Premiata Salumeria Italiana 6-2022

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Consorzio
21-4-98 Periodico bimestrale per gli addetti ai lavori DALSALUMIFICIOALLASALUMERIANONSTOP Anno XXXIV N. 6 Novembre-Dicembre 2022 € 6,70
Autorizzazione del
del Prosciutto di Parma del
Credits: Stefano Caffarri

Mara Antonaccio

Giovanni Ballarini • Josette Baverez Blanco

Elena Benedetti

Fabrizio Bertucci • Gian Omar Bison

Gaia Borghi

Federica Cornia • Sebastiano Corona

Marco Credi

Giorgia Fieni • Laura Franchini

Andrea Gaddini

Guido Guidi • Elisa Guizzo

Riccardo Lagorio

Luca Mamiani • Nunzia Manicardi

Giulia Mauri

Francesca Monti • Alessia Morabito

Anna Mossini

Giovanni Papalato • Chiara Papotti

Massimiliano Rella

Alessia Serafini • Elena Simonini

Roberto Villa

Buone da tutti noi

Feste

6/22 2 AUGURI D’AUTORE
Premiata Salumeria Italiana,
3
Premiata Salumeria Italiana, 6/22

Eurocarni – Premiata Salumeria Italiana – Il Pesce – Euro Annuario Carne – Euro Genuine Food Annuario del Pesce e della Pesca – US Annuario dei Fornitori della Sanità in Italia

Direttore responsabile e editoriale

Elena Benedetti

Redazione

Gaia Borghi – Federica Cornia – Marco Credi

Segreteria di redazione

Gaia Borghi Prestampa Marco Credi

Marketing e pubblicità Luigi Credi – Chiara Zaccaroni

Fotografia

Luigi Credi

Abbonamenti

Fioretta Fiorentin

Amministrazione

Andrea Tomassone

Comitato di redazione

Sebastiano Corona – Guido Guidi – Riccardo Lagorio –Manrico Murzi – Massimiliano Rella

Comitato scientifico Prof. Giovanni Ballarini

Collaboratori scientifici Dr. Marco Cappelli – Dr. Emanuele Guidi

Direzione – Redazione

Amministrazione – Pubblicità

Edizioni Pubblicità Italia Srl Piazza Roma 3 – 41121 MODENA Tel. 059216688 – Fax 0598671709

E-mail: redazione@pubblicitaitalia.com Web: www.premiatasalumeriaitalianaonline.com — Reg. al Tribunale di Modena n. 921 del 29-04-1988

Premiata Salumeria Italiana, 6/22

Tariffe abbonamenti

Annuale (6 numeri): Italia € 40,00 – Estero € 50,00 Sconto librerie: 10% Modalità: versamento su c/c postale n. 52411311 intestato a Edizioni Pubblicità Italia Srl Piazza Roma 3 – 41121 MODENA ISSN 1121-9068 – Iscritta nel ROC –Registro degli Operatori di Comunicazione al n. 11256 del 14/6/2005

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Euro Annuario Carne

La banca dati internazionale del mercato delle carni sempre aggiornata, utile strumento di lavoro per gli operatori del settore lavorazione, commercio e distribuzione carni. Edizione 2023

Copia cartacea: € 95,00

Blog

5 N. 6 Anno
Novembre-Dicembre
XXXIV
2022
6,70
compone
sue riviste con computer Apple . Il testo è impaginato con Adobe InDesign CC 2019. Le illustrazioni sono realizzate con Adobe Photoshop CC 2019.
Dal 1984 Edizioni Pubblicità Italia
le
EURO ANNUARIO CARNE 2023 Gruppo editoriale Edizioni Pubblicità Italia Srl
In questo numero: Immagini Crudo di Carpegna DOP 14 Agenda Castelnuovo Rangone (MO) – Bologna – Firenze 16 Salumi & Co. a Natale Arte, vintage e salumi – Food Design – Ghirlanda in negozio – Tagliere Bergman 18 Fotografati e mangiati Taralli Bio – Salamino di bufalo di Amaseno 20 La copertina esplosa Zampone Modena IGP 22 Premiata Salumeria Italiana, 6/22 7 A pagina 56. N. 6 Eurocarni – Premiata Salumeria
Pesce
Euro Annuario
Euro Genuine Food
in
€ 6,70
Italiana – Il
Carne –
Annuario del Pesce e della Pesca – US Annuario dei Fornitori della Sanità
Italia

Brevi storie di cibo lento Come fosse antani, sbriciolate

Alessia Morabito 26 a velocità contemporanea

Il food in rete

Aziende

Social food

Elena Benedetti 28

Elena Benedetti 30 Carpegna DOP, la sofficità fatta a prosciutto Gaia Borghi 36 Salumificio Val Rendena: carne salada, speck e salumi del Trentino Massimiliano Rella 42

Leonardi, una storia di famiglia

Analisi del food Salumeria equina Giovanni Ballarini 48 Prodotti tipici Il turtèl sguasaròt mantovano Roberto Villa 54

Tradizioni

Nunzia Manicardi 56 Cremona, Mantova e Vicenza: sulla strada delle mostarde “ardenti” Chiara Papotti 60 Quando il Cotechino Modena IGP va in galera Nunzia Manicardi 64

Brodo e anolini

Eventi Campionato Italiano del Salame 2022, i vincitori 66

Bollicine Champagne Experience 2022

Riccardo Lagorio 70 Femmes en Champagne Alessia Morabito 72

Il gusto di camminare

Elena Simonini 76 Paesi, Lambrusco e Castelli Federica Cornia 82

A spasso tra vigneti e cantine

A pagina 60.

6/22 8 Periodico bimestrale per gli addetti ai lavori DALSALUMIFICIOALLASALUMERIANONSTOP Anno XXXIV N. 6 Novembre-Dicembre 2022 € 6,70
Premiata Salumeria Italiana, In copertina: auguri di Buon Natale dalla Redazione di Premiata Salumeria Italiana (photo © Massimiliano Rella).

Week-end

I prodotti dell’Appennino

Josette Baverez Blanco 88

Riccardo Lagorio 92 Rassegne

Locali di gusto San Marco, impronta camuna

Formaggio

Ogliastra, dalla terra dei centenari, i formaggi che non ti aspetti

Massimiliano Rella 99

I grandi salumi del Piemonte al Salone del Gusto 96 Piacere Modena Gusti.A.Mo 2022

Sebastiano Corona 102

Gian Omar Bison 104 Pani italiani

Cortese: malgari per vocazione e casari per caso

Emilia-Romagna: pani tradizionali

Chiara Papotti 116

Giovanni Ballarini 110 Dolci Bianco o nero? Lo “stile Panforte” conquista tutti

Lo chef dell’olio Bilancia, esalta, aggiungi

Fabrizio Bertucci 120 A pagina 66.

A pagina 72. A pagina 104.

www.premiatasalumeriaitaliana-online.com

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10

A pagina 92.

A pagina 110.

A pagina 99.

Vini di Natale

Vini emozionali, fatti bene, per piacere

Bevande

Tecnologie

Riccardo Lagorio 124

Riccardo Lagorio 122 Vino Uve di Andalusia e Estremadura

Le migliori grappe italiane premiate alla 39a edizione

Chiara Papotti 128 dell’Alambicco d’Oro

Le tecnologie mobili dell’ERP CSB-System offrono soluzioni 132 al passo coi tempi

Libri Massimo Spigaroli, una mia idea… – Piccola storia dei Tajarin – Guida 134 birre d’Italia 2023 – Fette di Bontà – Il dizionario dei sapori giapponesi –Fino all’ultima briciola – Fragole d’inverno – La matrice dei sapori

www.premiatasalumeriaitaliana-online.com

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www.adalab.net andrea.conticelli Referente vendite per l’Italia Phone: +39 331 3439676 Tel/Fax: +39 0431 91352 www.andreaconticelli.com E-mail: info@andreaconticelli.com

Un prosciutto così e il suo gusto inconfondibile non nascono per caso, ma sono il prodotto di un insieme di tecniche che sposano un microclima unico. Stiamo parlando del Crudo di Carpegna DOP, soffice e profumato, il principe marchigiano dei prosciutti. Il racconto della visita al suo stabilimento di produzione, a Carpegna, tra le verdi colline dell’Appennino, lo trovate a pagina 36.

6/22 14 IMMAGINI
Premiata Salumeria Italiana,

AGENDA

Castelnuovo Rangone (MO)

Anche quest’anno non mancherà la festa del Superzampone, lo Zampone più grande del mondo! L’iniziativa, organizzata e promossa dal Comune di Castelnuovo Rangone, in collaborazione con l’Ordine dei Maestri Salumieri, rappresenta un momento fondamentale per la promozione e la valorizzazione delle tipicità e delle eccellenze agroalimentari del Modenese. L’invenzione della festa dello zampone più grande del mondo risale al 1989 ed è legata allo scherzo di un gruppo di castelnovesi che mise in mostra uno zampone di cartapesta lungo due metri. Lo zampone gigante viene cotto in un’enorme zamponiera di acciaio inox. La preparazione e la cottura (lo zampone anche quest’anno si avvicinerà alla tonnellata di peso) durano circa tre giorni. L’appuntamento è quindi per domenica 4 dicembre in piazza a Castelnuovo Rangone per rendere onore ad un insaccato della tradizione e a una materia prima, la carne suina, che tanto benessere ha contribuito a dare al territorio.

zampone.com

Bologna

Le più importanti insegne della Distribuzione Moderna prenotano un posto a MarcabyBolognaFiere, l’unica fiera italiana dedicata alla marca commerciale, in programma al quartiere fieristico di Bologna il 18 e 19 gennaio 2023. Il comitato tecnico scientifico che supporta la fiera, organizzata da BolognaFiere in collaborazione con ADM, Associazione Distribuzione Moderna, e costituito dai più importanti retailer della distribuzione moderna, ha registrato 4 nuovi ingressi, portando a quota 22 le insegne che esporranno alla 19a edizione. In mostra anche i prodotti novità delle insegne, quelli immessi sul mercato nel 2022 oppure in fase di lancio nel 2023: si potranno vedere in vetrina alla Retail Brand Area e anche consultare anche on-line sul sito di MarcabyBolognaFiere. marca.bolognafiere.it

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Firenze

Coinvolgente, per assolo o big band, il jazz è il genere musicale che meglio rappresenta la voglia e la libertà di provare accostamenti inediti, lanciandosi nell’esplorazione di sound innovativi. Proprio come accade con i sapori. Clarinetto, sax, tromba e percussioni si fondono in un’armonia di gusti e diventano “Jazzy Taste”, il tema che darà ritmo alla prossima edizione di Taste (4-6 febbraio 2023, Fortezza da Basso di Firenze). Scrive AGOSTINO POLETTO, direttore generale di Pitti Immagine: “Gusti, profumi, sapori cercati, coltivati, inventati e ritrovati, in perenne comunicazione, in continua sperimentazione. Il cibo, quello talentuoso, è ritmo, cadenza, battito, accordi e disaccordi, assonanze e dissonanze, note alte e basse alla ricerca di nuove armonie. Esperienze coinvolgenti, immersive, totalizzanti non concentrate su un singolo senso, ma sulla coralità dei cinque sensi. Esibizioni soliste, come quella di un ingrediente straordinario, accostamenti in forte contrasto o in sintonia, come il dolce e il salato, alleati o duellanti, fino ad arrivare all’energia collettiva di un’orchestra, quella di Taste, che sale sul palco unita, non mancando di sottolineare sempre il valore unico di ciascuna individualità. La musica, come il cibo, inventa e sperimenta. Segue percorsi consolidati per poi divertirsi a rompere e a crearne di nuovi. Un ritmo irresistibile che è anche quello dei sapori e del gusto. Accordi e disaccordi, fratellanze e contrasti, armonie e ricercate disarmonie, gli ingredienti hanno la loro musicalità, la capacità di suonare corde interiori, evocano e scuotono, emozionano e rassicurano nella creatività dei sapori”. taste.pittimmagine.com

Una varietà di selezione carni, gusti, dimensioni, forme per soddisfare i tuoi clienti più esigenti.

Via Augusto Vaccari 28/30 29028 Ponte dell’Olio (PC) Tel. 0523-877625 - www.sanbono.it

e salumi Arte, vintage

Questo poster artistico che raffigura il salame Negronetto fu disegnato dal grafico d’avanguardia Mario Puppo e prodotto nel 1965. L’abbiamo trovato su artifiche.com, una galleria di poster vintage degli ultimi 120 anni fondata a Zurigo nel 1999 da Beatrice Müller.

Design

In Transition Menu, il designer spagnolo Martí Guixé ci racconta il passaggio dalla gastronomia al Food Design Concepito in occasione della mostra “Progetto cibo. La forma del gusto” al MART – Museo di Arte Moderna e contemporanea di Trento e Rovereto, Transition Menu amplia la ricerca di Guixé sul design del cibo. Libro stupendo! Su corraini.com

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SALUMI & CO. A NATALE
FOOD

BERGMAN Tagliere

È fatto di marmo bianco e nero, è rettangolare (25x25 cm), è prodotto da Bergman ed è perfetto per esaltare salumi affettati come salami, prosciutti, coppe e mortadelle. Stiloso ed elegante. Ci piace tantissimo (e si sa, siamo ossessionati dai taglieri!). Si trova su kavehome.com e in giro su Amazon.

Ghirlanda

IN NEGOZIO

Sono da sempre uno dei simboli dello spirito natalizio arricchendo case, negozi e uffici e dando il benvenuto a chi entra. Tante sono le idee per realizzare una ghirlanda fai-da-te o da commissionare a fiorai e laboratori creativi.

Sono belle, profumate e scaldano il cuore.

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TARALLI BIO

agricolturabiodepalma.com

Produttore: Azienda Agricola De Palma, Modugno (BA). Regione: Puglia.

Ingredienti: semola rimacinata di grano duro bio Senatore Cappelli, olio extravergine di oliva bio, vino bianco bio, sale.

Senza: lattosio.

Descrizione: i taralli biologici dell’Azienda Agricola De Palma sono prodotti artigianalmente con semola rimacinata Senatore Cappelli, olio extravergine di oliva, vino bianco e sale.

“Il grano Senatore Cappelli è un grano antico, una varietà del passato rimasta autentica ed originale, ovvero che non ha subito alcuna modificazione da parte dell’uomo per aumentarne la resa. La farina ottenuta da questo prezioso grano ha delle caratteristiche organolettiche importantissime: un alto indice proteico; un basso contenuto di glutine; contiene pochi carboidrati; un basso contenuto di zucchero; ricca di magnesio, potassio, calcio, zinco, vitamina B ed E; altamente digeribile”. Sono buonissimi!

In abbinamento a: salumi della tradizione pugliese e a un buon calice di Primitivo di Manduria DOC.

6/22 20 FOTOGRAFATI E MANGIATI
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SALAMINO DI BUFALO di Amaseno

fattorialauretti.it

Produttore: Fattoria Lauretti, Amaseno (FR)

Regione: Lazio.

Ingredienti: carne di bufalo, carne di suino, sale di Cervia, pepe nero, finocchietto selvatico, vino, spezie.

Descrizione: la Fattoria Lauretti opera a conduzione familiare ad Amaseno, nella provincia di Frosinone, uno dei cuori pulsanti dell’agricoltura ciociara, dove alleva animali allo stato semibrado su terreni biologici e produce gran parte della loro alimentazione, integrandola con prodotti certificati bio. Tra questi anche il salamino di bufalo, non salato, dal sapore bilanciato e molto gradevole. Un ottimo snack durante la giornata e perfetto per l’aperitivo.

