornato sui banchi universitari, e Leo, che lavora nell’azienda di famiglia. «Fondamentali sono stati i miei suoceri Tonina e Ninì», precisa l’artista che crea abiti, ma anche tappeti, lampade e ceramiche speciali:

«Ci hanno permesso di fare quello che abbiamo fatto. Li abbiamo sempre coinvolti in tutto facendoli però vivere, o tornare, ad Alghero, la loro e la nostra comfort zone. Tonina accompagnava i nostri figli a scuola quando non c’eravamo. Una volta, un professore chiese ad Efisio se fosse figlio di un finanziere di Fertilia e lui disse di sì. Un giorno si presenta Patrizia a scuola vestita come si veste sempre lei, come per la prima alla Scala, e a quel punto si capì che era uno scherzo. Patrizia ama vestire con le nostre creazioni in ogni circostanza. Delle volte mi fa: ma dove lo indosso questo abito? E io: Ma è ovvio: per andare al supermercato». Milano è l’altra base, che li ha accolti da anni in uno degli spazi più belli: Nonostante Marras, in via Cola di Rienzo, zona Solari, esperienza multisensoriale che conquista, uno di quei posti che sanno di casa (Casa Marras), dove il disordine è l’ordine e dove la meraviglia è una continua sorpresa. Il mare sardo sarà pure lontano dai sensi, ma non dal cuore o nell’accento che vagheggia in tutta la struttura. Marras porta in superficie le emozioni, ce le fa conoscere lentamente o in un sol colpo, spiazzando con personaggi di una terra desolata e splendida, portatrici e portatori di un pensiero che viene da lontano, dalle Janas, dalle zone nuragiche, dalle migrazioni, dalle transumanze che non finiscono mai. Come nell’arte di Maria Lai, sua grande maestra e amica. Trama doppia, tra giochi di tessuti e di acqua, lenzuoli e letti, altra passione di Marras. Ne ha diversi nel bel giardino di casa sua, splendidi nel loro essere arrugginiti. «Il letto attrae chiunque: è il posto dove uno nasce, dove fa l’amore e dove si muore, quello in cui si passa quasi la metà della vita. Purtroppo, dopo i 40 anni il tempo corre veloce e dopo i 50 scappa», ricorda, citando Lea Vergine: «A me, invece, non basta mai». Q ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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Sguardi letterari Un dettaglio fisico che cambia la vita. Un’imperfezione che segna fragilità e destini. Il punto di partenza della scrittrice messicana è sempre ciò che ci rende unici

neo bianco

QUEL PICCOLO

di Rossella Milone con due racconti inediti di Guadalupe Nettel

S Guadalupe Nettel, 49 anni. Vera autrice di culto anche in Italia, sarà a Roma il prossimo 19 luglio, in occasione del Festival Letterature. Nel corso della serata dal titolo “Confini”, la scrittrice presenterà “Cinque cartoline del nostro tempo”, che anticipiamo in queste pagine, dedicate all’emergenza climatica

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econdo Guadalupe Nettel, ogni persona è simile a uno strumento musicale: possediamo le note ma poi, esattamente come un violino o una tromba, ci diversifichiamo sia per tratti genetici che per quelli educativi e culturali. Come scrittrice, Guadalupe Nettel contempla proprio questo patrimonio di somiglianze e differenze, indagando in che modo la diversità agisca sulle persone nel loro percorso esistenziale. Nel suo ultimo libro ripubblicato in Italia “Il corpo in cui sono nata” edito da La Nuova Frontiera e tradotto da Federica Niola, (la prima edizione fu per Einaudi nel 2014, scritto però nel 2011), il tratto distintivo che caratterizza la protagonista sin dall’infanzia è proprio una forma di difformità congenita, dovuta a un neo bianco nella cornea, cresciuto al centro dell’iride. Questo intoppo biologico, un difetto di fabbrica, come lo chiamano i genitori

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della narratrice, è il puntino iniziale da cui Nettel fa scaturire il resto della narrazione, ricollegando man mano tutti gli altri punti fino a ottenere il disegno finale: una panoramica della propria esistenza che si trasforma nell’io collettivo di una generazione confusa, spaesata e ancorata fortemente al presente. L’espediente narrativo della storia è dato dalla psicologa Sazlavski, a cui la protagonista racconta la propria infanzia a Città del Messico, fino ad arrivare ai numerosi spostamenti tra Parigi e l’America Latina per via di una madre irrisolta e inquieta. La dottoressa, nel racconto, non prende mai voce, non ha una fisionomia, non compare mai fisicamente, restituendo al lettore una percezione molto precisa della sua presenza. Questo libro è il prolungamento di un lavoro che fu richiesto a Nettel da una rivista letteraria. Quella occasione permise all’autrice di incontrare una sua urgenza e di affrontarla attra-


Foto: M. Zugolo - Rosebud2

Idee verso un dispositivo narrativo permeabile ai temi a lei più cari: l’alterità, le dissonanze che si nascondono nella quotidianità di ogni essere vivente, la bestialità più primitiva e genuina che si nasconde nell’animo umano. Grazie a quel racconto, come Nettel stessa dichiara, le parole hanno cominciato a fluire impetuose, convincendo l’autrice a dedicarle una storia specifica, a metà strada tra il memoir e un “bildungsroman”, un romanzo di formazione. In realtà, la faccenda dell’adattamento in un corpo prestabilito dalla natura che cerca una collocazione identitaria nel contesto sociale in cui ci si trova a nascere, è un tema caro all’autrice – il famoso daimon - già emerso nel suo primo lavoro: in “El huésped” scritto nel 2006 mai pubblicato in Italia. Il romanzo racconta la storia di una bambina coinvolta in una faccenda di possessione e di una fantomatica sorella siamese, sulla cui esistenza reale o solo immaginata verte tutta la storia. La screziatura tra luci e ombre, i chiaroscuri che inquietano i personaggi, il registro liminale su cui il racconto si tratteggia tra realismo e surrealismo, la centralità sensoriale della vista, sono i tratti distintivi che già emergono dalla scrittura di Nettel, che si faranno sempre più nitidi e più circoscritti, soprattutto nei racconti. La forma breve, infatti, è un luogo di appartenenza di elezione e particolarmente confortevole per la scrittrice messicana, che in un’intervista ha dichiarato essere un genere per perfezionisti. «Non è facile scrivere un buon racconto», dichiara Nettel, «ma è più facile farlo diventare un’ossessione finché il risultato non è perfetto». L’autrice, d’altronde, proviene da una matrice stilistica chiara: l’impronta di un certo realismo magico, l’universo evanescente dei cuentisti latini, il meccanismo distorsivo e perturbante kafkiano. Il suo approccio alla scrittura è, di fatto, visivo, e non potrebbe essere altrimenti, visto che, sin dalla sua infanzia ha portato una benda che la costringeva a maturare una visione frammentaria, ma anche doppia, della realtà. 17 luglio 2022

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Sguardi letterari Nata negli anni Settanta da una coppia di genitori sessantottini, nel solco generazionale che vede il ruolo genitoriale scavallare le vecchie maniere autoritarie, si trova a crescere con un padre assente e una madre presente a singhiozzi, un po’ hippy un po’ spaesati dall’onda del capitalismo e dal bagaglio progressista che sta per investire il Messico. Affidata a una nonna antiquata, immersa in un contesto di coetanei spesso sfuggiti alle dittature sudamericane, spostata da Città del Messico alle banlieue parigine, Nettel ha sempre camminato su un ciglio granuloso, malfermo, minaccioso, che, però, le ha anche garantito una panoramica privilegiata di osservazione sulla complessità del mondo moderno. «Sono convinta», dice Nettel: «Che scrittura e lettura siano due strategie di autoconoscenza molto potenti. Pensare all’intimità degli altri ci spinge a riflettere anche sulla nostra». Questa intimità è per la scrittrice un luogo prima di tutto biologico, fatto di carne, corpi, percezioni sensoriali, e, soprattutto, macchie ataviche (come piccoli nei) che appartengono a ogni creatura. Molto caro alla sua narrazione, infatti, è l’universo animale e vegetale, cui ha dedicato un bestiario, ‘”Bestiario sentimentale” e “Petali, e altri racconti scomodi” del 2019, pubblicati entrambi da La Nuova Frontiera e tradotti da Federica Niola. Un universo che osserva i bestiari di Julio Cortazár, autore a lei caro, o le creature più insignificanti ma portatrici di enormi aspetti simbolici, simili ai trilobiti; un immaginario che si nutre dei toni gotici di Allan Poe, o degli scarafaggi kafkiani: tutti elementi che riconducono alla fallibilità dell’essere umano, alla sua inevitabile imperfezione. In ciascuna delle storie di Nettel, che siano pesci rossi, piante carnivore, bambine dall’occhio malato, figli unici sbagliati, incontriamo il peccato con cui ciascun essere vivente è condannato a coesistere sin dalla sua nascita: un difetto da correggere, direbbero alcuni. Semplicemente ciò che ci rende vivi, dice Nettel. Q © riproduzione riservata

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Due cartoline del La minaccia ambientale. Tra funghi-alchimisti, che trasformano la morte in vita. E l’Apocalisse prevista dai Maya di Guadalupe Nettel

