ISSN 2611-0954
mensile (fondato nel 1973) Direzione e amministrazione: Via Fratelli Bandiera, 6 - Tel. 06/91.12.113 - 00071 POMEZIA (Roma) - Fondatore e Direttore responsabile: DOMENICO DEFELICE – e-Mail: defelice.d@tiscali.it – Attività editoriale non commerciale (art. 4, D.P.R. 26.10.1972 n. 633 e successive modifiche) - Autorizzazione del Tribunale di Roma n. 213/93 del 23/5/1993 - La collaborazione, sempre gratuita, in parte è libera, in parte è per invito. Ogni autore si assume la responsabilità dei propri scritti - Manoscritti, fotografie e altro materiale, anche se non pubblicati, non vengono restituiti - É ammessa la riproduzione, purché se ne indichi la fonte. Per ogni controversia, foro competente è quello di Roma. - Il mensile è disponibile su: http://issuu.com/domenicoww/docs/
Anno 30 (Nuova Serie) – n. 1
- Gennaio 2022 -
N° 13 della Serie online
QUEENRINALE Un sogno che continua di Giuseppe Leone
P
ROPRIO nel bel mezzo di un trasloco - si fa per dire - mentre cerco fra riviste e libri quali salvare e quali no, eccomi tra le mani una rivista del ’99 dove avevo pubblicato un articolo sulle elezioni del presidente della repubblica previste per la primavera di quell’anno. Mi ha meravigliato il suo tema, così attuale ancora oggi allo scadere del settennato di Sergio Mattarella. Anche allora, come oggi, si discuteva se non fossero maturi i tempi per una elezione rosa, se non fosse davvero opportuno dare a una donna la prestigiosa carica di prima cittadina italiana, soprattutto, per dire grazie alle centinaia di migliaia che hanno preso parte alla lotta partigiana, perché sarebbe semplicemente vergognoso mandare in soffitta la costituzione nata dalla Resistenza, senza avere mai eletto una donna al Quirinale. Questi l’occhiello, il titolo e il sottotitolo dell’articolo: “Il ministro Laura Balbo minimizza sulla crescita zero / Meno figli? Più donne in politica. / E per la presidenza sogna in rosa”.
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All’interno: Klimt. La secessione e l’Italia, di Isabella Michela Affinito, pag. 5 Vincenzo Rossi in un saggio di Imperia Tognacci, di Antonio Crecchia, pag. 8 La pittura di Andrea Bonanno e la critica, di Domenico Defelice, pag. 11 Quadretti, di Antonia Izzi Rufo, pag. 13 Ricordo di Graziano Giudetti, di Domenico Defelice, pag. 15 Intervista a Domenico Defelice, di Graziano Giudetti, pag. 21 Catullo, di Leonardo Selvaggi, pag. 27 Notizie, pag. 34 Libri ricevuti, pag. 35 Tra le riviste, pag. 36
RECENSIONI di/per: Domenico Defelice (Parole Sospese, di Manuela Mazzola, pag. 32); Domenico Defelice (Graziano Giudetti. Il senso della vita, di Tito Cauchi, pag. 32); Manuela Mazzola (Nike. Nuovi Idiomi Koinè Estrosa, di Tito Cauchi, pag. 33).
Inoltre, poesie di: Mariagina Bonciani, Corrado Calabrò, Rocco Cambareri, Domenico Defelice, Ada De Judicibus Lisena, Luigi De Rosa, Francesco Fiumara, Eleuterio Gazzetti, Graziano Giudetti, Antonia Izzi Rufo, Gianni Rescigno, Lucio Zaniboni E questo è il testo: “Intervistata sulla crescita zero nel nostro Paese, Laura Balbo, ministro per le Pari Opportunità, così risponde: “Con buona pace dei demografi, il calo delle nascite significa anche che avremo più donne che si occuperanno di politica anziché di tanti bambini”. Mai prima d’ora m’era capitato di leggere una considerazione così positiva, così priva di allarmismo, così nitidamente laica nell’ispirazione, su un argomento solitamente foriero di angosce, quale appunto il crollo delle nascite. Tra le tante espressioni, quasi sempre di disappunto: “l’Italia terra delle culle vuote”, “Mamma mia non volano più le cicogne”, “Le città italiane diventeranno musei abitate solo da vecchi”, la riflessione del ministro colpisce per la serenità e l’ottimismo con cui riesce a pensare, in termini favorevoli per le donne, una situazione per altri versi ritenuta drammatica. Continuando poi l’intervista e volendo insistere sulla prospettiva politica positiva in cui s’inserirebbe la vita delle donne, una volta libere da preoccupazioni educative, il
ministro non disdegnerebbe che i primi segnali di questa nuova “establishment rosa” si possano avere coll’elezione di una donna al Quirinale. “Se abbiamo fortuna - si augura e siamo brave, questa volta ce la facciamo, i
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tempi sono maturi… sarebbe un segnale di straordinaria innovazione simbolica”. Quale donna vorrei che venisse eletta? Né questa né quella, perché le sue caratteristiche sarebbero davvero secondarie rispetto al valore storico, politico e culturale che l’elezione in sé rivestirebbe. Dunque, nessuna in particolare, ma solamente una donna, per via di quella “straordinaria innovazione simbolica” che potrebbe investire la struttura mentale del nostro popolo. Essere europeisti e rappresentati da una donna, darebbe all’Italia, in questo scorcio di fine secolo, un tocco di modernità, impensabile fino a non molto tempo fa, in un Paese, dove le donne non avevano ancora diritto di voto e solo una percentuale bassissima frequentava la scuola; mentre la politica, al pari di tante altre professioni, era una pratica quasi esclusivamente maschile. Basti pensare che nel referendum del ’46 le donne elette nell’Assemblea Costituente saranno appena 21, su 556 deputati. Avere una donna alla presidenza della repubblica, vorrebbe anche dire che è caduto, nel nostro Paese, l’ultimo dei pregiudizi, l’addio, senza dubbio positivo, a una concezione che aveva assegnato agli uomini il primato di ogni conoscenza e di ogni iniziativa. E sarebbe finalmente la messa in atto della democrazia dell’alternanza, quella per eccellenza fra uomo e donna, che darebbe per la prima volta completa realizzazione all’articolò 3 della nostra costituzione, che così recita: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni
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personali e sociali. …”. Per ora, pensare una donna al Quirinale, è solo un augurio. È molto probabile che, anche questa volta, la scelta cadrà su un uomo. Ma ciò non deve costituire un motivo di delusione o pensare a un appuntamento mancato. Importante è sapere che si è legittimati dalla realtà quando si immagina una donna presidente della repubblica in virtù dei notevoli contributi che lei ha saputo dare alla nostra civiltà. I tempi sono dunque maturi, e se non sarà questa primavera, potrà essere in una prossima”. Qui si conclude l’articolo di allora, ma non la discussione, che riprende nuovamente fiato soprattutto in queste settimane d’inizio inverno ’21-’22. E non tanto, per giocare anche stavolta al toto Quirinale, quanto per cercare di capire come mai fino a questo momento siano stati eletti solo presidenti uomini e mai donne. Forse perché l’Italia non è un Paese per donne? Qui, da noi, dove l’opinione pubblica dominante è stata raramente su posizioni progressiste, diritti come il divorzio o l’aborto non sono ancora sufficientemente al riparo da possibili revisioni; né il paternalismo è stato ancora sostituito dall’idea di paternità, mentre la famiglia, più che una finestra spalancata sul mondo, è apparsa talvolta come un ingresso per passaggi segreti. Tutte cose, queste, che hanno, probabilmente, impedito alla nostra cultura di crescere sotto il profilo della qualità e della modernità. Che cosa aspettarsi, allora, da queste elezioni? Che non siano innanzitutto plebiscitarie, ma si incanalino nei binari della corretta democrazia; e neppure, che si concepiscano, come qualcuno si augura, in un’urgenza di presidenzialismo, perché non sarebbe questa la ricetta in grado di sanar le piaghe c’hanno Italia morta. L’Italia in questo momento ha bisogno di tutto meno che di un padrone che venga a prendersela. Ha bisogno d’altro. Per esempio, di cittadini “onesti” degni di questo nome; e di cittadine, pur esse “oneste”, salvifiche, una sorta di Beatrice dantesca o di Clizia di montaliana memoria.
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Tutto questo, prima che non sia troppo tardi, viste le spinte di autoritarismo che premono un po’ ovunque nel mondo e non solamente in Italia, prima che, questa nostra repubblica parlamentare, nata dalla Resistenza e dal saggio proposito dei padri costituenti di fare già del parlamento il primo tra i contrappesi della democrazia, chiuda i suoi giorni, perché la Resistenza - per dirla con Gina Lagorio - “non è una leggenda, e non è storia passata, ma una scelta morale, che condiziona l’intera esistenza; è presente in tutta la nostra storia e in quella di ogni popolo che si conquista la sua libertà e la sua giustizia: sempre la muove l’amore della terra in cui si è nati e che si difende per viverci da uomini”. Giuseppe Leone Nelle foto: Il Capo dello Stato Sergio Mattarella L’ex Ministro per le Pari opportunità Laura Balbo Laura Balbo e il Presidente Carlo Azeglio Ciampi
LA CARRUBBARA Tradatrà-tradatrà-tradatrà Droppete-droppete: la carrubbara protegge la città. Stava sotto un carrubo a Pentimele, otto canne venti per novanta. Gli americani coi B23 di solito venivano di giorno; gli inglesi invece tra l’una e le tre. Di giorno non sprecava molti colpi la carrubbara. “Quello tiene il fratello a Brucculino.” “Cca quale! Se scendono in picchiata...” Però la notte tracciava nel cielo binari luminosi intermittenti come l’alfabeto Morse. I vecchi in crocchi fuori dei rifugi li seguivano col naso all’insù. Tradatrà-tradatrà-tradatrà. Ma una notte, suonata la sirena,
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la carrubbara s’era ammutolita. Quella notte sarebbe rimasta per sempre negli occhi dei bambini svegliati dalle mamme in pieno sonno. “Oh, gli angiulilli belli del Signore!”: donna Stefana aveva novant’anni e stava sul terrazzo a braccia alzate. Centinaia di bengala illuminavano a giorno il cielo, il mare e la città. Il vescovo era uscito sul balcone con un pigiama a fiorellini verdi; così fu ritrovato l’indomani. La ferrovia, il porto, l’episcopio: ogni fischio una bomba in arrivo ogni scoppio un brevissimo sollievo. S’era ormai spento l’ultimo bengala quando si sentirono due raffiche droppete-droppete e il rombo strozzato d’un aereo. Dopo sei giorni si scavava ancora dove il fetore indicava i cadaveri ma noi andavamo in cerca di bengala e aspettavamo la prossima incursione. A Pentimele la consegna era “bocche cucite”; il capopezzo venne destituito. Era tedesco l’aereo abbattuto. Corrado Calabrò Da: La scala di Jacob, Ed. Il Croco/PomeziaNotizie, 2017
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KLIMT. LA SECESSIONE E L’ITALIA a cura di Isabella Michela Affinito.
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L Palazzo Braschi di Roma, sede storica del Museo di Roma – realizzato su progetto dell’allora architetto italiano Cosimo Morelli (1732-1812) su commissione del nipote del Papa Pio VI Braschi su Piazza San Pantaleo, nei pressi della suggestiva Piazza Navona dove c’è il trionfo dello stile Barocco con le opere del Bernini e Borromini, mentre in controtendenza ai tempi in cui fu costruito, tra il 1790 e il 1804, il Palazzo Braschi possiede la facciata in stile cinquecentesco – ebbene, ospita attualmente una splendida sequela di dipinti non solo del celebre artista austriaco, Gustav Klimt (18621918), ma anche quadri e sculture di suoi
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amici e colleghi dell’epoca quali Josef Hoffmann, Franz von Matsch, Carl Moll, Johann Victor Krämer, Koloman Moser ed altri ancora. Quando si nomina Gustav Klimt ciò che viene subito in mente è l’oro, quel componente fondamentale del suo linguaggio artistico sviluppatosi in seno a un’epoca, a cavallo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, captante il succedere di qualcosa d’inevitabile e d’irreversibile su larga scala che avrebbe scatenato conseguenze rilevanti sotto tutti i punti di vista. L’oro profuso nei suoi dipinti, da Gustav Klimt, deriva dal fatto che suo padre, Ernst Klimt, era un orafo incisore ma non per questo ricco, anzi, egli formò una numerosa famiglia di sette figli, di cui Gustav era il secondo, con Anna Finster, una donna che aveva intrapreso la strada della lirica senza ottenere nessun successo. Gustav Klimt si trovò a nascere il 14 luglio 1862 in un sobborgo di Vienna ed essendo stato uno dei primi figli certamente osservò il delicato e paziente lavoro del padre, restandone molto affascinato. Così si iscrisse alla scuola d’arti applicate, tra grafica, intaglio e lavori d’oreficeria di cui era già esperto, seguito a breve da suo fratello Ernst. Ma, Gustav più di tutte preferì la pittura e di conoscere al meglio anche l’arte del mosaico e della foggiatura del metallo in genere. Nel 1879 si costituì una specie di società tra i due fratelli Klimt e Franz Matsch, un compagno di studi, che chiamarono la Compagnia degli Artisti – Künstler Compagnie, più che altro per iniziare a lavorare richiamando l’attenzione di importanti committenti che fossero interessati alle grandi opere decorative per teatri, scuole, musei e, infatti, s’avviò un giro di richieste del genere fino a quando nel 1892 morì Ernst, che seguì il padre omonimo a pochi mesi di distanza dalla sua scomparsa, segnando per sempre l’animo di Gustav che scelse di non sposarsi mai durante la sua breve vita, poiché morì a cinquantasei anni
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quando stava per terminare la Prima guerra mondiale e si era propagata l’epidemia della ‘spagnola’, cui rimase vittima, nel medesimo anno 1918, l’amico artista di Klimt, Egon Schiele, più giovane di lui di ventotto anni e ancora in quell’infausto anno se ne andarono per sempre il compositore tedesco Richard Wagner, il pittore austriaco secessionista Koloman Moser e il pittore svizzero simbolistadecadentista Ferdinand Hodler. Se in Francia nell’aprile 1874 c’era stata la mostra, nelle stanze dello studio del fotografo Nadar, degli audaci artisti le cui opere erano state scartate dall’Accademia vigente e dai Salon ufficiali, tra cui Claude Monet, Edgar Degas, Alfred Sisley, Camille Pissarro, Pierre-Auguste Renoir, Berthe Morisot, etc, che diedero vita alla corrente dell’Impressionismo, in Austria altresì l’associazione Künstlerhaus dettava legge su come doveva procedere il mercato dell’arte, nel cui circuito restarono a ‘galla’ soltanto gli artisti il più aderenti possibile allo stile ufficiale dell’epoca; una specie di classe degli artisti più rispettosi delle norme elargite dalla suddetta associazione causante, tra le altre cose, d’impermeabilizzare l’arte austriaca dai neoinflussi artistici circolanti contemporaneamente in Europa. Anche qui intervenendo il coraggio di uomini eclettici, tra cui lo stesso Gustav Klimt, stanchi di sottostare alla tradizione dell’arte viennese e di non voler rincorrere il danaro semplicemente mercificando le loro creazioni artistiche, ad un certo punto diedero vita alla Secessione viennese – ricordiamo che in Austria regnava l’imperatore asburgico Francesco Giuseppe che in precedenza premiò Klimt per il suo dipinto Interno del vecchio Burgtheater e per la cui consorte, l’imperatrice Sissi, Gustav Klimt al tempo della società col fratello e Franz Matsch decorò la Hermes Villa viennese, purtroppo mai abitata dall’imperatrice – che materialmente doveva avere una sede e Joseph Maria Olbrich progettò l’edificio consono insieme all’altro grande artefice secessionista, l’architetto de-