In abbinamento a: pane o focaccia morbida.

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Periodico bimestrale per gli addetti ai lavori DALSALUMIFICIOALLASALUMERIANONSTOP Anno XXXIV N. 6 Novembre-Dicembre 2022 22 Autorizzazione del Consorzio del Prosciutto di Parma del 21-4-98 D A L S A L U M I F I C I O A L L A S A L U M E R I A N O N S T O P € 6,70 LA COPERTINA ESPLOSA Premiata Salumeria Italiana, 6/22

Considerato fin dalle sue origini, insieme al Cotechino Modena, il progenitore di tutti gli insaccati che contengono cotenna, dopo oltre 500 anni lo Zampone Modena IGP viene ancora preparato secondo l’antica ricetta di un tempo. Si utilizzano carni pregiate unite a cotenna, aromatizzate con sale, pepe intero e/o a pezzi, vino, aromi naturali, spezie e piante aromatiche. L’impasto così ottenuto viene successivamente insaccato in un involucro naturale ricavato dalla pelle della zampa anteriore del maiale. Il prodotto precotto è confezionato in buste ermetiche e sottoposto a trattamento termico a elevate temperature per garantirne la stabilità organolettica. Il prodotto crudo viene asciugato in stufe ad aria calda e successivamente viene fatto bollire almeno per 2/3 ore, in modo da acquisire quel gusto, quel colore roseo e quella consistenza compatta tipica dello Zampone Modena IGP. Come ricorda il professor GIOVANNI BALLARINI su www.georgofili.info, lo storico legame del suo consumo in occasione di Natale e Capodanno (che si prolungava no all’inizio della Quaresima, durante la quale per i Cristiani è vietato mangiare carne) “nasce come conseguenza della tradizione contadina di sacrificare il maiale nel periodo invernale, tra la ricorrenza di Santa Lucia (13 dicembre) e quella di Sant’Antonio (17 gennaio). Tra i prodotti del maiale da consumare in un breve lasso di tempo e che non necessitano di un processo di stagionatura vi sono gli insaccati a base di cotenna e tra questi lo zampone è sempre stato considerato un prodotto particolarmente pregiato, da riservare ai giorni di festa”. Lo Zampone Modena IGP è oggi considerato un’eccellenza della nostra cucina e ha allargato i propri confini verso nuove modalità di cottura e preparazione.Portiamolo in tavola più spesso!

>> Link: www.modenaigp.it

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Come fosse antani, sbriciolate

“D

evo dare un taglio netto, togliere i rami secchi, per questo motivo, per il tuo articolo, ho disegnato la Finocchiona con quella bella fetta che si stacca via”: così mi ha appena scritto Alessia, l’illustratrice coautrice di questa rubrica, al comunicarle il salume che avevo scelto per questo numero.

Ho tenerezza e nostalgia di queste sue parole consapevoli che, facendosi aiutare dal suo linguaggio di poesia visiva, cercano la determinazione nell’affanno del momento.

La sento stanca, sono stanca pure io e mi manca ancor di più.

“Che cos’è il genio? Fantasia, intuizione, precisione e velocità di esecuzione!”.

Le Alessie si sono trovate e prese come certi amori predestinati, si inventano attività da portare avanti assieme e si promettono altre cose da fare assieme. Le Alessie vivono a poco meno di un migliaio di km di distanza e sono molto testarde. Si ritrovano per brevi o lunghi incontri tra l’Italia e la Francia.

Parlano spesso di piccole bellezze effimere e di ironie grottesche. Vivono a nervi scoperti, senza tende che facciano buio perché non hanno paura di nulla.

Sono diventate amiche come fanno le bambine, da un minuto all’altro, ma sono adulte e si chiedono spesso reciprocamente “come stai”, mettendosi in ascolto di come stai davvero.

Quando sono assieme sono “belle, libere e stupide”, come sono gli amici che assieme stanno bene.

«Una volta che vieni dobbiamo andare a Firenze», mentre lo dicevo pensavo agli Iris del giardino di Boboli, al mercato di Sant’Ambrogio, al fare qualche “supercazzola” solo ai turisti brutti, al giro dei macellai con ancora il banco di marmo, alla schiacciata unta ripiena di finocchiona, ad una buona bottiglia di Chianti bevuta in piazza.

La finocchiona è il salume toscano per eccellenza. Medievale per epoca e originario della zona del Chianti, è stata riconosciuta IGP dal 2015. Si ottiene con carne di maiale macinata, prevalentemente spalla, rifilatura del prosciutto, pancia, aglio, semi e fiore di finocchio selvatico e vino rosso. Insaccata nel budello naturale è maturata e stagionata 5/6 mesi. Può avere anche stagionatura più breve. Nel secondo caso la sua diffusione è più moderna, la dimensione è considerevole, l’impasto più grossolano, si taglia esclusivamente a coltello e prende il nome di “sbriciolona”.

L’uso del finocchio si pensa andasse a sostituire il troppo prezioso pepe nel periodo tardomedievale ma una diceria dei norcini, ormai leggendaria, racconta sia stata creata per “infinocchiare” i cittadini che andavano nelle campagne per comprare il vino. Il fattore offriva un assaggio di finocchiona per condizionare la percezione del gusto e non far capire se il vino venduto era di scarsa qualità.

Che devo dare un taglio netto e togliere i rami secchi me lo ripeto anche io ma mi “infinocchio” in un soliloquio dove perdo lucidità ed intenzione. Nel frattempo il tempo passa, la distanza resta, il lavoro aumenta, le giornate si complicano, il casino si accumula ed io mi sbriciolo come quando si taglia la finocchiona.

Dai Ale, non infinocchiarti pure tu, fermiamo subito due giorni, cerca un volo, io prenoto da dormire, si fa ‘na zingarata.

Premiata Salumeria Italiana, 6/22 26 BREVI STORIE DI CIBO LENTO A VELOCITÀ CONTEMPORANEA
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SOCIAL

1. La Nuova Sosta – Da Stefano

Gastronomia e salumeria con cucina, un locale con tante anime (anche il delivery), ricco e curato, con un’ampia offerta di prodotti selezionati. Questo e molto di più è La Nuova Sosta – Da Stefano a Pomigliano d’Arco (NA). In foto STEFANO DI MATTIELLO, da seguire per idee e curiosità nel suo account Instagram @lanuovasostadastefano (photo © facebook.com/ lanuovasostadistefano).

2. Food Club

È un portale ricco di notizie e approfondimenti sul mondo del food, “un punto di riferimento per chi è alla ricerca di ricette, recensioni, pareri e commenti. Un ritrovo, una filosofia, un’armonia”. Accessibile su www.foodclub.it e su www.instagram. com/foodclub.it (photo © facebook.com/foodclub.ita).

6/22 28 IL FOOD IN RETE
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3. Fevi’s Salumeria Moderna

Siamo a San Ferdinando di Puglia, nella provincia di Barletta-Andria-Trani. Qui opera Fevi’s Salumeria Moderna, un locale che abbina la ristorazione con la vendita di prodotti, caratterizzato da un’ampia offerta di vini e una selezione curatissima di formaggi, salumi e carni dry aged. Da seguire su Instagram @fevis_salumeriamoderna (photo © facebook. com/fevissalumeriamoderna).

4. Emilia Burger

Si chiama Emilia Burger, è firmato dallo chef modenese MASSIMO BOTTURA e si può gustare da Gucci Osteria a Firenze. Al suo interno una fetta di Cotechino di Modena IGP, salsa verde, maionese all’Aceto Balsamico Tradizionale di Modena DOP e Parmigiano Reggiano DOP stagionato 24 mesi. Un tributo ai sapori dell’Emilia. E il pack per l’asporto è stupendo! Da provare in piazza della Signoria in centro a Firenze e da ammirare su Instagram @gucciosteria

6/22 29 FOOD
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Benedetti
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Premiata Salumeria Italiana, 6/22 30 AZIENDE
Leonardi, UNA STORIA DI FAMIGLIA Tra prosciutti crudi e culatte di Elena

In alto: stagionatura delle culatte (photo © Federica Cornia).

A sinistra: la culatta di Leonardi, prodotto a marchio registrato, viene selezionata dalla parte più grossa e pregiata della coscia di prosciutto e stagionata nella cotenna per un minimo di 12-14 mesi.

Questa è una storia di famiglia. Più in particolare è la storia della FAMIGLIA LEONARDI di Marano sul Panaro, una località della provincia modenese che si incontra salendo la Fondovalle verso l’Appennino. Sembrerebbe, e forse lo è, la tipica storia del tessuto produttivo italiano, con l’avvio nel 1988: il signor ALDO LEONARDI, da decenni esperto nella macellazione e trasformazione delle carni suine, decide avviare un’attività condivisa dal figlio MARCO, oggi amministratore. Una realtà che, nel corso di quasi 35 anni di esperienza, oggi si sviluppa su una superficie di 5.000 m2 di stabilimento e che oscilla tra i 16 e i 18 milioni di fatturato. L’ubicazione della società in questo caso è strategica.

Ci troviamo in una zona collinare nella quale la salubrità dell’aria e la bellezza del paesaggio sono fondamentali per il buon sviluppo del prodotto: l’aria fredda proveniente dal Monte Cimone e la vicinanza del fiume Panaro creano un microclima che fa bene, molto bene, ai prosciutti.

Incontriamo Marco Leonardi nel suo ufficio, a pochi passi dallo spaccio e dalla sala degustazione, da poco inaugurati. «Abbiamo appena concluso un ciclo di investimenti che quest’anno, oltre alla ristrutturazione della palazzina che ospita gli uffici, hanno permesso di aprire le porte del nostro prosciuttificio a visitatori, buyer, clienti, scuole, turisti (oltre 2.000 presenze in costante aumento), vivendo così al meglio l’esperienza

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Premiata Salumeria Italiana, Prodotta con le carni delle migliori cosce suine selezionate in azienda, la culatta Leonardi è priva di conservanti e allergeni e preparata con ricetta a basso contenuto di sale per esaltarne la dolcezza (photo © Federica Cornia).

di conoscere e gustare i tanti prodotti da noi lavorati con passione» mi dice con una punta di giusta soddisfazione. «L’ultimo step dell’investimento è stato la cucina, per la quale abbiamo anche la licenza di ristorazione, utile per offrire esperienza in azienda per gruppi di visitatori, siano essi turisti o clienti, e anche per eventi business».

Il prosciuttificio Leonardi vanta due brand, Leonardi e Bontà modenesi. I prodotti di punta sono invece il Prosciutto crudo (con la produzione che arriva a 300.000 cosce l’anno) e la Culatta nazionale. Quest’ultima, dalla

tipica fetta rotonda, si ottiene dalla lavorazione della parte più pregiata della coscia di prosciutto, stagionata rigorosamente nella cotenna e ricavata dalla selezione delle migliori cosce suine. «Ne produciamo tra i 40 e i 50.000 pezzi all’anno e rappresenta il 25% del nostro fatturato» precisa Marco Leonardi. «È un prodotto molto buono, di qualità e al prezzo giusto che riscontra grande interesse da parte del mercato. Le carni sono tutte selezionate, lavorate e rifilate. Inoltre controlliamo molto il sale. Ed è dolce: per la sua realizzazione la selezione della materia prima

è importantissima e il sale va calibrato con attenzione».

Come si pone oggi l’azienda nel complesso contesto degli incrementi dei costi energetici? «Noi siamo energivori e gli ultimi 3-4 anni sono stati a dir poco folli» risponde. «Ma siamo imprenditori e sempre pronti a trovare soluzioni. La nostra famiglia già da tempo aveva sviluppato una sensibilità green orientata alla sostenibilità che l’ha portata a fare scelte fondamentali per produrre con il minor impatto (e costo) ambientale. Siamo avvantaggiati da scelte oculate fatte in tempi non sospetti: coi nostri depuratori, con i 104 kilowatt di pannelli solari sul tetto dello stabilimento, con l’impiego della robotica nella lavorazione operiamo in modo più efficiente e col minor impatto ambientale». Non manca inoltre dal 2017 anche la certificazione per la produzione di prosciutto crudo biologico. Insomma, ci sono tutte le carte in regola per garantire le bontà di un territorio unico che fa dell’arte salumiera la massima espressione imprenditoriale.

Prosciuttificio Leonardi Srl

Via Fondovalle 2955 – Loc. Casona 41054 Marano S.P. (MO)

Telefono: 059 703175

E-mail: commerciale@prosciuttificioleonardi.com Web: prosciuttificioleonardi.com

Il Prosciuttificio Leonardi nasce nel 1988 dell’esperienza trentennale di Aldo Leonardi nel settore della macellazione e trasformazione delle carni suine, al quale si affianca da subito il figlio Marco. La prima sede, uno stabilimento di quattro piani, è situata proprio nel centro del paese di Marano sul Panaro: l’aria proveniente dal Monte Cimone e la vicinanza del fiume Panaro consentono un’iniziale capacità produttiva di 1.000/1.500 prosciutti crudi alla settimana. Nello stesso anno l’azienda entra a far parte del Consorzio del Prosciutto di Modena DOP. Nel 2005 l’attività si trasferisce in via Fondovalle, sempre nella valle percorsa dal fiume Panaro, ampliando e sviluppando su un unico piano il nuovo sito produttivo, dotandolo di nuove e moderne tecnologie, che consentono di arrivare ad una produzione di 5.000 cosce alla settimana.

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La sala degustazione del Prosciuttificio Leonardi inaugurata di recente insieme allo spaccio (photo © Federica Cornia).

Martelli investe sul fotovoltaico per ridurre le emissioni

Un investimento per far fronte ai bisogni energetici e alle esigenze di sostenibilità ambientale, grazie alle energie rinnovabili. È quanto prevede una nuova fase industriale del Gruppo Martelli, realtà specializzata nella produzione e commercializzazione di salumi di alta qualità con carne 100% italiana e di prodotti gourmet per l’Ho.Re.Ca. e la Grande Distribuzione. Il progetto ha preso il via dallo stabilimento di Boara Pisani (PD), la cui intera superficie verrà utilizzata per l’installazione di pannelli fotovoltaici. Si tratta di 3.313 m2 di impianti, per un totale di 1.282 pannelli in silicio cristallino che cattureranno la luce del sole per trasformarla in energia pulita. La potenza complessiva raggiunta dall’impianto a regime sarà di 700 kWp, sufficienti a coprire 1/4 del fabbisogno energetico dello stabilimento. In termini di emissioni, gli impianti consentiranno un risparmio di ben 204 tonnellate di CO2 all’anno. Nella sede di Boara Pisani vengono prodotte alcune tra le specialità Martelli, come il top di gamma Prosciutto Cotto Alta Qualità “Bongustaio”, da sole cosce italiane, il Prosciutto Cotto Alta qualità Venda — storico prodotto del Gruppo apprezzato da sempre dalla GDO — e il Prosciutto Cotto al tartufo e con crema di Parmigiano Reggiano. Dopo questo primo passo, per un investimento di 1 milione di euro, i prossimi anni vedranno altri stabilimenti del gruppo ospitare pannelli fotovoltaici sulla propria superficie, con ulteriori investimenti e pratiche già avviate e in fase di definizione. «Si tratta di un passo importante per la nostra azienda — commenta EGIDIO MARTELLI, terza generazione della proprietà — perché ci rendiamo conto che, nella situazione di crisi climatica in cui ci troviamo, ognuno deve fare la propria parte. Il nostro è un settore energivoro, per questo desideriamo contribuire a ridurre le nostre emissioni scegliendo un’energia pulita e rinnovabile come quella solare». Il progetto dell’azienda si inserisce in un più ampio quadro di impegni per la sostenibilità ambientale. Oltre all’uso di energie rinnovabili, il Gruppo Martelli è impegnato dal punto di vista della salute e del benessere animale, che incide sia sui consumatori sia sull’ambiente. Ne è un esempio il lancio della linea di salumi 100% italiani a filiera completamente controllata “Qui Ti Voglio”, provenienti da suini allevati sin dalla nascita senza l’uso di antibiotici.