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oche volte ho sentito la mancanza della natura come durante i mesi che ho passato confinata a Città del Messico dal Covid. Poche volte ho sentito di più la mancanza del mare, della montagna, della campagna. Immagino che questa sensazione mi accomuni a molte persone. L’estate scorsa sono stata con i miei figli e il mio compagno nei boschi dell’Oregon. Una coppia di amici che nel 2020 ha campeggiato per più di trecento giorni si è offerta di iniziarci all’arte di dormire per più notti in mezzo alla natura, cosa che, come sa qualunque cittadino che ci abbia provato, è meno semplice di quanto sembri. Bisogna sbarazzarsi di molte abitudini, di molte manie e nevrosi, per scoprire che in realtà gli oggetti che ci sembrano imprescindibili, cellulare compreso, non sono così necessari. Nel posto in cui ci siamo accampati la vita straripava in ogni pianta, dimora di decine di insetti. Abbiamo visto un alce e diversi cerbiatti, conigli, procioni, uccelli canterini, insetti di tutte le dimensioni, che splendevano come piccoli gioielli volanti. L’acqua del fiume era potabile, ma anche talmente limpida che sul fondale si vedevano nuotare i pesciolini colorati. Una mattina siamo andati a camminare in montagna, in un luogo che si poteva raggiungere soltanto a piedi, dopo aver attraversato il fiume. Un luogo visitato di rado dagli esseri umani. Volevamo andare a raccogliere i funghi. I funghi Reishi e Coda di tacchino, ci hanno spiegato, si sono rivelati utilissimi nella cura di malattie come il cancro, perché contribuiscono a rigenerare i tessuti. Sono più efficaci quando si raccolgono in boschi isolati, lontani da qualunque agente contaminante. Quella mattina mi è sembrato logico partire alla ricerca di una medicina o dell’elisir della vita in luoghi preservati, dove la natura è ancora intatta. I luoghi dove nessuno ne ha ancora abusato sono quelli in cui la madre terra esprime tutto il suo potere. I funghi, lo sanno tutti, si nutrono di organismi in decomposizione. Sono i grandi riciclatori, alchimisti capaci di trasformare la morte in vita, un po’ come il dottor Frankenstein che cercava di animare una creatura creata con pezzi di cadaveri diversi, ma senza tecnologia. I funghi assumono forme e comportamenti di


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nostro tempo D

ice la leggenda che la città maya di Uxmal fu costruita in una notte da un esercito di folletti, gli aluxes. Le rovine della città si possono visitare e danno l’idea di quanto fosse magnifico questo luogo, con terrazzamenti e piramidi in cui vivevano fianco a fianco sacerdoti, guerrieri, studenti di medicina e di astronomia, sportivi e alcune famiglie. Per edificare la sontuosa città fu necessario abbattere gli alberi presenti nei boschi circostanti. Il legno fu utilizzato per sculture, panche, parapetti e abitazioni, ma anche all’interno dei templi dedicati a Chaac, il dio della pioggia. Tuttavia, nonostante le offerte – recipienti d’oro e di giada, copricapo con piume di quetzal, riserve di ortaggi e granaglie – nonostante gli innumerevoli sacrifici di splendidi animali e fiere vergini fatti in suo nome, il dio della pioggia non concesse mai i propri favori agli abitanti di Uxmal. Forse non per disprezzo, come credevano loro, ma perché neanche un dio può produrre la pioggia dove gli alberi sono stati decimati.

Foto: J. G. Fuller - Universal Images Group via Getty Images

La Piramide magica nell’antica città maya di Uxmal, in Messico

ogni genere. Per me sono le macchie verdi che crescono sul pane, usate per produrre gli antibiotici, ma anche tutti gli altri esseri che fanno risorgere la vita o la mantengono quando il mondo sembra soccombere all’entropia. Le amiche di mia madre che badavano a me e a mio fratello quando lei era malata o in viaggio erano funghi, a modo loro. Sono funghi anche i giovani che si sono organizzati spontaneamente per estrarre le vittime dalle macerie durante il terremoto che ha devastato Città del Messico nel 2017; i medici e gli infermieri che hanno messo a repentaglio la propria vita assistendo i malati di Covid quando nessuno era vaccinato. I bambini e gli studenti che hanno sopportato stoicamente la reclusione di mesi e mesi per evitare che gli anziani si contagiassero durante la pandemia.

Gli abitanti dovettero abbandonare tre volte la città per via delle prolungate siccità. Oxmal significa “costruita tre volte” in lingua maya. Eppure altri sostengono che l’origine etimologica del nome sia nel vocabolo Uch, che significa “futuro”. Uchmal sarebbe dunque “ciò che deve arrivare”. Basandosi sulle stelle, i maya predissero che l’apocalisse sarebbe giunta nel secondo millennio, ma si sbagliavano: il loro mondo finì molto prima, con lo sbarco degli spagnoli, le malattie sconosciute che portarono e il genocidio che intrapresero ai danni dei nativi americani. In realtà il mondo, a causa di invasioni o di grandi catastrofi naturali, è già finito per molti popoli, che tuttavia continuano a esistere. E proprio loro posseggono le chiavi della sopravvivenza.

Vorrei, come molte altre persone, lasciare ai miei figli e alla loro generazione un pianeta pulito, un luogo sano, e insegnare loro ad avere un rapporto armonioso con la natura. Vorrei dire loro che è importante preservarla e difenderla, ma se il nostro mondo dovesse finire prima che questo accada, vorrei incoraggiarli anche a essere come i funghi che trasformano la putrefazione in vita. E – visto che la storia è una spirale – vorrei trasmettere loro la certezza che dalle macerie rinasceranno sempre gli alberi, il muschio, il micelio, l’arte, la poesia e altre cose belle. n

In una sua poesia Octavio Paz dice che la storia è circolare o, per meglio dire, una spirale che ripete il suo corso ininterrottamente. Un paio di anni fa il governo messicano ha avviato la costruzione di una ferrovia che attraverserà la foresta dello Yucatán per ricavarne legno ed estrarre altre materie prime, soprattutto carbone e petrolio. «Ciò che deve accadere» è esattamente ciò che successe agli abitanti di Uxmal, ma su vasta scala, perché l’abbattimento di alberi in quella zona contribuirà alla desertificazione del territorio maya e al riscaldamento di tutto il pianeta.

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Arte e impegno

NEL MIO TEATRO RACCONTO LA REALTÀ La Russia di Putin, la mafia, i migranti. La grande attrice predilige di questi tempi i testi più “politici”. Qui spiega perché e ripercorre la sua lunga carriera colloquio con Ottavia Piccolo di Francesca De Sanctis

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enezia è ormai da molti anni la città in cui ha scelto di vivere. Da lì parte e ritorna dai suoi viaggi, ogni volta portandosi dietro nuove emozioni condivise con il pubblico. «In questo momento della mia vita voglio dedicarmi solo a ciò che mi piace» dice. Che tradotto significa: fare teatro raccontando storie. E dunque ecco “Eichamann. Dove inizia la notte”, “Occident Express”, “Cosa nostra spiegata ai bambini”, tanto per citare i titoli degli spettacoli interpretati più di recente, tutti scritti da Stefano Massini. Ottavia Piccolo, attrice dalla carriera lunga e luminosa, si lascia andare ai ricordi. «Sono stata molto fortunata nella mia vita, questa è la verità», dice sorridendo. Intanto, il suo talento continua ad essere apprezzato. La città di Jesi le consegnerà il 2 agosto il “Premio Valeria Moriconi - Protagonista della scena 2022”. «Amo molto raccontare storie, ma ammetto di sentirmi spaesata oggi a confrontarmi con i classici del teatro, forse perché ne ho affrontati già molti in passato - spiega -. Preferisco i testi di Stefano Massini, che offrono sempre nuovi spunti capaci di coinvolgermi, e le piccole produzioni. Ho quasi 73 anni, alla mia età sono molto contenta di quello che ho fatto. Ecco perché scelgo il teatro che amo». Ottavia, la sua prima volta sul palcoscenico arrivò grazie ad un provino. Ottavia Piccolo Aveva solo 10 anni e finì per recitare la in un ritratto parte di Helen in “Anna dei miracoli” fotografico di con la regia di Luigi Squarzina. Come Antonio Viscido. andò, se lo ricorda? Nell’altra pagina: «Me lo ricordo molto bene. Mia madre lesin scena nello spettacolo “Cosa se l’annuncio del provino sul giornale e nostra spiegata ai decise di accompagnarmi al Teatro Quiribambini” no. Noi abitavamo a Roma in una casa popolare a San Paolo, che all’epoca era consi98