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signer (arredatore e illustratore), Josef Hoffmann, che fu anche l’arredatore dell’atelier di haute couture dell’edificio chiamato Casa Piccola in una delle strade più trafficate di Vienna delle sorelle Flöge, di cui Helene era stata la moglie di Ernst fratello prematuramente scomparso di Gustav. Aprendo una breve parentesi sulla vita privata di Klimt, abbiamo detto che lui non si sposò mai ma stabilì un forte legame amicale, fino alla fine della sua esistenza, con la sorella di sua cognata Helene, Emilie Flöge, una donna emancipata e co-creatrice (insieme alle sue due sorelle, Pauline ed Helene) di abiti d’alta moda nel loro salone aperto nel 1901 che arrivò ad assumere un’ottantina di aiutanti tra sarte e modiste, ma chiuse i battenti nel 1938 quando l’Austria fu assorbita dalla Germania nazista e le sorelle Flönge continuarono privatamente in forma ridotta nella loro abitazione, in Ungargasse 39 a Vienna. Anche Klimt, per via indiretta, contribuì alla creazione di capi d’abbigliamento femminile moderno e di motivi per le stoffe adoperate nell’atelier di moda sunnominato – concepì persino il logo per la carta da lettera intestata con cui comunicavano le sorelle Flönge con le clienti e i fornitori – soprattutto i caffettani lunghi indossati sia da Emilie, sia da Gustav quando era intento a dipingere nel suo studio. Un’abitudine quella d’indossare il lungo camicione abbondante mentre lavorava al cavalletto in parallelo all’usanza d’indossare il lungo saio da parte dello scrittore Honoré de Balzac quando s’accingeva a scrivere – il suo capolavoro è stato La Commedia umana raccolta in volumi pubblicati dal 1842 – e così eternato nella scultura monumentale in bronzo del 1898 realizzata dal controverso scultore Auguste Rodin, poiché l’opera al momento della consegna non fu accettata e provocò diverse polemiche e proteste. Nel ritratto olio su tela del 1902 di Emilie Flöge, il vestito della compagna di Klimt pare sia stato disegnato da lui e così la fantasia del tessuto, formata da una ricorrenza di prolungate ondulazioni verticali dalle nuance
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dell’acqua marina dove spiccano moduli geometrici, quadrati cerchi spirali in giallo, bianco, verde chiaro e anche piccole forme a ‘chicchi di caffè’ sul davanti del petto a contrasto col resto della fantasia tessutale. Il risultato è stato che l’abito in un certo qual modo ha ‘fagocitato’ l’intera anatomia femminile perché Klimt non badava al ritratto veridico delle fattezze umane, ma all’ornamento prevaricante sull’insieme. Solo il viso di Emilie è rimasto attendibile nel dipinto coi suoi capelli ramati corti e ricci. Lo stile di Klimt è stato una miscela esemplare tra l’Art Nouveau, o meglio detto in Germania Jugendstil in riferimento alla rivista “Jugend” nata nel 1896 a Monaco, e della corrente del Simbolismo sorta nel 1890 che coinvolse letterati e artisti per una rinascita del principio spirituale e nel voler rendere tangibile ciò che va al di là della realtà, finanche a dare voce all’inesprimibile. Col simbolismo c’è stato il recupero della mitologia e degli argomenti religiosi, da cui la Giuditta I (1901) e II (1909) di Klimt riproducenti sembianze femminili estrapolate dalla tradizione biblica per sintonizzarsi con la donna reale che stava, invece, accedendo nel Novecento ‘modernizzandosi’. Nella «[…] seconda versione Klimt fonde ulteriormente i ruoli di Salomè e di Giuditta in un’eroina ibrida dall’aspetto rapace, in cui la nudità da velata diviene esplicita. Oloferne più che un guerriero pare ora la vittima di un potere femminile efferato.» (Dal volume monografico Klimt – Giuditta I della Collana editoriale “Cento Dipinti” a cura di Federico Zeri, RCS Rizzoli di Milano, Anno 1998, pag. 6). Proprio la figura femminile divenne per l’artista austriaco una celebrata ossessione biondaurata; lui che visse con la madre e le sorelle respingendo i legami seri a lungo termine, in realtà pose la donna sul piedistallo dell’ispirazione più nobile erigendo per lei un ‘regno’ ultraterreno composto di tessere di metalli preziosi, conchiglie, pietre dure, smalti, pezzi di ceramica e altro materiale eterogeneo se non altro per riportare in auge l’arte musiva bizantina – soprattutto dopo il
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suo viaggio in Italia dove soggiornò anche a Ravenna, che fu la capitale del Sacro Romano Impero d’Occidente presieduto dall’imperatrice reggente Galla Placidia durante la minore età di suo figlio Valentiniano, e sorella di Onorio Flavio di Costantinopoli, fino al 476 d. C. quando fu conquistata la città dal re barbaro Odoacre – allorquando si presentò l’occasione di disegnare i cartoni preparatori per il fregio decorativo sulle pareti della camera da pranzo del Palazzo Stoclet a Bruxelles, abitazione progettata da Josef Hoffmann su richiesta dell’industriale nel settore del carbone ferrovie e metallurgia anche finanziere, Adolphe Stoclet. È stato nel Fregio di Palazzo Stoclet, degli anni 1905 (periodo della divulgazione della teoria della relatività di Einstein) - 1909, che Klimt introdusse il tema de L’Attesa, le ripetute spirali dell’Albero della Vita con L’Abbraccio pervenendo al pieno risultato di soddisfazione dello stesso industriale belga. «[…] Il simbolismo dell’albero della vita, che si espande sulle pareti con grandi volute, riecheggia la soluzione di Lotto negli affreschi della Cappella Suardi a Trescore. Nel fregio confluiscono influenze diverse: dall’arte musiva bizantina alle stampe giapponesi. Ma soprattutto domina la cultura egizia, nella posa delle figure e nell’iterazione di motivi decorativi.» (Ibidem, pag. 45). Con la morte di Gustav Klimt finì l’epoca splendida della Belle Époque e s’intravide l’opaca scia del dramma esistenziale umano riflettersi sulle rovine causate dal Primo conflitto mondiale, che aveva spazzato via l’impero absburgico di Francesco Giuseppe durato sessantotto anni fino al 1916 e l’avvento dell’Espressionismo dai toni cupi in sottofondo. Intanto l’altro austriaco famoso, invece, nella psichiatria, Sigmund Freud, più grande di Klimt di sei anni, aveva dato vita all’indagine dell’inconscio umano con tutti i suoi significati legati alla libido a cui s’associarono in seguito i Surrealisti. Isabella Michela Affinito Mostra al Palazzo Braschi di Roma, dal 27 ottobre 2021 al 27 marzo 2022, su “KLIMT. LA SECESSIONE E L’ITALIA”
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VINCENZO ROSSI IN UN SAGGIO DI IMPERIA TOGNACCI di Antonio Crecchia
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I accingo ben volentieri ad esaminare questa esemplare monografia di Imperia Tognacci, con postfazione di Francesco D’Episcopo, pubblicata da Genesi Editrice nel settembre 2021, e rivolta ad illustrare la vita e la poesia di Vincenzo Rossi (Cerro al Volturno - Isernia 1924-2013) operatore culturale a tempo pieno che meritò la qualifica di “Vanto letterario del Molise” per la sua vasta e qualificata produzione letteraria, che include otto volumi di poesie; i primi quattro (In cantiere, Milano 1961; Dove i monti ascoltano, Modica 1963; Verdi terre, Forlì 1979; Il grido della terra, Forlì 1987) nel 1995, per le Edizioni de Il Ponte Italo-Americano, confluirono in un unico volume, I giorni dell’anima, che comprende anche una raccolta mai pubblicata prima: Tempo e parola, comprensiva
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di 55 testi poetici, ai quali vanno aggiunti 13 Epitaffi. Successivamente, per le Edizioni del Centro Studi “Eugenio Frate”, vennero pubblicate le raccolte: Respiro dell’Erba / Voce delle rocce (2001); Il fantasma e altre poesie (2009); Valentina (2010; poemetto di 262 versi, già pubblicato In tempo e parola, accorpato, come detto sopra, a I giorni dell’anima). Alla passione poetica, Vincenzo affiancava, con altrettanto attaccamento personale, una intensa attività narrativa e critica. Lo testimoniano i romanzi: Conto alla rovescia, Modica 1973; Il ritorno, Forli 1983; Fonterossa, Isernia1987; A queste opere si aggiungono ben sette volumi di racconti: La memoria del vecchio, Milano 1975; Il tarlo, Forlì 1978; La terra e l’erba, Isernia 1984; Il Cimerone, (Potenza 1990; Lola (1991), racconto lungo, come pure Ercole (1998) e Garibaldi (2003). Nel giugno del 2003, per i tascabili di Cronache Italiane (Salerno) Rossi ripubblicò il racconto “Campeggio solitario”; nel 2004, con la stessa Editrice, altri due racconti: Una visita al cimitero e Il grillo. La saggistica (recensioni, prefazioni, postfazioni) comprende cinque grossi volumi. Scrisse anche delle monografie. Notevoli per i valori espressivi contenuti nelle opere dei beneficiati, sono: In ricordo del poeta greco Febo Delfi; Il mondo lirico di P. Maffeo; Michele Frenna mosaicista. Sempre nel 2004, dopo un attento e scrupoloso lavoro di revisione, il primo romanzo, Conto alla rovescia, venne riscritto e pubblicato sotto il titolo “Amore e Guerra”; opera narrativa di ampio respiro che ottenne l’elogio di critici militanti del calibro di Emerico Giachery, Giorgio Bàrberi Squarotti, Carmine Chiodo e Giuliano Manacorda, solo per citarne alcuni. Si avventurò, con soddisfacenti risultati, anche nell’ambito delle traduzioni: dal latino, dal greco e dallo spagnolo. Molto apprezzato il suo volume “Platone poeta”, in cui, con modernità di linguaggio, ripropone in lingua italiana la lettura di quattro dialoghi del filosofo greco: Simposio, Apologia, Critone e
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Fedone. Numerose le sue presenze in antologie letterarie regionali nazionali e internazionali. All’amico fraterno, assiduamente frequentato per un ventennio, a partire dal 1992, con la lettura del romanzo breve, “Lola”, dedicai due monografie. La prima, “La folle ispirazione – Coscienza etica e fondamenti estetici nell’opera letteraria di V. Rossi” (Edizioni del Centro Studi “E. Frate”, pagg. 260), risale al 2006; la seconda, “V. Rossi – Un talento creativo al servizio della cultura” (Ediemme – Cronache Italiane, Salerno, pag. 190)) è del 2014. Il mio lavoro esegetico si configura come una lettura interpretativa e valutativa dell’intera sua opera letteraria, in versi e in prosa. Per l’impostazione di questo saggio, incentrato sull’esemplare monografia a cura di Imperia Tognacci, prendo lo spunto da quanto riprodotto in quarta di copertina “Monti e prati dei miei giorni / frementi ai venti del risveglio / a voi affido la mia voce / a voi la luce delle mie pupille”. In quattro versi il poeta delle Mainardi., Vincenzo Rossi, ribadisce la sua estraneità al mondo moderno, invischiato nel “progresso” scientifico e tecnologico, abbrutito dalla schiavitù alle passioni materiali e ideologiche, svuotato del senso del divenire, avendo perso l’antico e solidale rapporto con Madre Natura, nel cui grembo Rossi ha maturato la legge della sua vita: “Forte e fermo vivere e morire”. Ricco di esperienze vissute in campi diversificati: da quella lavorativa nell’azienda agricola familiare, sia di giorno che di notte, a quella sociologica d’impegno professionale, come docente prima e dirigente scolastico poi; da quella creativa a quella riflessiva, filosofica, di scandaglio psicologico… si immise entusiasticamente in un percorso di scrittura in cui ha lasciato orme profonde, verificabili nella loro portata argomentativa, etica, estetica e… profetica. Recentemente, in occasione del G20 a Roma, papa Francesco ha rivolto l’appello ai partecipanti di «ascoltare IL GRIDO DELLA TERRA». Ebbene, Vincenzo Rossi, nel 1986, vale a dire
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35 anni fa, componeva la silloge poetica “Il grido della Terra”, pubblicata l’anno successivo dall’Editrice “Forum-Quinta Generazione” di Forlì. In quell’opera, nella sezione “All’uomo dell’atomo”, con notevole anticipo, egli aveva vaticinato tutti guasti ambientali a cui la terra stava andando incontro a motivo di insensibilità, bramosie e stupidità dell’uomo “dell’atomo e del petrolio”. Uomo dalla “maligna anima”, che produce senza soluzione di continuità “terremoti” devastanti, sconvolgenti, micidiali, che distruggono quanto la terra ha prodotto e/o custodito nel suo grembo nei miliardi di anni che ci separano dalla sua creazione. Per quest’uomo figlio di Caino che “tutto perturba” e prepara lo sprofondamento della Terra “in una profonda notte senza luna né stelle”, il poeta invoca il Sole, affinché “bruci con il suo potente fuoco / le arroganti ali dell’uomo levato / a sfidare il tempo e l’armonia degli astri”. Quando Rossi compone “Il grido della terra” ha 52 anni, impegnato nella scuola con funzione di Dirigente scolastico. Ha ha possibilità, l’intelligenza di “leggere”, capire e registrare puntualmente le trasformazioni epocali in atto; ha la chiaroveggenza critica circa le nefaste conseguenze dei mutamenti di mentalità e di attività nei diversi campi applicativi dei prodotti chimici, scientifici e tecnologici offerti dal mondo industriale alle forze umane operative al fine di assicurarsi utilità e benessere. Il presente opera alacremente e superbamente per annientare il passato, per spazzare via ogni residuo tradizionale basato sul lavoro della mente e delle braccia. E ci riesce, dando all’uomo l’illusione di essere entrato in una fase storica di emancipazione e di innovazioni che lo sottraggono da ogni peso e stress da fatica. Il mondo non è più il foscoliano regno romantico in cui cresce la simbiotica armonia della “bella d’erbe famiglia e d’animali”, ma un universo di macchine - ferro - vetro e plastica - che gestiscono i ritmi della vita umana, individuale e collettiva.