• Il Gruppo Martelli nasce nel 1959 da un’attività familiare ed è oggi è composto da 7 unità produttive che afferiscono a due diverse società: Martelli Fratelli Spa e Martelli Salumi Spa. Il Gruppo nasce a Mantova come industria di macellazione, si sviluppa a Padova per la produzione del prosciutto cotto e si espande a Parma per il prosciutto di Parma, arrivando fino a San Daniele, per la produzione del tipico prosciutto DOP. Il Gruppo Martelli controlla l’intera filiera produttiva, dalla macellazione di oltre 700.000 suini all’anno fino alla lavorazione delle carni. I salumi sono privi di glutine, glutammato e lattosio (ad eccezione del prosciutto cotto con crema al Parmigiano Reggiano). Nel 2021 il fatturato del Gruppo si è attestato intorno ai 300 milioni con una percentuale di export sui salumi pari al 18%. Tra le destinazioni principali USA, Germania, Francia, Australia e Giappone.

>> Link: www.martelli.com

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Carpegna DOP,

LA SOFFICITÀ FATTA A PROSCIUTTO

Se è vero che in qualche modo, nel nostro Paese ma non solo, ogni prodotto tipico, tradizionale, assomiglia al proprio territorio di origine, la sofficità che caratterizza il Prosciutto di Carpegna DOP non può che rimandare immediatamente al profilo sinuoso delle colline del Montefeltro che circondano il suo stabilimento di produzione, sito a 748 m di altitudine nel Parco interregionale del Sasso Simone e Simoncello Quella terra di mezzo sì marchigiana

ma sulla quale arrivano forti profumi, sapori e inflessioni dialettali romagnoli e, in misura minore ma ben presenti, anche toscani. Un territorio di confine storicamente vocato per caratteristiche pedoclimatiche alla stagionatura dei salumi, le cui pratiche risalirebbero addirittura al 1400, con l’aria asciutta e salmastra proveniente dall’Adriatico che era ed è tuttora elemento fondamentale nell’iter di produzione del Prosciutto di Carpegna. Boschi ricchi di abeti, carpini (latino Carpinus, da cui sembra derivi il

nome Carpegna) e il cerreto più grande d’Europa, luoghi ideali in passato per l’allevamento allo stato brado e la crescita dei suini, aria salubre, correnti marine e artigianalità della lavorazione sono i fattori che hanno permesso al Prosciutto di Carpegna di potersi fregiare della DOP, la Denominazione di Origine Protetta europea, già dal 1996. «Nonostante la lavorazione del Prosciutto di Carpegna DOP abbia origini antiche, è solo alla fine degli anni ‘60 che nasce un vero e proprio

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stabilimento, realizzato dalla famiglia Zavaglia, la cui produzione viene regolamentata da un preciso Disciplinare» spiega MARCO PULICI, vicepresidente del Consorzio di tutela del Prosciutto di Carpegna DOP e direttore generale di Carpegna Prosciutti, unico stabilimento in cui avviene la produzione di questo prosciutto e che dal 2013 appartiene al GRUPPO FRATELLI BERETTA (www.fratelliberetta.com). «Sono “restrizioni” che agiscono sulla zona di produzione e sulla definizione di tutte le tempistiche

che consentono al prodotto di rientrare a pieno titolo nella Denominazione di Origine Protetta, preservando la sua secolare tradizione». Sono infatti solo tre le regioni ammesse per l’origine della materia prima, il suino pesante padano, ovvero Lombardia, Emilia-Romagna e Marche; 10 mesi l’età minima di macellazione dei suini; 12 kg il peso minimo della coscia alla macellazione (massimo 17 kg); 13 mesi la stagionatura minima richiesta per la DOP. «Il prosciuttificio — prosegue Pulici — vuole essere la

A sinistra: Prosciutto di Carpegna DOP, il principe marchigiano dei prosciutti. A destra: in alto, lo stabilimento di Carpegna Prosciutti a Carpegna (PU). In basso, il controllo olfattivo, che avviene introducendo un ago ottenuto dalla tibia equina in diverse parti della coscia suina.

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Umberto Marbini, responsabile di produzione di Carpegna Prosciutti.

La sugnatura manuale del Prosciutto di Carpegna DOP. La particolare ricetta dell’impasto applicato nella parte della coscia suina non protetta dalla cotenna, a base di grasso di maiale, farina di riso, sale marino, pepe, paprica dolce e piccante e altre spezie, dona una profumazione unica al prodotto.

“ricostruzione” della produzione contadina del prosciutto in ogni sua fase, coadiuvata oggi sì dalla tecnologia e dall‘automatizzazione delle linee ma dove restano fondamentali la capacità e l’esperienza dell’uomo, la sapienza insostituibile dell’artigiano salumiere». L’impianto di Carpegna, ad esempio, è dotato di un sistema entalpico che, per 9 mesi l’anno, considerato appunto il particolare microclima della zona, sfrutta le condizioni climatiche esterne per l’asciugatura dei prosciutti, essendo considerate migliorative per la produzione stessa: è la versione contemporanea delle classiche “finestre aperte”.

«Quello di Carpegna è un prodotto straordinario in cui il Gruppo Beretta ha creduta da subito» prosegue Marco Pulici. «Oggi lo stabilimento di Carpegna produce 120.000 Prosciutti di Carpegna DOP e 40.000 non DOP ma il nostro obiettivo è quello di saturare la capacità produttiva (160.000) con la sola DOP. È stato inoltre presentato un

progetto per il raddoppio dell’impianto: la volontà è quella di arrivare ad una capacità produttiva di 300.000 prosciutti entro i prossimi 3, 5 anni massimo». Il Carpegna DOP viene venduto sui banchi della GDO dal 2017/18 e viene esportato anche negli Stati Uniti (la proposta al mercato statunitense è avvenuta nel giugno 2018) fino in Australia.

Puri si nasce, Soffici si diventa Dicevamo della sofficità, caratteristica precipua del Crudo di Carpegna, tanto da essere scelta come claim della nuova campagna di comunicazione del prodotto attuata dal Consorzio: “Puri si nasce, Soffici si diventa”. Ma quali sono gli altri plus del Prosciutto di Carpegna DOP, i tratti salienti che lo rendono unico, inconfondibile, distinguendolo alla vista e all’assaggio dagli altri prosciutti? «Innanzitutto la pesantezza della coscia e quei dieci mesi che deve avere il maiale per poter essere macellato, un mese in più rispetto ai Disciplinari

di altre DOP, e che hanno come conseguenza una maggior copertura di grasso» puntualizza Marco Pulici. «E poi il colore, leggermente ambrato, legato alla fase di asciugatura del prosciutto, che avviene, sempre rispetto ad altri prosciutti DOP, ad una temperatura leggermente superiore, 2 gradi in più circa». Un procedimento “rischioso” per il prodotto, non a livello sanitario ma certamente a livello qualitativo, in cui l’esperienza dell’uomo, in questo caso il responsabile di produzione, UMBERTO MARBINI, fa davvero la differenza.

«Infine la particolare ricetta dell’impasto utilizzato per la sugnatura, effettuata solo a mano, a base di grasso di maiale, farina di riso, sale marino, pepe, paprica dolce e piccante e altre spezie, che dona un profumo unico al prosciutto». Dolce, ma leggermente aromatico, morbido in ogni singola fetta, raggiunge la stagionatura ideale tra i 18 e i 20 mesi, non oltre.

Cuneo DOP, Prosciutto di Modena DOP, Prosciutto di San Daniele DOP, Prosciutto Toscano DOP, Prosciutto Veneto Berico-Euganeo DOP, Vallée d’Aoste Jambon De Bosses DOP e Prosciutto di Carpegna DOP. Il prosciutto italiano DOP è un prodotto di qualità, certificato, preparato nel rispetto delle nostre tradizioni e secondo i più elevati standard di sicurezza. Dalla scelta della materia prima — maiali nati, allevati e macellati in Italia — alla salatura, stagionatura e marchiatura, ogni fase garantisce il rispetto dei disciplinari dei Consorzi e la cura dei dettagli.

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prosciutti italiani DOP sono: Prosciutto di Parma DOP, Crudo di

Il Consorzio Prosciutto di Carpegna è un’associazione italiana che si propone di preservare e controllare il processo di produzione del Prosciutto crudo di Carpegna riconosciuto come DOP ai sensi del Regolamento (UE) n. 1151/2012. Nato nel maggio del 2015, in una terra immersa nell’Appennino marchigiano dove da secoli l’uomo alimenta la ricca tradizione dei prosciutti di alta qualità, ha lo scopo di tutelare e valorizzare il Prosciutto di Carpegna DOP in termini di valori, caratteristiche, stagionatura e metodi di produzione che gli hanno permesso di ottenere già nel 1996 la Denominazione di Origine Protetta, preservando la tradizione secolare di un prodotto unico.

Carpegna è una terra ricca, dai mille piaceri; uno di questi è ovviamente l’inimitabile prosciutto che porta il suo nome, figlio di una natura libera e di un gusto nostrano (in foto, Marco Pulici, vicepresidente del Consorzio di tutela del Prosciutto di Carpegna DOP e direttore generale di Carpegna Prosciutti).

CONTATTI: Piazza Conti 8 – 61021 Carpegna (PU)

E-mail: info@consorzioprosciuttodicarpegna.it Instagram: @consorzio_carpegna

>> Link: consorzioprosciuttodicarpegna.it

Le “eccellenze europee” protagoniste a Golosaria Milano

C’era anche il Prosciutto di Carpegna DOP tra i protagonisti della campagna di comunicazione “L’eccellenza europea è una forma d’arte” in mostra a Golosaria Milano, manifestazione del gusto italiano svoltasi da sabato 5 a lunedì 7 novembre nella sede di Allianz MiCo Congressi.

La campagna di comunicazione europea “L’eccellenza europea è una forma d’arte” è volta a informare i consumatori e rafforzare la loro conoscenza sui marchi di qualità europea, accomuna 13 eccellenze certificate DOP e IGP provenienti da tre Paesi: il Prosciutto di Carpegna DOP, eccellenza tutta made in Italy, le Pruneaux d’Agen IGP, le regine delle prugne provenienti dalla Francia, e 11 prodotti DOP/IGP originari della Vallonia, regione meridionale del Belgio. Prodotti, questi, unici e speciali per il loro territorio d’origine, per la loro storia e tradizione produttiva oltre che per l’impegno di tutti coloro che da sempre lavorano per tramandare la passione, la cura e la dedizione per dei prodotti e sapori d’eccellenza. Scegliere un prodotto DOP o IGP vuol dire quindi scegliere un capolavoro di gusto autentico ed ineguagliabile

>> Link: eurofoodart.eu

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Premiata Salumeria Italiana, 6/22 42 SALUMIFICIO VAL RENDENA: CARNE SALADA, SPECK E SALUMI DEL TRENTINO

Da oltre 75 anni il Salumificio Val Rendena produce con passione e grande cura speck, carne salada e salumi tipici trentini.

A sinistra: il reparto speck dell’azienda. La stagionatura di 4 o più mesi nelle apposite sale è determinante per dare alla carne suina un sapore unico. In basso: la carne bovina in concia di spezie e sale per la produzione di carne salada.

La carne salada del Trentino è un salume della tradizione, nato secoli fa sotto il “regno” dei principi vescovi, un prodotto antico creato per necessità di conservazione, un tempo mangiato bollito o grigliato e solo più recentemente assaporato crudo, in tartare o in carpaccio, tagliato sottile, servito con un filo d’olio extravergine e scaglie di grana, oppure guarnito con rucola o funghi, anche sottolio. La tenerezza, il gusto e la bassissima presenza di grassi (circa 1% di grassi medi) sono i punti di forza della carne salada. Quando fu “inventata” una regola del Vescovado prevedeva che un quinto dell’allevamento andasse al vescovo sotto forma di tassa. Era un periodo ricco di carne e bisognava trovare un modo per conservarla in contenitori di pietra, con una miscela di sale e aromi, lasciata riposare a lungo. Ma, essendo troppo salata, veniva bollita.

I primi documenti che la citano risalgono al ‘400, anche se la sua consacrazione avvenne nel ‘700 grazie alla FAMIGLIA BENINI di Cologna di Tenno, che ne codificò il metodo produttivo e di conservazione. A fine ‘800, inoltre, i funzionari austriaci vietarono per tre giorni la settimana la vendita di carni bovine fresche, di maiali, pecore, capre e animali da cortile, ad eccezione di alcuni insaccati

e della carne salada, che ovviamente si avvantaggiò delle restrizioni imposte alla concorrenza.

Ancora oggi questa specialità trentina è prodotta con un metodo consolidato a partire dalla fesa di bovini adulti, ma si possono utilizzare anche sottofesa, girello e altri tagli, ripuliti da parti grasse e tendini, cosparsi da una miscela di sale e altri ingredienti all’interno di contenitori dove rimarranno per un periodo di tempo variabile a seconda della pezzatura, fino a 5-6 settimane, “massaggiate” con regolarità.

Una variante tipica della Val di Cembra è la carne fumada, questa sottoposta a un’affumicatura naturale aggiuntiva.

Nei mesi scorsi sulla carne salada è stato pubblicato il Disciplinare di produzione per il riconoscimento del marchio IGP (Indicazione Geografica Protetta), voluto dal Consorzio dei produttori trentini di salumi (Consorzio Trentino Salumi), ma l’iniziativa ha innescato ferventi polemiche in alcuni territori esclusi e di confine, soprattutto nell’area dell’Alto Garda e Ledro.

Diatribe a parte, siamo andati alla scoperta della carne salada visitando il Salumificio Val Rendena, a Ponte di Rendena, in provincia di Trento, che produce principalmente carne salada (40%), speck (40%) e salumi da suino italiano. In quantità minore lardo, pan-

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La tradizionale lavorazione in salamoia della carne salada rende questo prodotto tenerissimo, dal caratteristico colore rubino, gustoso e con basso tenore di sale.

cette e altre specialità, senza glutine e senza lattosio. Oltre alla luganega fa ad esempio il salume Diavoletto del Trentino, leggermente affumicato e piccante e ha una linea di produzione a marchio Qualità Trentina

Per la carne salada trasforma manzi sudamericani — fesa (o punta d’anca) — e ne produce anche una linea a marchio 4I, da animali nati, allevati e macellati in Italia.