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derata periferia. Per strada c’erano le pecore. Partimmo da lì in tram per “andare in città”, così si diceva quando ci si muoveva verso il centro». E una volta arrivate al Quirino cosa accadde? «Trovammo delle mamme scatenatissime, una situazione simile a quella del film “Bellissima”. Feci il provino. La bambina che dovevo interpretare era cieca e sordomuta, quindi mi bendarono e mi chiesero di muovermi nel foyer, ma diedi una capocciata alla colonna! Però non gridai, perché la giovane era muta... Ecco perché mi presero. Né io né mia madre eravamo mai state in teatro prima di allora. Per me iniziava un gioco meraviglioso e una tournée che durò sei mesi. Lasciai la scuola per un anno. Poi ripresi gli studi, ma mi fermai alla terza media, perché non ho mai più smesso di lavorare». Anche il suo esordio nel cinema non fu proprio in un film qualunque: “Il Gattopardo” di Luchino Visconti. Era il 1962. Come avvenne l’incontro? «Dopo il debutto teatrale cominciarono a girare delle mie foto e proprio in quel periodo Visconti, che io ovviamente non sapevo chi fosse, cercava una giovane che interpretasse una delle figlie del principe di Salina, Caterina. Così mi sono ritrovata per due mesi a Palermo, su

un set cinematografico in mezzo a luci, costumi, trucchi. Mi sembrava di essere in una banda di pazzi, ma io ero completamente a mio agio, mi sentivo a casa. Mia madre mi diceva: “Se non te la senti, domani torniamo casa”. Ma io restavo». Dopo gli esordi con Squarzina e Visconti non si è più fermata, dalla compagnia dei Giovani di De Lullo al film di Germi “Serafino”, fino a oggi. Ma quali sono stati gli incontri che l’hanno segnata più di altri? «Direi che ho avuto tre grandi maestri: Luchino Visconti, Giorgio Strehler e Luca Ronconi. Per quanto riguarda Visconti ero troppo giovane per instaurare un rapporto di amicizia, ma pendevo dalle sue labbra. Di Strehler ricordo le grida, quando arrivavo in teatro - avevo 15 anni e recitavo nel suo spettacolo “Le baruffe chiozzotte” - mi veniva la febbre perché sapevo che mi avrebbe urlato di alzare la voce! Ma quando recitai in “Re Lear” acquistai più sicurezza. “Orlando furioso” di Ronconi, invece, è stata un’esperienza unica. Eravamo 40 attori giovani e sapevamo di recitare in uno spettacolo rivoluzionario». Nella sua carriera ci sono anche il cinema e la televisione, ma il teatro resta il suo grande amore a quanto a pare... «Si, il teatro per me è tutto. Mi piace an-

che frequentarlo. Amo gli spettacoli di Emma Dante, per esempio. E negli anni sono rimasta affascinata dai lavori di Peter Brook. E poi ho adorato Mariangela Melato. Ci telefonavamo per dirci: “Ma tu quando leggi un copione, lo capisci?”. Il cinema mi piace, ma mi pare di non essere mai padrona di me stessa. L’unica donna che aveva il controllo su tutto era Monica Vitti. Tant’è vero che si diceva “è una rompicoglioni”. Se fosse stato un uomo ovviamente si sarebbe detto “è un professionista”». Negli ultimi anni a teatro lei sceglie di raccontare storie di denuncia o di grande attualità. Possiamo definirlo un teatro “politico”? «Sì, lo è. Ma io credo che il teatro abbia sempre raccontato la nostra società. Quando leggo i testi di Stefano Massini sento l’urgenza di portarli in scena. “Occident Express”, per esempio, è una storia di migrazioni, che ricorda le vicende dei nostri nonni emigrati in America». “Cosa nostra spiegata ai bambini”, che verrà ripreso nella prossima stagione, ci ricorda chi era Elda Pucci. Qual è la sua storia? «È la storia di una donna che ha avuto la grande forza di combattere la mafia. Il 19 aprile del 1983 per la prima volta a Palermo veniva eletto un sindaco donna. Ma Elda ha governato per un anno solo. Lo spettacolo ripercorre proprio quell’anno, fra attentati e guerre di mafia. Ma a dispetto del titolo non è uno spettacolo per bambini. La regia è di Sandra Mangini. In scena con me ci sono i Solisti dell’Orchestra multietnica di Arezzo». Da tanti anni porta ancora in scena “Donna non rieducabile”, dedicato ad Anna Politkovskaja, la giornalista russa uccisa nel 2006. Aveva previsto tutto? «Aveva previsto e scritto tutto. Ho riletto proprio di recente il suo libro, “La Russia di Putin”. Il nome di Putin non viene mai citato nello spettacolo, ma il messaggio arriva dritto come una cannonata. Ormai ho come la sensazione che ci si abitui a ogni cosa, perfino alla guerra. Anche per questo credo sia importante continuare a raccontare». Q © RIPRODUZIONE RISERVATA

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Bookmarks/i libri

L’ARTE DI TRADIRE Tessa Hadley intreccia amore e amicizia. E ne confonde i limiti

SABINA MINARDI Le “storie di un matrimonio” sono in genere il racconto di un divorzio. La cronaca fuori tempo massimo di amori finiti, nello sforzo di salvare i momenti felici (vedi Noah Baumbach) o di fare i conti con quelli più devastanti (scoprire di aver convissuto con sconosciuti, per esempio, come nel vertiginoso romanzo di Andrew Sean Greer). Nell’uno e nell’altro caso chi maneggia una materia incandescente com’è la routine matrimoniale, sa che in gioco c’è sempre l’arte: di conservare la passione; di preservare ciò che unisce più di quello che, col tempo specialmente, divide; di tener fede a un impegno sociale senza restarne soffocati. E all’arte fa esplicito riferimento il romanzo della scrittrice Tessa Hadley, “L’arte del matrimonio” (Bompiani, nella bella traduzione di Milena Zelmira Ciccimarra). Senza facili sociologismi, solo ricostruendo l’amicizia tra due coppie, l’una specchio dell’altra, Hadley scandaglia come resistono i sentimenti al «passo sobrio e senza scosse dell’unione matrimoniale», come si intrecciano all’amicizia, come ogni storia abbia i suoi segreti, le regole, le sue lealtà. Due uomini e due donne che si conoscono da quando hanno vent’anni. La morte all’improvviso di uno dei quat-

tro (che l’arte maneggia davvero, dalla sua galleria a Garrix Lane). E l’equilibrio che va in frantumi: Alex, Christine, Lydia e anche i loro figli fanno i conti con l’assenza di Zachary, che non è solo una deriva per la vedova: è il caos per tutti, per le verità rimosse, per quelle che emergeranno. C’è l’amore tra adulti, in questo romanzo, con il quale la narrativa contemporanea fa sempre più spesso i conti. Ci sono gli strappi causati dal desiderio, i tradimenti, le delusioni. Soprattutto, gli sguardi dei figli che nulla perdonano ai genitori: né i tentativi di consolazione, né gli slanci per sentirsi ancora vivi, “late in the day”, come nel titolo originale del romanzo. Tra party e vernissage, in una Londra borghese e riconoscibile, una spietata radiografia, addolcita da una scrittura calda ed elegante, di quella geometria dannatamente complicata che è la famiglia. Q ©RIPRODUZIONE RISERVATA

“L’ARTE DEL MATRIMONIO” di Tessa Hadley Bompiani, pagina 263, euro 18

Catania, 6 febbraio, festa di Sant’Agata, l’evento più atteso di tutti. Il momento perfetto per un commettere un assassinio. E perché entri di nuovo in azione la vicequestora Vanina Guarrasi, palermitana trasferita nella città etnea. Con le sue Gauloises in bocca, il disincanto che neppure il festino di Santa Rosalia ha mai scalfito, e l’ironia che ce l’ha fatta amare già nelle cinque avventure precedenti.

Dall'attivista del movimento afroamericano, paladina del femminismo e dell'intersezionalità, un saggio che scandaglia le relazioni tra il blues e le lotte per la parità dei diritti. Attraverso le voci di Gertrude "Ma" Rainey, Bessie Smith e Billie Holiday, un viaggio in un genere espressione di resistenza contro il razzismo e di liberazione dalla schiavitù. (Traduzione di A. Pesarini, M. Marie e P. De Vivo).

Un omiliario del XIII secolo. Un tesoro di inestimabile valore perché simbolo di storia e di fede di un popolo sterminato. Arslan torna a parlare delle sue origini armene. E lo fa raccontandoci la commovente storia di cinque fuggiaschi - tre donne, un uomo e un bambino unici sopravvissuti di un villaggio distrutto dai turchi nel giugno del 2015. E del loro viaggio, col libro in mano, che li rende testimoni della storia.

“LA CARROZZA DELLA SANTA” di Cristina Cassar Scalia Einaudi, pp. 281, euro 18

“BLUES E FEMMINISMO NERO” Angela Davis Alegre, pp. 320, euro 20

“IL LIBRO DI MUSH” di Antonia Arslan Bur Rizzoli, pp. 152, euro 10 17 luglio 2022

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Le ferite dei Balcani

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In volo dallo Stari Most la sfida dei tuffatori del ponte simbolo Rinnovano la tradizione medievale che neppure la guerra ha interrotto. Vivono di offerte e gadget e preservano la memoria del gioiello risanato di Marta

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Bellingreri da Mostar foto di Alessio Mamo

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Storie

Admir, uno degli atleti del Club dei tuffatori del Ponte di Mostar

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Le ferite dei Balcani

Admir nuota nelle acque gelide della Neretva

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n equilibrio tra la pietra scivolosa e luccicante del ponte medievale più bello di tutta la Bosnia e le acque gelide del fiume Neretva, così brillante con i suoi verdi e blu intensi delle correnti, Amir tira su col naso e fa l’ultimo respiro. Senza guardare né in alto né in basso, ma solo dritto davanti a sé, si lancia, le mani e i piedi rigidi come le ali tese di un uccello in volo, in picchiata. Sono solo pochi secondi ma il pubblico a fianco a lui sul ponte, al momento del tuffo, ha già esclamato in coro diversi «Oooh!», in segno di ammirazione e spavento al contempo. Amir riappare altrettanto velocemente dall’acqua e nuota verso la riva, come se nulla fosse successo. È già pronto a risalire. Col suo tuffo sul ponte della città di Mostar, nella Bosnia meridionale,