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C’è qualcosa, però, che l’uomo non è riuscito a distruggere: la memoria del passato. E Rossi ne ha a dismisura. Il subconscio è ricco di sedimentazioni memoriali, di vissuto a diretto e stretto contatto con una realtà socio/culturale, ambientale e storica che egli caparbiamente oppone ad un presente inaccettabile, svuotato com’è del senso della ragione, del sentimento umano, religioso e critico che determinano la giusta misura e valenza del bene e del male. Tutta la sua poesia nasce da un fiorente risveglio del passato, dal costante recupero di un’esperienza intensamente vissuta e sperimentata nelle sue “verdi terre”. Ed è il confronto della realtà presente con la visione arcadica, maturata negli anni della fanciullezza e dell’adolescenza, consumati all’ombra del Cimerone, del Matese e delle Mainardi a determinare la sua forte reazione oppositiva/avversativa contro il modernismo disumano, arrogante, aggressivo, distruttore di forme di vita, risorse ambientali, culture e tradizione che hanno fatto la storia del passato. Le radici della sua terra sono penetrate in lui; si vedono minacciate, sconvolte, offese e impoverite dai cambiamenti epocali, dalla irragionevolezza e speculazione umane, che hanno sposato scriteriatamente scientismo e tecnologismo, responsabili delle profonde ferite mortali inflitte degli ultimi decenni alla Natura. Imperia Tognacci, nel suo lavoro esegetico, ha bene individuato ed evidenziato i punti cardini della poetica rossiana, a cominciare dal prepotente senso e bisogno di libertà, fortemente radicati nella soggettività umana di Rossi, incline a riconoscere e difendere la sacralità della vita di ogni creatura esistente e vivente sulla terra. In sette densi capitoli, la scrittrice di San Mauro Pascoli fissa definitivamente la personalità del personaggio Rossi, la poetica, la vocazione alla “speculazione estetica”, la tendenza a antropomorfizzare aspetti materiali e forme vitali della Natura, a porsi soggetto/oggetto esistente, pensante, con il dono ineffabile della “parola”, capace di trasmettere tutte le ansie e drammi
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interiori connessi alla sua condizione esistenziale, incontestabilmente fissata entro margini ridotti di tempo e di spazio. Da questa consapevolezza ha origine “la visione cosmologica e la ricerca escatologica” di Rossi, favorite da una scelta esistenziale di solitudine e di riflessione a tutto campo, con l’approdo ad una “speranza consolatrice” di una apertura della porta del mistero dell’Oltre, che la speculazione filosofica, appassionata e persistente, non è riuscita a scardinare, stretta nei lacci dei dubbi e delle incertezze. L’uomo, per Rossi, è un frammento dell’universo, sempre in stretto rapporto con altri frammenti, quali le stelle, i pianeti, e “plaghe ignote” da cui gli giungono “suoni inauditi” e lo dispongono all’abbraccio con l’Infinito. Ora, dall’immensa e cosmica pace da lui raggiunta, il suo spirito - grazie alla ricca eredità letteraria lasciata a beneficio dell’umanità conserva il potere di comunicare ad altri spiriti assetati, come Socrate, del Bene, del Bello, del Santo e della Giustizia, la sua lezione d’amore e di rispetto per il Tutto. Antonio Crecchia Imperia Tognacci: VOLLE… E VOLLI SEMPRE. La speculazione estetica e simbolica nella poesia di Vincenzo Rossi, Genesi Editrice 2021. Una poesia di LUCIO ZANIBONI
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Gennaio 2022
LA PITTURA DI
ANDREA BONANNO E LA CRITICA di Domenico Defelice
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NDREA Bonanno non è solo pittore, ma critico letterario attento e di fine intuito, nonché critico d’arte, al quale si deve quella che a noi sembra la scuola/manifesto della “Verifica trascendentale”, connaturata, contestualizzata e spiegata attraverso numerosissimi articoli e due sue opere fondamentali tra le tante: L’Arte e la Verifica trascendentale (1992) e Per un’Arte della Verifica trascendentale (1994). Una vera estetica; una teoria per dare alla pittura – ma non solo - rappresentatività nuova e stimolante che possa aiutare l’uomo a limitare e correggere i suoi interventi corrosivi sulla natura e il paesaggio. La tecnologia, le macchine, che oggi l’uomo utilizza massicciamente, non sono in sé negative, come non lo
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sono il coltello, il veleno, l’atomo; negativi possono essere gli utilizzi ed è su questo terreno che insiste l’arte metafisica e per certi versi visionaria di Andrea Bonanno. Il suo intento è quello di “mettere l’uomo davanti a se stesso, ai suoi istinti distruttivi e violenti, alle sue colpe e alle sue brame incontrollate”, giacché non “ingiuste colpe si possono attribuire alle machine che aiutano l’uomo moderno nel suo progredire irreversibile”. L’intento di Andrea Bonanno – scrive Luigi Galli – è quello “di indicare speculativamente un nuovo orientamento di estetica artistica”. La sua pittura ha una luce albale, da primordi, da quando nell’atmosfera primeggiava l’idrogeno e la terra era priva di vegetazione; ciò che ancora si verificherà se l’uomo non si ravvede, ponendo un argine ai fumi delle fabbriche e allo sfruttamento incontrollato. Metafora sono gli anemici, sterili solchi, i capannoni, le ciminiere – “torri/garitte-uso-lager”, come le definisce Felice Ballero e l’essere umano scheletrito svuotato, sviscerato. Dagli scritti raccolti in questa antologia non viene fuori soltanto il Bonanno pittore, ma anche l’attento critico d’arte e letterario, come evidenziato, in particolare, nell’autentico saggio di Leonardo Selvaggi, strutturato in sette concettosi capitoli. Bonanno l’Arte l’ha studiata a fondo, dalle origini ai nostri giorni, e l’ha pure insegnata - egli è stato nominato Professore Onorario di Storia dell’Arte alla Scuola di Storia dell’Arte di Fidenza -, e perciò la sua indagine lo porta naturalmente a scoprire il lievito che l’ha nel tempo fermentata, sicché il suo grido verso l’uomo che ineluttabilmente si va scavando la fossa ecologica, non è atteggiamento ma conseguenziale frutto dell’agire. Il suo è un continuo scavo nel comportamento umano, al fine di contribuire a un indirizzo positivo dell’azione: “Bonanno – scrive Carlo Occhipinti – scava profondamente in quel misterioso essere che è l’uomo, cercando di fare emergere
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almeno in parte le verità nascoste”. Che l’uomo sia sempre andato avanti a contraddizioni e tragedie è verità acclarata; il dramma – si pensi alle guerre – è stato sempre alla base di stimoli, ricerche, nuove scoperte; l’ideale sarebbe che il dramma non fosse a ciò necessario; quello attuale, quindi, non può essere che una ennesima tappa di questo suo particolare avanzare nel tempo. Così, i guasti che ha procurato e procura alla terra attraverso una meccanizzazione e uno sfruttamento estremi, sottoposti con forza alla sua ragione attraverso le testimonianze della scrittura, della grammatica (non politica, pregiudizievole, di parte) e dell’Arte
come fa Bonanno (il cui “uomo – afferma Gaetano Natale Spadaro – (…) ha perduto le sue qualità umane, ma non per diventare un “automato robot”, bensì un agghiacciante simulacro di se stesso mostrante le sue stesse contraddizioni”), potrebbero essere molla al ravvedimento, a correzione di rotta: “alla lunga – scrive Felice Ballero – il Pianeta Uomo, gloriosamente labirintico nelle sue misteriose strutture pulsanti di globuli, è destinato ad avere la meglio”. La pittura onirica, surreale, spettrale, stupefacente e anche un tantino inquietante di Andrea Bonanno, quasi un grido vivo e visce-
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rale, lacerante alla stregua dell’Urlo di Edvard Munch, ha l’intento di spronarci a “distruggere il presente tecnologico per l’alba di un nuovo mondo”, secondo Emidio Parrella. Ma pure i saggi letterari di Andrea Bonanno vogliono avere la stessa funzione, i quali, secondo Mauro Donini, rimangono “nei confini chiari di una facile leggibilità e comprensibilità” e sviluppano “le sue tensioni, anche in chiave filosofica, o metafisica, partendo dalla concezione dell’uomo come fulcro dell’universalità dei sentimenti”. I testimoni della pittura di Andrea Bonanno presenti in questo libro non sono solo quelli da noi fin qui fugacemente accennati; citiamo, allora, almeno Domenico Cara, Alberto Sandron, Vinicio Saviantoni, Giuseppe Perciasepe, Anna Maria Scheble, Paolo Volpi, Mirella Occhipinti, Carlo Ghembri. Perché il pittore è conosciutissimo; ha esposto in Italia e nel mondo; sue opere sono presenti in collezioni pubbliche e private. Merita, quindi, particolare attenzione. Domenico Defelice AA. VV. - LA PITTURA DI ANDREA BONANNO E LA CRITICA, Edizioni Archivio “L. Pirandello” di Sacile, 2019 – pagg. 70, pubblicazione online
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QUADRETTI di Antonia Izzi Rufo Tempo d’autunno Giornate grigie, bagnate dalla pioggia che scende ad intermittenza. Noia e solitudine, come sempre del resto. Deserta la piazza. Si vede soltanto, di tanto in tanto, qualche gatto che gironzola, forse in cerca di cibo. Guardo l'esterno dalle finestre: non vedo persona, soltanto il solito panorama che conosco a memoria. Sono le ore sedici e già comincia ad imbrunire; alle diciassette è già buio completo e vien voglia di andare a letto. La notte, comunque, sarà molto lunga, molto lunga. Conviene, perciò, aspettare almeno le ore venti per andare a dormire. E il tempo passa, lentamente, lo trasciniamo per condurlo avanti. Si resta a casa tutto il giorno e le ore, le ore non passano mai. Siamo ancora in autunno, verrà l'inverno e soffriremo il freddo che ancora non è quello forte, intenso, insopportabile. Com'è triste questo periodo! Ed è lungo, non finisce mai. Per chi è in pensione,
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il tempo si trascorre in casa, per i vecchi soprattutto e per i malati. Non sorridiamo, ma sospiriamo pazienti e diciamo: <<Com'è brutto l'inverno! E come tarda a passare! Sembra che voglia restare in eterno sulla terra>>. Aspettiamo (tanto, proprio tanto) che venga la primavera per godere di più luce, per accrescere la nostra speranza in giornate più calde e più chiare. Paesi in via di estinzione? Soltanto una trentina, circa, di anni fa, i paesi, non così vuoti come adesso, durante l'estate si trasformavano, si riempivano di gente, di persone che erano andate via e tornavano ad abitare la casetta antica che avevano lasciato, proprio con l'intenzione di tornare, un giorno, a trascorrervi le ferie. Non i vecchi, non i malati si trasferivano, ma i giovani. Questi non trovavano lavoro nel proprio ambiente, dove non c'erano fabbriche e non c'era la possibilità di guadagnare nemmeno quanto necessitava per affrontare le spese giornaliere e andavano via (all'estero o in alta Italia). Tornavano soltanto d'estate quando ottenevano le ferie. Poi, improvvisamente, non è venuto più nessuno: quale il motivo? In paese non si divertivano abbastanza: preferivano andare al mare o fare viaggi. Veniva soltanto qualcuno che, magari, non si poteva permettere di spendere soldi. Da un paio d'anni, comunque, le famiglie non tornano più, per le vacanze, ma sono giustificate: c'è in giro il covid e si cerca di stare il più possibile isolati per paura del contagio. Può darsi (lo speriamo!) che quando ci saremo liberati di questo indistruttibile virus, la gente verrà di nuovo e i paesi si ripopoleranno, torneranno ad essere vivi. Le punizioni di qualche anno fa Rabbrividisco se ricordo le punizioni che si davano, una volta (pochi anni fa), alle bestie e ai ragazzi. Un mio paesano, quando la mattina si svegliava, prendeva una mazza e la tirava, con tutta la sua forza, tante volte sul dorso del
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suo asino. La bestia non protestava, ma dai suoi occhi scendevano tante lacrime. Due genitori, per mettere in pratica il proverbio "mazzate e panelli fanno i figli belli", legavano il proprio figlio (un ragazzo) ad un albero e gli tiravano tante vinchiate (frustate). Il maestro di una volta, per punire un ragazzo che metteva tanti errori nei compiti o disturbava i compagni, gli tirava bacchettate sulle mani. Le maestre tiravano le orecchie ai maschi (facevano uscire il sangue) e i capelli alle bambine (queste gridavano). I padri, per una semplice marachella, si levavano la cinghia di cuoio dai calzoni, facevano scendere i calzoncini ai loro figli e tiravano loro cinghiate sul sedere e sulle spalle. Antonia Izzi Rufo
ORMAI (in memoria di Pacifico Topa) Ormai non posso più sperare di leggere tuoi nuovi versi.
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REGALATEVI E REGALATE UNA SANA LETTURA “Ho letto golosamente e con una certa emozione i ventuno racconti che compongono questo libro. Racconti di vario contenuto, tutti contrassegnati dalla grande efficacia narrativa di Domenico Defelice. Quest’uomo dai toni sommessi e quasi umbratili, così come minimalista è il titolo dell’interessante rivista ch’egli dirige (Pomezia-Notizie), è in realtà un autore di grande forza espressiva e di vivezza rappresentativa che cattura e coinvolge il lettore” Corrado Calabrò “Secondo me, questi racconti di Defelice si possono leggere in vari modi data la loro plurima tematica che presenta momenti autobiografici e situazioni e personaggi vari e diversi; insomma, l’essere con i suoi drammi, le sue sofferenze, il suo carattere, le sue gioie.” Carmine Chiodo
Cercavo in ogni numero della Rivista la felice armonia e il ritmo del tuo melodioso canto. Mi addolora la tua scomparsa e soffro per non aver potuto conoscerti di persona e mi permetto ora di darti del tu per dirti che ti sentivo amico a me affine. Spero che ti raggiunga in Cielo questo mio saluto affettuoso e prego per te, presente ormai nel mio ricordo. Mariagina Bonciani 12 dicembre 2011
In libreria, ma può essere acquistato anche su Internet
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Ricordo di
GRAZIANO GIUDETTI di Domenico Defelice
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RAZIANO Giudetti è morto a Roma il 7 marzo 2021. Era nato a Pulsano il primo luglio del 1947. A Roma si era trasferito fin dal 1976. Laureato in Economia e Commercio, ha svolto attività nella pubblica amministrazione, tra i servitori dello Stato, non tralasciando di coltivare, però, il suo grande amore per la poesia e la
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narrativa. A pubblicare ha iniziato solo nel 1988 e da allora, tra poesia, prosa, romanzi, le sue opere sono state veramente tante. Ne ricordiamo alcune: Gli anni tenui (1988), Bagliori di metropoli (1990), Soliloqui (1991), L’introspezione (1992), Il prato del silenzio (1995), Profondo Jonio (1996), La via crucis (1997), Occhi di clessidra (1997), Pensieri di sabbia (1998), Un amore immaginario (1999), Calapricello (1999), Gli apostrofi del salice (1999), Salus poetica ovvero il canto di Igea (2000), Paese antico (2000), Grembi di luna (2000), Rivoli di vita
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(2000), L’angelo cosmico (2001), I colori del Paradiso (2001), La pineta bruciata (2002), Diario sogno (2003), I pinti accordi (2003), Verdi persiane s’aprono (2004), Italia mia (2005), Muretti di pietra (2006), I fondali dell’amore (2007), Velate trasparenze (2008). Una vita non facile la sua, pure per motivi di salute, sicché la scrittura gli è servita anche da medicina. Ci siamo incontrati una sola volta nella sua casa romana, ma siamo stati in contatto per anni attraverso la sua collaborazione al nostro mensile e la pubblicazione nelle nostre edizioni di qualche sua opera breve, come Profondo Jonio, in un quaderno Il Croco dell’aprile 1996 e nella quale – scriveva Carmelo Pelle – Giudetti privilegiava “le cose semplici, gli affetti veri, le sensazioni profonde, le intense emozioni, che trascolora con la magia del sogno”. E sul sogno insiste Tito Cauchi nella monografia sul “poeta di Pulsano” Graziano Giudetti. Il senso della poesia (Editrice Totem, 2019), quando scrive che “Attingere alla memoria è la fonte più semplice, ma anche più delicata. Non è celebrazione mummificata, ma è vivificante che sfida il tempo trascorso. Sono emozioni vissute e decantate, e trasfigurate nei vari strati sedimentati: ma quando l’animo è provato, è difficile ridere o piangere. La sofferenza si sublima nell’accostamento al dolore degli altri e Graziano ci lascia liberi, nella visione della realtà e nella evasione del sogno, in un angolino del cuore e della mente”. Il sogno e il ricordo. In lui sono temi ricorrenti. Esplorazione accurata del suo passato, attraverso il pescaggio di immagini umane e pezzi d’ambiente, Graziano Giudetti, per esempio, compie in Jata a cci teni soldi! ...Maledetti soldi!, un poemetto di 666 versi, pubblicato nel numero di luglio-agosto 1991 dalla rivista “La Controra”. Lunga è la rassegna dei volti che si animano alla moviola dei ricordi del poeta. Da nonna Carmela a nonna Elisa; dal vecchio cantastorie - accompagnato da un ragazzo scalzo -, a Italo che “brilla di lacca francese”