Fondato nel ‘47 da Francesco e An-

gelo Gasperi, oggi il Salumificio Val Rendena è guidato dalla famiglia Gasperi e Ferrari, un’azienda con 35 dipendenti e un venduto complessivo di 1.500 tonnellate l’anno. Commercializza in tutta Italia tra GDO e canale HO RE CA e l’export rappresenta appena il 2,5%. Nei mesi scorsi ha fatto un accordo per un prodotto di qualità a marchio Fior Fiore da carni di allevamenti italiani del circuito della filiera COOP, allevati senza antibiotici dallo svezzamento.

TENEREZZA, GUSTO E BASSISSIMA PRESENZA

DI GRASSI SONO I PUNTI DI FORZA DELLA CARNE SALADA, UN SALUME ANTICO DELLA TRADIZIONE TRENTINA, NATO PER NECESSITÀ DI CONSERVAZIONE, UN TEMPO MANGIATO BOLLITO O GRIGLIATO E SOLO PIÙ RECENTEMENTE ASSAPORATO CRUDO

Il metodo di produzione della carne salada è più o meno lo stesso di un tempo: le magrissime fese di bovino riposano in salamoia per oltre 20 giorni con una miscela di sale, erbe aromatiche di montagna e spezie; la carne viene massaggiata con un mix di erbe, aromi e sale, poi messa in salamoia per 15-25 giorni, a seconda della pezzatura (4-6 kg), completamente sommersa nella fase finale.

La lavorazione in salamoia rende la carne tenerissima, dal caratteristico colore rubino, gustosa e con basso tenore di sale. «La salagione non è banale e per ottenere un buon prodotto ci sono vari passaggi da rispettare» spiega il proprietario Andrea Gasperi. «Quando è pronta vanta a tutti gli effetti il sapore di un salume, pur non avendo subito trattamenti termici e stagionatura».

>> Link: www.salumificiovalrendena.it

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Massimiliano Rella Nota Photo © Massimiliano Rella.

Salame di Varzi DOP: ottenuto il riconoscimento di marchio collettivo

Il Consorzio di tutela del Salame di Varzi, dopo aver presentato, in data 21 luglio scorso, presso l’ufficio dell’Unione europea per la proprietà industriale la richiesta di registrazione come marchio collettivo del logo Salame di Varzi DOP e averne ottenuto la pubblicazione nel Bollettino Ufficiale, è lieto di comunicare che la domanda ha superato il periodo di opposizione e che il logo Salame di Varzi DOP è stato ufficialmente registrato come Marchio Collettivo. «Siamo estremamente orgogliosi e molto soddisfatti del riconoscimento ottenuto dal marchio Salame di Varzi DOP, perché da oggi il marchio consortile ha un valore aggiunto di vera tutela e protezione da imitazioni e contraffazioni in tutti i principali paesi extra UE. Consapevoli che le Indicazioni geografiche non sono riconosciute come diritti di proprietà intellettuale, l’aver ottenuto il riconoscimento di marchio collettivo vuol dire estendere la protezione già valida nell’UE a tutti i mercati internazionali che riconoscono, invece, il valore del marchio collettivo come vero e proprio marchio d’impresa» dichiara il presidente del Consorzio di Tutela del Salame di Varzi Fabio Bergonzi

>> Link: www.consorziovarzi.it

Il Consorzio Tutela Speck Alto Adige festeggia i suoi 30 anni!

Il 2022 è un anno molto speciale per lo Speck Alto Adige IGP e, soprattutto, per il suo Consorzio, che spegne le sue prime 30 candeline. Era infatti il lontano 1992 quando i 17 produttori originari costituirono il Consorzio Tutela Speck Alto Adige, amministrato dalla Camera di Commercio di Bolzano, per promuovere e tutelare un prodotto che è un vero e proprio emblema dell’Alto Adige. Lo Speck Alto Adige IGP vanta una storia lunga e ricca di tradizione. È un prodotto popolare, che nasce dalla necessità di conservare a lungo la carne fresca, per poi consumarla tutto l’anno. Ma non solo. Lo speck è anche il trait d’union tra due culture produttive: quella mediterranea del prosciutto, che prevede l’essiccazione all’aria, e quella nordeuropea, che predilige l’affumicatura. Una simbiosi che lo rende inconfondibile e che gli è valso, a partire dal 1996, il sigillo di qualità dell’Indicazione Geografica Protetta (IGP) da parte dell’Unione Europea.

«Lo Speck Alto Adige IGP è un prodotto del territorio e il suo immenso valore è indissolubilmente legato alla terra che lo genera, l’Alto Adige: è qui, infatti, che le condizioni climatiche sono ideali per la produzione di questo unicum culinario e qualitativo. Preservarne l’unicità è fondamentale per continuare a offrire un prodotto di qualità, buono e sano» ha commentato Paul Recla, presidente del Consorzio Tutela Speck Alto Adige. Oggi, il Consorzio tutela gli interessi di 28 produttori di Speck Alto Adige IGP e tra le sue attività di competenza rientrano la politica di qualità, la tutela del marchio e le iniziative promozionali, che sono regolamentate da linee guida dell’Unione Europea (Reg. 510/2006), dello Stato (Legge 526/99) e della Provincia Autonoma di Bolzano. L’obiettivo principale del Consorzio è stato e continuerà ad essere quello di tutelare la qualità dello Speck Alto Adige IGP e rafforzare sempre di più la fiducia dei consumatori (photo © IDM AltoAdige Frieder Blickle).

>> Link: www.speck.it

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Autentica dolcezza, fetta dopo fetta.

In ogni fetta di Prosciutto di Parma ritrovi il sapore autentico di un metodo secolare, nel pieno rispetto di una tradizione antica. Da generazioni, lavoriamo ogni giorno con passione per offrirti un’esperienza di gusto unica e inconfondibile. Non è crudo, è di Parma.

SALUMERIA EQUINA

Non vi è carne di animale che l’uomo non mangi o non abbia mangiato e che al tempo stesso non sia stata oggetto di tabù, divenendo alimento permesso o proibito secondo le diverse società umane, con modulazioni che comprendono caste e classi sociali.

Il consumo alimentare di carni equine è stato oggetto di proibizioni in gran parte dipendenti dall’uso di questi animali come mezzi di lavoro, in guerra e in pace, nonché di prescrizioni di tipo religioso. PAPA GREGORIO III (731-741) vieta ai cristiani di mangiare carne di cavallo, definita, in una lettera scritta a WYNFRITH BONIFACIO nel 732, in risposta a vari quesiti del missionario sull’evangelizzazione dei popoli del Nord Europa, un cibo immundum et execrabile e chi l’avesse mangiata avrebbe dovuto fare penitenza perché il suo consumo ha connotazioni pagane. Anche PAPA ZACCARIA (741-752), suo successore, ne conferma la proibizione, assieme a quella del castoro.

La carne di equidi è tuttora vietata dalla religione ebraica, mentre nell’Islam è solo sconsigliata, più per una questione di rispetto verso l’animale, ma con l’eccezione dell’asino domestico, vietato perché considerato una risorsa per la comunità. Nelle società industrializzate ottocentesche cade ogni tabù per la carne equina di animali a fine carriera, destinati soprattutto ai ceti più poveri, mentre nei ceti più ricchi, che col cavallo hanno un rapporto affettivo, si mantiene e si accentua l’avversione a mangiare le carni di un animale divenuto familiare.

Caratteristiche della carne La carne di cavallo è piuttosto magra, con 5 grammi di grasso per etto, e di sapore dolciastro caratteristico, perché negli animali macellati a riposo è ricca di glicogeno, che manca negli animali stressati. Altra peculiarità è il contenuto in ferro e la facilità di assorbimento di quest’ultimo da parte del nostro

organismo. Nella carne equina il ferro è presente in quantità più che doppia rispetto alla carne bovina e più che tripla rispetto a quella di pollo e tacchino, mentre la presenza di colesterolo è sovrapponibile alla quantità contenuta in altre carni magre come pollo e bovino. Il poco grasso di copertura presente risulta per di più facilmente

Premiata Salumeria Italiana, 6/22 48 ANALISI DEL FOOD
Bresaola di cavallo (photo © Sb Media Solutions).
Salumi cio Ferrari Erio & C. S.p.a. – Via Canaletto Nord, 565/A – 41122 MODENA – ITALY Tel. +39 059 310015 – Fax +39 059 450251 – E-mail: info@salumiferrari.it

individuabile e, in genere, è eliminato in fase di lavorazione, a tutto vantaggio della digeribilità. Le fibre del muscolo degli equini sono tenere dal momento che il glicogeno accelera la frollatura della carne dove è presente acido lattico in quantità doppia o tripla rispetto alla carne bovina, a tutto vantaggio di un’efficace difesa antibatterica.

Nel passato la carne degli equini era socialmente e economicamente conveniente solo quando gli animali non erano più utilizzabili o vecchi o giunti a morte per incidenti o nel corso di battaglie. In questi casi era utile mettere in pratica metodi di conservazione delle carni applicando le tecniche sviluppate per altri animali e quindi trasformarle in bresaole, salami o altre preparazioni salumiere di cui in Italia abbiamo molte solide tradizioni oggi oggetto di studio e soprattutto di recupero. La produzione di salumi con carne equina deve tenere conto delle sue caratteristiche e soprattutto della sua magrezza, per cui nel passato veniva aggiunto grasso suino o carni di bovino e grasso suino. Quando un tempo si usavano carni di animali anziani e stressati, povere di glucosio, si aggiungevano zuccheri per facilitare le fermentazioni di maturazione.

Non sempre facili da trovare, i salumi di carne equina sono un pezzo di

storia della nostra alimentazione e un modo in cui in passato si conservava la carne a disposizione, quella di cavalli e asini da lavoro arrivati a fine vita, ma oggi la tradizione è portata avanti da intelligenti e coraggiosi artigiani non di rado sostenuti dai presidi Slow Food.

Salumi speciali

Ancora poco indagata e nota è la storia della salumeria equina nei suoi rapporti con quella di altri animali. Da rilevare sono ad esempio i maggiori rapporti intrattenuti con la salumeria dei ruminanti selvatici e domestici più che con quella dei suini, pur avendo da quest’ultima preso o imitato tecniche di lavorazione e conservazione di antichissima data e con un particolare sviluppo nel Basso Medioevo. Inoltre, se la salumeria suina ha un’origine e sviluppo soprattutto stagionale e contadino con i norcini nell’Italia centrale e i mazèn nell’Italia settentrionale, la salumeria dei ruminanti ha una origine nell’ambiente della caccia e poi si sviluppa nei macelli e la salumeria equina si sviluppa soprattutto in ambiente urbano nelle macellerie. Errato è quindi usare i termini di norcineria e di norcino parlando di salumeria equina.

Lo sviluppo della salumeria equina, pur avendo radici precedenti, avviene

soprattutto nel periodo ottocentesco quando vi è un grande sviluppo dei trasporti ippici e nelle macellerie urbane, con tecniche di conservazione salumiere grazie alle quali si utilizzano parti degli animali che mal si prestano alla cucina o residuano dalle vendite e soprattutto si producono salami equini che non hanno precisi rapporti territoriali, come invece avviene per analoghi prodotti salumieri suini.

Carne di cavallo nei salumi italiani Nel passato i salami erano legati con una sottile corda, tanto che vi era il detto “legato come un salame”, e nella parte terminale avevano un piombino che ne identificava il produttore ma con una sigla che indicava con quale carne era stato prodotto: S per suino, B per bovino, E per equino e con le diverse combinazioni SB, SE, SBE, BE. In generale i salami di equino erano i meno pregiati. Ora i salumi di cavallo sono apprezzati in diverse regioni italiane e la carne con la quale sono preparati è soggetta a particolari normative. La Legge n. 200 del 1o agosto 2003, successivamente regolamentata dai DM 5 maggio 2006 e 9 ottobre 2007 del MIPAAF, impone l’obbligo di microchip e passaporto di identificazione per ogni cavallo, dal

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Salame di carne equina.

quale deve risultare la destinazione finale dell’animale, in base alle sigle DPA (Destinato alla Produzione di Alimenti per consumo umano) e NON DPA, con la quale l’animale è escluso dalla filiera alimentare vita natural durante in maniera irreversibile. È il caso, ad esempio, dei purosangue da competizione, trattati ad alte dosi con farmaci di conclamata pericolosità per l’uomo e dunque incompatibili con le normative in materia di sicurezza alimentare. Solo una parte dei cavalli quindi arriva al macello e se si considera che per diversi motivi il numero di cavalli allevati in Italia è in calo, si comprende come vi sia una corrispettiva sensibile diminuzione della carne di cavallo che si associa ad una riduzione dei suoi consumi.

Bresaola e slinzega

La salumeria equina si è sviluppata soprattutto nell’Italia settentrionale con la produzione di salumi che spesso ricalcano le tipologie preparate con carni di altri animali e tipico è il caso della bresaola e della slinzega.

La bresaola di cavallo è una produzione tipica della Lombardia e del Veneto. In Lombardia l’area di produzione comprende i confinanti territori della Valchiavenna e della Valtellina in provincia di Sondrio, dove si produce la

bresaola di bovino e di altri ruminanti. In Veneto è prodotta in diversi comuni delle province di Padova, Venezia e Treviso nei piccoli centri di Saonara, Piove di Sacco e Vigonovo. I tagli di carne utilizzati sono di prima scelta, di solito fesa, sottofesa, noce o lombata. La carne è trattata con sale, pepe e spezie e stagionata in modo analogo alla bresaola di altri animali per un tempo che varia anche con la dimensione.

La slinzega è prodotta nelle stesse zone della bresaola, di cui è considerata la sorella minore, e preparata con i ritagli della sua produzione o con altri muscoli di piccole dimensioni del posteriore, della spalla, del collo o della testa (masseteri o ganassini) del cavallo. Anche la lavorazione è simile a quella della bresaola

Salame e soppressa Salame e soppressa di cavallo sono salumi tradizionali di Lombardia, Piemonte e Veneto (province di Padova, Rovigo, Venezia e Treviso) nei quali si utilizza carne di cavallo (coscia e collo ma anche spalla, pancetta e gola) con aggiunta di pancetta suina. Nel salame la percentuale di pancetta è del 20% e l’impasto è tritato fine, mentre nella soppressa la pancetta di maiale sale al 35% e l’impasto è tritato a grana media.

La concia è costituita da sale, pepe intero e macinato, noce moscata, aglio e vino bianco o rosso e l’insacco avviene in budello bovino naturale o sintetico. La stagionatura varia a seconda della pezzatura, dai 2/3 mesi per il salame ai 6/7 mesi per la soppressa.

Anche nel Piemonte, dove la produzione di salumi di cavallo è sempre più rara e limitata, soprattutto all’Astigiano e al Novarese, il salame di cavallo si ottiene da un 70/80% di carne di prima scelta (coscia e collo in particolare) macinata a grana media e con aggiunta di un 20/30% di pancetta suina tritata grossolanamente. Concia con sale, pepe intero e macinato, noce moscata, aglio e un goccio di vino, bianco o rosso secondo la zona.

Il salame d’asino è tipico della provincia nord-occidentale di Vicenza ed è prodotto usando animali di razza locale detti Furlani allevati intorno a Valdagno, un tempo usati per la soma e oggi allevati per la carne. Nella produzione del salame d’asino si usano carni magre con aggiunta di pancetta o lardo suino. L’impasto è costituito per il 60% da carne d’asino fatta macerare nel vino rosso e per il 40% da pancetta di maiale, il tutto conciato con sale, noce moscata, pepe e cannella. Insaccato e asciugato, il salame è stagionato per

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Premiata
Salsiccia di cavallo.