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Amir e i suoi amici del Club dei tuffatori, onorano una tradizione lunga oltre 500 anni. «Non stiamo solo seguendo una tradizione storica, risalente al Medioevo, durante l’epoca ottomana», dice Amir, 24 anni, con una tovaglietta in mano per asciugarsi appena il volto: «Lo facciamo anche per proteggere il nostro patrimonio culturale e mantenere pulito il luogo, il passaggio sul ponte. Siamo i guardiani del Ponte di Mostar, lo Stari Most, ovvero il Vecchio Ponte». Il primo tuffo dal Ponte di Mostar di cui si abbia testimonianza è avvenuto nel diciassettesimo secolo, precisamente nel 1664, pochi decenni dopo la sua costruzione. La città tiene dal 1968 una competizione annuale di tuffi e i suoi partecipanti accorrono da tutto il mondo ogni estate per sfi-

dare i 20-27 metri di altezza, secondo la piena del fiume. Uno sport estremo che richiede coraggio adrenalinico. Ma quando Amir risale dal fiume verso il ponte, percorrendo scale in pietra antica, vie pittoresche, nel bazar della Mostar medievale, ha un altro compito, lo stesso per cui forse questi tuffi sono cominciati secoli fa. Con un cappello in mano, cammina tra i turisti di diverse nazionalità, di nuovo in fila per guardare il prossimo dei tuffatori lanciarsi. «Io ho finito con i tuffi oggi», esclama, sempre in equilibrio sul ciglio del ponte, ma questa volta tendendo la mano verso i passanti e non il suo corpo verso il fiume. «Adesso devo raccogliere un po’ di soldi per il nostro Club». Per Amir, il tuffo è l’unica fonte di reddito. Da piccolo è stato adottato per alcuni


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I tuffatori in pausa ai tavoli del bar di fianco al ponte

mesi all’anno da una famiglia siciliana a cui è rimasto legatissimo, come molti dei suoi coetanei bosniaci nati durante e dopo il conflitto che hanno vissuto parti della loro vita in famiglie italiane, dal nord al sud. Adesso quasi quasi, tra un tuffo e un altro, Amir pensa di tornarci in Italia.

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trent’anni dalla nascita della Bosnia indipendente e dall’inizio dell’assedio di Sarajevo, durante il conflitto nella penisola balcanica, il Paese e i suoi cittadini si confrontano con una crisi importante, in vista anche delle prossime elezioni di ottobre. Al cuore di questa crisi soprattutto politica, la minaccia, lo scorso autunno, da parte della regione autonoma della Repubblica Serba (Republika

Srpska), a maggioranza serba, di una forma di secessione dalla Bosnia-Erzegovina, con il distacco da istituzioni chiave come l’esercito. Definita la città ponte proprio per la presenza della Neretva, anche Mostar, nell’altra regione autonoma del Paese, (Federacija Bosne i Hercegovine), rimane ancora una città divisa: da un lato i bosgnacchi, i bosniaci musulmani, e dall’altra i croati, due diverse comunità separate da un fiume. La vera linea rossa del conflitto però si trovava poco oltre lo Stari Most e tuttora taglia in due la città: è il Bulevar, il lungo viale parallelo al fiume, che segna anche la divisione tra le istituzioni locali. Il sistema scolastico, universitario, le strutture sanitarie e aziende per la gestione idro-energetica seguono indirizzi diversi. Il ponte insomma non

sembra asservire alla sua funzione di unire le due sponde. Quando nel 1993 è stato distrutto dalle granate sparate dagli artiglieri croato-bosniaci nel corso di feroci combattimenti con i musulmani bosniaci, il ponte non era solo utile a fini militari: l’obiettivo era proprio colpire il cuore della città, la sua storia anche musulmana. Quasi subito i suoi abitanti, nonostante la battaglia in corso, costruirono una passerella per continuare a tuffarsi. Amir allora non era neanche nato. Il suo compagno del Club dei tuffatori invece, Admir Delic, aveva appena diciotto anni. Due anni dopo, nel 1995, avrebbe cominciato a tuffarsi e da allora non ha più smesso. «Ci sono delle giornate che mi tuffo anche dieci o dodici volte, nella stagione turistica alta, tra luglio e 17 luglio 2022

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Le ferite dei Balcani

Igor Kazic and Admir Delic all’interno del Club. Alle loro spalle, le foto che raccontano la storia del ponte

agosto», racconta durante la sua pausa, seduto a bere un caffè nella sala del Club. Dietro di lui, dipinti e immagini del ponte in diverse epoche storiche e dei tuffatori durante le loro imprese meravigliose. Ma anche certificati di premi e di partecipazioni a gare di tuffi a livello internazionale. Se non al Club circondato dai trofei, le sue altre pause sono nel bar accanto al ponte, in mezzo a turisti, dove fumare una sigaretta guardando al fiume. E ricordare il passato. «Neanche la guerra e la distruzione del ponte hanno interrotto la tradizione. Questo mi ha affascinato e come giovane di Mostar mi sentivo quasi in dovere di provare. Prima o poi tutti noi maschi lo dovevamo fare, come un rito di passaggio. Solo che io sono tra quelli che ha continuato fino ad adesso. È 106

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il mio lavoro». Durante la guerra, sfidando cecchini, bombe, spari, Admir vedeva suoi coetanei tuffarsi dalla piattaforma e ha cominciato anche lui. «Era molto più difficile e pericoloso tuffarsi dalla passerella: bisognava fare la rincorsa, con il rischio di farsi male. Ma anche oggi, ogni singolo tuffo resta una sfida, necessita il massimo della concentrazione».

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l ricavato dei tuffi sulla Neretva non serve però solo al loro sostentamento. «Con le offerte dei turisti dobbiamo intanto coprire l’affitto della torre ovest del ponte, ovvero l’appartamento e sede del Club dei tuffatori, dove ci riposiamo, prepariamo, riuniamo e organizziamo per la divisione dei turni. Meno di tre al giorno non li fa nessuno», afferma

Igor Kazic, un altro dei tuffatori del Club. Poco fuori la porta della sede, calamite da frigorifero con la foto dello Stari Most, cartoline in bianco nero o a colori, insieme ad altri tipi di souvenir, contribuiscono alle spese. Il ponte vittima della guerra è stato ricostruito e completato nel 2004 sotto l’egida dell’Unesco che lo ha dichiarato patrimonio mondiale dell’umanità e da allora il flusso dei turisti è stato costante, interrotto bruscamente solo dalla pandemia da Covid-19. In quel periodo, Amir, Admir e Igor si sono lanciati per qualche tuffo, giusto per tenersi in allenamento, ma nessun aiuto è arrivato da parte della città per portare avanti la baracca. Sulle rive del fiume sotto il ponte, Silva seduta su una sedia facilmente trasportabile, vende pure lei cartoli-


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Il registro in cui sono annotati i nomi dei tuffatori e il numero di prove sostenute

ne. Osserva i pochi turisti che osano bagnarsi sul fiume gelido, almeno le gambe. Silva è stata una delle poche soldate durante i combattimenti di Mostar e ha visto con i suoi occhi morire tanti compagni ma anche giornalisti, come Marco Luchetta, nel gennaio 1994. Dopo la fine del conflitto, Silva non ha trovato più lavoro. «Ho venduto tutto per aiutare tante persone bisognose dopo la guerra, non mi è rimasto niente. Mi arrangio con le cartoline, le persone attorno a me sanno sempre essere generose, me la cavo». Silva non ha più l’età per considerare di lasciare il paese come molti giovani in cerca di migliore opportunità fanno. La maggiore critica di Silva e dei tanti che vorrebbero lasciare Mostar va alla corruzione in diversi apparati del potere che non

permette ai cittadini di trovare un lavoro dignitosamente.

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ra un nuovo business e una mazzetta, se la vita dei tuffatori e dei cittadini di Mostar è precaria, potrebbe esserlo anche quella del fiume Neretva. Il suo corso è interrotto da dighe ed è luogo di costruzione di nuove, future centrali idroelettriche, come riportato in un reportage lungo il fiume Neretva dell’Osservatorio Balcani e Caucaso. Oltre al rischio per la flora e la fauna, anche il volume dell’acqua è minore che in passato. L’elettricità prodotta dall’idroelettrico corrisponde al 38 per cento, riporta l’Osservatorio, e proviene soprattutto dalle centrali sulla Neretva e sulla Drina, il fiume che invece segna il confine con la

Serbia. La mancata programmazione per sostituirne la produzione con impianti solari e eolici, unita al rischio siccità per le minori precipitazioni, mettono in pericolo anche il fiume Neretva che andrebbe protetto come patrimonio dell’umanità. Il tramonto si avvicina, l’ultimo tuffo di Admir e Igor, prima di tornare a casa dalle famiglie e dai figli, come alla fine di una qualsiasi giornata lavorativa. Amir invece si va a sedere in un bar con un po’ di musica, nella movida di turisti tra le pietre medievali. Tutto sembra luminoso per chi visita un giorno o due la città di Mostar. Per i tuffatori è più dura essere i custodi di un tale patrimonio, di un’ardua impresa. Non basta il coraggio di tuffarsi, ci vuole anche quello di restare. Q © RIPRODUZIONE RISERVATA

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Giovani emigrati

Foto: Hemis / Alamy / IPA

Parigi, scultura di Bruno Catalano

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Storie ROTTA A SUD

Per la crisi o per nostalgia Il rientro degli expat “La scintilla? Il lockdown” Dal Belgio, dalla Germania, dalla Gran Bretagna: un’ondata inversa di ragazzi che rientrano. Prendono il reddito di cittadinanza o si reinventano imprenditori di Alan