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e Carlo, che “si spalma di creme balsamiche”; dall’acquaiolo Vincenzo, al donnaiolo, ai poeti, al miracolato... Non è una fredda elencazione. I personaggi vivono calati nella cerchia di conoscenze, o di relazioni sociali e l’ambiente in loro. “Nelle brocche di Vincenzo”, “l’acqua si diverte”; il vecchio cantastorie esegue una serie di mimiche degne di un attore consumato; le donne, in omaggio ai tempi, trasudano moralità, spogliano “il maschio/del suo sesso” e condannano “sgualdrine e libertini/abusi d’amore/e osate carezze”; Berto, che mena vanto delle sue conquiste donnesche, fa ”il cicerone/d’allegre bande musicali/come quella dei fischietti,/appena dieci flauti/e altrettanti clarinetti/a stonare orecchi/e periferie”... L’ironia tracima, un’ironia, a tratti, alla Renzo Arbore, e il ritmo, le rime (fischietticlarinetti), le allitterazioni (clarinetti-orecchi), gli onomatopeismi (“one” di cicerone, “ande” di bande) e molte altre figure metriche, danno al poemetto un’andatura colorita, popolareggiante, debordante nella fiaba: aspetto tipico che acquista sempre una storia vera quando viene sfiorata dal soffio del ricordo e dell’arte. Continui paradossi stravolgono macerate immagini: “lo scampanio di greggi” - non le pecore, ma il loro “scampanio” - “lecca i
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muri di sale”; la bacheca “si sbrandella/sulle carte consumate” e non viceversa... C’è godimento e acquietamento di spirito nella rievocazione. Ma poi giunge, improvvisa, la nota personale e nel poeta spunta, allora, la nostalgia di quei tempi e il pentimento di aver abbandonato luoghi e persone di un’infanzia non facile, ma felice, di aver “creduto/all’argenteo ventaglio delle scelte/che apre la moneta ai desideri”. Oggi non l’avrebbe più fatto, perché ha imparato a credere in altri più duraturi valori e diffidare “degli agi caduchi dell’avere”. Ne Il prato del silenzio1, molti temi, trattati in Bagliori di metropoli e ne Gli anni tenui, sembrano accentuati. Diciamo, specialmente, di Roma come esilio, del paesaggio come evasione. Graziano Giudetti è solito, infatti, ispirarsi all’urbe in cui vive, ma la natura lo calamita a tal punto che il suo animo è sempre in bilico, se non proprio catapultato verso mitiche contrade dell’infanzia. Nella città, insomma, vive solo col corpo, il suo spirito è riuscito a rimanere sganciato da essa, incontaminato dalle tante brutture e la sua poesia a distinguersi per un afflato umano che la fermenta alle radici. Tra grattacieli e clangori, egli s’è creato un’isola: un prato-giardino fatto a misura di
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soleggiate campagne del Sud, dai colori conturbanti e dal silenzio apparente, perché solfeggiato da mille canti, sussurri, fruscii. L’ambiente ideale nel quale potersi misurare con se stesso e con la realtà, ascoltarsi e ascoltare le tante voci arcane oggi purtroppo coperte dalle radio e dalle TV; dove smemorarsi e godere la bellezza della straripante fioritura del glicine, il giglio che s’imbeve di sole, o ascoltare il merlo invaghirsi “dei suoni velati dell’ulivo”. Chiudendosi volontariamente nel suo fortilizio, Giudetti s’è ridimensionato ed ha allacciato l’antico rapporto con la natura che consentiva all’uomo di convivere col formicaio, il passero, la libellula fremente “nella vetrina dei fiori”. Da questo “piccolo mondo”, la città si sente lontana, i suoi rumori non sono che salmodìa responsoriale, il suo frastuono, un gracidare e “un grigio mormorio”. Intorno a sé il poeta avverte una sterminata famiglia d’insetti e d’animali, vede piante, colori, aspira profumi... Nel cuore della metropoli, insomma, ora Giudetti s’è creato tutta per sé una vera e propria foresta. Occhi di Clessidra2 è composta di tre parti: “Cantico di San Valentino” (poemetto), “Poemetto a Bergamo” e “Poesie d’amore”. Ed è proprio l’amore il tema dominante. Più carnale nel “Cantico di San Valentino”, più ideale nel “Poemetto a Bergamo”, allorché Giudetti riesce quasi a fondere le bellezze della città a quelle delle “Damigelle d’inverno alla penombra...”, le infermiere dell’ospedale nel quale è stato a lungo ricoverato. In quest’opera, Graziano Giudetti traspone in versi reminiscenze artistiche di capolavori classici e moderni che gli suggeriscono una donna dai “riccioli castani”, “alta e distante”, fissata mentre raccoglie “primule e viole”. Ci sono richiami a Botticelli, ma anche al vasto mondo dell’impressionismo. Una donna ideale, sognata, che in sé rinserra ricordi dolci e aspirazioni, il turgore della carne e la trasparenza dell’anima. E ideali sono pure gli ambienti, come quell’ “eterno giardino di trifoglio”, una specie di “aiola celeste”, dal verde smaltato, levigato, presente
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anch’esso in tanti capolavori pittorici, o quella “notte,/magica cascata di fiammelle”. L’opera, insomma, è come una “immaginaria tela”, che “effonde/repentini accordi/e pulsa ardente/la cornice di colori”. Pensieri di sabbia3 è composta da 752 versi, suddivisi in 188 quartine distribuite quattro per ognuna delle 47 pagine. La pagina può considerarsi una stanza (o strofa) di un inconsueto poema. Apparentemente, infatti, ogni quartina vive di vita propria; sostanzialmente, invece, le uniscono mille legami - fili e fili da formare matasse - e neppure tanto sotterranei. Non potendoli seguire tutti e fino alla fine, ne prendiamo solo un capo, a modo di esempio della nostra lettura, anch’essa, per certi aspetti, stravagante: è il filo del sociale, colla, calce, cemento, fondante umorale di gran parte della poesia di Graziano Giudetti. Estrapoliamo dalla prima pagina - o strofa, o stanza - la quartina dell’ “inesplorato nitido letto”, che “ha sempre grinze di pianto./Il suo lino ricetta screzi/e anche carezze mancate”. Qui il letto è visto principalmente come luogo dove maturano, si rafforzano o si distruggono sentimenti. Sebbene l’essere umano vi ci sosta a lungo, esso continua ad essere “inesplorato”, quasi vergine, segno, tra l’altro, della superficialità dei nostri comportamenti e d’una vita che ci costringe a correre di continuo come una motocicletta che, se si ferma, cade, viandanti frettolosi anche nel sonno, pure tra gli affetti. Ma il letto è anche “nitido”, vitreo, come lo sono certi paesaggi inesplorati (vergini) della nostra anima. Se si osserva in profondità, è la nitidezza del ghiaccio, sulla cui superficie si scoprono, qua e là, cedimenti, “grinze di pianto”, morene di litigi laceranti e di egoistici orgogli (“carezze mancate”). Fuor di metafora: contrasti tra la coppia e mancate possibilità o tentativi di riconciliazione. Nella seconda stanza, seguendo il filo della socialità, a colpirci è quella mano d’amico che stringe l’altra mano e che viene imitata da quella del nemico. “siamo all’epica svolta?”, si chiede il poeta e si apre anche il cuore del lettore. Magia che dura un attimo. Verso miracoli del genere è meglio
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andar cauti ed è lo stesso autore a gelarci col suo scetticismo: “A quale maschera credere?” Nella terza strofa non può passare inosservata l’artificialità del “cuore di latta opaca”, che non pulsa più al naturale e non alberga più sentimenti - né nobili, né bassi -; il cuore è diventato un pezzo qualunque del nostro corpo e può essere indifferentemente di metallo o altra materia - non certo di carne - e ormai “scandisce battiti forzati” e “la commozione è plastica/per finzioni d’amore.”… Ci fermiamo. Tre pagine, tre stanze e, in ognuna, la scelta dello stesso filo. Un suggerimento di lettura tra i tanti possibili che fanno di Pensieri di sabbia un libro solidissimo, filosofico, sentenzioso, didascalico, umano, crudo e dolce; una raccolta di proverbi (“La superbia umana/è gracile edificazione/su fondamenta di paglia./L’incendio si cela nelle vene”), di pitture paesaggistiche, di sentenze ammonitrici (“Levate scorie d’egoismo/prima d’appellarvi a ingiustizie”), una ragnatela di sensazioni… Un poemetto improprio, e, pur nella sinteticità estrema del giudizio, coglie il tutto Giorgio Bàrberi Squarotti, quando afferma che “È stata davvero benefica la stella che ha guidato alla stampa i Pensieri di Sabbia: nel ritmo così perfettamente scandito delle quartine vi si svolge, nell’occasione dei luoghi o viaggi o memorie, una splendida e profonda meditazione delle più diverse manifestazioni e ragioni della vita, colta in scorci essenziali, in aspetti segreti, in poco appariscenti ma decisive situazioni. E della vita ci sono anche le feste, le luci, le gioie dei sensi”. A chiusura del libro, un turbinio d’immagini ci confonde, ma dalle sue onde, serena, si alza la “torre di preghiera” da Giudetti costruita per sé, luogo per isolarsi, “un rudere ornato di capperi/nel podere di nessuno,/ove s’alberga e si ristora poesia”. Un quadro che lega Pensieri di sabbia a Il Prato del Silenzio (del 1995). È in questo luogo che il poeta vive come un lirico greco, uno dei tanti che abitarono un tempo la sua terra di Puglia e la nostra Calabria: quel Leonida da Taranto, per
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esempio, al quale piaceva la vita agreste e i prodotti semplici della natura. Giudetti, “Sopito sotto l’estivo gelso,/in transizione lenta di pianeta”, invoca: “non destatemi poiché scrivo/dentro il bozzolo che m’ingloba”. Dovremmo imitarlo oltre che ascoltarlo. In Gli apostrofi del salice (Ed. E. S. S., 1999), abbiamo uno spazio circolare, prima limitato, poi, via via, più ampio, una “isola felice” da esplorare a poco a poco, e la lucerna – o la stella – che rischiara il cammino è l’immagine femminile – moglie, amante, amica, sorella, anima – alla quale è rivolto il monologo (ragnatela di melodici brandelli) e dalla quale non si materializza risposta di parole, perché il suo comportamento è la risposta più autentica, risolvendosi nella piena, completa aderenza alle aspirazioni più intime: “Basta un minuscolo granello di te perché brilli la mia anima”. Lei è talmente in sintonia con Lui da sovvertire le leggi della natura, riuscendo a programmare una fioritura continua affinché la sua vita possa essere sempre una “girandola di colori”. Certo, non è a quel livello, ma lo stile de Gli Apostrofi del salice è certamente quella della Offerta di Canti: Gitanjali. In Rivoli di vita4, prendendo spunto dallo scavo di un pozzo, Graziano Giudetti passa in rassegna usi, costumi, riti, feste religiose, sani divertimenti, brevi ma intense gioie, tecniche di lavoro, drammi di poveri e onesti agricoltori. Vita semplice e dignitosa, com’era quella della stragrande maggioranza degli italiani e, in particolare, della gente del Sud, in un tempo non troppo lontano : appena una cinquantina d’anni fa. Ogni lettore può scoprire, in Rivoli di vita, brani della propria infanzia, rispolverare ricordi, rinverdire - ripristinandone l’antica vivacità - volti e voci di personaggi che sembravano svaniti e che, invece, erano semplicemente sepolti in un geloso sito della sua memoria. La chiusa è triste, lascia un po’ di amaro, un pizzico di struggente malinconia. Perché, quell’acqua a lungo sognata, Tommaso se la meritava, meritava di gioire di essa.
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Bagliori di Metropoli (ed. C.I.C.A.L. “Citta di Brindisi”, 1990) è un mosaico di sensazioni, lievi come l’inusitato “brivido/che sorprende la pelle/al divenire della sera”, o come la strana brezza che “indaga” “sulla scogliera” e “non conosce l’alga/e il sopravvento”. Qualcosa di tenue, insomma, a volte di impalpabile, perché, in Giudetti, sopravvive un animo incontaminato e puro e una specie di cartina di tornasole per le “cose minute” che “lo fanno trasalire”. Una tale sensibilità è normale che vada a scontrarsi con la durezza della vita cittadina, fatta di fretta e di smog, di rumori e violenze palesi e occulte. Giudetti questo contrasto lo esprime, in particolare, in “Gallerie”, ma con l’occhio e il cuore rivolti alla natura, quasi per trovare amore, alleanze intime e dalla natura ne prende in prestito la terminologia: così l’autostrada è una serpe e il collo del poeta, anziché di collane e ninnoli vari, lo troviamo adornato “di giovani alberi/e sottoboschi”; così la visione onirica si fa meno vaga e più umana, ingentilita da intensi profumi di brina e di muschio. Quando si rifà alla natura, Giudetti è sempre credibile, anche se ama giocare, a volte, con l’ironia o cavalcare il paradosso del fiore adornato dalla treccia della bambina (e non viceversa), rivoluzionando quadri sui quali pesano stagnazioni e ovvietà vecchie di secoli. Il vero Giudetti è proprio radicato alla natura, è in quell’immagine solare, alta per movenze e freschezza, della bambina che “corre libera/sull’argine,/come fringuello gaio”, o in quell’altra della “torretta saracena”, che “ride sopra il picco/afferrata/al vortice dei venti”. Lo dimostra anche il “Poemetto alla luna”, che si dipana leggero proprio quando descrive giochi d’aria e d’acqua. Alle movenze e alle solarità riscontrati in Bagliori di metropoli, Graziano Giudetti non è arrivato per caso. Fanno parte di un cammino poetico già collaudato in Gli anni tenui (ed. Scorpione, 1988), la sua prima raccolta organica, nella quale la sua terra pugliese è
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cantata con intensità e profondo lirismo nella sua esuberanza paesaggistica e nel ricordo delle bibliche afflizioni della sua gente, dal poeta rese nella potente immagine delle “case bianche/appiattite sotto il sole/infuocato d’estate”. Giudetti sente la necessità di storicizzare tradizioni e ambienti, le strade ancora non coperte dall’asfalto, il vecchio mulino, l’artigiano che aveva “sulle dita/la colla secca di un sorriso”, i drammi (che quasi sempre colpiscono i più deboli), gli affetti (per il padre, per esempio, che con umanità gli “illuminò la strada/dell’incerto domani”)… Luci e qualche flash-bach che esplorano l’infanzia, dunque, e, tuttavia, Giudetti non cade mai nel patetico, come spesso capita a chi canta simili motivi. A sorvegliarlo è l’ironia, sempre presente in forma discreta, ma è la stessa che, invece, palesemente abbonda nel suo racconto “La cena delle guardie campestri”, da noi letto in Berremo ad acque chiare, un’antologia a cura di Alfiero Medea. L’argomento di maggior rilievo in Gli anni tenui è forse quello dell’emigrazione, che l’autore tratta con estrema delicatezza, pur mettendone in evidenza quasi tutti i risvolti. Fino a qualche decennio fa essa è stata vitale, necessaria per il misero Sud, tanto da rientrare perfino nei giochi dei ragazzi, i quali, nascondendosi “sotto cumuli di paglia”, ascoltavano il sollecito rumore delle ”ruote dei calessi” e si fingevano emigranti sui treni, immersi in cupe gallerie; l’immedesimarsi era così completo, che, alla fine del gioco, sentivano il bisogno di contarsi per “paura/d’essersi perduti come loro”. Il tema ritorna più volte nella raccolta e ad esso Giudetti sposa motivi di favole care alla nostra infanzia, come quello adombrato nell’emigrante che, andando via per il mondo, “lascia cadere/dalle tasche una scia/di terra rossa/per non perdersi più di tanto” e conservare così nel cuore la speranza del ritorno. Una tale mistura serve al poeta per rendere più dolce e penetrante il dramma, sul quale tenta spargere balsamo.
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Le creature di Giudetti sono figure che non si dimenticano, pur avendo, spesso, un volto specifico. Come quella isolana colma di spleen, la quale, all’avvicinarsi della sera cioè nell’ora che dantescamente “volge il desio/Ai naviganti e intenerisce il core” -, sulla spiaggia, “La fronte baciata dai tramonti”, col pensiero costruisce ponti e ponti e “richiama la stella degli amici”. Domenico Defelice NOTE 1 – Con Prefazione di Alberto Altamura, Lisi Editore, 1995. 2 - Graziano Giudetti - Occhi di Clessidra Cantico di San Valentino - Poemetto a Bergamo - Poesie d’amore – Nota di lettura di Rino Cerminara; in copertina, a colori, “Primavera toscana” di Giaginto Orfanello - Sydaco editrice 1997 - Pagg. 72, s.i.p. 3 - Graziano Giudetti - Pensieri di sabbia Nota introduttiva dello stesso autore - In copertina “Pulcinella e Pierrot”, di Mario Salvo. Ed. E.S.S. Editorial Service System, 1998 - Pagg. 80, L. 10.000. 4 - Graziano Giudetti - Rivoli di vita - Primo premio ex aequo “Cento pagine per cento copie” - Minima Editrice - O.N.L.U.S., 2000 Pagg. 104, s.i.p.
------------------------------------------------------------------------------Esaminando la cartella di Giudetti - preparando questo nostro ricordo -, vi abbiamo trovato l’intervista – che riportiamo qui di seguito – da Lui rivoltaci subito dopo aver letto, su Pomezia-Notizie, i capitoletti di “Alpomo”, prima, cioè, che il poemetto uscisse nelle eleganti nostre Edizioni, nell’aprile del 2000. Intervista mai pubblicata, perché inserita nella cartella in attesa del volume, poi lì rimasta, imperdonabilmente dimenticata.
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Intervista a
DOMENICO DEFELICE di Graziano Giudetti BBIAMO apprezzato l’opera letteraria “Alpomo”, acutamente satirica e al contempo coraggiosa, nell’aver saputo attivare il teatrino di un sistema politico e istituzionale inquinato dalla corruttela. Culmine di quella misura di intrallazzi del potere che si è condotta a straripare sulle coste impietose di “Tangentopoli”. Lo scenario descritto nell’opera è ridanciano perché tocca fisicamente i personaggi e li fa lievitare in una sorta di schizofrenia collettiva che li infastidisce nella gabbia dorata del “Palazzo” e, nominandoli, li stana. Un’opera nata nel tempo e suddivisa in sei canti, di cui due editi sulla rivista letteraria di “Pomezia-Notizie” nell’inserto il “Croco” di novembre 1996 e gli altri quattro nel mese di luglio 1998.