2/3 mesi. Si mangia crudo o cotto in tegame o alla griglia. Fuori d’Italia erano detti mangiatori d’asini gli abitanti della Slesia e la tradizione dell’Eselwurst, tradizionale salame di asino, nell’Ottocento si diffonde in Germania, Ungheria e Francia, in Provenza soprattutto, dove, come riporta la History of Food di MAGUELONNE TOUSSAINT-SAMAT, si mantiene fino allo scoppio della seconda guerra mondiale. Ad Arles ancor oggi tradizionale è una salsiccia di carne d’asino e bovino.

Cacciatorini

Hanno le stesse dimensioni di quelli di maiale o di maiale e bovino, sono tradizionali della Valtellina e della Valchiavenna e probabilmente nascono per utilizzate gli avanzi della produzione delle più pregiate bresaole e slinzeghe di cavallo. Sono costituiti dalle rifilature delle cosce o delle parti anteriori dell’animale (70%), con l’aggiunta di pancetta e lardo suino (30%) e una concia di sale, pepe e droghe naturali. Insaccati in un budello di maiale, i cacciatorini sono

maturare per 24 ore e poi stagionati da 2/3 settimane fino a due mesi.

Luganiga e coppa

In Trentino Alto Adige esiste una luganiga o salsiccia di cavallo nella quale la carne è finemente macinata, condita con sale, pepe, peperoncino e spezie e insaccata in budello di maiale. Dai muscoli del collo di cavallo in Trentino Alto Adige si ricava una coppa di cavallo insaccata in budello naturale.

Speck

In Trentino Alto Adige la coscia disossata del cavallo è salata, massaggiata, aromatizzata e affumicata in modo analogo a quanto avviene per la coscia di maiale. Il periodo di stagionatura dello speck di cavallo va dai 4 ai 5 mesi.

Salumi di cavallo affumicati

Per la produzione della carne di cavallo affumicata — che veniva prodotta a Rovereto, Trento, in quantità limitata, da un’unica macelleria, la Macelleria equina Zenatti, chiusa nel 2020 — si

usano la fesa, il girello o le parti anteriori del cavallo; dopo un periodo di salagione e aromatizzazione con aglio, ginepro, erbe romantiche e spezie si pratica un’affumicatura a caldo.

Nel territorio di Padova si producono gli sfilacci di cavallo, sottili fette di carne magra della coscia di cavallo tenute sotto sale per due settimane e affumicate appese al camino per circa un mese. Una volta asciutte e dure si battono con un martello e si sfilano in piccoli tranci, da cui la denominazione.

Coppiette

Nell’alto Lazio le coppiette di cavallo sono striscioline di carne essiccata condita con peperoncino, erbe e spezie secondo un antico metodo di conservazione di parti magre di carne di cavallo, bue, manzo, maiale o asino. Le strisce di carne magra lunghe 10/15 cm e larghe circa un centimetro sono marinate con sale, pepe macinato, peperoncino, semi di finocchio e rosmarino, poi cotte una prima volta per 30 minuti in forno e dopo riposo nuovamente cotte per 20 minuti. Essiccate, le coppiette sono stagionate per circa due mesi.

Bale d’aso o palle d’asino

Le bale d’aso sono un insaccato tondeggiante della famiglia dei cotechini che pare nato a Monastero di Vasco, vicino a Mondovì (CN). Denominate anche bal ‘d luc, fino a qualche anno fa erano prodotte solo con carne d’asino mentre oggi è aggiunta anche carne suina o bovina, il tutto condito con sale, pepe e noce moscata. Si consumano bollite.

Nonostante la denominazione di coglioni di mulo, il salume di Campotosto (L’Aquila) è una mortadella di carne suina (Mortadella di Campotosto) che trova la sua denominazione popolare nella forma e non nel tipo di carne con la quale è preparata.

Mortadella d’asino

Ampiamente discussa è la presenza nel passato di carne di asino e altri animali diversi dal maiale nella produzione della mortadella di Bologna. Oggi una Mortadella di asino è preparata a Chiaramonte Gulfi in Sicilia con le carni dell’asino Ragusano e a Montebaducco di Quattro Castella (Reggio Emilia).

Prof. Em. Giovanni Ballarini Università degli Studi di Parma

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Lucanica d’asino stagionata prodotta dalla Martin Speck Srl di Trodena con il 70% di carne d’asino e il 30% di carne di maiale (photo © www.martinspeck.it).

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IL TURTÈL SGUASARÒT mantovano

Da “primo piatto” attribuito al cuoco Stefani nella corte dei Gonzaga, questo Prodotto Agroalimentare Tradizionale della Lombardia è diventato nel tempo un curioso dessert

di Roberto Villa Storia e legame con il territorio

La provincia di Mantova è da sempre luogo di confine, stretta com’è tra Brescia e Cremona a occidente e a settentrione, Verona lungo tutto il confine orientale, Reggio Emilia, Modena e Ferrara a meridione. Indipendente per quattro secoli, nel 1708 cadde nelle mani degli Asburgo — casata con la quale i Gonzaga erano imparentati per vincoli matrimoniali sin dal 1549, quando Francesco III sposò Caterina d’Austria, figlia dell’Imperatore Ferdinando I nonché nipote del glorioso Carlo V — sino all’unità d’Italia. L’autonomia di cui godette nel periodo rinascimentale e barocco si riflette nell’eclettismo dell’arte culinaria sviluppata presso la corte dei Gonzaga, da molti definita “di prìncipi e di popolo”, a sottolinearne la caratteristica commistione tra cibi raffinati e contadini. Oltre ai celeberrimi e pluricelebrati tortelli di zucca alla mantovana vi sono molti altri piatti eredità di quell’epoca storica, che non andremo qui a richiamare: tra quelli meno noti vi è appunto il Turtèl

La ricetta originale del Turtèl sguasaròt è attribuita a BARTOLOMEO STEFANI, cuoco

Un piatto di turtèi sguasaròt. La preparazione risale alla metà del XVII secolo, quando alla corte dei Gonzaga di Mantova operava il cuoco Bartolomeo Stefani.

bolognese al servizio della corte mantovana, autore del manuale di cucina “L’arte di ben cucinare et instruire i men periti in quella lodevole professione”, edito a Mantova nel 1662 e poi più volte ristampato a Milano, Bologna,

Venezia1. Nel tomo il sapiente chef include anche il “banchetto ordinato per la Maestà della Regina Cristina di Svezia dal Serenissimo di Mantova” da lui stesso preparato alla fine di novembre del 1655 per accogliere

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Premiata

l’illuminata sovrana nordica con piatti ad effetto. Sebbene nella silloge non sia riscontrabile2, la paternità del tortello ripieno di purea di fagioli e insaporito con cacio ed erbe aromatiche, avvolto in una sfoglia senza uova e cotto in un brodo di fagioli viene correntemente data allo Stefani. Questa ricetta venne poi diffusa nell’ambito del Ducato, dove subì modifiche popolari sino a stravolgerne l’originaria creazione come “primo piatto” secondo i nostri canoni, poiché la cucina dell’epoca era assai diversa e poteva cominciare con un piatto dolce ove abbondavano zucchero, marzapane, frutti sciroppati.

Descrizione del prodotto

Alla formulazione del cuoco di corte vennero aggiunti ingredienti tipici del contado mantovano, che ne mutarono l’ordine tra le portate secondo il gusto moderno sebbene mantennero quel connubio dolce-salato che caratterizzò la cucina rinascimentale gonzaghiana. Il nome deriva dal fatto che il tortello letteralmente deve “sguazzare” nel sugo di accompagnamento. L’impasto (sfòl) prevede di amalgamare farina, acqua, olio di mais o di riso, infine zucchero e sale in egual proporzione sino ad ottenere una pasta piuttosto soda, che va tirata col mattarello ad uno spessore di un millimetro. Con la rotella si ricavano rettangoli di circa 12x7 centimetri al centro dei quali si mettono 25 grammi di ripieno. Il ripieno (pist) è fatto per un terzo con fagioli borlotti lessati, per un terzo con castagne lessate (si possono impiegare quelle secche fatte rinvenire) e per il rimanente terzo con mostarda sgocciolata dallo sciroppo, il tutto viene tritato finemente e mescolato sino a risultare omogeneo e compatto.

Dopo aver piegato la pasta in due per racchiudere il ripieno, eliminando accuratamente l’aria, si frigge in olio caldo e, una volta scolato e raffreddato, si cosparge col condimento (pavràda) fatto di conserva di prugne, vino cotto, spremuta di mandarino e arancia.

Il “tortello” si può consumare caldo ma gli intenditori consigliano di mantenerlo in frigorifero per qualche giorno prima di consumarlo, in modo da renderne il sapore più intenso.

Ne esiste anche una versione lessata, il cui impasto, oltre a farina e sale, prevede anche le uova, per il

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resto la preparazione del ripieno e del condimento non differisce.

La rinascita e la Confraternita del Turtèl sguasaròt

La preparazione complessa, il mutamento dei gusti, la rapida scomparsa della cultura contadina a partire dalla seconda metà del Novecento erano tutti elementi a sfavore della sua permanenza sulle tavole del giorno d’oggi; fino a qualche anno fa veniva cucinato quasi esclusivamente da poche persone anziane. Questo piatto rischiava invero di scomparire per sempre quando un gruppo di benemeriti si diede da fare per ravvivarne i secenteschi fasti: nel 2008 un gruppo locale di appassionati ed esperti di cucina, capitanato dallo scomparso MAURIZIO SANTINI, ha fondato la Confraternita dal Turtèl Sguasaròt, grazie alla quale la ricetta è stata studiata per individuare quella più aderente alla tradizione e infine registrata.

Nel 2010 il prodotto, anche per la preziosa collaborazione con l’Accademia Italiana della Cucina, è stato inserito dalla Regione Lombardia nell’elenco ufficiale dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali. La sua presenza oggi è attestata prevalentemente in cinque paesi

dell’Oltrepò Mantovano — Borgofranco sul Po, Carbonara di Po, Felonica, Magnacavallo e Sermide — tuttavia la Confraternita si sta impegnando per inserirne la ricetta nei menù di agriturismi, trattorie e ristoranti della zona ed anche oltre i cinque comuni; promuove inoltre ogni anno sin dal 2008 un concorso per premiare il migliore turtèl e si adopera in iniziative volte a diffonderne la conoscenza sul territorio e fra i turisti.

Nota

1. Per gli appassionati di storia dell’arte culinaria il testo integrale dell’edizione stampata a Venezia nel 1685 si può leggere in: books.google.it/ books?id=J6M_AAAAcAAJ&pg=PA23 1&hl=it&source=gbs_selected_pages& cad=2#v=onepage&q&f=false.

2. Da una lettura accurata sebbene non completa del testo sopra citato, che comprende anche un’appendice rispetto all’edizione originale mantovana, non si evince una ricetta simile a quella citata da più parti come originale. Ciò non esclude che Bartolomeo Stefani ne fosse l’inventore, semplicemente potrebbe aver reputato di non includerla tra le preparazioni meritevoli di pubblicazione.

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Missione della Confraternita del Turtèl Sguasaròt è quella di sviluppare la conoscenza di questa particolare preparazione “attraverso i sapori e le leggende, ricercarne la tipicità valorizzandola in ogni forma di espressione artistica al fine di salvaguardare il patrimonio esistente tramandato dalle nostre nonne”.

Brodo e anolini

Occorrono 3 diversi tagli di carne, così come 3 erano i sacerdoti della messa in terza… E, per quello di quarta, i tagli salgono ovviamente a 4! Ci si cuociono gli anolini, ripieni a loro volta di stracotto di manzo

Il nome è curioso: brodo di terza, brodo di quarta… Appartiene tipicamente a Piacenza e al suo territorio, dove gli anolini regnano incontrastati con sempre immutabile favore. Anolini piacentini che, nel dialetto locale, si chiamano anvein e sono classificati come prodotti PAT

(Prodotti Agroalimentari Tradizionali), iscritti nell’elenco ufficiale del Ministero delle Politiche Agricole. Gli anolini sono un prodotto tradizionale anche del Parmense, ma con alcune differenze considerate tanto rilevanti da aver deciso di tutelare ogni varietà con voci distinte per proteggere le diverse ricette.

La definizione di anolino che storicamente si riporta è quella che compare nel vocabolario redatto da LORENZO FORESTI del 1836: “agnellotto, mangiare fatto di pasta ripiena di carne battuta, od altro che si cuoce in brodo per minestre”

Pasta all’uovo ripiena, dunque. La si prepara disponendo palline di ripie-

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Anolini in brodo (photo © Isabella Ostelli).

Gli ingredienti per la preparazione del brodo di terza, perfetto per accompagnare gli anolini. In cucina quella di brodi e fondi rientra nelle preparazioni di base, ovvero quelle che non è possibile non conoscere. Un brodo sciapo infatti può compromettere il risultato finale.

no tra due strati di sfoglia e tagliando tutt’attorno al ripieno con appositi stampini metallici circolari lisci o con bordi seghettati; la pressione dello stampo fa sì che i bordi della sfoglia si saldino assieme. C’è anche chi usa una sola sfoglia ripiegata invece che i due dischi, ottenendo una forma non perfettamente circolare.

La scelta del tipo di bordo dipende dal gusto personale, così come il diametro, che varia dai 2 ai 4 cm circa, ma di solito l’anolino piacentino è piccolo, con forma di semicerchio a bordo seghettato che, rispetto a quella liscia, offre il vantaggio, a parità di ripieno, di avere una quantità maggiore di sfoglia e una tenuta migliore della chiusura. Quello della sigillatura è un punto molto importante, perché se è difettosa fa uscire il ripieno in cottura disperdendolo nel brodo che diventa torbido, oltre ad alterarne il sapore. Per questo motivo i cuochi più esigenti adottano l’accortezza di scolare gli anolini a fine cottura e servirli con altro brodo.

Il ripieno si basa su stracotto di carne, con due varianti: con la carne dello stracotto o con il solo sugo. Lo stracotto è di manzo, carne che ha sostituito quella di cavallo e maiale che si usava

in passato. Il manzo va cotto per diverse ore con cipolla, sedano, carota, aglio, mazzetto aromatico, vino rosso locale tipo Gutturnio e brodo. Al termine della cottura, la carne e le verdure del fondo di cottura vengono tritate in modo molto fine aggiungendovi pane, formaggio grana e noce moscata.

Il brodo deve essere di ottima qualità ed è proprio quel tipo di brodo che in zona viene definito di terza o di quarta e che è considerato il più adatto a prescindere dalle tante varianti della ricetta presenti su un territorio vasto come quello della provincia di Piacenza. Il nome di questo brodo si riferisce all’antica solennità della messa in terza che veniva celebrata da tre sacerdoti. Il brodo, a sua volta, viene ottenuto da tre diversi tipi di carne: cappone (o gallina), pernice di manzo (in alternativa traversino) e costine di maiale, che sono cotti separatamente miscelando a piacere i tre diversi brodi ottenuti. Esiste anche il brodo di quarta, che si ottiene con pollo, manzo, bue grasso (sostituibile con vitello per una preparazione più leggera) e costoletta di maiale.