David Scifo

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Giovani emigrati

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colori della bandiera italiana nel ristorante pizzeria La Gondola, di piazza Emile Buisset, a Charleroi, sono scoloriti accanto ai manifesti strappati delle ultime elezioni e ai rimpianti di coloro che avevano aperto un’attività non sapendo cosa sarebbe potuto accadere nell’ultimo triennio. Tra il grigio cielo del Belgio e gli alti palazzi, anche quel pezzo d’Italia ha chiuso i battenti, come accaduto a molti locali tra i tanti a matrice italiana che non sono riusciti a sopportare il peso della pandemia e della successiva crisi legata alla guerra in corso. Così, quella grande valigia che per anni era stata conservata sotto al letto nella casa presa in affitto con sacrifici e sudore dopo aver abitato dai parenti, viene tirata fuori per fare il percorso inverso, nonostante il biglietto di sola andata che era stato fatto tra lacrime d’addio e fazzoletti. Il grande sogno della bella vita fuori dall’Italia, venduto da parenti e amici come la soluzione per tutti i problemi, comincia a svanire preso a schiaffi dalla realtà. E a risentirne sono soprattutto gli ultimi arrivati. Cittadine dove da tempo sono state esportate tradizioni, oltre che intere famiglie, dove sventolano bandiere italiane dalle finestre e dalle auto, adesso hanno preso anche i vizi e i problemi della Penisola. Ad andare via, per ritornare in Italia, sono soprattutto coloro che erano arrivati poco tempo prima della pandemia e che sono riusciti a far fronte a tutti i problemi finché lo stop della crisi mondiale non li ha messi davanti una porta. «Molto spesso l’opportunità lavorativa prospettata all’inizio si è rivelata meno fruttuosa di quanto previsto. Ad esempio nei ristoranti italiani vieni sfruttato, guadagni mille e trecento o mille quattrocento euro al mese che qui non sono nulla, per 12/13 ore di lavoro al giorno», spiega Vincenzo Barbera, andato via nel 2012 subito dopo il diploma. Originario di Porto Empedocle, nell’Agrigentino, oggi lavora in una fabbrica di scatole a pochi chilometri da Stoccarda, si è sposato con Annarosa e vive felice la sua vita in Germania ma negli ultimi tempi ha salutato molti coetanei che erano arrivati da pochi anni

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Vincenzo Barbera e la moglie Annarosa Catalano. Al centro, Barbara Gravagna

in cerca di migliore fortuna e non sono riusciti a buttare giù il muro dell’integrazione tedesca. «Per molti non è facile ritornare e anche se nessuno lo dice, alcuni per vergogna, uno dei motivi è che manca la propria terra, la propria famiglia. Anche il fattore climatico è logorante, per molti abituati al sole per 7-8 mesi, qui è il contrario. Vivere qui significa mettersi in gioco ogni giorno, avere pazienza e coraggio, prendere decisioni in una lingua che non è la tua e non è facile. Così alla fine molti dicono “chi me lo fa fare?” e poi, con l’occasione del reddito di cittadinanza, molti sono tornati, perché invece di stare qui, pagare 600 euro di affitto per una piccola casa, molti tornano nella propria abitazione di proprietà in Sicilia o in Calabria decidendo di prendere il reddito di cittadinanza e facendo qualche lavoretto in nero». Con Vincenzo, che ha deciso di rimanere nonostante il rialzo dei prezzi e la non facile vita lontano dagli affetti, lavorava in Germania un altro giovane di Porto Empedocle, la terra di Camilleri e di Pirandello, e in Sicilia, come dice lo scrittore premio Nobel, “l’uomo nasce isola nell’isola e rimane tale fino alla morte”. La nostalgia del mare della Vigata di Camilleri e

del Caos di Pirandello, porta così Francesco Di Stefano e salutare l’amico Vincenzo, preparare la valigia e fare la strada opposta, subito dopo la pandemia. «Sono stato in Germania per otto anni dopo aver accettato una offerta di lavoro in un ristorante italiano e mi piaceva vivere là, poi, pian piano ogni mattina mi svegliavo triste e mi dicevo “mamma mia sono ancora qui”, così dopo la pandemia ho deciso di riprendere tutto e ritornare». Abituato a vedere il mare della Scala dei Turchi aprendo la finestra, per Francesco Di Stefano, 35 anni la vita era diventata soltanto lavoro: «L’appartamento, anzi la stanza, costava tra gli 800 e i 900 euro, per questo dovevo fare due o tre lavori per riuscire a vivere. Quello che non manca in Germania è il lavoro, il problema è che manca tutto il resto: non trovi una casa, il sole non c’è mai e non esistono neanche le stagioni. Affrontare la Germania non è affatto facile, quella nazione non ti regala nulla». Lavorava per vivere e gli unici soldi che metteva da parte, Francesco, li usava per tornare nella sua Vigata, così decide di ritornare definitivamente. «Durante la pandemia ho deciso di prendere le altre patenti che mi mancavo per guidare diversi


Storie

Giusy Cipolla che con il marito ha impiantato una distilleria di gin nell’Agrigentino

mezzi e poi ho preso la valigia e sono tornato a casa, decidendo che avrei vissuto a casa mia, tra i miei affetti. Ho trovato un lavoro come camionista e adesso, finalmente, respiro aria di casa». In Germania, dove ha lasciato gli amici italiani, adesso Francesco ci torna per una vacanza e per rivedere quelle persone, per poi tornare subito nel suo Sud. Gli affetti, la lontananza di casa, i soldi che non bastano e una pandemia che ha rimesso in discussione tutti i piani fatti e acuito la solitudine delle persone.

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ei giorni del lockdown, in molti si sono seduti, da soli davanti la tv e hanno soppesato le cose importanti della vita, guardando con nostalgia quelle foto attaccate al frigo, riscoprendo con i brividi in corpo e gli occhi pieni di lacrime che era il momento di cambiare strada. Barbara Gravagna, palermitana, è ritornata nella sua Sicilia, «un’isola che odio e amo» dopo essere stata messa in cassa integrazione dalla ditta per la quale lavorava a Berlino, nel campo degli eventi: «Già durante il primo lockdown è come se avessi avuto uno stop dopo una vita vissuta di cor-

sa, così ho deciso di rimettere in ordine le priorità della mia vita e ho capito che la mia isola mi mancava tanto e già cominciavo a lavorare per il ritorno e per mettermi in proprio, mettendo le basi per una nuova azienda già durante il lockdown». Forte delle proprie esperienze, dopo una vita da giramondo, Barbara a quarant’anni decide di aprire una attività tutta sua a Palermo, la “Amuri events e wedding planner” per organizzare matrimoni a coloro che dall’estero decidono di scegliere la Sicilia per il loro sposalizio. «Ho messo insieme tutti i pezzi della mia vita e credo che questa attività sia la sintesi del mio percorso fatto negli anni. Adesso sta andando bene e io sono nella mia città, condivido il mio lavoro con gli altri per far crescere anche chi lavora in questo settore». Barbara non è la sola che durante lo stop forzato a causa della pandemia ha deciso di tornare indietro e mettere in discussione la sua vita: secondo l’associazione “ChEuropa” che raccoglie i dati e le storie degli “expat”, gli espatriati all’estero, dopo la pandemia, su un campione di più di mille persone che hanno fatto le valigie negli ultimi 15 anni, il 23 per cento ha rivalutato la scelta di tornare, accele-

rando i tempi per un rientro in Italia che non era tra i piani immediati o non era neppure tra le ipotesi. Secondo le stime della stessa associazione, dopo il lockdown 70 mila persone si sono messe già al lavoro per ritornare a casa, 300mila quelle che ci stanno pensando. Molte di queste sono del Sud Italia, dove intere città hanno vere e proprie riproduzioni all’estero, come accade per Aragona, 15mila votanti se si contano gli iscritti all’Aire e appena 8mila abitanti, nella realtà, che vivono nel paese. Tra questi c’è Giusy Cipolla, trenta anni di cui sei passati a Londra come receptionist in un coworking space: «Il mio obiettivo era sin dall’inizio quello di tornar facendo tesoro delle mie esperienze per inventarmi qualcosa in Sicilia», racconta oggi dal suo paese in provincia di Agrigento. La scintilla, come accaduto anche per gli altri giovani che hanno deciso di girare il mappamondo, per fermare il dito con gli occhi lucidi nel punto a Sud dell’Italia, è stata la pandemia: «Ho capito che non stavo più bene a Londra e così con mio marito abbiamo deciso di tornare, mi avevano anche offerto il posto di manager ma io volevo tornare a casa. Il lockdown è stato il momento per riflettere su quello che avevamo e quello che avremmo potuto avere ritornando e al primo posto abbiamo messo la serenità personale». Un pianto e un abbraccio e Giusy e il marito Jerry, anche lui un expat da 12 anni a Londra, originario di Ficarazzi, nel Palermitano, decidono di tornare ad Aragona per aprire una distilleria per produrre gin con prodotti del territorio: «Stando fuori ci si accorge che abbiamo un tesoro nella nostra isola e ogni giorno che passo davanti la Valle dei Templi resto meravigliata perché la guardo con occhi diversi. Ci siamo abituati e non ci accorgiamo di quello che abbiamo». Giusy e Jerry hanno preso la loro vita in mano, si sono sposati in un campo di grano e hanno deciso che quella vita volevano riprendersela in mano in una terra che, nonostante i difetti, offre tante possibilità a chi ha voQ glia di inventarsi qualcosa. © RIPRODUZIONE RISERVATA

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Il pianeta preistorico

JURASSIC WORLD

Dal cinema alla ricerca e ritorno Il viaggio nel tempo dei dinosauri con il rigore della paleoarte Modelli in grafica 3d, animazioni e realtà aumentata nutrono i prototipi per le fiction ma alimentano lo studio su morfologia, abitudini e insediamenti delle specie estinte. E talvolta demoliscono credenze e falsi miti di Margherita