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Nel frattempo, gli autorevoli interventi critici di Maria Grazia Lenisa, Enrica Di Giorgi Lombardo, Vittoria Corti, Carmine Chiodo, Alfio Caucci, Adriana Scarpa, Rosalba Masone Beltrame, Walter Nesti, Adriana Mondo, Gabriella Frenna, Guerino D’Alessandro succedutisi nel tempo, hanno incoraggiato Domenico Defelice a rivolgersi a Case Editrici di maggiore spicco per tentare di ottenere un ambìto contratto di edizione. Nulla da fare, la risposta da parte degli Editori è stata univoca cioè negativa, quasi sempre condizionata da altri impegni presi e pur avendo apprezzato e riconosciuto la validità dell’opera. Un’avventura quella dell’opera “Alpomo” nella ventura di un percorso che si tinge di amarezza e delusione, come quella di chi nel proprio zaino di vita ha sempre conservato gelosamente i propri ideali di onestà per il proprio lavoro e la speranza di credere agli altri, senza ricevere in cambio né giustizia promessa, né risposte concrete. Tutte le vicissitudini di “Alpomo” con le Case editrici sono raccolte in un articolo del mese di febbraio 2000 nella rivista letteraria di “Pomezia-Notizie” e ci conforta che il titolo annunci la pubblicazione in volume dell’opera. La riflessione più immediata su “Tangentopoli” dopo aver letto l’opera di Domenico Defelice è che il tentato rinnovamento di pulizia radicale dell’Italia si sia ridotta ad un grosso polverone. Ad un costoso ed apparente lifting che salva la forma e non i contenuti, restando sulla parte superficiale della pelle, accomodando le pieghe, stirando la bandiera col vento dell’opportunismo. L’impressione è che resti convenientemente un’Italia rattoppata alla meno peggio, vigendo da parte della maggioranza di molti, una sorta di repulsione all’ordine, al rispetto, alla tutela di chi soffre, al vivere civile. D. Non Le sembra che quando uno scrittore
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scriva di satira, la sua voce, nonostante sia robusta, si perda dopo le prime risate d’approvazione, nelle retrovie della folla, fino a spegnersi completamente nei meandri del potere? R. Purtroppo, oggi, Caro Amico, ciò avviene sempre e non soltanto quando si scrive di satira; perché le facce del potere non son più di pelle e carne, ma di gomma, come scrive Rudy De Cadaval. Così, tutto rimbalza, non solo la satira; anche la critica più o meno feroce, che, in passato, a volte, provocava suicidi per la vergogna, oggi lascia quasi indifferenti, anzi, spesso, per loro è un bene, trasformandosi in pubblicità! La faccia del potente è tosta o morbida quel tanto necessario che non arrechi danni qualunque cosa la colpisca. Occorre mettere in conto, inoltre, che neppure l’opinione pubblica, la maggioranza degli onesti è quella del passato; anch’essa si è modificata, anch’essa si è fatta meno sensibile, ci si indigna sempre meno allo scandalo e si tende a rimuoverlo, perché ripetitivo, costante, una catena; una corruzione fagocita l’altra, una vicenda si sovrappone all’altra, lasciando solo disamore e sfiducia. Che vale indignarsi, avvelenarsi il fegato? Tanto, non c’è rimedio! Insomma, Caro Graziano, si ha l’impressione che un po’ la faccia di gomma ce la siam fatta tutti! D. Può essere eccessivo pensare che la voglia di denaro e di potere possa essere dominato? R. “La voglia di denaro e di potere” non può essere dominata. Chi possiede uno o entrambi, col tempo, entra in una specie di bulimia e vuole averne sempre di più. Diventa, la sua, la sola condizione di vita; tutto il suo essere, anima e corpo sono protesi allo scopo e per realizzarlo si è capaci di calpestare ogni principio e le persone più care, moglie e figli, figuriamoci gli estranei. A dominarsi
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è solo chi non ha nulla o appena il necessario, perché rassegnato, naturalmente a ciò condizionato. D. In “Alpomo” traspare il malessere ma anche l’umana sensibilità di un uomo che vive nell’onestà e nel rispetto delle leggi, subendo in silenzio il sacrificio quotidiano e la vocazione al dovere per la famiglia, per l’educazione dei figli, in una visione edificante del mondo e delle cose circostanti. La violazione di quel tessuto su cui si è sempre operato da parte dei politici e degli uomini del potere, assume le sembianze mostruose di un mondo in disfacimento. La ribellione è nelle parole, nei suoi versi satirici, nei cognomi e nomi, e nomignoli sempre decifrabili. Non crede che la pubblicazione con una nota casa editrice, com’era suo auspicio nell’articolo apparso nel mese di febbraio 2000 su Pomezia-Notizie, avrebbe potuto suscitare un certo clamore pervenendo al più vasto pubblico? R. Onestà, rispetto delle leggi, educazione, sacrificio, famiglia: in “Alpomo” ho riversato gran parte delle mie utopie, ma nella consapevolezza amara che rimarranno tali; anche per questo mi sono ispirato a un mondo da gran tempo scomparso, quello della cavalleria e la vicenda ha come “palazzo” un fantastico castello. Ubbie, le mie, perché la corruzione della società è tale da non esserci più rimedio. Noi Italiani, in particolare, siamo al vertice di questa diabolica cancrena, con la delinquenza organizzata più potente e intelligente, tale da fermentare e dominare il mondo: Mafia, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, Barbagia Rossa sono ramificate ovunque; la ‘Ndrangheta, addirittura, oggi ha superato per potere e ferocia anche la Mafia siculo-americana, un tempo ritenuta così potente da indicare, nel temine, ogni associazione criminale. La società italiana è così corrotta e assuefatta al crimine
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da non rilevarne più la condizione; paradossalmente, l’Italia non è mai fallita, né del tutto mai fallirà, proprio per la delinquenza organizzata che ha lievitato di sé tutto e tutti, Chiesa compresa, ad ogni livello; il più onesto, tra noi, ha in sé, senza che lui se ne avveda, il bacillo della criminalità, che si manifesta magari nelle piccole cose, per esempio, non chiedendo la fattura all’idraulico, o semplicemente facendo finta di non vedere e non sentire per pavidità. La delinquenza, per l’Italia, è una specie di grande ombrello o paracadute, dal bilancio enorme, mostruoso, di gran lunga superiore a quello dello Stato. Sì, il mondo di “Alpomo” è al collasso; il mondo ideale è del tutto liquefatto e l’esortazione finale è pura utopia, aspirazione del mio incorreggibile carattere, perciò fallito, anche come autore, tanto è vero che, a un certo punto, gli stessi personaggi mi mandano a quel paese e proseguono da soli la surreale vicenda. Pure l’editoria è infetta. “Alpomo”, se edito da Mondadori, tanto per fare nomi, o da Rizzoli, avrebbe avuto successo e clamore impensabili, quelli che non gli può dare il giro limitato di Pomezia-Notizie.
edita dalla Mondadori debba avere tanti e tali mallevadori, per la maggioranza degli scrittori e poeti, che non li hanno, la speranza di un’accoglienza è inesistente. Editare con editori importanti, per me, per Lei, non è possibile, non abbiamo protettori, raccomandazioni pesanti. Io ci ho provato senza successo, di ciò consapevole già prima d’inviare il testo. Ho voluto dare una dimostrazione. Né, per ora, può esserci cambiamento. Le grandi case editrici hanno il monopolio su tutto il territorio italiano e intendono mantenerlo; hanno un tale potere da non permettere che ne sorgano altre e far loro concorrenza. Potenti, ma soggette, a loro volta, a poteri più grandi, come quello economico e quello politico; ognuna di esse, a ben scavare, risponde, segue un certo colore politico.
D. Rocco Scotellaro riuscì a firmare il contratto di edizione del suo volume “È fatto giorno” con la Mondadori, venticinque giorni prima della morte con l’intervento diretto o dichiarato di alcuni personaggi quali: Montale, Pavese, Remo Cantoni, la principessa Marguerite Caetani curatrice della rivista "Botteghe Oscure” e molti altri. Se la pubblicazione di opere letterarie da parte di Case Editrici affermate devono superare il setaccio redazionale ed anche altri ostacoli, non crede che la speranza si riduca al lumicino se non è da tempo già spento?
R. Non è possibile, almeno in un tempo breve, correggere l’odierna società, le sue tendenze; lo si può fare con l’esempio e in tempi lunghissimi. L’Italia è nazione relativamente giovane e gli staterelli che l’hanno composta hanno avuto ognuno un passato diverso, ma in tutti puntellato di lotte lunghe e di rapine, di occupazioni, scorrerie di popoli, di stratificazioni di civiltà diversissime. L’atavica rassegnazione che contraddistingue gran parte della nostra gente, il suo manifesto o latente fatalismo dipendono in gran parte da una tale storia. Per degli amici dal sorriso sardonico, io esagero. Diciamo, allora, che noi Italiani siamo un popolo di conformisti, sempre a causa – come scrive Roberto Gervaso, che di ironia se ne intende – della “quasi bimillenaria soggezione allo straniero” che, nel passato, ha ciclicamente cal-
R. Ho già affermato che pure l’editoria è in gran parte gravata e offuscata da corruzione e lo prova l’esempio che Lei fa di Scotellaro. Se un’opera, seppure eccellente, per essere
D. Come è possibile secondo Lei riuscire a ridurre la tendenza all’egoismo imperante della vita di oggi per il recupero di valori morali. Qual è il metodo migliore per educare i giovani? Se fosse l’esempio quale ne è la fonte a cui attingere?
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pestato il nostro territorio e che, in forma diversa, continua a farlo attraverso le immigrazioni da ogni parte del modo, magari solo di passaggio, per recarsi, poi, in altre nazioni. Noi tutto assimiliamo, da tutto e tutti ci lasciamo fermentare. Si muta con l’esempio e nel tempo, non ci sono miracoli. I giovani sono stati sempre e lo sono tuttora naturalmente idealisti; fino a una certa età, ancora oggi tanti amerebbero il mondo di “Alpomo” se avessero esempi; tale età, però, si assottiglia ogni giorno, perché i cambiamenti repentini fanno perdere loro sempre più ogni verginità. Gli esempi devono pervenire loro da ciascuno di noi, principalmente, e dalle famiglie, ma per i giovani sono esempi scontati; più efficaci sarebbero quelli di chi ci governa, a ogni livello, nazionale, regionale, comunale, circoscrizionale; invece, da tutti questi ambienti, vengono loro solo esempi di ruberie e corruzione, di amoralità. D. Quale ruolo può svolgere la fede cristiana nella crescita spirituale dei giovani, così presenti ai richiami di Papa Giovanni Paolo II° in occasione del IV° raduno mondiale della GMG (Giornata Mondiale della Gioventù)? R. Nella mia infanzia, la fede aveva ancora un’ascendenza sui giovani e sulla loro educazione; oggi non più, o, almeno, s’è ridotta a lumicino. Anche la stessa Chiesa, oggi, è in veloce decadenza, quasi un franare giornaliero su posizioni certo non fondamentali, ma da essa imposte nel tempo e che fino alla metà del secolo scorso sono state quasi granitiche. Per uno come me, educato a quelle rigidità, una vera e propria deriva. Tutto cambia prepotentemente sotto l’incalzare del progresso economico (anche il più misero di oggi è benestante rispetto al passato) e della comunicazione di massa. Lo stesso Papa fugge dal Vaticano, viaggia di continuo, va in montagna a sciare, sente e non nasconde il bisogno di un periodo di ferie nell’estate rovente. Le straripanti, oceaniche adunate
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giovanili inducono a diverse letture, come le medaglie hanno almeno due facce, una chiara, squillante, l’altra opaca o almeno offuscata, nebbiosa. Sul terreno calpestato dalla folla gioiosa, dopo l’abbandono, si son raccolti sacchi di preservativi. La religione, in passato, inculcava timore, frenava certi comportamenti, oggi non più. Non è mio compito giudicare se fosse, se è bene o male, non ne ho autorità e titolo; posso solo registrare una realtà in continua e veloce evoluzione. D. Al marasma di fitta corruttela emersa da “Tangentopoli”, è seguito un timido rinnovamento nella Pubblica Amministrazione nonostante le ingiustificate resistenze. È l’Italia che cambia? Se è così, ritiene che “Alpomo” possa conservare nel tempo una sua attualità oppure esiste il rischio reale di essere superato? R. Gentile Amico, non per contraddirLa: ma dove l’ha visto il “timido rinnovamento”? Francamente, io non l’ho avvertito. La corruzione, in Italia, è così endemica, che un gruppetto di magistrati, per giunta un tantino faziosi (non si è indagato, né si indaga in tutte le direzioni e i partiti di sinistra sono del tutto risparmiati), non riuscirà neppure a intaccarla. La criminalità non può essere debellata perché è criminale l’acqua nella quale sguazza. Sarebbe facile abbatterla se non ci fossero criminali tra i giudici, i magistrati, i poliziotti, i carabinieri e specialmente tra i politici e gli amministratori. Stanno qui le vere resistenze e per niente “timide”. “Alpomo” è soltanto un’aspirazione, un sogno, un desiderio, un’illusione e se qualcuno continuerà ancora a leggerlo, lo farà come una favola. “Alpomo” non corre “il rischio reale di essere superato”, lo è già. Io non mi son mai fatto illusioni di poter raddrizzar le gambe ai cani con i miei versi satirici. Una risata subito spenta, come è avvenuto nel transatlantico del Parlamento, dove,
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mi si dice (ma sarà stato, poi, vero?), qualcuno l’ha letto. Ai primi entusiasmi (Lenisa, Corti, Nesti, Chiodo) avevo pensato di ricavarne pure un libretto teatrale (sarebbe facile, ci sono già i dialoghi, i personaggi son vivi, reggerebbe la scena), ma poi ho desistito subito, consapevole dell’inutilità, non avrebbe mai il battage necessario dei media per avere successo. D. La validità riconosciuta di tutte le Sue opere finora edite ci ha più vote fatti soffermare nella riflessione personale e critica, per i toni e i contenuti di denuncia, non sempre sottesi, verso una società ingiusta nel rendere ad ognuno dei suoi cittadini quello che veramente meritano. Quanto, secondo Lei, può aver influito sulla formazione delle generazioni più recenti il malcostume di alcuni politici e la corruzione di alcuni pubblici funzionari? R. La mia battaglia è stata sempre combattuta a viso aperto, con l’arma della scrittura, senza infingimenti o ipocrisie e senza paure di fare, quando è stato necessario, nomi e cognomi. Il malcostume di molti non di “alcuni” politici e di molti funzionari pubblici ha contribuito assai, assai, assai, procurando un danno morale incalcolabile, insanabile. Io assisto, sempre più, a fenomeni di disaggio sociale giovanile e chi continua a non vederlo è cieco. Può darsi – e lo si spera – che non sfocerà in violenze come nel sessantotto, giacché la tecnologia sta divenendo, specialmente per i giovani, una specie di nuova droga (per esempio, i telefonini), che li occupa e li distrae, ma il disagio è palpabile, reale e loro meriterebbero ben altro, ben altra attenzione. D. Cosa si può dire ai nostri figli dei buoni sentimenti e della rettitudine nella condotta personale, di fronte alle denunce pubbliche degli scandali continuamente reiterati, dentro i santuari del potere?