Il peso dei tagli di carne varia a seconda della zona ma comunque il brodo, per essere considerato ben

riuscito, deve avere l’occhiatura di grasso rilasciato dal cappone o dalla gallina. Gli anolini non vengono pesati ma contati. Entrambe le preparazioni danno vita a un brodo molto grasso e saporito. Non a caso si accompagna la degustazione degli anolini in brodo con un vino rosso robusto, preferibilmente il Gutturnio DOC dei Colli Piacentini

Nelle zone di confine con Parma e nella Bassa piacentina il brodo si utilizza anche per legare il ripieno che, in questo caso, secondo la tradizione parmense, è preparato con pangrattato, a cui si aggiunge successivamente formaggio Grana Padano o Parmigiano Reggiano.

Gli anolini in brodo erano, com’è facile intuire, un piatto destinato un tempo soltanto alle classi sociali più benestanti. Oggi, grazie sia alle migliorate condizioni di vita che alla divulgazione fatta anche dal celebre gastronomo PELLEGRINO ARTUSI già a fine ‘800, è diventato un piatto tipico della tradizione popolare, destinato soprattutto alle festività più importanti, come il Natale. Gli anvein d’ Nadäl si preparano la Vigilia per consumarli il giorno dopo, per la gioia della famiglia riunita intorno ai piatti fumanti.

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CREMONA, MANTOVA E VICENZA:

SULLA STRADA DELLE MOSTARDE “ARDENTI”

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A sinistra: la mostarda è diffusa nelle regioni dell’Italia settentrionale e in Toscana, venendo realizzata con diversi ingredienti a seconda della zona d’origine (photo © Iryna Grygorii). A destra: mostarda mantovana di mele campanine.

“M

osto ardente”. È questo il significato della parola mostarda Incontro divino tra dolce e piccante, la mostarda nasce da un bisogno antico: quello di conservare la frutta d’estate per tutto l’anno. Già ai tempi dell’antica Roma si conosceva il potere antibatterico del mosto d’uva concentrato, cotto a lungo sino a diventare salsa scura e densa, e la senape, inconfondibile essenza dalle note piccanti. Durante il Medioevo ai monaci venne dato il merito dell’affinamento della preparazione della mostarda, ma solo più tardi, dal ‘600 in poi, si ebbe la vera diffusione di questo straordinario prodotto, quando l’usanza di cucinare la mostarda si radicò nelle famiglie contadine dell’Italia settentrionale, specialmente durante le festività natalizie nei territori di Cremona, Mantova e Vicenza.

Oggi il mosto d’uva è stato sostituito per lo più da sciroppo di glucosio, in pochissimi sono rimasti fedeli alla tradizione. Di frutta (con mele cotogne, pere, fichi) oppure di verdura (con zucche, melanzane, cipolle e pomodori), le mostarde in commercio si abbinano ad una vasta gamma di alimenti: dalla carne ai formaggi, dai gelati ai panettoni. Nei secoli, a seconda degli ingredienti

disponibili e dell’ingegno dei piccoli artigiani, sono tante le varianti che si sono perfezionate, spesso molto diverse tra loro: alcune preparate con un solo tipo di frutta, altre, invece, unendo differenti varietà dando vita ad un’ampia gamma di prodotti.

Nonostante le tante possibili preparazioni, la mostarda rimane un prodotto di nicchia, coinvolta in un mercato piuttosto ridotto, considerando che è un prodotto per lo più stagionale: a dicembre, infatti, si concentrano le vendite maggiori, anche se non ci sono motivi perché questa preparazione non possa trovare uno spazio più significativo nelle nostre abitudine alimentari. Una migliore conoscenza del prodotto, l’attenzione verso tutti i possibili abbinamenti e una riscoperta del suo impiego in cucina, potrebbero valorizzare le potenzialità di questa eccellente specialità. Conosciamo, dunque, quali sono le tre più note e diffuse mostarde in commercio.

Mostarda di Cremona

La mostarda di Cremona1, inconfondibile nei suoi caratteristici vasi in vetro, così colorata e vivace, è senza dubbio la più famosa tra le mostarde. Il primo documento che associa la mostarda a Cremona è una ricetta “Pour faire moutarde de Cremone” , non

troppo dissimile dall’odierna quanto agli ingredienti, contenuta in un libro “Ouverture de cousine par maistre Lancelot de Casteau”, stampato a Liegi nel 1604. Attualmente, la produzione è prevalentemente industriale o semiindustriale.

Per la sua preparazione si utilizzano esclusivamente frutta (albicocche, ciliegie, fichi, mandaranci, prugne, melone, anguria bianca, pere, pesche, mele, cachi, ananas, mandorle candite, bucce di cedro), verdura (zucca), acqua, zucchero e senape. Per facilitare il processo produttivo è ammesso l’utilizzo di frutta parzialmente già candita. Il completamento della canditura avviene immergendo la frutta in vasche riscaldate a 40 °C, contenenti uno sciroppo di acqua e zucchero.

Il processo di canditura dura almeno tre giorni e varia in base alla tipologia di frutta utilizzata. I frutti non devono perdere il loro colore originario, consentendo così di evitare coloranti non naturali. È fatta eccezione per la ciliegia, che perde naturalmente colore e deve essere colorata con essenze di origine non artificiale. Al termine viene effettuata l’aggiunta di senape, che varia in base alla casa produttrice ed all’effetto piccante che la contraddistingue (da 10 a 6 gocce).

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Mostarda mantovana

La mostarda mantovana2 è una delle più antiche in commercio (alcuni documenti la citano già intorno al 1300) ed è ancora preparata con pochi ingredienti. Protagonista nel ripieno dei tortelli di zucca, è perfetta per accompagnare formaggi, salumi e bolliti. Nata dall’idea di un giovane farmacista, è un prodotto tipico di tutto il territorio mantovano ed è realizzata seguendo l’antica ricetta tradizionale, pur presentando lievi variazioni locali e familiari a seconda del tipo di frutta impiegato. Generalmente per la sua realizzazione la frutta viene utilizzata leggermente acerba ed è costituita per lo più da mele (campanine, renette), cotogne e pere, anche se si possono usare vari tipi di frutta — come la caratteristica anguria bianca — o verdura, che, dopo essere state caramellate, si conservano grazie all’aggiunta di essenza di senape. Nonostante il processo di canditura, la mostarda rimane un prodotto dalle

ottime proprietà organolettiche in quanto mantiene l’alto contenuto di fibre e vitamine della frutta.

Mostarda vicentina

La mostarda vicentina è anch’essa ricetta antica e la particolarità di questo prodotto è legata all’uso di mele cotogne, frutto tipico del Veneto, importato dalla Repubblica di Venezia dal Medio Oriente. La versione vicentina sembra essere stata elaborata per la prima volta dalla famiglia BREGANZE, in un ricettario familiare del 1879. Si presenta come una confettura opaca, color giallo paglierino, e la pasta è abbastanza densa, con la presenza interna di pezzi di frutta, in percentuale non molto elevata. Il sapore e l’odore sono molto forti, piccanti e acri ma è, parallelamente, dolce e gradevole. Per la produzione si utilizzano mele cotogne, senape bianca, zucchero e frutta candita. Viene commercializzata in vasetti di vetro di varie pezzature. Tradizionalmente viene

Nonostante le varianti regionali, la mostarda resta un prodotto di nicchia, coinvolta in un mercato per lo più stagionale. Una sua migliore conoscenza, l’attenzione verso tutti i possibili abbinamenti e una riscoperta del suo impiego in cucina, potrebbero valorizzare le potenzialità di questa squisita specialità

mangiata a Natale per accompagnare il mascarpone (dato che i due sapori sono contrastanti) oppure sulla carne per insaporirla e conservarla meglio. La polpa di mela cotogna viene fatta cuocere, sottovuoto, in recipiente di acciaio per alimenti a doppio fondo a 60 °C per circa 45 minuti, con un 40% di zucchero. Successivamente si lascia raffreddare e si mescola minutamente; infatti le mele cotogne contengono pectine addensanti e gelificanti. Quindi si aggiunge la senape in giusta quantità (varia a seconda del fatto che si utilizzi la senape pura o quella supportata per esempio da alcool buongusto) e la frutta candita, di qualsiasi genere, in piccola quantità. Si confeziona in contenitori per alimenti di tutte le dimensioni non necessariamente sottovuoto; la mostarda è di per sé un conservante e non ha bisogno di protezioni antimicrobiche.

Abbinamenti

Un po’ dolci, un po’ piccanti, le mostarde in genere si abbinano a cibi altrettanto saporiti, ma riescono anche a valorizzare alimenti dal gusto poco caratteristico, come quello di certi formaggi freschi e carni bianche. È proprio con le carni che si realizza l’abbinamento più classico, praticato sin dal Medioevo, quando il sapore forte della mostarda smussava in qualche modo il gusto altrettanto robusto della selvaggina. Le mostarde riescono ad esaltare perfettamente i bolliti, pur rimanendo un perfetto abbinamento con gli arrosti e le carni alla griglia. Anche col formaggio producono sensazioni piacevoli; offrono il meglio con crescenza e mascarpone, ma sono ideali anche con i formaggi stagionati dal gusto più pronunciato come il Grana Padano e gli erborinati come il Gorgonzola. Altro accostamento, forse meno usuale, è quello coi salumi, in particolare salame, culatello, pancetta e lardo. Infine i dolci: spalmate su una fetta di pane leggermente imburrata, panettone e pandoro. Dopo tanto parlare, non ci resta che sederci a tavola e assaggiare tutto!

Note

1. www.comune.cremona.it 2. www.slowfoodbassomantovano. it/wp-content/uploads/2009/01/ Discipl_Mostarda.pdf

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Tradizioni dell’inverno emiliano da… estendere a tutto l’anno!

QUANDO IL COTECHINO MODENA IGP VA IN GALERA

La ricetta è tipicamente invernale. Ciò non toglie che, volendo, si possa preparare anche nelle altre stagioni dell’anno. Sappiamo già, da tempo, che il panino col cotechino e salsa verde è un must del Ferragosto modenese, tanto che il fatidico giorno viene ormai indicato come “Cotechino Day”. Perché allora non “sdoganare” anche il cotechino in

La “galera”, com’è facile intuire, è costituita dal fatto che il cotechino viene “imprigionato” in modo che non possa sfuggire al suo destino di eccellente secondo piatto, avvolto com’è in altre carni e legato stretto col filo. Per questo motivo viene anche detto, fin dall’Artusi, Cotechino fasciato o in maschera

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galera? In qualsiasi momento farebbe un figurone e su qualsiasi tavola. La cucina modenese ci racconta tuttavia che lo si prepara tradizionalmente nel periodo natalizio e per il cenone di fine anno, accompagnandolo con quelle lenticchie tanto gradite anche a chi non le mangerebbe mai in un altro giorno, perché considerate propizie a far ottenere abbondanza, fortuna e denaro (ma vanno benissimo anche il purè di patate o gli spinaci).

La galera, com’è facile intuire, è costituita dal fatto che il cotechino viene “imprigionato” in modo che non possa sfuggire al suo destino di eccellente secondo piatto, cioè avvolto in altre carni e legato stretto con filo bianco. Per questo motivo viene anche detto, fin da PELLEGRINO ARTUSI, Cotechino fasciato o in maschera. Ma procediamo con ordine: innanzitutto dovete procurarvi il “Cotechino Modena” per essere sicuri della qualità garantita dal Disciplinare di produzione di cui parleremo più avanti.

Questo cotechino può essere venduto sia fresco che precotto. Scegliete quello che preferite tenendo conto che la cottura di quello fresco può richiedere, a seconda delle dimensioni e del peso, anche due ore (molto di meno, però, se usate la pentola a pressione).

Portatelo a metà cottura aggiungendo, se volete, qualche foglia di alloro o di salvia per ingentilire il sapore. Scolatelo e toglietegli il budello in cui è contenuto. Ricopritelo con una o più fette sottili di prosciutto crudo. Avvolgetelo in una fetta di fesa di manzo, molto sottile e ben battuta. Arrotolate ben stretto e legate con spago o filo da cucina. E dove volete che scappi, dopo un simile trattamento? Così sistemato, rosolatelo nella cipolla fatta appassire in olio evo per qualche minuto (a piacere anche con sedano e carota), irrorandolo in parti uguali con brodo di cottura e vino rosso rigorosamente Lambrusco.

Portate a termine la cottura. Per assicurarvi che sia cotto al punto giusto infilate uno stuzzicadenti o uno spiedino di metallo: se entreranno con facilità nelle carni fino al centro, il vostro cotechino sarà pronto. Togliete lo spago e tagliate il rotolo a fette non troppo sottili (circa 2 cm). Sistemate sul piatto col fondo di cottura, ben caldo e filtrato con un colino, e completate con l’accompagnamento prescelto.

Premiata

Abbiamo citato Modena e il Cotechino Modena che è prodotto IGP ma, come ben precisa il Disciplinare di produzione all’art. 2, la zona tradizionale di elaborazione geograficamente individuata corrisponde all’intero territorio non solo della provincia di Modena ma anche di Ferrara, Ravenna, Rimini, Forlì-Cesena, Bologna, Reggio Emilia, Parma, Piacenza, Cremona, Lodi, Pavia, Milano, Monza e Brianza, Varese, Como, Lecco, Bergamo, Brescia, Mantova, Verona e Rovigo.

Il “Cotechino Modena” è costituito da una miscela di carni suine ottenute dalla muscolatura striata, grasso suino, cotenna (da cui il nome), sale, pepe intero e/o a pezzi. Possono essere inoltre impiegati: vino, acqua secondo buona tecnica industriale, aromi naturali, spezie e piante aromatiche, zucchero e/o destrosio e/o fruttosio, nitrito di sodio e/o potassio alla dose massima di 140 parti per milione, acido ascorbico e suo sale sodico. Non sono ammessi aromi di affumicatura.

La preparazione è effettuata con la macinatura in tritacarne, con stampi con fori di dimensioni comprese tra 7-10 mm per le frazioni muscolari e adipose e con stampi con fori di dimensioni comprese tra 3-5 mm per la cotenna. Tale operazione può essere preceduta da un’eventuale sgrossatura. L’impastatura di tutti i componenti viene effettuata in macchine sottovuoto o a pressione atmosferica. L’impasto ottenuto è insaccato nell’involucro naturale o artificiale.

Il Cotechino Modena IGP può essere commercializzato, previo asciugamento, come prodotto fresco o, previo idoneo trattamento termico, come prodotto cotto. Quello fresco (commercializzato sfuso o confezionato) è sottoposto ad asciugamento in stufa ad aria calda. Deve essere consumato previa prolungata cottura, come abbiamo ricordato, per garantire l’ottenimento delle tipiche caratteristiche organolettiche.

Quello cotto può essere sottoposto a precottura generalmente in acqua e viene confezionato in contenitori ermetici idonei al successivo trattamento termico in autoclave ad una temperatura minima di 115 °C per un tempo sufficiente a garantire la stabilità del prodotto nelle condizioni commerciali raccomandate.

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CAMPIONATO ITALIANO DEL SALAME 2022, I VINCITORI

Si sono svolte l’8 e il 9 ottobre scorso a Sasso Marconi (BO), nella splendida cornice della Fattoria Zivieri, le finali del Campionato Italiano del Salame 2022, in contemporanea con Salami

d’Italia, un mercato di salami dedicato in particolare ai produttori finalisti affiancati da altre proposte di eccellenza che rispettano i valori dell’Accademia delle 5T. Patrocinato quest’anno dalla Regione Emilia-Romagna, il Campio-

nato Italiano del Salame, organizzato dall’Accademia delle 5T, è giunto alla 16ª edizione. La classifica stilata da una giuria di esperti — tra i quali anche la nostra ELENA BENEDETTI di PREMIATA SALU MERIA ITALIANA — ha attestato un’assoluta

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Premiata
EVENTI

In alto: Guido Stecchi, fondatore dell’Accademia delle 5T, l’associazione che organizza il Campionato Italiano del Salame e la scheda di votazione dei giudici.