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Abis


Storie

Riproduzione realizzata da Fabio Manucci di un branco di Parasaurolophus

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mmaginate di adagiare sulla bilancia un animale che nessuno ha mai visto. Stabilirne caratteristiche come il peso o la grandezza. Poterlo osservare da vicino e notarne la composizione ossea, il colore della pelle o addirittura ricostruirne il comportamento. È ciò che si propone di mettere in pratica la paleoarte, materia relativamente giovane che unisce paleontologia e illustrazione, per rappresentare artisticamente la vita preistorica. Il termine è stato introdotto nel 1986 da Mark Hallett per definire il lavoro di illustrazione basato su scoperte scientifiche. Rappresentare graficamente uomini preistorici o animali estinti può risultare fondamentale per la ricerca e la divulgazione scientifica. Le nuove tecnologie, unite agli studi paleontologici, stanno alzando l’asticella di queste produzioni. Per riusci-

re a dare movimento e forma agli animali, in alcuni casi ci si avvale anche della grafica 3d e della realtà aumentata. Creando un modello virtuale, si possono ricostruire diverse informazioni di carattere scientifico. Si può risalire ad esempio al volume corporeo degli animali, alla struttura dei tessuti ossei e muscolari, al funzionamento degli organi, all’anatomia esterna o al colore della pelle. E da lì dedurre anche una serie di caratteristiche comportamentali. «In base al peso, ad esempio, si può comprendere qualcosa della relazione degli erbivori nell’ecosistema e, in generale, fare ipotesi sul loro modo di vivere e muoversi», spiega Fabio Manucci, paleoartista e illustratore scientifico. Ultimamente si è tornato a parlare di questa materia per la recente uscita di Jurassic World: Dominion e del documentario Apple Tv+ “Il pianeta

preistorico”, nuova serie evento sulla storia naturale. Nella serie, con una vera impostazione documentaristica, i dinosauri interagiscono realmente con l’ambiente circostante, grazie all’utilizzo delle tecnologie Cgi - Computer-generated imagery e alle consulenze degli studiosi. Tra loro, il paleontologo Mark Witton, il paleozoologo Darren Naish e l’illustratore scientifico Gabriel Ugueto. Le precedenti conoscenze sui dinosauri sono state rimesse in discussione e grazie agli studi paleontologici e alle tecnologie, gli animali sono stati rappresentati con una forma diversa dal comune immaginario. Da tempo gli esperti reclamano la necessità di una maggior cura nella rappresentazione dei dinosauri. E in questo caso si è proprio cercato di andare verso quella direzione, aggiungendo il piumaggio, colori più vividi e vi è in generale una maggior ricerca 17 luglio 2022

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Il pianeta preistorico

terminati casi, hanno conservato la capacità di compiere una sorta di galoppo con una postura più sollevata del corpo. E le orme dei dinosauri, a tre dita, a volte risultano indistinguibili da quelle degli uccelli». Coccodrilli e uccelli, come lo erano i dinosauri, sono estremamente abili nella velocità, nella resistenza a reggere il peso del proprio corpo e particolarmente propensi alla cura della prole. Gli uccelli hanno origine da un gruppo di piccoli dinosauri carnivori. Questa parentela viene confermata anche dal piumaggio dei dinosauri: tra gli anni ’80 e ’90 vennero infatti scoperti i primi dinosauri piumati. Come lo Scipionyx, un animale di 50 centimetri simile a una sorta di pulcino. Il suo fossile - battezzato Ciro - è stato reperito soltanto negli anni ’80, per un caso, da Giovanni Todesco: ma prima di quel momento vi era la convinzione che i dinosauri non avessero abitato l’Italia.

dei dettagli. «Ci siamo avvalsi delle tecniche migliori di Cgi e soprattutto degli studi paleontologici più recenti per ricreare i dinosauri, sia per quanto riguarda le forme che i colori, più vicini alla possibile realtà», ha dichiarato Jon Favreau, il produttore esecutivo della serie . La paleoarte si basa su rigore scientifico e si aggiorna con le nuove scoperte. Permette di compiere un vero e proprio lavoro di indagine e investigazione, che parte dallo studio dei reperti fossili o dalle specie viventi imparentate con quelle estinte che si vogliono studiare. Un esempio? Per la ricerca sui dinosauri il riferimento sono coccodrilli e uccelli che, contrariamente a quanto si può comunemente pensare, sono molto vicini da un punto di vista biomolecolare e genetico. Tutti e tre rientrano infatti nel gruppo degli arcosauri e, nel caso degli uccelli, si può tranquillamente affermare che siano dinosauri a pieno titolo, gli unici ancora viventi. Studiando coccodrilli e uccelli si può risalire alle caratteristiche

C Ga. Et magnias experferorum dolore, omnis Fabio Manucci, e illustratore doluptium fugit paleoartista dellaborum volupta nimi, scientifico. In alto, studio preparatorio realizzato da Manucci di un Prodeinotherium

dei dinosauri del Mesozoico e partire da lì per la riproduzione grafica di questi animali. Un punto in comune sono gli artigli e la postura bipede. Caratteristiche che tradiscono il loro aspetto antico. «I coccodrilli, così come gli uccelli, hanno “liberato” le zampe di alcuni artigli. I coccodrilli, in de-

on la grafica 3d e l’uso delle tecnologie legate alla paleoarte è cambiata molto la consapevolezza su alcuni animali. È il caso dello Spinosauro, dinosauro presente in Nord Africa, di cui esistevano pochissimi resti. Per diverso tempo abbiamo pensato che lo Spinosauro, che compare anche in Jurassic Park, fosse un terribile teropode, il dinosauro più spaventoso di sempre. Ricostruendo l’immagine dell’animale sappiamo ad esempio che, nonostante fosse lungo più del T.rex, non doveva essere rappresentato in posizione eretta ma a 4 zampe. E che la sua coda è molto diversa dall’idea iniziale che se ne aveva: «È in realtà simile a un’enorme pinna che gli permetteva di nuotare», puntualizza Fabio Manucci. Da queste recenti ricerche si è dedotto infatti si trattasse di un dinosauro in parte acquatico; l’unico caso di un dinosauro così legato all’acqua. Molto utile per la ricerca è stato, attraverso anche l’utilizzo della grafica, comprendere come si muove lo Spinosauro. Il paleontologo Simone Maganuco ha reinterpretato la forma di 17 luglio 2022

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Il pianeta preistorico

Riproduzione realizzata da Manucci di un enigmatico parente dei coccodrilli, denominato Razanandrogobe e scoperto nel Madagascar

questo dinosauro carnivoro. Molto si è potuto capire studiando il muso dell’animale, oggi conservato a Milano. La forma interna del muso, la nervazione e il sonar gli permettevano di pescare, captando le prede e distinguendole anche nell’acqua melmosa. Caratteristiche molto simili si ritrovano nel muso del coccodrillo. È la convergenza evolutiva: il fenomeno per cui specie diverse tra loro, per adattarsi ad ambienti simili, sviluppano caratteristiche morfologiche e funzionali analoghe. «Qualcosa di simile stiamo provando a realizzare con il dinosauro Scipionyx, il primo dinosauro italiano. Ho ricostruito i suoi organi interni in 3d a partire dal fossile, che era piatto. Confrontandomi con i paleontolgi sono riuscito a creare un modello esplorabile, ora stampato in 3d e conservato al museo di Bergamo. Ciò aiuta a comprenderne l’anatomia. La paleoarte riassume queste informazioni tramite le immagini», spiega Manucci che ora, insieme a Simo116

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ne Maganuco, Cristiano Dal Sasso e Marco Romano sta svolgendo alcune ricerche legate alla paleontologia in Sardegna, terra antichissima e dunque molto ricca di reperti fossili. Sono stati reperiti ad esempio i resti dell’Alierasaurus, un pelicosauro di enormi dimensioni, tra i 6 e i 7 metri, con arti forti, una lunga coda e una minuscola testa. Si tratta di un gruppo così antico da essersi estinto molti milioni di anni prima che apparissero i dinosauri. Alierasaurus resta, a oggi, il più grande animale del suo tempo, uno scenario inatteso che rivela quanto resti da scoprire sul passato dell’Italia.

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a riproduzione grafica ha permesso anche di ottenere una serie di informazioni sul colore dei dinosauri. Informazioni che a volte sono contenute nei fossili dove si possono osservare particolari pigmentazioni o striature. Come nel caso di alcune specie conservate con piumaggio. «Studiando i fossili e rac-

cogliendo le informazioni necessarie alla riproduzione grafica, si è notato che una specie aveva la coda a bande bianche e scure, spunto che abbiamo scelto di mostrare anche nella ricostruzione di Scipionyx. Un’altra aveva le ali con alcune maculazioni, come un fagiano variopinto». Per quanto riguarda le scienze naturali, la situazione in Italia è rimasta piuttosto ferma. Una rivoluzione delle conoscenze nel nostro Paese si è osservata negli anni ’90. «Ora si stanno provando a eliminare leggi molto datate che non favoriscono la figura del paleontologo . Spesso veniva confusa l’archeologia con la paleontologia, compiendo un errore grave. L’Italia è indietro per questo, nonostante i fossili ci siano», racconta Manucci. Tuttavia l’interesse per questa materia, da parte delle grandi produzioni, non solo continua ad accendere la fantasia di generazioni di appassionati ma fa anche ben sperare per il futuQ ro della ricerca. © RIPRODUZIONE RISERVATA



Ho visto cose/tv

GEPPI CUCCIARI, TROPPO BRAVA PER VINCERE La tv di Guglielmi è finita. Oggi ci si ostina a puntare solo sui soliti noti