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R. Parole poche e molti esempi. I nostri figli sono più intelligenti e svegli di come lo siamo stati noi alla loro età; come da noi apprendono più velocemente le negatività, così da noi dovrebbero apprendere le cose positive, i “buoni sentimenti” e la “rettitudine”, ma noi glieli dobbiamo porgere con esempi. Poi, saranno loro ad entrare nei “santuari del potere” e sanificarli. Se noi seguiteremo, con loro, solo a chiacchierare, a definirli fannulloni e a tenerli buoni con la paghetta, non potranno esserci cambiamenti in meglio. “Alpomo” è allegra, scoppiettante utopia e con un’utopia si chiude: “La democrazia, la vera,/anche è mettere in prigione/- in prigione per davvero -/i corrotti e i corruttori”. In prigione per davvero! In Italia, costoro, non solo non li mettiamo in prigione e li lasciamo a marcire, ma li osanniamo, li invidiamo, non facciamo che aspirare ad essere come loro (sotto sotto magari, ma tale è la realtà). Cosa possiamo, allora, pretendere dai nostri figli? I bei discorsi sono stati e saranno sempre inutili; l’unica cosa da fare è continuare a rettamente operare, a dare l’esempio, sperando che, così facendo, altri o prima o poi facciano altrettanto, consapevoli che il coro serve, rumore non facendo una sola noce nel sacco. D. Abbiamo la prova di molte valide opere letterarie recensite sulle pagine di piccole ma prestigiose riviste letterarie, precluse però al grande pubblico. Secondo Lei, l’emarginazione della poesia e dell’arte in genere fino a che punto ha subito la prevalenza dell’invadenza televisiva, facendo assumere ai potenziali lettori, un atteggiamento di distacco dalla partecipazione attiva e critica fino a relegarli nel ruolo inanimato di “utenti”? R. Sì, di opere valide, sconosciute al grande pubblico, ce ne sono a bizzeffe e le riviste letterarie svolgono un grande compito, ma nulla possono nei confronti dello strapotere
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televisivo, che si insinua e lavora come un farmaco nel nostro cervello, ottundendolo e disamorandolo alla lettura, giacché il suo linguaggio è coadiuvato e surclassato dalla immagine. Così, si finisce col credere che vera arte e vera poesia siano solo quelle pubblicizzate dalla televisione, quando, invece, e spesso, ne sono la spazzatura. Si diventa “utenti”, come lei giustamente esprime. Godere veramente l’arte e la poesia abbisogna spesso di silenzio, anch’esso arte, anch’esso poesia; Leopardi si annegava nella immensità e nella dolcezza solo perché conosceva e praticava il silenzio sovraumano. D. E la marea di giornalisti-scrittori televisivi sistematicamente accolti dalle note case editrici, i comici, i politici dei “salotti tarlati”, non crede che l’abbiano fatta da padroni con le grandi Case Editrici, sottraendo spazi ad altri più validi Autori senza mezzi pubblicitari, visto che i personaggi più in vista, hanno la certezza “in prima serata”, di sventolare al pubblico copertine patinate di pubblicazioni nuove e riedizioni infilando i videi di ogni canale? R. Ai giornalisti televisivi, ai politici, ai comici, ci può aggiungere anche gli attori e le attrici, i calciatori, i cantanti e via elencando. Fan tutti parte del gran circo Barnum della cultura usa e getta, gridata; circo/circolo vizioso di chi, occupando giorno e notte i salotti e i canali d’informazione, fanno vendere milioni di copie e ingrassano le case editrici che mirano solo al profitto, non a scoprire talenti. Case editrici e imbonitori oggi si sostengono a vicenda. Va bene se si è nel giro, altrimenti si è irrimediabilmente spacciati. Chi ama veramente l’arte e la poesia, pur consapevole di tutto questo, non si scoraggia, rivolgendosi, obtorto collo, a piccoli editori/stampatori e contribuendo a pagare di propria tasca ed è in questo autentico mare che si trovano le opere valide, in grado di sfidare il tempo. Le opere strombazzate da salotti e tv, in genere, son fuochi di paglia, in
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poco tempo dimenticate. Non solo: non sono neppure vero frutto dei loro autori. Sono prodotti, spesso suggeriti dalle stesse grandi Case Editrici, e confezionati da gruppi, segreterie, schiere di collaboratori e d’impiegati alle dipendenze degli editori o degli stessi giornalisti-politici-comici-cantanti-attori-calciatori-e-via-elencando, i quali, infine, vi appongono la firma. Chi sta giorno e notte nei salotti e in trasmissione non ha il tempo materiale per pensare e sfornare uno o più libri all’anno, a volte di migliaia di pagine. Ci sono impiegati che per loro ricercano, ascoltano, registrano, cuciono, assembrano, digitano, impaginano, scelgono o creano immagini, pubblicano, propagandano, distribuiscono… Niente altro che un prodotto commerciale, confezionato a puntino su commissione, suggerimenti, supporti per rastrellare ricchezze, incanalare fiumi di denaro nelle casse elastiche di chi fa e sa fare solo business, non già Cultura; un prodotto qualunque. Come un orologio, un’automobile, una lavatrice son della tal marca, pur avendoci lavorato numerosi tecnici, ingegneri, operai, così è la maggioranza dei libri di chi è sempre presente sui Media. Domenico Defelice è nato ad Anoia nel 1936. Graziano Giudetti VOGLIA D’AMARE Voglia d’amare mi serpeggia e, prima che avvenga, un palpito mi sovrasta in ribelle distonia. Sono eterno fanciullo con scudo di verso: m’ammanto, l’abbraccio, e mai sguscerò via dalla svelata sintonia. Graziano Giudetti Da: Profondo Jonio, Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 1996
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CATULLO UNA DELLE VOCI PIÙ LIBERE DELLA NOSTRA CIVILTÀ di Leonardo Selvaggi 1 – Catullo e l’era nuova nel primo sec. a. C. A sensibilità letteraria, che è cultura, sentimento e insieme umanità di Antonia Izzi Rufo porta a vivere con passione le opere moderne e quelle della classicità. Predilige gli autori che sono di una finezza di spirito, oltre che di pensiero. Catullo è il poeta che la Izzi Rufo ama per i suoi carmi ricchi di personalità, dominati da grande espressività, soprattutto per lo stile raffinato, espansivo, per immediatezza di sentire. Considerato fra i maggiori per i sentimenti di libertà e per gli impeti di liricità che lo fanno essere un innovatore della poesia. È un alessandrino, prende dall’ellenismo tutta una squisitezza che lo rende moderno, di
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una profondità non comune. La saggista Antonia Izzi Rufo parla di carattere soggettivo e individualistico, Catullo è lontano dalla arcaicità e dalla tradizione, inizia una nuova era letteraria nella Roma che attraversa nel primo sec. a. C. mutate condizioni politiche, insieme a un periodo di corruzione. È un poeta novus, un giovane del bel mondo, agiato, impulsivo, esuberante. Non è per i componimenti epici e drammatici dell’antica arte, scrive con spontaneità liriche brevi, epilli, idilli, piccoli quadri di vita, non mancano le satire. È vicino a Lucrezio Caro, anche se questi è di modi sdegnosi, solitario. Sono legati come poëtae novi, hanno in comune l’espressione artistica, il temperamento lirico, il realismo, la concretezza nelle espressioni. Catullo preso dall’amore per Lesbia, come ce lo fa notare la saggista, è erompente, facile ai mutamenti di umori; indicative le parole “Odi et amo”, si muovono in lui amarezza e giocondità, sofferenza e rabbia. In ciò consiste la modernità di Catullo, un poeta vicino a noi, con una complessa maturità di sentimenti. La passione amorosa per Lesbia è ricca sensibilità umana fatta di coerenza: odiare è amore più approfondito, senso di gelosia, attaccamento che porta a compenetrazione senza ipocrisia. 2 – Spontaneità e grazia nei carmi del Lepidum libellum Catullo è un poeta che non conosce frivolezze, c’è in lui una propensione alla delicatezza di modi, alla tenerezza, alla comprensione. Le poesie della Izzi Rufo hanno molto di Catullo. Corrono momenti tristi e nel contempo impulsioni a risollevarsi verso stati di pienezza e di estasi. Nel poeta di Verona il concetto di sofferenza si riempie di grande interiorità, i “candidi soles” si accompagnano con giorni che tengono oppressi con senso di fine. Il saggio “Catullo, il poeta dell’amore e dell’amicizia”, edito a cura dell’A. L. I. Penna d’Autore nel 2006, ha pagine schematiche, ricche di notizie. 2300 i versi che si conservano; pubblicati da Catullo solo un
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gruppo di pochi carmi, 116, con il titolo “Lepidum libellum”, scherzi brevi dedicati a Cornelio Nepote. I primi 60 sono componimenti d’argomento vario, seguono 5 di carattere dotto: due epitalami e tre epilli, tra questi “La collana di Berenice”, tradotta da Callimaco, gli ultimi 50 sono carmi brevissimi. Sono riportati alcuni carmi con i loro contenuti: sono i più rappresentativi della poesia neoterica, ricchi di grazia e di spontaneità, di affettuosa intimità. “l pensiero”, il “Ritorno”, “Stature piccole”, quest’ultimo scritto per Licinio Calvo, uno dei più cari amici di Catullo, “A Cesare”. Tutti i poëtae novi si tengono lontano dalla politica per amore della libertà e per il loro precipuo interesse per la poesia. Nei carmi molto ricorrenti il sentimento dell’amicizia cui bisogna tener fede anche nelle avversità. Importanti i contenuti di polemica letteraria. Si predilige la poesia sintetica, chiara ed essenziale, si rifiutano i componimenti ampi, ampollosi. Il 35° carme parla del sodalizio dei poetae novi, delle loro idealità artistiche. L’84° evidenzia la raffinatezza artistica dei neoteroi, si è contro Cicerone che difende la tradizione. Catullo legato attivamente al movimento letterario della nuova corrente poetica, in pieno fulgore tra il 65 e il 40 a. C., dal ventennio che precede la morte di Cesare fino a comprendere gli inizi dei primi poeti augustei, Virgilio, Cornelio Gallo, Orazio. Rapporti si hanno con l’Oriente da dove nuovi gruppi di letterati convergono a Roma, apportando consuetudini di studi e di pensiero. Forte è l’attenzione che si ha per i modelli alessandrini e per le parole di origine greca. Fra i neoteroi si ricorda per fama Elvio Cinna, autore di un poemetto mitologico “Zmyrna”. La pubblicazione è un grande avvenimento letterario, rappresenta l’apparizione di una nuova poesia, diversa dal macchinoso poema storicoannalistico di Ennio. 3 – Catullo e i poëtae novi L’ardore, la sincerità d’animo, lo stile delle descrizioni rendono vicini Catullo e Properzio. La dolcezza e la verità dei sentimenti,
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l’espansività e la purezza espresse si rivelano spesso anche nei versi che conosciamo di Antonia Izzi Rufo, specie nelle opere “Azzurro”, “Passi leggeri”. In risalto il senso di ciò che la vita dovrebbe essere, più nobile, più attiva. Da ciò la fama di Catullo, che non consiste certo nelle aberrazioni, nelle stravaganze del nostro tempo, ma in una consuetudine ad essere moderati. La saggezza che si richiama alla rassegnazione, le idealità in contrasto con l’otium, con il “nullo vivere consilio, extrema nequitia”. Ciò che nel saggio si nota è la presenza dell’umano in Catullo, del senso della labilità della vita. Con le opere tradizionali non ci si interessa della vita dell’uomo, del quotidiano. Il primo è Catullo che, dopo l’era arcaica, viene considerato il poeta della vita reale, che attraverso la storia e la conoscenza, diventa vera poesia. C’è un ritmo tutto interiore di grande espressività. Non c’è artificio, ma il modo naturale: il verso segue la cadenza del sentimento che non si lascia prendere dai rigidi schemi. I poeti nuovi danno importanza alle dirette esperienze, alle storie d’amore, alle pene della vita, alle realtà esistenti. I carmi di Catullo, come si indovina scorrendo le pagine del saggio, abbellito nella foto di Caterina Ghelli dalla presenza in prima di copertina dal monumento del poeta a Sirmione, dispregiati di certo nei secoli di predominio della Chiesa, riflettono oltre a una vita tutta mutata, poco classica nel senso comune della parola, il sentimento della Natura e degli uomini, le inquietudini e le incertezze di tanta parte della società romana negli anni della disgregazione della vecchia aristocrazia e della caduta della Repubblica. Le pagine su Catullo sono didascaliche, lineari: rappresentati tutti gli aspetti dell’arte nuova, che in Roma trionfa, apportando sviluppi e motivi di grande civiltà. Si vive l’ambiente elegante, dissoluto della capitale, ricco di fermenti letterari. La ricchezza dei dati consentono di meditare e di approfondire. Per dieci anni si ha un clima confacente a un modo di vivere diverso e al genio di una grande poesia. In un mondo torbido si trae materia per versi in gran parte satirici. Amici di Catullo,
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oltre a quelli già nominati, sono Furio Bibaculo, Cornificio, Alfeno Varo, Asilio Pollione, Manlio Torquato, Livio Andronico, Nevio, Ennio, Terenzio. Un’epoca di grandi rivolgimenti politici e sociali con la riscossa popolare contro la reazione senatoriale. Contrasti tra l’oligarchia schiavista e le masse più povere della città e della campagna, tra gli optimates e i populares. L’epoca di Sertorio che fa appello a tutti i popoli sfruttati dal dominio romano, di Spartaco, vero rappresentante del proletariato antico, capo di decine di migliaia di lavoratori che mirano a una guerra di liberazione. Questa condizione di vita tumultuosa e drammatica produce allo sviluppo culturale un’atmosfera favorevole, accende cuori e fantasie. Un periodo di trasformazioni civili, in corrispondenza con l’arte di Catullo. Predominano i sentimenti umani più determinati per la creazione di una nuova società. 4 – L’amore per Lesbia, sentimento in profondità umana e poetica L’evento culminante della vita del poeta di Verona è l’amore per Lesbia. Amore appassionato, tormentato, come si rileva dalle pagine dello studio di Antonia Izzi Rufo. Lesbia, chiamata in omaggio a Saffo, bellissima e dissoluta. È la Clodia, sorella del tribuno. Gelosia e ira, Catullo ama alla follia questa Lesbia, donna ricca e intelligente. Odio e amore, gli estremi di un medesimo cerchio, un sentimento complesso, una passionalità che affonda le radici nella sensibilità: la interiorità combattuta che dà all’amore i caratteri più irruenti, accendendo l’immaginazione, i sogni e le illusioni. Si è vicini alle cose minute, alle verità e sofferenze, la semplicità al di fuori dei formalismi, siamo con l’uomo e le sue ansie. Quasi un romanzo di vita vissuta che comincia con l’ode “Ille mi par esse deo videtur”, mirabile traduzione dall’esemplare di Saffo. Una specie di dichiarazione d’amore. Catullo manifesta con le stesse parole del carme 51° “Passione d’amore” i suoi primi turbamenti davanti all’ammaliatrice bellezza di Lesbia. La lirica più famosa di tutti i tempi, esalta il sentimento
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più forte dell’uomo, descrive momenti di rapimento, l’ideale amoroso di Catullo. Sono riportati altri componimenti relativi all’amore per Lesbia, “Viviamo mia Lesbia”, si vuol affermare l’attimo fuggente, la vita è breve, c’è entusiasmo con il senso della morte. Nel carme VIII “O misero Catullo” ci sono rotture e riconciliazioni. L’amore pare sia giunto alla fine. Subentrano ricordi e rimpianto. Un insieme di passioni che si contrastano in soliloqui esagitati: delusione e gelosia, si oppongono ragione e sentimento. Importante il carme “Fedeltà assoluta” in cui si parla di dedizione all’ideale amoroso, vissuto con spiritualità. L’amore definito “sanctae foedus amicitiae”. Catullo ricorda quando la passione travolgente era stata gentile e ardente nel suo animo fiducioso, pieno di illusione. La sua vita cade come un fiore travolto dall’aratro sul margine ultimo del prato. Rabbia, dolci preghiere e poi invettive e umili ritrattazioni. Sempre amore e odio in una lotta feroce. La saggista Antonia Izzi Rufo segue tutte le fasi di questo amore, lo vive di persona, si sente essa stessa tormentata e delusa. Per distrarsi Catullo va in Bitinia per visitare la tomba del fratello. Forte è il sentimento della morte ineluttabile, afflizione e disperazione. Ritorna il ricordo dei tempi felici. Amore e morte, drammatico binomio con l’impeto della giovinezza. Il linguaggio dei carmi ha carattere di espressività universale. Nell’era della tecnologia la voce di Lesbia ha un’attualità tale da rendere consapevoli che, attraverso i secoli, di tutto ciò che attiene alla interiorità dell’uomo, ai suoi impulsi, ai suoi desideri di comunicare con gli altri, alla immediatezza di esternare i moti dell’animo, nulla è cambiato: le caratteristiche connaturali sono ferme, questa considerazione ci fa capire che la tecnologia non può sopprimere l’uomo che è forza creata, imperitura come tutte le parti del Cosmo. Il senso di eterno e di mistero sono forze spirituali insopprimibili. Questo spiega l’inconscia fermentazione di quegli insiti fremiti esistenziali che portano l’uomo ad elevarsi. La poesia non muta attraverso i secoli, si innalza con estasi dalle
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accidentalità quotidiane verso le sfere celesti.