In basso: il salame gentile di Mora romagnola Zivieri e la locandina con alcuni finalisti.

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eccellenza qualitativa dimostrata dal divario di pochissimi punti nei voti ricevuti dalla stragrande maggioranza dei salami candidati (60 suddivisi nelle diverse categorie) mentre nessuno ha ricevuto un voto inferiore alla media del 7,5 su 10. Addirittura il primo posto del podio dei Salami ottenuti da carni di maiale rosa è stato definito grazie all’assegnazione di bonus (previsti dal regolamento in caso di pareggio) perché si è verificato un pari merito: entrambi hanno la filiera completa mentre solo chi occupa il gradino più alto del podio è bio e non contiene salnitro.

Accademia delle 5T

Territorio, Tradizione, Tipicità, Trasparenza e Tracciabilità sono le cinque “T” di questa Accademia fondata e diretta da GUIDO STECCHI: “Un’associazione culturale senza scopo di lucro costituita da aziende e persone che producono, vendono o somministrano prodotti agroalimentari legati al Territorio e che si distinguono per Tradizione e/o Tipicità. Contadini, commercianti, ristoratori, casari, norcini, maestri distillatori, vignaioli, fornai, pastori… e quant’altri, compresi enti pubblici, consorzi, imprese che hanno fatto una scelta di campo coraggiosa e più faticosa, si sono uniti per promuovere, tutelare e diffondere il buono, sano e naturale”

Campionato italiano del Salame

Pane e salame è un binomio della memoria. “È il ricordo di quando noi non più giovani eravamo bambini, ed era proprio pane e salame la merenda per eccellenza, forse quella più ricca rispetto a pane e olio, pane e burro o pane e gras pistà (lardo pestato). E per i bambini delle generazioni delle merendine, un panino col salame non è la merenda quotidiana — e noi aggiungiamo un bel purtroppo — ma è comunque una variante che piace a tutti” scrive Guido Stecchi sulla pagina web dedicata al Campionato Italiano del Salame sul portale dell’Accademia.

“Pane e salame è pure il ricordo delle scampagnate tra amici, di quei ragazzi di qualche decennio fa famelici perché più avvezzi a correre all’aperto che a sedersi davanti al computer: il pane e salame era il momento di relax più goloso e atteso.

I vincitori dell’edizione 2022

Podio dei Salami ottenuti da carni di maiale rosa

1. Ventricina biologica di Verdebios di Celenza sul Trigno (CH)

2. Il Pasturello (cacciatorino) dell’Azienda Agricola Ivano Pigazzi di Pasturo (LC)

3. Salame affumicato di Salumi Molinari di Zuglio (UD), che vince anche il premio speciale salame affumicato.

Podio dei salami ottenuti da carni di maiale a manto scuro

1. Salame gentile di Mora romagnola della Macelleria Massimo Zivieri di Zola Predosa (BO)

2. Ventricina di Pelatella casertana di Fattorie del Tratturo di Scerni (CH)

3. Salame di maiale nero di Agrisalumeria Luiset di Ferrere (AT)

Altri premi

* Migliore ‘Nduja: ‘Nduja di Enzo Ioppolo di San Giorgio a Morgeto (RC)

* Miglior salame con quinto quarto: Salamella di fegato al vin cotto di Fattorie del Tratturo di Scerni (CH)

* Miglior salame da carni non di solo maiale: Salame di daino della Macelleria Massimo Zivieri di Zola Predosa (BO)

* Premio speciale Coltellera Valgobbia “Salame dolce e magro del Nord”: Salame Nobile del Giarolo della Macelleria Ennio Mutti di Sarezzano (AL)

* Premio speciale Bibanesi “Sopressa del Triveneto”: Sopressa biologica dell’Agriturismo La Buona Terra di Cervarese Santa Croce (PD)

* Premio speciale Suriano “Salame piccante con peperoncino italiano”: Soppressata piccante del Salumificio Santa Barbara di Casabona (KR)

* Premio speciale “Soppressata del Sud Italia”: Soppressata di maiale rosa della Macelleria Ferdinando Sacco di Lago (CS)

* Premio speciale Rustichella d’Abruzzo “Ventricina abruzzese”: Ventricina del Vastese di Salumi Racciatti di Furci (CH)

* Premio Spiga d’oro “Salame di azienda bio”: “Ventricina del Vastese biologico” di Salumi Di Fiore di Fresagrandinaria (CH)

* Premio speciale “Ciauscolo”: Il Campagnolo di Re Norcino di San Ginesio (MC)

* Premio speciale Cacciatorino: Luganega trentina di Dal Massimo Goloso di Coredo (TN)

* Premio Sirman “Oscar alla carriera”: Azienda agrituristica Aia Verde di Pizzoferrato (CH)

È poi, ancora, il ricordo delle rimpatriate di un tempo, vuoi tra coscritti, vuoi tra ex compagni di scuola: la trattoria dove ritrovarsi era quella con il salame più buono.

Pane e salame era pure il pasto dell’operaio come quello del manager

indaffarato, altro che fast food pieni di strani intrugli. Insomma, il binomio della memoria di tutte le nostre età. Ma se oggi vogliamo tornare a una merenda così sana e genuina è possibile?

È ancora compatibile con la nostra salute e una crescita sana dei nostri

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figli? Che brutta domanda, vero? La stagionatura rende le carni e persino il grasso più sani e leggeri, le ricette tradizionali degli insaccati sono, in ogni territorio, il frutto di un’antica saggezza, equilibrate secondo l’ambiente, il clima, lo stile di vita… Ma esistono ancora i salami genuini di un tempo? E quelli di oggi sono altrettanto sani?”. A queste domande ogni anno Guido Stecchi insieme ai preziosi collaboratori dell’Accademia dà risposte premiando i migliori salami d’Italia, “non solo più buoni e genuini, ma anche più coerenti con la tradizione del loro territorio”.

Chi può (e non può) partecipare al Campionato Nazionale del Salame?

• Sono ammessi al concorso i salumi crudi composti di carne magra e grassa macinata o tagliata a coltello e insaccata in budello o vescica o altre coperture naturali, sia quelli denominati “salame” sia prodotti affini quali, ad esempio: “sopressa veneta”, “soppressata calabrese”, “finocchiona”, ecc…

• Sono ammessi solo prodotti regolarmente in vendita nel rispetto delle norme di legge, anche ove ne sia consentita la sola vendita diretta.

• Sono esclusi i salami contenenti additivi chimici fatta eccezione per nitrati (purché in dosi nettamente inferiori ai limiti di legge), ovvero quel “salnitro” utilizzato anche dai vecchi contadini.

• Sono ovviamente ammessi spezie, erbe, aromi e condimenti naturali previsti nelle ricette storiche del territorio o in ricette innovative del produttore. Sono esclusi invece ingredienti quali derivati del latte, fibre e zuccheri, pur naturali, utilizzati per alterare i tempi della stagionatura, accelerare le fermentazioni, trattenere acqua e in genere per qualsiasi pratica finalizzata a mascherare difetti della materia prima o del ciclo produttivo.

• Chi fosse interessato a partecipare alla prossima edizione 2023 può contattare l’Accademia delle 5T scrivendo a info@accademia5t.it

Fonte: Accademia delle 5T

>> Link: accademia5t.it

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CHAMPAGNE Experience 2022

Un viaggio nella regione dello Champagne è il sogno di tutti gli amanti del vino. Se il tempo (e il denaro necessario) non lo permette, c’è sempre la possibilità di partecipare a Champagne Experience, che viene organizzata la terza domenica di ottobre e il lunedì successivo al centro Fiere Modena.

Gli scorsi 16 e 17 ottobre sono state 141 le maison partecipanti, con più di 800 vini in degustazione e un ricco calendario di appuntamenti di approfondimento a fare da palcoscenico. Ai tornelli si sono avvicendati oltre 6.400 appassionati, registrati all’ingresso dei padiglioni: i visitatori sono giunti da tutta Italia, specie operatori specializ-

zati, aumentati in questa edizione dal 69% dello scorso anno al 77%. Tutto esaurito anche all’interno delle sale che hanno ospitato le degustazioni guidate, momenti formativi particolarmente amati dagli operatori che frequentano Champagne Experience. Tra questi, l’abbinamento tra Parmigiano Reggiano DOP e Champagne, iconici campioni

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Premiata Salumeria Italiana, Champagne Experience™ è il più importante evento italiano dedicato allo Champagne giunto alla sua quinta edizione.

ciascuno nella propria categoria e tra ostriche bretoni e Champagne, allegoria della moderna agiatezza. E poi gli approfondimenti tematici, a partire dalla tavola rotonda organizzata dall’associazione “La Transmission – Femmes en Champagne”, tutta in rosa (si veda l’articolo dedicato a pagina 72).

«Il significativo ampliamento delle aree espositive ha rappresentato un richiamo molto importante per tutti coloro che volevano sondare lo stato dell’arte di questo vino sempre più amato e ricercato da più generazioni» commenta LUCA CUZZIOL, presidente di Società Excellence, la società cooperativa che raggruppa 21 tra i principali importatori e distributori italiani di vini e distillati. «A Modena tutti gli importatori presenti, sia quelli che aderiscono a Società Excellence che gli altri 45 che hanno portato in degustazione gli champagne di grandi maison e di piccoli vigneron, hanno incontrato sia i loro storici clienti sia tanti nuovi operatori, spesso giovani professionisti che vogliono proporre nei loro locali un’attenta selezione di Champagne».

«Modena si è riconfermata centrale nel catalizzare l’attenzione di tanti appassionati e operatori» aggiunge PIETRO PELLEGRINI, vicepresidente di Società Excellence. «I visitatori desiderosi di

scoprire le tante anime delle affascinanti bollicine francesi sono per noi un grande orgoglio e meritano tutto il nostro impegno».

Le anime del mondo dello Champagne sono state divise in base all’appartenenza geografica corrispondente alle diverse aree di produzione della Champagne (Montagne di Reims, Vallée de la Marne, Côte des Blancs, Aube). Le cantine sono state proposte dagli importatori o direttamente dai vigneron Come CLARISSE e MICHEL LARNAUDIE di Les Trois Puys, proprietari di 6.5 ettari vitati per una produzione di 40.000 bottiglie, che ci hanno convinto con il loro Brut Nature Zero Dosage Premier Cru Larnaudie-Hirault, una sapida creazione di Pinot nero, Pinot Meunier e Chardonnay in parti uguali. Da un minuscolo appezzamento di terreno coltivato a Pinot nero nella Valle della Marna FABIEN HAUTBOIS ha proposto tra gli altri il Coeur de Noirs, dorato e dal profumo di alloro e legni orientali. Dalla stessa sub-regione, tra i produttori presenti anche FRANCIS ORBAN, il cui Parcellaire trascorre 96 mesi sui lieviti e rilascia intensi profumi erbacei. Un percorso che si può rifare, volendo, sul sito dell’evento.

>> Link: champagneexperience.it

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In alto: a sinistra, Clarisse e Michel Larnaudie di Les Trois Puys. A destra: Fabien Hautbois. In basso: Brut Champagne “Cuvée L’Orbane” di Francis Orban.

Femmes en Champagne

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Se c’è un bigottismo che mi pervade, una rigidità, un preconcetto sociale, un blocco emotivo, è bere Champagne in solitudine. Ci ho provato, non ci riesco, lo trovo contro la mia natura, un tradimento vero e proprio di ogni bollicina di perlage che, dal fondo del bicchiere, sale a galla congiungendosi con l’aria che respiro.

Lo Champagne è il primo vino che ho assaggiato in vita mia, mi raccontano di uno svezzamento piuttosto originale allo scoccare del sesto mese, si dice che abbia apprezzato e non sia stata messa in discussione la patria potestà. Ho le foto dei miei primi compleanni sempre con una mignonette in mano. Son cresciuta con una bottiglia di Champagne sempre in frigo, accanto al latte e ai succhi di frutta. Era, in assoluto, il vino più amato e bevuto da mio padre.

Da adulta continua ad accompagnarmi, lo conosco senza studiarlo perché non abbia la possibilità di diventarmi un impegno mentale. È il vino che bevo senza chiedermi con che cibo starebbe bene o i dettagli di un’analisi organolettica: sorseggio piacere puro, non cerco altra risposta ai miei bisogni fisici o intellettivi.

Non è mai il mio vino riflessivo, è il vino del sorriso, che si porta via i pensieri brutti, che mi rende eternamente giovane e spensierata

Ho frequentato tutte le edizioni precedenti della bella manifestazione Champagne Experience di Modena, la due giorni rivolta ad appassionati e professionisti che è arrivata ad accogliere ben 140 Maison e 64 esportatori. Ammetto che non avevo gran voglia di partecipare quest’anno, ma nel programma ha attirato la mia attenzione un incontro che non era una masterclass o un banco di degustazione esclusivo, piuttosto una sorta di tavola rotonda dal titolo La Transmission – Femmes en Champagne. Alla tavola rotonda sarebbero state presenti Mélanie Tarlant (TARLANT), Anne Malassagne (A.R. LENOBLE), Alice Paillard (BRUNO PAILLARD), Chantal Gonet (PHILIPPE GONET), Charline Drappier (DRAPPIER) e Vitalie Taittinger (TAITTINGER). Avrei visto le loro facce, non le etichette sulle bottiglie.

Ciò che mi colpisce è che a far da moderatore dell’incontro non sia stata

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invitata una personalità del mondo del vino ma Maddalena Fossati, direttrice delle testate LA CUCINA ITALIANA e CONDÉ NAST TRAVELLER, del resto ci si esprime spesso nei termini di “Ricetta dello Champagne”

Sono incuriosita da una parte e prevenuta dall’altra, perché temo spesso un certo modello della donna nelle immagini promozionali del vino che, francamente, mi spingono più a bere acqua. Domenica 17 entro, a mezz’ora dall’incontro, nel grande salone dove le degustazioni sono in corso, a colpo d’occhio il rapporto donne: uomini è di 5 ogni 100. Non mi stupisce ma mi dispiace. Mi accomodo nell’area riservata che ospiterà lo speech.

La Transmission – Femmes en Champagne è in realtà un’associazione fondata nel 2019 da 9 produttrici che rappresentano tutto l’ecosistema Champenoise, dal Nord al Sud dell’AOC, diverse per organizzazione e dimensioni, ma tutte accomunate da un sentimento di necessità di comunicare, ispirare, trasmettere una conoscenza viva del loro prodotto e del loro territorio attraverso le “ricette” dello Champagne, le loro storie di vita, il loro impegno dalla vigna al tavola imbandita.