BEATRICE DONDI Nell’episodio del film “L’oro di Napoli” intitolato “I giocatori”, Vittorio De Sica prova a vincere in tutti i modi contro il piccolo Gennarino. E rilancia, e si infuria, e alza la posta, ma il piccolo avversario non si scompone, lo guarda dal basso verso l’alto, mentre fuori i sui amichetti giocano in cortile, lui resta lì con le manine piccole e le carte ben strette conta punti su punti, primiera, settebello, scopa, non c’è gara. «Mi gioco l’intero palazzo, dalle cantine al tetto, e la mia tenuta di Sparanise con il frutteto, vigneto, bosco e tutto. E aggiungo anche la giacca», strepita l’inutile nobile. Ma anche se il conte è un conte, Gennarino vince sempre. Come Geppi Cucciari. Quando è apparsa in abito da sera con l’ombrello alla tristanzuola serata del Premio Strega dicendo: «La buona notizia è che è finita la siccità, la cattiva è che è finita stasera», e ha continuato tenendo strette le briglie della difficile diretta con questo livello di ironia e intelligenza a secchi come la pioggia, è stata accolta tra lo stupore generale. Ma tu pensa, una strepitosa comica votata alla conduzione che riesce a portare avanti una serata con agio. Come se fosse chissà quale novità, che Maria Giuseppina Cucciari, capace di passare dal teatro alla radio, da Mattia Torre al panel di

“Che Succ3de”, tanto un palco vale l’altro, con la stessa agilità con cui si schiaccia a canestro, è un’artista di razza. A cui si potrebbe affidare persino qualcosa di più dell’assegnazione di premi dal 2 per cento di share. Ma togliere lo scettro ai soliti noti, che si contano al solito sulle dita di una mano è un compito arduo e a volte sembra quasi un reato di lesa maestà il solo pensarlo. Datele Sanremo, regalatele un palinsesto, un reame, fatele guidare anche gli autobus, si leggeva in questi giorni nell’entusiasmo generale. Poi, finita la pioggia, tutto è tornato nei ranghi e per la prossima stagione si assisterà senza scossoni a una televisione in cui i conti squattrinati continueranno a tenere la scena, millantando possedimenti già perduti. D’altronde la stagione del mai compianto abbastanza Angelo Guglielmi è passata da un pezzo, quell’epoca d’oro in cui si investiva e si prendevano rischi per lasciare allo spettatore il gusto del piacere di un tv ben fatta, capace di guardare in avanti. Anziché affidarsi all’usato sicuro, in cui è estremamente più semplice ogni volta che si assiste a una partita giocata come si deve, far finta che sia un caso. Anche se le carte lo sanno a chi devono andare. Q

#musica Troppe bollicine e senza gusto Cari artisti della musica, questo è un appello che quasi certamente verrà totalmente ignorato, ma tentar non nuoce, se solo fosse possibile insinuare anche un solo piccolo infinitesimale dubbio nella coscienza dei più. Detto senza alcuna acredine, c’è un problema piuttosto evidente: la produzione musicale del momento fa veramente schifo. Esce roba in continuazione, presunti

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GINO CASTALDO successi a ripetizione, ma il livello stagionale si è drammaticamente abbassato, le parole «ferragosto», «bolle» o «bollicine», «spiaggia», «bagnasciuga» non sono mai state usate tanto all’interno di canzoni, neanche negli anni Sessanta, i pezzi che escono sono modesti, coprono sì e no il minimo sindacale, sono fiacchi anche al livello primario del puro intrattenimento, non c’è nulla da cantare con autentica passione, sembrano tutti dolcini fatti con ingredienti scadenti. Ci sono alcune eccezioni, com’è naturale che sia,

ma sono sommerse da un’onda di mediocrità di inaudita potenza. Che succede? Non faccio nomi, per due ragioni, la prima è che non sarebbe giusto fare esempi scelti a campione per un discorso che invece è assolutamente generale e riguarda l’intero panorama, la seconda è pura vigliaccheria. È estate anche per chi scrive e non c’è alcuna voglia di sopportare shitstorm violente a copertura totale. Il termine inglese ingentilisce la questione ma vuol dire «tempesta di merda» e rende molto bene l’idea. C’è anche una


Scritti al buio/cinema

I PUGNI DISCHIUSI DI ADA La sfida di una ragazza dell’Ossezia ci racconta del mondo e delle sue brutture

FABIO FERZETTI

Foto: Alamy - IPA

Ada tiene spesso il viso nascosto e non solo quello. Ada ha un fratello più grande già scappato di casa e uno più piccolo che quando non è in giro a fare il pazzo in motocicletta vuole sempre dormire con lei (un’insistenza che sfiora l’incesto). Ada ha anche un padre-padrone, un uomo malato nel corpo e nell’anima che la controlla in ogni momento credendo di amarla e proteggerla. Poi c’è Tamik, un ragazzo che avrà una ventina d’anni come lei e quando non è in giro a fare consegne col furgone le dedica una corte dolce e asfissiante. Questo però è solo il contorno perché la silenziosa “Adazda”, come tutti la chiamano vezzeggiandola, ha un segreto che non riguarda solo lei ma il luogo in cui vive: Mizur, un villaggio minerario nell’Ossezia, del Nord, piccola repubblica caucasica segnata da tensione politica e terrorismo. E il film di Kira Kovalenko, così brutale e sentimentale insieme, ricongiunge la storia personale di Ada a quella del suo mondo con la fermezza e la grazia di chi è stato allievo di Aleksandr Sokurov. E venendo da una repubblica che almeno in Occidente nessuno saprebbe trovare sulla carta al primo colpo, la Cabardino-Balcaria, sa per istinto che nulla è più universale di ciò che sembra locale. Come il suo compatriota (e compagno) Kantemir Balagov, l’autore di “Tesnota” e “La

terza ragione. Questo è un appello accorato, non vuole generare odio, al contrario vorrebbe fare appello alla coscienza di chi fa musica. Il mondo non ha solo bisogno di distrazioni, che è l’alibi principale di tutti quelli che stanno immettendo pessimo materiale sul mercato, il mondo ha anche, direi soprattutto, bisogno di bellezza. È quella che manca, perché se il mondo è pieno di orrori, non si combatte la bruttezza facendo finta che la spiaggia sia la soluzione di tutti i mali, intanto perché ovviamente non è vero, e con i cambiamenti climatici è sempre meno vero, l’orrore si combatte con l’unica vera arma a disposizione della musica, ovvero

ragazza d’autunno”, due gioielli che i lettori di questa rubrica forse ricordano, la 32enne Kovalenko ha infatti frequentato il laboratorio di cinema tenuto a Nalchik dal grande regista di “Arca russa” e tanti altri capolavori. Di qui, forse, la straordinaria capacità di mettere in risonanza i corpi dei suoi personaggi con i luoghi in cui vivono. Estraendo da questa dolorosa cronaca familiare - dolorosa nel fondo, non certo nei toni convulsi - snodi e atmosfere che richiamano a tratti apertamente “I pugni in tasca” di Bellocchio (il titolo internazionale del film è “Unclenching Fists”, pugni dischiusi). Anche se qui a ribellarsi è una giovane che sottraendosi, letteralmente, alla stretta mortifera della famiglia, non combatte solo per sé ma per il suo sesso. Per le mille etnie e culture di quella parte di mondo che ci ostiniamo a chiamare Russia ma è infinitamente più variegata e contraddittoria di quanto crediamo. E per quell’arte così centrale nel ’900 che nelle periferie del mondo ogni tanto ritrova la forza esplosiva di una volta. Q ©RIPRODUZIONE RISERVATA

“ADA (UNCLENCHING FISTS)” di Kira Kovalenko Russia, 95’

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creare qualcosa di bello, che ci unisca, che ci emozioni, che ci faccia sentire orgogliosi di appartenere al genere umano, impresa di questi tempi assai difficile è vero, ma pur sempre da tentare. Insomma se proprio volessero assumersi un briciolo di responsabilità, i cantanti dovrebbero sforzarsi di più, tentare di immaginare canzoni che possano essere davvero di conforto, anche struggente, doloroso, intenso, ma soprattutto autentico, non un mare di plastica inquinante e insapore, canzoni da vivere col cuore, come direbbe Barbara D’Urso, e non solo col battito dei contatori di denaro. Q ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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Noi e Voi