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5 – Catullo poeta della realtà e della vita Il saggio “Catullo, il poeta dell’amore e dell’amicizia” ci presenta un periodo della letteratura latina che è fra i più ricchi di manifestazioni innovative. Ci sono in maturazione processi psicologici che portano l’uomo a mostrarsi nella sua essenzialità, togliendosi da ogni arcaica incrostazione. Si diventa più personali, si colgono immagini poetiche rivelatrici delle più profonde qualità di vita. Si rivelano nell’animo umano forze contemperatrici dei propri impulsi. Catullo è il poeta più ricco di umanità, amabile, racconta tutto agli amici, è generoso nell’occorrenza. La Izzi Rufo lo sente per la sua immediatezza poetica, perseveranza, volontà di lottare, per la genuinità di stile, uno dei più grandi autori che siano mai esistiti. Tutto in trasparenza rifulge, diviene idealità, fondamentalità di principi, nudità del proprio essere, bisogno di vivere. Profondità dell’interiore, senso del divino, microcosmo vero, verità esistenziale. Catullo nella sua genialità espressiva è realtà lui stesso, con il sentimento di amicizia, le sue concretezze, l’inclinazione ai ripensamenti: un animo complesso, aperto, fluisce senza nascondimenti. Il carme 38° “Sta male, Cornificio, il tuo Catullo” è fra i più ricchi di senso della fragilità umana. Catullo manifesta il bisogno insopprimibile di affetti, cerca nelle disavventure soccorso. La sua persona, che ha tanto di innocenza, si esalta verso l’amore e l’amicizia. La sua poesia, come la Izzi Rufo nel suo saggio splendido, denso di erudizione e di acume critico sottolinea, ha tanta presenza nei tempi d’oggi, i suoi carmi per la loro altezza morale sono di insegnamento, sono testimonianza della bontà naturale dell’uomo che non può essere violento, falso, ambiguo, avido. In opposizione alle perversità che oggi sconvolgono i valori autentici e disumanizzano.
trentenne, affetto da morbo crudele, lasciandoci una voce poetica fra le più alte nella storia letteraria mondiale. Animo e corpo infiammati insieme, consumati da una fine intelligenza, da tutta una personalità che, per le qualità insite, ha espresso nobiltà, armonia di cuore e di mente. Catullo rappresenta un periodo storico di progresso, quanto di meglio si sia realizzato in tanti secoli di storia romana a livello di espressione artistica, di lotte fra le classi. Quando parliamo di Catullo non pensiamo alla poesia come ispirazione e sublimazione di immagini e di idee, ma di arte, intesa in piena superiorità come forma e contenuti. Antonia Izzi Rufo esamina la poesia di Catullo con passione e approfondimento e vi trova l’espressione nuova, originale, semplice senza retorica. È arte, quindi, più che poesia, poiché c’è ricchezza stilistica. I carmi sono pieni di naturalezza, sono espressione che appartiene a tutti. La Izzi Rufo vive l’opera di Catullo che si muove tra forme rinnovate dei neoteroi e quelle del passato, la tradizione viene resa propria. Da alcuni critici Catullo viene considerato un poeta intimo, chiuso nel suo regno interiore, di affetti, di rancori, di sensualità, distaccato dalla società e dalla vita. Un giudizio non esatto, Catullo, un grande individualista del mondo antico. Non sopporta i suoi tempi che favoriscono gente ingiusta, corrotta, mediocre. La sua epoca è presa da amore per il guadagno, lui vorrebbe tempi migliori, più umani, pare di appartenere ai nostri giorni, dominati da perversità e arrivismi. È un poeta vero, concreto, non si fa influenzare dalle raffinatezze degli esteti. Dobbiamo leggere Catullo senza formalismi e senza accademismo, dobbiamo compenetrarci con la sua schiettezza e il suo latino democratico. Il linguaggio di Catullo diventa quello di oggi, di sempre, dei sentimenti intramontabili. Il suo è un latino non soltanto delle classi ricche, è uno strumento di cultura di massa. Parla come noi, senza infingimenti.
6 – In Catullo arte più che poesia nella elevatezza dei sentimenti Catullo nato a Verona nell’87 a. C., muore
7 – Il saggio della Izzi Rufo vede Catullo in
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tutta la sua grandiosità artistica e immediatezza ispirativa La scrittrice, poetessa Antonia Izzi Rufo trova nei carmi di Catullo tanto valore pedagogico ed etico, una lingua comprensibile che esce dal senso grammaticale stretto. Quando si avvicina alla cultura classica, quando legge gli autori della nostra letteratura prende tutto quello che è vivo, che pare scritto nel momento in cui esistiamo. Catullo si ribella contro vecchie leggi e superstizioni, è fuori dalle limitazioni e dai pregiudizi. Odia i soprusi, l’arroganza, ama la vita e la pace con le gioie, il calore delle immagini. Da grande maestro tratta gli endecasillabi falecei, con questi vengono fuori le passioni, le dissolutezze, l’animo buono e cattivo, l’arguzia sconcia, il quadretto delicato. Catullo contro la prosopopea dei poetastri pedanti, prolissi, con vitalità la scienza del letterato superata dall’estro del genio. Rende artistici anche i licenziosi e rudi fescennini della costumanza popolare. Poesia di significato universale legata alle contingenze della vita, agli amici e avversari. Poesia e vita insieme. L’amore predomina su tutti i temi, non trascurati i contenuti mitologici, ci si mantiene sempre legati alla tradizione, considerando necessario l’impegno di continuità e di perfezione. La vicinanza a Callimaco, come alle opere di Ennio, significa questo. Prevale l’energia in mezzo alla grazia, alla dolcezza, all’abbandono. Ha carattere Catullo, conserva la forza morale degli antichi Romani. Nel profondo dell’anima dà alle sue inezie, alla sua passione una serietà di cui nessun poeta nuovo è capace. Reagisce alla vita vuota, si sente oppresso dal fastidio dell’otium, che porta rovina morale agli uomini e agli Stati. Antonia Izzi Rufo nel saggio “Catullo, il poeta dell’amore e dell’amicizia” espone tutti i particolari che emergono, esaminando la psicologia del poeta. Trova una forte sostanza umana, una pienezza di coscienza nelle poesie erotico-satirico-elegiache che a volte sembrano esigue. La foga del sentimento sincero nelle relazioni con Lesbia, nel dolore per il fratello che lo mette in
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lotta con se stesso, lo esalta e lo abbatte. Lo studio della poetessa molisana è un esame su tutto l’ambiente storico-letterario che circonda Catullo, uno dei massimi poeti del mondo romano, una delle voci più libere della nostra civiltà, nei suoi tempi uno dei poeti più popolari per la sua schiettezza e immediatezza ispirativa. La critica moderna vede anche le sue qualità di fine artefice della lingua e del verso. In Lesbia ha personificato, in modo meraviglioso, la donna e la bellezza femminile. Chi sa vedere lo splendore dello sguardo, del sorriso, delle movenze di una donna bella e seducente potrebbe spiegare l’incanto delle elegie di Catullo. Ha assimilato il meglio della sostanza del genio ellenico. Vissuto in un’epoca di transizione, di questa, benché tacciato a torto di oscenità, ha espresso, con tutta la finezza dell’età sua, la profonda immortalità e l’inverecondia, senza essere mai volgare. Leonardo Selvaggi
PER UN POTATORE DI ULIVI Tutto il giorno hai abitato gli alberi tutto il giorno hai cantato, compagno degli uccelli. Dietro vetri socchiusi al sommesso respiro di marzo ho intrecciato le ore alla tua voce, ho percorso la conca degli ulivi nel tuo andare fra i rami sonoro come il passero nascosto. Forse il tuo canto è ritmo di fatica forse è il solo giocattolo della tua solitudine semplice. Ma sul fumo di frasche è salita ai tuoi alberi l’ansia di spazio che mi prende, quest’infanzia del cuore che cerca profumi di resine d’oro di estatiche cime. Ada De Judicibus Lisena Da: Omaggio a Molfetta, Edizioni Nuova Mezzina, 2017
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Recensioni MANUELA MAZZOLA PAROLE SOSPESE Prefazione di Piergiorgio Mori – Il Convivio Editore, 2021, pagg. 46, € 8,00 Con Parole Sospese sono quattro le opere che Manuela Mazzola ha pubblicato nello spazio di due anni: tre di versi e un saggio sul pittore Enzo Andreoli e, dato i tempi, ci vuole veramente costanza e coraggio per tenere un simile ritmo, considerando pure che Lei ha una bella famiglia cui badare e che collabora con una radio privata e con almeno sei/sette periodici e riviste, attraverso recensioni di libri ed altro. Attività la sua, allora, che non può non suscitare ammirazione. Parole Sospese è un poemetto composto di 30 brevissime lasse - giacché la narrazione si riduce all’essenziale -, che suggerisce più che descrive, e in lampi di uno, due versi spesso rende un quadro completo: “Nemmeno una lacrima/hai potuto versare”; “Sei venuta al mondo sola”; “La sirena suonava,/tua madre correva/e tu sulla scalinata,/salivi un gradino alla volta”. Parole Sospese, perché non dette al momento opportuno; perché avrebbero potuto essere dette ma ne è mancata l’occasione; perché il vortice della vita ha deciso diversamente. Ora è la poetessa che le pone in bocca ai protagonisti, che li fa parlare attraverso la propria voce e le proprie riflessioni. È la storia di una donna che si è dovuta costruire la vita senza il concreto sostegno del padre, attingendo alla realtà del quotidiano, giorno dietro giorno, indovinando, sbagliando, perché ancora piccola e inconsapevole di “cosa fosse giusto/e cosa sbagliato”.
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Il doloroso quadro dell’uomo, inchiodato sull’”amaro fronte”, consapevole “che/non sarebbe più tornato”, la bambina lo ricava dalle lettere che lui scriveva e che lei legge e rilegge alla ricerca di “una ragione/per spiegare l’assenza” e avendo nella mente, indelebile, il fotogramma di quando ha visto “per la prima/e unica volta/il viso del padre”. Un simile quadro scioccante lo abbiamo in Luigi De Rosa, quando, fanciullo, ha dovuto assistere all’allontanarsi e per sempre della madre. Ci si sente soffocare, scrive la Mazzola, “Quando la voce/fugge tra le labbra,/è come vivere/una vita incompiuta”. Il poemetto lo si può dividere in tre parti. Nella prima, fino all’incirca il sedicesimo brano, abbiamo la madre bambina smarrita; poi la figlia che si specchia nella madre e viceversa (“Mi guardavi/andare via/dietro recinsioni/di filo spinato./Come al solito/non dicevi nulla./Allora alzavo la testa/e ti intravedevo/nascosta tra i vetri/di una finestra/aperta appena”) e, infine, la fusione delle due in un’unica concretezza o in un unico fantasma. Il tutto come in una sequenza filmica: “Il flusso della memoria/corre veloce”. Parole Sospese è il primo verso del decimo brano e sono quelle che “bruciano nella gola/e come carta abrasiva/grattano via/la voglia di parlare” e si sa, è come vivere una vita di solitudine e di stenti e la volta che sembrerebbe, finalmente, poter assaporare un momento di quiete e di serenità, ecco arrivare il coronavirus che costringe a una nuova e più dura segregazione. La poetessa si domanda: “Qual è allora il senso della vita?”. La risposta non c’è, è sospesa. “Se quelle parole,/rimaste sospese,/fossero state pronunciate,/magari, oggi,/ti sentiresti più leggera./Probabilmente/gli alberi di mimosa/sarebbero ancora in fiore/e la rosa bianca/non sarebbe morta./Forse”. La figlia si vede e si sente giustamente come il prolungamento della madre: “Ti porto con me/come un fardello,/come un prolungamento./Ti porto con me/come una valigia,/in cui posso trovare/ogni cosa./Ti porto con me/come un libro,/al bisogno/ne saggio una pagina”. Domenico Defelice
TITO CAUCHI GRAZIANO GIUDETTI Il senso della poesia Editrice Totem, 2019, pag. 152, € 15,00 La snella monografia si compone di una succinta prefazione, dovuta allo stesso Autore, e di una serie
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di capitoletti sui “prodromi della poetica” di Graziano Giudetti, sul suo “Testamento poetico”, il suo linguaggio, “Il paradosso della immortalità”, l’amore sotto gli svariati aspetti, la magia di certe parole poetiche e la presentazione di almeno otto opere, tra poesia e prosa. Giudetti non è poeta facile e Cauchi non nasconde di aver provato più di una volta almeno qualche perplessità: “Non nascondo di essere stato tentato più volte di troncare la lettura, perché mi sfuggiva di mano il bandolo e quando ero lì per lì per avere individuati due o tre capi della matassa, ecco che improvvisamente mi si presentava una ragnatela”. Ma poi, tutto si scioglie e questo volume ci dà, del “poeta di Pulsano”, un quadro vivo ed esaustivo, almeno per le opere esaminate, giacché un valido autore non può dirsi mai completamente indagato. A chiusura, Cauchi propone alcuni brani del loro reciproco scambio epistolare, dai quali emerge la stima reciproca e l’amicizia che li ha legati negli anni. Domenico Defelice
TITO CAUCHI NIKE Nuovi Idiomi Koinè Estrosa Editrice Totem 2021, Pagg 234, € 25,00 La raccolta, Nike - Nuovi Idiomi Koinè Estrosa, contiene quarantasette autori ed è divisa in sette sezioni: La prefazione dell’autore, L’introduzione di Isabella Michela Affinito, Voci del Sud, del Centro, del Nord e l’Appendice. Nel frontespizio troviamo: “In memoria di mio padre Vincenzo Cauchi. Sono cresciuto alla tua ombra. Troppo presto rapito dal mistero”. Isabella Michela Affinito chiarisce il motivo della dedica nell’introduzione: “L’intera raccolta critica è stata dedicata alla memoria del padre dell’autore, Vincenzo Cauchi, di cui apprendiamo, dalle date trascritte della sua nascita e della morte, ch’è vissuto appena trentaquattro anni e per l’autore è stato padre solo cinque anni, considerando che era il periodo tra la fine del Secondo conflitto mondiale e quello della difficile ricostruzione postbellica”. Questo volume, più degli altri, rappresenta un viaggio dal sud al centro al nord dell’Italia, ma anche un itinerario immaginario, in cui l’autore cerca di comunicare quelle stesse emozioni che ha vissuto come lettore di tutti gli scrittori recensiti nel volume.
