FARE n. 51 - MARZO 2021

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focus moda

“Veloce e digitale” così la filiera Moda&Lusso pensa al post pandemia

A

lessandro Varisco, amministratore delegato di Twinset, è stato nominato a fine novembre presidente della filiera Moda&Lusso di Confindustria Emilia. Al suo fianco, in qualità di delegati aggiunti, ci sono Andrea Carnevali di Cadica e Stefano Bonacini di Gaudì. Presidente Varisco, una governance di filiera a trazione completamente carpigiana per provare a prendere di petto una situazione che, tenendo come bussola proprio il recente studio promosso dall'amministrazione comunale, “Economia e comunità a Carpi. Le prospettive del tessile-abbigliamento”, non è proprio rosea. Per motivi di tempo non ho potuto fare una lettura approfondita e puntuale dello studio, ma posso dire che il primo impatto è stato positivo. Siamo indubbiamente di fronte a un lavoro che privilegia pragmatismo e concretezza, valori fondanti, mi verrebbe da dire con una venatura di romanticismo, del nostro agire imprenditoriale. Che la situazione del distretto non sia rosea è evidente. Ma sfido qualsiasi altro settore o filiera a dire che non ha subito nessun contraccolpo, nessuna onda lunga, da questa pandemia. Soltanto vent’anni fa Carpi era la culla di un modo di fare impresa diffuso, frammentato ed effervescente: piccoli fatturati ma, a livello distrettuale, una identità riconoscibile e distintiva. Oggi quel vecchio modello è appannato. Dobbiamo ricostruirlo e potenziarlo partendo dai fondamentali, mettendo in secondo piano interessi di piccolo cabotaggio e guardando al tema della crescita dimensionale non come a un rischio ma piuttosto come a una grande opportunità. Lei sostiene che il classico paradigma del pesce grande che si mangia il pesce picco-

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lo non è più attuale. Piuttosto è il pesce veloce che fagocita il pesce lento. Ci spiega meglio, fuor di metafora? Sì, è un mio convincimento. Capiamoci però: essere grandi, dimensionalmente accettabili in un mercato globale qual è nel 2021 la Moda&Lusso, è una condizione importante ma non è l’unica. Se sei elefantiaco ma lento, anche i piccoli possono, un brano alla volta, inghiottirti. Un’azienda veloce è un’azienda che prende decisioni e si adatta al contesto senza subirlo. Il Covid-19 ha sconquassato la filiera della Moda&Lusso da monte a valle. Ti rimetti in carreggiata solo se sei disposto, in velocità, a prendere decisioni importanti e se il cambiamento tecnologico e culturale lo cavalchi. Nel mondo anglosassone la sintesi di questo concetto è “lean & learning organisation”, aziende cioè snelle e intelligenti nel capire la direzione da prendere e, al contempo, abili nel capitalizzare tutte le occasioni di apprendimento che la situazione economico-produttiva dona. Oggi tutte le aziende sono immerse in un contesto eminentemente tecnologico, digitale. Puoi essere piccolo o grande, ma non puoi non essere veloce se vuoi competere. La svolta digitale ci aiuta a essere più veloci. Il tema delle fusioni e degli accorpamenti è nell’agenda di moltissime aziende. Rimanendo alla cronaca economica più recente del nostro territorio: il fondo Hig Europe ha comprato Cadica, Tessilgraf e Bernini, Liu Jo ha incorporato Blumarine, Moncler ha acquisito Stone Island. È il capovolgimento senza appello dello slogan “piccolo è bello”? Lo dico chiaramente: le aggregazioni sono un dogma per me. Rappresentano un pezzo importante della mia storia professionale, non potrei mai rinnegarne il valore. Ciò nondimeno, quando penso a una aggregazione fatta a regola d’arte, ho in testa una

di GV

aggregazione che si muova nel solco di una lungimirante alleanza di intenti prima ancora che economica. In Italia non è sempre semplice portare a compimento operazioni di questo tipo, siamo pur sempre il Paese dei campanili e delle logiche, per dirla in politichese, correntizie. Insomma, laddove la cooperazione vera precede l’affare economico, l’aggregazione vince e si solidifica nel tempo con beneficio di tutti. Piccolo è bello? Se sei piccolo, veloce e dalla tua hai magari una specializzazione unica, piccolo non è bello ma bellissimo: penso agli artigiani e alle aziende di prototipia. Checché se ne dica, rimarranno loro la spina dorsale e il tessuto connettivo della moda italiana. A questo punto, però, si apre un altro scenario, diciamo di rango istituzionale. Mantenere in vita queste eccellenze, nonostante il deficit dimensionale, non è forse compito del sistema Paese nel suo complesso? Giorgio Armani in questi mesi di pandemia ha parlato spesso di un modello sostenibile di sviluppo per la moda italiana. I grandi marchi, le griffe del lusso e dell’alta gamma, hanno tutto l’interesse a virare verso la cosiddetta economia circolare, è evidente. Lo stesso modello, però, come si può cucire addosso alle Pmi senza il rischio di strappi dolorosi? All’input che indica Giorgio Armani non si sfugge. Sostenibilità e conversione green della manifattura sono punti in cima alle agende di politica industriale di tutti i Paesi occidentali. Lo testimonia l’attualissima discussione sull’allocazione dei 209 miliardi di euro del Recovery Fund. Detto ciò, sono anche convinto che la rivoluzione verde non impatti allo stesso modo su tutte le aziende. Se sei una realtà imprenditoriale, per rimanere nel perimetro merceologico di nostra pertinenza, che sta nella catena del valore del lusso, hai un ritorno di convenienza e visi-


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