N. 28 17 LUGLIO 2022

DIRETTORE RESPONSABILE: LIRIO ABBATE CAPOREDATTORI CENTRALI: Leopoldo Fabiani (responsabile), Enrico Bellavia (vicario) UFFICIO CENTRALE: Beatrice Dondi (vicecaporedattrice), Sabina Minardi (vicecaporedattrice) REDAZIONE: Federica Bianchi, Paolo Biondani (inviato), Emanuele Coen (vicecaposervizio), Angiola Codacci-Pisanelli (caposervizio), Antonio Fraschilla, Vittorio Malagutti (inviato), Antonia Matarrese, Mauro Munafò (caposervizio web), Carlo Tecce (inviato), Gianfrancesco Turano (inviato), Susanna Turco ART DIRECTOR: Stefano Cipolla (caporedattore) UFFICIO GRAFICO: Martina Cozzi (caposervizio), Alessio Melandri, Emiliano Rapiti (collaboratore) PHOTOEDITOR: Tiziana Faraoni (vicecaporedattrice) RICERCA FOTOGRAFICA: Giorgia Coccia, Mauro Pelella, Elena Turrini SEGRETERIA DI REDAZIONE: Valeria Esposito (coordinamento), Sante Calvaresi, Rosangela D’Onofrio OPINIONI: Altan, Mauro Biani, Luca Bottura, Massimo Cacciari, Lucio Caracciolo, Franco Corleone, Donatella Di Cesare, Roberto Esposito, Luciano Floridi, Bernard Guetta, Sandro Magister, Makkox, Bruno Manfellotto, Ignazio Marino, Ezio Mauro, Michela Murgia, Denise Pardo, Massimo Riva, Pier Aldo Rovatti, Giorgio Ruffolo, Eugenio Scalfari, Michele Serra, Raffaele Simone, Bernardo Valli, Gianni Vattimo, Sofia Ventura, Luigi Vicinanza, Luigi Zoja COLLABORATORI: Simone Alliva, Erika Antonelli, Viola Ardone, Silvia Barbagallo, Loredana Bartoletti, Giuliano Battiston, Marta Bellingreri, Marco Belpoliti, Caterina Bonvicini, Floriana Bulfon, Ivan Canu, Gino Castaldo, Giuseppe Catozzella, Manuela Cavalieri, Rita Cirio, Stefano Del Re, Alberto Dentice, Francesca De Sanctis, Cesare de Seta, Roberto Di Caro, Paolo Di Paolo, Fabio Ferzetti, Alberto Flores d’Arcais, Marcello Fois, Antonio Funiciello, Giuseppe Genna, Wlodek Goldkorn, Marco Grieco, Luciana Grosso, Helena Janeczek, Stefano Liberti, Claudio Lindner, Francesca Mannocchi, Gaia Manzini, Piero Melati, Luca Molinari, Donatella Mulvoni, Matteo Nucci, Eugenio Occorsio, Marco Pacini, Massimiliano Panarari, Gianni Perrelli, Simone Pieranni, Paola Pilati, Sabrina Pisu, Laura Pugno, Marisa Ranieri Panetta, Mario Ricciardi, Gigi Riva, Gloria Riva, Stefania Rossini, Evelina Santangelo, Elvira Seminara, Caterina Serra, Chiara Sgreccia, Francesca Sironi, Leo Sisti, Elena Testi, Chiara Valentini, Chiara Valerio, Stefano Vastano PROGETTO GRAFICO: Stefano Cipolla e Daniele Zendroni

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CONTRO IL VIRUS VALE IL FAI-DA-TE RISPONDE STEFANIA ROSSINI [ STEFANIA.ROSSINI@ESPRESSOEDIT.IT ] Cara Rossini, si prevede che i contagi da Covid possano arrivare a 100 mila al giorno. Ma se siamo tutti plurivaccinati! Io mi chiedo se quelli che ci vengono iniettati siano davvero vaccini. Infatti se faccio il vaccino anti-polio non prendo la polio, se faccio il vaccino contro il morbillo non prendo il morbillo, mentre ho fatto tre vaccini contro il Covid e ho preso il Covid. Sono favorevole ai vaccini perché i dati dimostrano che combattono le forme più gravi che portano alla morte ma comunque, nella mia ignoranza scientifica, a me non sembra giusto chiamarli vaccini.

Roberto Bellia

Siamo alla terza estate segnata dal Covid e io non ne posso più. Sono avanti con gli anni ma non troppo per ottenere subito il vaccino e mi proteggo da sola con le mascherine e la prudenza. Però lavoro a stretto contatto con il pubblico e non vedo più nessuno che si faccia scrupolo verso il prossimo. Tutti si sentono liberati e vivono con una spensieratezza inquietante. Loredana Baudino Nonostante il continuo aumento dei contagi, dei ricoveri e dei decessi, si permette lo svolgimento di eventi che richiamano decine di migliaia di persone, come i concerti dei Måneskin o il Palio di Siena. Visto che si è scelto di lasciare che il virus si diffonda, sarebbe intollerabile che in autunno ci imponessero di nuovo ogni tipo di restrizione. Non è ammissibile salvare le vacanze e il divertimento per poi colpire quando si deve lavorare o studiare. Mauro Chiostri So di alcune persone che si sono infettate e una volta risultate positive non lo hanno ufficializzato. I più bravi si sono chiusi in casa con antiinfiammatori a gogò, un occhio al termometro ed uno al saturimetro. Altri invece hanno continuato fare le stesse cose che facevano prima, tanto loro il virus se lo sono già preso, del prossimo che gliene frega? Franco Bonvini Il Covid non ci incute più paura come all’inizio. Diciamo che siamo arrivati al punto di “vivi e lascia vivere”. Addirittura c’è chi sa di essere stato contagiato e non se ne dà pena, anzi se ne va in giro come se nulla fosse e, se fosse scoperto, avrebbe tutte le ragioni dalla sua parte per dire che così fan tutti. Salvatore Monaco

Dubbi, perplessità, denunce e tanta stanchezza per questo virus che ci accompagna da più di due anni, mutando in continuazione e rincorrendo i vaccini. I nostri lettori sono colpiti dalla sconsideratezza dei comportamenti e dalle scelte permissive delle istituzioni. Hanno ragione. Io, che vivo in un quartiere romano dove ci sono due turisti per metro quadro, sono guardata come un animale in estinzione perché indosso ancora la mascherina. Ma se è vero, come ormai sembra sicuro, che con il Covid dovremo convivere per sempre, tanto vale farsene una ragione sopportando gli egoismi e le concessioni alla spensieratezza. E cercando di cavarsela da soli.

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N. 28 - ANNO LXVII - 17 LUGLIO 2022 TIRATURA COPIE 207.400

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Michele Serra

Satira Preventiva

In attesa dell’Ama adotta un cassonetto A Roma una nuova idea. Non potendo essere svuotati, i contenitori di immondizia potrebbero essere curati e tenuti in ordine dagli abitanti

Poteri speciali I trentùnveri avranno poteri speciali, mai avuti fin qui da nessuna amministrazione romana dopo Diocleziano. Per esempio potranno licenziare il netturbino che, in orario di lavoro, stava effettuando una rapina. Oppure richiamare in servizio gli impiegati comunali in malattia da più di cinque anni. Decisioni estreme, mai applicate fino ad oggi, ma necessarie. Eventuali ricorsi dei Cobas potranno essere appallottolati e lanciati nel cestino della carta, con la tecnica del mini-basket, senza che il Tar del Lazio possa intervenire per annullare il provvedimento. Anche il caso di Giggi Manicacci, l’autista dell’Atac che si è sempre rifiutato di guidare il suo autobus in salita perché soffre di

vertigini, potrà finalmente trovare una soluzione: Manicacci verrà assegnato alle linee urbane che prevedono solo tratti in discesa. Gli incendi L’ipotesi dell’autocombustione perde consistenza. In esperimenti di laboratorio si è potuto verificare che le bucce di cocomero, anche se lasciate una settimana sotto il sole cocente, marciscono senza prendere fuoco. Quanto alle lavatrici, nella peggiore delle ipotesi per effetto della canicola si rimettono in moto automaticamente e alcune riescono perfino ad ultimare il candeggio. A prendere fuoco con facilità sono invece le sterpaglie, il cui ultimo taglio quinquennale, che scadeva nel 2019, non ha potuto essere effettuato per mancanza di personale. Per studiare una soluzione un pool di esperti del Campidoglio si è inoltrato in una delle zone incolte che costeggiano le vie consolari, ma non ha mai fatto ritorno. La Protezione civile li sta cercando attivamente, anche con i droni, ma non è facile avvistare presenze umane in una fitta boscaglia. Si è anche temuto che i dispersi fossero stati aggrediti e divorati dai cinghiali, ma le guardie zoofile assicurano che le bestie si sono trasferite da tempo nel centro storico a causa delle condizioni invivibili della periferia. L’affido I cassonetti in affido: ecco

un’idea che potrebbe funzionare. Ogni famiglia volonterosa potrebbe prendersi cura di un cassonetto abbandonato dalla nettezza urbana, allontanando i topi con ramazze e grida minacciose. Quanto al contenuto, essendo impossibile svuotarlo, i volontari potrebbero risistemarlo in modo più ordinato, guadagnando nuovo spazio utile. Sul modello dell’ikebana giapponese, sarà incrementata l’arte di ricomporre i rifiuti nei cassonetti in modo razionale e armonioso, con premi comunali ai cassonetti meglio accuditi. Nei quartieri più eleganti sono già comparsi sacchi della spazzatura fatti all’uncinetto dalle signore residenti: sistemati attorno ai cassonetti traboccanti, danno un’idea di maggiore ordine e grazia ai rifiuti che non hanno ancora trovato il loro posto. La polemica La continua insistenza dei media sulla grave situazione dei rifiuti a Roma ha provocato una piccata risposta del Campidoglio. «La situazione dei rifiuti a Roma non è affatto grave - si fa notare in un comunicato - e al contrario possiamo affermare che in nessuna capitale del mondo la situazione dei rifiuti è così florida. I rifiuti romani sono abbondantissimi, vivono all’aria aperta e non hanno alcun timore di essere smaltiti a breve». n

© RIPRODUZIONE RISERVATA

La rubrica “L’antitaliana” di Michela Murgia tornerà nelle prossime settimane

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17 luglio 2022

Illustrazione: Ivan Canu

I

l governo ha deciso di affrontare la crisi di Roma con una decisione senza precedenti: tutti i sindaci succedutisi dal 1945 a oggi, tranne i defunti, sono stati richiamati in servizio. In Campidoglio siederanno dunque trentuno sindaci, di tutte le età e di tutti i partiti, che saranno chiamati i trentùnveri. Unendo gli sforzi e sommando le loro esperienze, i trentùnveri potrebbero riuscire a risolvere almeno alcune delle emergenze capitoline, come i giochi abusivi al Colosseo, con combattimenti tra gladiatori e leoni, gestiti dalla mafia albanese in collaborazione con alcune agenzie turistiche abusive.




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