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Le autrici e gli autori, che lui stesso definisce nuovi, sono il simbolo degli ultimi decenni di questo secolo; simbolo di speranze, dolori, affanni, ma anche di grandi passioni e sentimenti autentici. L’empatia del Cauchi con le persone, ma anche con i luoghi dell’Italia, ormai è nota ai lettori che lo seguono. “La vita presenta tante sfaccettature e qui ho voluto cedere il passo allo svago, all’evasione di cui c’è tanto bisogno, a un po’ di romanticismo, di passione; ho voluto che si riscoprissero i sentimenti genuini messi da parte e che pure sono necessari per non snaturare l’essenza umana, non riducendoci a macchine. Ritengo la varietà delle voci una ricchezza che ci unisce; voci che possono essere comparate a un coro, armonioso se l’ascoltiamo con interesse e amore”. Manuela Mazzola
SEI DEBOLE, ESSERE UMANO -Siamo esseri deboli noi uomini, ci lasciamo preoccupare da ogni evento negativo. Se avessimo più pazienza, più forza interiore, potremmo vivere sereni. Antonia Izzi Rufo Castelnuovo, Is
SI FA FESTA Si mangiano cose buone, si ride, si canta, si balla. Nell'animo di ognuno, però, c'è tanto dolore e si piange in silenzio, senza lamenti, senza lacrime. Antonia Izzi Rufo Castelnuovo, IS
AMICA CASA Casa accogliente, casa a me gradita, amata casa, dove ho convissuto anni felici in seno alla famiglia,
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ora che penso a quando sarà il giorno in cui per sempre ti dovrò lasciare, amata casa, con dolore penso: che ne sarà di queste care mura? Così pensando un tempo io sentivo un leggero tormento in fondo al cuore. Oggi questo tormento è ormai sparito, perché con gioia so che queste mura accoglieranno ancora una famiglia simpatica e gentile, sempre unita, che le riscalderà col proprio amore. 19 dicembre 2021 Mariagina Bonciani Milano
D. Defelice: Il microfono (1960)
NOTIZIE PIAZZA SAN BENEDETTO RINNOVATA? I POMETINI NON SE NE SONO ACCORTI – “È stata inaugurata sotto la pioggia battente la nuova piazza San Benedetto da Norcia (“piazza del mercato”) completamente rinnovata dopo la demolizione della vecchia struttura e la riqualificazione della fontana centrale. Sono state anche abbattute le barriere architettoniche e messe a dimora nuove alberature”. Così una testata locale, la quale, a quanto pare, non fa buona
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informazione. Intanto, la fontana non è “centrale” ma a destra per chi dà le spalle a via Orazio. Poi, è stata abbattuta la vecchia fontana, che non ha mai funzionato e sostituita con un’altra che, a nostro avviso, è più brutta della prima e che, come la vecchia, non funzionerà, e non perché sia bella o brutta, ma perché a Pomezia le fontane non hanno mai funzionato; perché una fontana funzioni ci vuole volontà, amore, manutenzione e costanza, tutte qualità assenti nella mentalità di chi ci governa, e non solo in quelli di oggi. Ricordiamo il vascone di piazza Indipendenza; ricordiamo il piccolo stagno su uno dei catafalchi di piazza Aldo Moro; ricordiamo gli spruzzi che avrebbero dovuto zampillare all’incrocio di via Orazio con via Pier Crescenzi e via Filippo Re, a ridosso di piazza Indipendenza; ricordiamo, infine, la fontana di largo Brodoloni, che funziona quando sì e quando no, ma che, comunque, non può essere usufruita dai cittadini perché facente parte di una semplice rotonda regolatraffico. Piazza San Benedetto non è stata per niente rinnovata. Di recente sono stati abbattuti alcuni pini che avevano sollevato l’asfalto e sostituiti con qualche scheletrico alberello. Per il resto, è quasi tale e quale quella di prima, non “sono state abbattute le barriere architettoniche” perché continuano ad esserci gli alti e i bassi, i muretti e le ringhiere. Continua ad essere deserta, perché nessuna mamma si azzarderebbe a lasciar scorrazzare i suoi bambini col rischio di sfracellarsi e mai un anziano di camminare o di sostare. Si son mai chiesti gli Amministratori perché piazza Indipendenza sia, invece, sempre affollata? Non è certo perché i pometini desiderano ammirare le belle facce degli amministratori, ma perché è piana, ci si può sostare; in altri termini, perché, sebbene avrebbe potuto essere migliore, è sempre una vera piazza (oggi, perché quando c’era il vascone e tutto il resto, la triste illuminazione, sembrava tale e quale un cimitero). Già, un cimitero. Piazza Aldo Moro, per esempio, cimiteriale continua ad
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esserlo, con i suoi catafalchi di cemento sbrecciato, l’atmosfera che ispira malinconia. E la stampa locale parla di “inaugurazione” e scrive un sacco di inesattezze. Amen! Amen! Domenico Defelice *** TRASLOCHI, CHE INCUBO! – Per noi, i traslochi sono stati sempre un incubo, ci hanno sempre lasciato amarezze. Il primo e più traumatico è stato quando, dalla Calabria, in età quasi infantile ma da maturi per quei tempi, ci siamo avviati per la prima volta a Roma. Avevamo tutto in una grossa valigia di cartone marrone, di noi più alta, tanto è vero che non riuscendo a spostarla, ci siamo su di essa appollaiati accanto allo sportello dove ce l’aveva collocata un robusto passeggero caritatevole. Ricordiamo che molti, salendo o scendendo, ci davano carezzevoli manate sul collo per salutarci, sicché giunti a Roma, ce l’avevamo così indolenzito da non poterlo muovere. Quindi, a trascinarla sui sampietrini della capitale fino a una locanda nei pressi di Termini, ove è giunta quasi sfondata. Poi, ritornati dopo il diploma, quasi ogni anno, traslocavamo da una pensione all’altra, a volte da soli, a volte con degli amici, come col poeta Rocco Cambareri. Ogni volta, rimanevamo sempre traumatizzati, per almeno una settimana prima e per più settimane dopo. L’ultimo è stato quello del 1970, quando ci siamo definitivamente sistemati a Pomezia, che conoscevamo e frequentavamo fin dal 1960. In tutti questi spostamenti, abbiamo perso libri, documenti, diari, disegni. Un incubo sempre, un disastro. Perché la bontà o meno di un trasloco, dipende, forse, da chi lo fa, dal suo spirito del momento, se positivo o negativo e da come viene effettuato. Ce lo dimostra l’amico Giuseppe Leone, che di recente ha traslocato, sempre sullo specchio del lago di Como. “…Ti ho parlato del trasloco – ci scrive -, ma non del luogo dove sono andato ad abitare assieme a Emanuela. È un paesino sempre sul lago, alle porte di Lecco, che si chiama Ab-
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badia Lariana. (…) Un particolare, caro Domenico: trasferendo il domicilio ad Abbadia, potrei dire d’aver cambiato anche giurisdizione poetica - si fa per dire: da quella manzoniana a quella dantesca: pensa che a Pescate dove ho abitato per sedici anni, seduto alla scrivania potevo vedere il Resegone, mentre ad Abbadia, guardando dalla finestra dello studio ho davanti una montagna dalle caratteristiche squisitamente dantesche, assai simile al “luminoso colle”. Da qui, tra le otto e le dieci del mattino, se guardo in alto, è come leggere questi versi: Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle giunto, là dove terminava quella valle che m’avea di paura il cor compunto, guardai in alto e vidi le sue spalle vestite già de’ raggi del pianeta che mena dritto altrui per ogne calle. Un colle con le cime illuminate e il resto in ombra! Non è stupendo, caro Domenico? (…).” Non solo stupendo. Rapportato ai nostri, è un trasloco di poesia, bello desiderabile, perché deliziosamente accompagnato/strattonato da/tra Manzoni e Dante! Domenico Defelice
LIBRI RICEVUTI MANUELA MAZZOLA – Parole Sospese – Poesie, Prefazione di Piergiorgio Mori; in copertina, a colori, “La condizione umana” di René Magritte – Il Convivio Editore, 2021, pagg. 48, € 8,00. Manuela MAZZOLA è nata a Roma il 2 luglio 1972 e risiede a Pomezia (RM). Laureata in Lettere all’Università La Sapienza, collabora con riviste e periodici (L’Attualità, Il Convivio, Il Pontino nuovo, The world poets quarterly, Oceano New, L’Eracliano, Pomezia-Notizie) ed è stata inserita in varie antologie. Ha pubblicato: Sensa-
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Gennaio 2022
zioni di una fanciulla (parte prima, 2019), Sensazione di una fanciulla (parte seconda, 2020), Frammenti di vita (2020), Enzo Andreoli e la Shock Art (2021). ** ROSANGELA ZOPPI – La lingua di Roma dialetto, proverbi e modi di dire – Prefazione di Filippo Ceccarelli. In copertina, cartonata, “donna appoggiata a un muretto sulla sponda del Tevere”, foto di Giuseppe Primoli; numerose altre foto all’interno del testo - Gangemi Editore International, 2021, pagg. 512 + 16 fuori testo a colori, € 44,00. Rosangela ZOPPI è nata a Roma. Laureata in Scienze Politiche all’Università di Padova, ha pubblicato diversi volumi di poesie in lingua e in dialetto romanesco, di cui è studiosa ed esperta. Alcuni suoi articoli di critica letteraria sono apparsi su varie riviste. Si è occupata di teatro (testi e regia) e di traduzioni (inglese e francese) per due case editrici; ha tradotto in italiano il capolavoro di Thomas Stearns Eliot “Assassinio nella cattedrale”, traduzione per la quale è stata intervistata da Radio Vaticana. Ha tradotto in romanesco due sonetti di William Shakespeare inseriti nel volume “Shakespeare’s Sonnets Global” (2009 per il quadricentenario della prima edizione dei sonetti shakesperiani). Tra i suoi volumi: Le mie parole per gli altri (1989), Una donna contro un re (romanzo, 2000), Roma – la memoria delle strade (2007), SPQR (Sproloqui, Proverbi, Quisquilie, Ricordi): Roma e il suo popolo (2011).
TRA LE RIVISTE L’ORTICA – Pagine di informazione culturale, direttore responsabile Davide Argnani – via Paradiso 4 – 47121 Forlì – E-mail: orticadonna@tiscali.it – Riceviamo il n. 129, aprile-luglio 2021, con le firme di Claudia Bartolotti, Davide Argnani, Mirna Milandri, Giampaolo Chiarelli, Pietro Cimatti, Mariarita Zanca, Luigi Metropoli. *
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FLORILÈGE – Rivista trimestrale di Creazione letteraria e artistica, direttore Stéphen Blanchard – Bureau 328 Boite H 1 – 2, rue des Corroyeurs 21000 Dijon (Francia) – Email: aeropageblanchard@gmail.com – Riceviamo il n. 185, dicembre 2021, sempre splendido per contenuto e immagini. Centinai i poeti, con versi classici e moderni. La rivista organizza anche concorsi, come il « Concours International de Photos sur les thèmes des Tags, Graffitis et Street Art » e il « Concours dis-moi dix mots 2022 de la revue Florilège fondée en 1974 » dal tema : Mignonne, allons voir si la rose… » de Ronsard. Chiedere regolamento e partecipare. * L’ATTUALITÀ – Periodico mensile di società e cultura, fondato e diretto da Cosimo Giacomo Sallustio Salvemini – via Lorenzo il Magnifico 25 – 00013 Fonte Nuova (Roma) – e-mail: lattualita@yahoo.it – Riceviamo il n. 11-12, novembre-dicembre 2021. Tra i tantissimi collaboratori, anche la nostra Manuela Mazzola.
LA POESIA NON È COSA PER ALLOCCHI Anche i poeti, invecchiando, credono di diventare saggi, e incominciano a “predicare”, ma chiedo perdòno al lettore se non riesco a tacere. Da troppi anni vediamo troppi corrotti e lestofanti, barattieri e imbroglioni sorridenti, istruiti ed eleganti – intrufolarsi, rubare, dissipare nelle repubblicane istituzioni. Le carceri stanno scoppiando eppure le mafie ancora impazzano, la delinquenza comune dilaga, sempre più crudele e disumana. Continua a dominare il dio Denaro.
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Gennaio 2022
Anche nelle spire soffocanti della Grande Crisi c’è chi stenta ad arrivare a fine mese ma c’è chi si arricchisce speculando. Per non fare della semplice teoria non basta una formale parità di Bilancio in un vuoto pneumatico di valori. Poeti e artisti non restino sempre a guardare. La poesia non è cosa per allocchi, e non è cibo per gli sprovveduti. Luigi De Rosa Da: Fuga del tempo, Genesi Editricee, 2013
ORA ANCHE UN CANTO Ora anche un canto d’uccello mi è prezioso, un alito di brezza, una cima d’albero che vi si culla. Ora con altro occhio guardo una nuvola, la sua pioggia sottile che sfiora la foglia, sgocciola, la lucida, con palpito umano la carezza. Ora accolgo con gioia anche il tuono e immagino lo scontro di due furie giganti. Ora mi è gioiello un sorriso soltanto accennato una parola d’amore detta dagli occhi, uno sguardo di bimbo a spasso con la mamma che si volta, mi osserva, mi fa ciao con tre dita. Gianni Rescigno Da: Il vecchio e le nuvole, BastogiLibri, 2019
* È in me il consolatore del lago sconvolto di Tiberiade: le stesse mani ora drizzano
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la prora della navigazione, non più ignota. E dal monte delle Beatitudini pare udire suoni d’amore rotolarsi come perle nella valle. Imbruna come se fosse l’alba. Dalla finestra, Roma mi zampilla un crescendo di chiarori e neon fantasmagorici. Le guglie sono alte, più alte nel cielo, che ha cessato di piangere. È vero, Signore, che vinci le tenebre. Già l’orizzonte si uguaglia al germoglio di luce dei tuoi occhi, quasi cristallo che rifletta biade. Palpita il mio cuore, vela gonfia d’azzurro. Rocco Cambareri Da: Versi scelti, Guido Miano Editore, 1983 Domenico Defelice: Raul Follereau, l’amico dei poveri (china su cartoncino, 1965, proprietà di Geppo Tedeschi, Roma) →
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Gennaio 2022
NEI SUOI OCCHI
STAZIONE ALL’ALBA
Mare calmo d’inverno disteso e puro come un dio sereno, oggi un bambino che viene dalle nebbie, dai grigi pioppi della Lombardia, spazia lo sguardo in te la prima volta. Assoluto così, enigmatico e chiaro, mare, non mi apparisti mai come mi appari nel lungo stupore dei suoi occhi. Ada De Judicibus Lisena Da: Omaggio a Molfetta, Edizioni Nuova Mezzina, 2017
All’alba anche le luci della stazione sono stanche e pervase da un pallore d’angoscia.
Domenico Defelice: “Processo a porte chiuse”, illustrazione dell’omonima novella di Piero Ales (1962, olio su tela 34,50 x 25), proprietà Dott. Piero Ales, Reggio Calabria. ↓
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Pochi i viaggiatori in attesa ancora assonnati ed assorti: ogni discorso tornerebbe a noia. Si verifica senza voci l’assalto al treno, e ognuno va a sedersi nel posto più isolato, in un cerchio di solitudine. All’orizzonte una nuvola rossa precede il sole, ma i paesi dormono ancora a ritroso delle stazioni, mentre il treno sbuffa veloce. Tra una fermata e l’altra il pensiero dipana la scia della casa lontana, e ascolta la rossa eco del gallo che stride nella notte… Francesco Fiumara Da: Domenico Defelice – Francesco Fiumara. Iter culturale – Poesia – Saggistica, La Procellaria Editrice, 2000
E QUANDO GLI ALTRI E quando gli altri, e gli altri, e tutti, tutti, diranno ch’è solo una favola e rideranno di tempi e nazioni e pesteranno le Croci e abbatteranno i Templi tra i ruderi di pietra e di carne, se vivo, io sarò a confessarTi. E là dove la terra è silvana
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Gennaio 2022
e l’aria non sa di bestemmia e la notte non è iconoclasta, T’innalzerò un Altare sotto arcate di stelle e immolerò la Vittima Eterna che ancora, che sola, ci unisce e ci salva. Eleuterio Gazzetti Da: Domenico Defelice – Eleuterio Gazzetti, Edizioni Pomezia-Notizie, 1984
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Si sciolgono i miei occhi: al tuo pensiero drudo non sono in vorticosa danza, non ti bacio nei sogni e tu non fremi di passione. Al di là delle lacrime stasera c’è un enigma a scacchi.
ALONE AND NUDE
È IN TRADUZIONE NEGLI STATI UNITI D’AMERICA la silloge di poesie
12 MESI CON LA RAGAZZA di Domenico Defelice A tradurla è la dottoressa scrittrice e poetessa
Aida Pedrina Ecco, di seguito, alcuni brani nell’originale e nella bella traduzione:
SOLI E NUDI Ed è tornato ottobre, rosso e giallo come pazzia d’amore! Non ho che questo cuore chiodato da offrirti e più di cento pene. Non ho che la speranza a trattenermi sull’orlo dell’abisso. Se tu volessi, saremmo ancora noi, soli e nudi, senza infingimenti o ipocrisie. Riscopriremmo pascoli di sogni ove il trifoglio non arrossa in questo mese di mosto e di mirtilli... Ma tu mutato hai già capelli, labbra e ciglia! Pure ancora bella sei quasi una fata in elegia di foglie.
And October is back, red and gold like love's madness! I don't have anything but this broken heart to offer you, and more than a hundred sorrows. I have nothing but hope to hold me back from the brink of despair. If you would want we could still be us, alone and nude, without hypocrisy or pretending. We would rediscover the meadows of dreams where the clover does not redden in this month of new wine and berries.... But you have already changed hair, lips and lashes! But you are still beautiful almost a fairy in the elegy of leaves. My eyes are melting: in your thoughts I am not the rake in a wild and twirling dance I am not kissing you in dreams and you are not trembling with passion. Beyond the tears tonight there is an enigma of chess.
NON PIÙ FRUSCIO DI FOGLIE... Picchiò con dita scarne. (Il pesco era già morto, alla finestra
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Gennaio 2022
non si tendeva più ramo né foglia.) Mi rannicchiai dietro la panca oppresso da un terrore di fanciullo. “Anima delicata, per te la vita parole ha d’autunno! Non disperare. Colei che ami un giorno a te verrà con le sue mani di purissima seta a tergere il tuo pianto e miele recherà sulle sue labbra fresche e angeliche polle. Non più fruscio di foglie ascolterai, né sbattere di rami alla finestra; ma un’armonia soave ogni tuo sogno renderà certezza...” Vi riconosco, o voce d’oltre tomba, voce amica. Ansie e pene più certo non avrete; questi giorni dei morti a noi soltanto recan lacrime amare... O Marcellina, quanto mi fai soffrire! Che non ti parli al cuore più tua nonna? Fredda pietra s’è fatta? Deh, vieni, vieni, dimmi che m’ami, fammi scordare il grido di civetta che strazia questo gelido novembre.
NO MORE RUSTLING LEAVES It knocked with bony fingers. (The peach tree was already dead: at the window there was neither branch nor leaf). I was crouching behind the bench oppressed with the terror of a child. Delicate soul, for your life has autumnal words! Do not lose hope. The one you love will come to you someday with her hands of purest silk to wipe your tears and honey she will have on her lips fresh and heavenly springs.
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No more rustling of leaves you will hear, nor lashings of branches at the window; but a soothing harmony will make all your dreams come true.... I recognize your voice from behind the grave, friendly voice. Surely, yearnings and sorrows you no longer have; these days of the dead bring bitter tears only to us living.... Oh Marcellina, how you make me suffer! Is your grandmother no longer speaking to your heart? Did she turn herself into cold stone? Oh come, come, tell me you love me; make me forget the ominious cry of the owl piercing this ice-cold November.
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