Sono alla loro prima presentazione dell’associazione all’estero, hanno scelto l’Italia come prima tappa perché

quando vogliono parlare di un consumatore sobriamente elegante e rilassato lo si definisce à l’Italienne

La prima a parlare è Anne Malassagne, vignaiola di grande esperienza, approdata all’azienda di famiglia perché il padre non la vendesse. Racconta la fatica del cercare (e trovare) legittimità per trent’anni in un settore prettamente maschile, nel quale era approdata senza esperienza, che si era ritrovata a dover condurre da sola troppo presto e con figli da gestire. La solitudine di questa suo percorso l’ha spinta a cercare il confronto con le altre donne della Champagne e ad elaborare una sorta di manifesto programmatico di come un Demain familiare possa essere gestito al femminile e cosa implichi. È dal confronto con Margareth “Maggie” Henriquez, già presidentessa e CEO di Krug (dal 2022 è in Baccarat), che nasce La Transmission

Alice Paillard racconta senza ipocrisia che, come per ogni Demain, anche lei ha interesse a vendere bottiglie, eppure il modo di essere manager è sostanzialmente diverso da molti colleghi perché, nell’interesse primo di onorare il terroir e l’Appellation, le donne si relativizzano all’interno dell’impresa, distribuendo in maniera più armonica e meno stressante gli incarichi, ottimizzando le risorse in maniera virtuosa. Per lei la gestione al

femminile è un modello di business e reputa questo modello vincente anche nello scontro generazionale per niente scontato, con un approccio che ha cura del voler trasmettere

Chantal Gonet con fermezza dichiara che non c’è intento di aggredire i propri colleghi, piuttosto offrire punti di vista da far integrare nella visione del territorio. Caposaldo della Francia è la fratellanza, i reali valori umani devono essere sempre al centro e gli Champenoise riflettono questo genere di cooperazione che è davvero sentita come una fratellanza, che è riuscita, con l’aiuto reciproco, a cambiare una intera economia e che saprà affrontare le conseguenze del cambiamento climatico in corso con la stessa determinazione corale.

Melanie Tarlant è la prima donna ad entrare nell’attivo dell’azienda dal ‘600 ad oggi. Centra il suo intervento sul cambiamento climatico in corso che è una criticità da una parte ma una grande sfida collettiva: pratiche di coltivazione, biodiversità e cambio dei dosaggi abituali fanno del suo territorio un laboratorio continuo da dover difendere anche nel suo esempio di modello virtuoso di tutela e cultura di un territorio. Indossa una t-shirt che attira la mia attenzione, con un’enorme scritta: #NOVLS

Ad intervento finito la intervisto sulla VSL e mi faccio spiegare: la VSL in Champagne è l’acronimo di “Vignes semi larges” (tradotto in italiano, “Vigne semi larghe”, ovvero vigne a densità inferiore). In pratica il Cahier des charges dello Champagne, il suo Disciplinare, prevede, al momento, una densità di coltivazione e di vicinanza tra filari stabilita o, piuttosto, consolidata dalla storicità della pratica di coltivazione. È stato proposto l’inserimento di un nuovo decreto che consenta di allontanare i filari. Le motivazioni sono dibattute, i promotori parlano di vantaggi ecologici ma sono, nello specifico, i grandi gruppi internazionali che operano in Champagne che vedrebbero, nell’allargamento delle distanze, la possibilità di meccanizzazione della raccolta.

Melanie combatte da subito e a gran voce questa possibilità che vede tutt’altro come una opportunità, che implicherebbe meno lavoro manuale, meno cura nella raccolta, la pretesa

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I partecipanti all‘incontro “La Transmission – Femmes en Champagne” durante Modena Champagne Experience.

che le piante rendano il doppio e un cambio paesaggistico drastico, oltre che il tradimento delle pratiche centenarie che hanno reso la Champagne grande nel mondo. Per lei la sfida è su altri terreni e non si perita a dichiararli con determinazione e col supporto delle colleghe (no-vsl.org).

Vitalie Taittinger ci pone due considerazioni. La prima è di carattere simbolico: cosa hanno voglia di dire oggi i vigneron per raccontarsi? Il brand è il nostro cognome o il territorio al quale apparteniamo? Accettiamo davvero la nostra unicità come Maison e come condottieri della stessa? La incarniamo con consapevolezza? La vita come esercizio di messa a nudo è un modello aziendale proponibile? E siamo noi abbastanza consapevoli da essere grati di essere su un territorio libero che ci lascia “ricettare” il nostro prodotto come vogliamo? Dove c’è posto sia per la grande che per la piccola Maison? E siamo pronti a difenderla questa libertà?

La seconda considerazione è di carattere più fisico: lo Champagne ha un potere magico, il potere dello

Champagne, da sempre e per sempre, sarà di dare piacere, è il vino della felicità. Altrettanto da sempre il vino che magnifica un momento, lo sottolinea, lo celebra, regala una terza dimensione. Lo Champagne è una ricetta libera che onora ogni tipologia di cibo e ogni tipologia di circostanza.

Charline Drappier racconta con molta dolcezza che uno degli intenti principe del programma della Transmission sia “semplicemente“ trovarsi assieme, ovvero coinvolgere le nuove generazioni sia al lavoro in vigna sia al piacere dello Champagne, sia nell’evoluzione dei brand che, nella Champagne, sono lentissime. Organizza e promuove atelier e laboratori per avvicinare le persone allo Champagne, per sollecitarle alle domande, per orientarle a goderne, perché ricerca infinita significa futuro Dall’incontro ne sono uscita soddisfatta e un po’ sorella, da consumatrice, di questa ventata di allegrezza piena di contenuti e impegno, piena di vita quotidiana nell’incombere della storicità, piena di desiderio/bisogno di parlare ed ascoltare.

Ognuna di queste donne ha espresso la profonda gratitudine per essere figlie della terra di Champagne e cerca, non nella mera commercializzazione, gesti di ringraziamento. Anche in Italia qualcosa si muove. In primavera avevo avuto modo di partecipare ad un’altra tavola rotonda al femminile organizzata nell’Enoteca comunale di Cupramontana (AN), che vedeva protagoniste Maria Clotilde Borsa di PACINA, Elena Pantaleoni di La Stoppa, Mateja Gravner e Chiara Pepe delle omonime aziende. Anche in quell’occasione si percepiva netto un bisogno di dirsi cose oltre alle parole, trovarsi per ritrovarsi, di sentirsi accomunate in qualcosa che non fosse solo il prodotto e sentirsi accettate dal pubblico cercando di rinforzare un approccio più riflessivo senza essere serioso e meno prettamente fisico anche se sempre legato al piacere.

In quanto donna cerco di non essere troppo di parte nelle mie considerazioni, voi, però, non siate ciechi e sordi. E bevete responsabilmente in tutti i sensi, con tutti i sensi.

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A spasso tra vigneti e cantine

Percorsi ed itinerari in Franciacorta

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IL GUSTO DI CAMMINARE

A pochi passi da Brescia e dal lago d’Iseo, la Franciacorta è una zona famosa nel mondo per la produzione del vino omonimo, il Franciacorta DOCG, secondo il Metodo Classico della rifermentazione in bottiglia nelle varianti Franciacorta, Franciacorta Satèn e Rosè.

Ed eccoci qui, di nuovo, nei pressi di un’altra fine di anno Non so quale percezione voi abbiate avuto di questi mesi, ma a me sono sembrati infiniti, complicati e anche piuttosto pesanti, con il costante avvicendarsi di giornate schiacciate da preoccupazioni generalizzate, e scandite da notizie che, da tutte le parti, arrivano sempre una peggio dell’altra. In queste condizioni, allora, giova sempre ricordare che, come spesso e volentieri vi appunto in questa rubrica, contro i turbamenti interiori, nonché contro la frustrazione della vita frenetica che, nostro malgrado, quotidianamente ci travolge, la pratica del camminare può davvero ancora rappresentare un piccolo, facile (magari anche effimero, ma comunque efficace), rimedio universale.

Non vi è infatti sensazione di calma più leggera di quella che si sprigiona durante un cammino, immersi nel silenzio e nella più piena bellezza della natura, quando in modo davvero stupefacente si riesce, come d’incanto, a coniugare la grande stanchezza sulle gambe con la semplice felicità del cuore.

E, quindi, prepariamoci insieme ancora una volta, infiliamo le nostre fedeli scarpette da trekking e allacciamo strette le stringhe, con la massima cura, come in un irrinunciabile e scaramantico rito propiziatorio, e poi, via che partiamo!

Proprio riferendomi alla più urgente necessità di leggerezza e di bellezza dei tempi, e poi anche guardando in prospettiva a questi giorni dell’anno che si spingono ormai a ridosso delle festività, periodo in cui, tradizionalmente, ci

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ritroveremo a celebrare con la famiglia e con gli amici (perché bisogna pur sempre e comunque festeggiare!), stavolta ho deciso di portarvi a camminare attraverso una zona davvero bellissima e strepitosa, in cui peraltro si produce

un prodotto italiano d’eccellenza, noto in tutto il mondo, il quale, con le sue inconfondibili e meravigliose bollicine trasparenti , è proprio leggero per antonomasia. Ci mettiamo insomma in cammino alla volta della Franciacorta,

Franciacorta, dove il formaggio si fa plurale

Non solo vino, bensì la terra dove il formaggio si fa plurale: così recita lo slogan di Franciacorta in bianco (www.franciacortainbianco.it), una rassegna dedicata ai formaggi di questa zona, che sono tanti, profumati, ricchi, e, soprattutto, sono uno più buono dell’altro. Come il Bagoss, formaggio simbolo di Bagolino, prodotto con un cucchiaino di zafferano aggiunto alla pasta dopo la rottura della cagliata, o il Fatulì (in foto), il cui nome in dialetto significa “piccolo pezzo” ed è così infatti che si presenta questo raro caprino della Val Saviore, oggi prodotto in tutta la Valcamonica con latte crudo di capra Bionda dell’Adamello. Si contraddistingue per il sapore conferitogli dall’affumicatura con rami di ginepro. E ancora il Silter, un formaggio DOP di vacca Bruna alpina, che si prepara nelle malghe di montagna come anche nei caseifici di fondo valle e il Nostrano Valtrompia, altra DOP casearia del Bresciano che condivide con il Bagoss l’aggiunta di zafferano nella cagliata. È il formaggio perfetto per accompagnare i casoncelli e i primi di pasta fresca.

un territorio stupefacente, sito tra il versante meridionale del lago d’Iseo e la città di Brescia, e caratterizzato da sterminati e stupendi vigneti, che si appoggiano, a perdita d’occhio, sopra dolci e diradanti colline.

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Salumeria Italiana,
Loreto, splendida isoletta sospesa sulle acque del Lago d’Iseo, con il suo magnifico castello.

Siamo gli specialisti del San Daniele DOP

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Allevamenti di proprietà

Le carni dei nostri prosciutti di San Daniele DOP provengono da suini nati e cresciuti nei sei allevamenti della famiglia Aimaretti o da siti rigorosamente selezionati.

Benessere animale

dell’animale sono una priorità. I nostri allevatori controllano attentamente l’alimentazione, si assicurano che gli ambienti siano spaziosi e areati e riducono al minimo lo stress del suino.

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Con pazienza, secondo tradizione

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La salatura, rigorosamente a mano, e la stagionatura minima di 18 mesi, danno vita ad un crudo dal gusto unico, naturalmente buono.

La Ret, salame di Franciacorta

La Ret è il salame tipico di Capriolo, comune della Franciacorta a due passi dal lago d’Iseo. Si tratta di un insaccato tutelato dal marchio De.Co. (Denominazione Comunale) con una particolarità oggi sempre più rara: quella delle dimensioni importanti. Il peso della Ret varia infatti dai 5 fino ai 14 kg, come risposta all’esigenza di un tempo quando la Ret, al pari di altri prodotti simili, era molto utilizzata in occasione di nascite, battesimi, matrimoni e per cibare i contadini durante il lavoro estivo nei campi. Le sue caratteristiche trasmettono la vasta esperienza acquisita dai norcini nei decenni passati. Tra le peculiarità della Ret troviamo l’uso esclusivo di suini allevati nel raggio di 30 km da Capriolo, la macinatura grossolana delle carni eseguita a coltello, la cubettatura del grasso e le già citate notevoli dimensioni. Come insacco vengono utilizzati lo stomaco o la vescica del suino, oppure la bondiana del bovino. Altro tratto distintivo il sapore, ottenuto grazie all’uso di salvia locale o scorza di agrume oltre che a sale, spezie e vino, aglio locale e a una buona dose di vino Curtefranca bianco.

L’origine del nome è incerta. Alcuni propendono per la forma a rete dell’impasto del salume, una volta stagionato. Altri invece sostengono che derivi dalla similitudine esterna con lo stomaco retato del suino, dove avviene l’insacco. La Ret è protagonista della Sagra di San Giorgio di Capriolo, che si tiene ogni anno nel periodo di aprile. È inoltre disponibile presso le macellerie locali (fonte e foto: www.bresciatourism.it).

davvero particolare e romantico, e vi stupirete per il singolare microclima che, grazie alla vicinanza del lago di Iseo, avvolge tutta la zona in una atmosfera davvero magica, concedendo di percorrere anche durante la stagione invernale, senza grossi problemi, tutti i diversi itinerari a disposizione dei camminatori.

I cammini sono tanti, diversi e davvero tutti molto suggestivi , e li potrete programmare e modulare in base alle vostre disponibilità di tempo nonché in relazione al vostro grado di preparazione e allenamento. È infatti possibile incamminarsi per escursioni semplici, adatte anche a famiglie, come gli itinerari con partenza da Erbusco oppure da Borgonato, o, in alternativa, dedicare una giornata ad una facile, lunga e rilassante passeggiata all’interno delle Riserva Naturale delle Torbiere del Sebino.

Per i escursionisti più esperti o comunque per gli adulti abituati a camminare, poi, non mancano percorsi con salite parecchio impegnative e con dislivelli importanti come, per esempio, l’itinerario sul Monte Alto, oppure anche percorsi più lunghi, come il Trekking Brescia-Iseo, il quale che richiede due interi giorni di cammino, sempre tra colline e panorami mozzafiato.

Chiaramente, leitmotiv di qualunque itinerario deciderete di percorrere sulla strada del Franciacorta saranno poi le importanti e imprescindibili cantine della zona, ognuna magicamente incorniciata dai propri preziosi vigneti che regnano incontrastati nel silenzio delle colline. Le maggiormente suggestive che potrete visitare sono sicuramente le più antiche, le quali vantano un prestigio che non ha davvero nulla da invidiare alle cantine francesi di Champagne.

Il nome così evocativo di questo territorio, Franciacorta (che ha già in sé qualcosa di un poco leggendario e poetico), secondo la versione più accreditata avrebbe origine dalle corti altomedievali, site proprio nell’arco morenico, che con l’arrivo dei monaci cluniacensi godettero di franchigie (curtes francae).

Ma c’è un’altra lontana leggenda, altrettanto affascinante, la quale invece narra che Carlo Magno, conquistata Brescia longobarda nell’anno 774, pose

l’accampamento a Rodengo Saiano e, giunto il momento di celebrare la festa di San Dionigi, che lui aveva giurato di festeggiare a Parigi, risolse la questione decretando che questa terra intorno a Brescia fosse da considerare come una “piccola Francia”, ordinando così che tutto l’intero territorio si intendesse proprio come Corte francese.

In ogni modo, qualsiasi sia l’origine del nome, sicuramente, quando arriverete in Franciacorta rimarrete letteralmente incantati da questo paesaggio

E così, al termine di ogni percorso a piedi in questa incantevole nostra “piccola Francia”, avrete la indimenticabile opportunità di farvi avvolgere dal profumo, dal colore e dal gusto di un calice di Franciacorta, il quale saprà rendere incredibilmente ancora più leggera quella tipica calma che si sprigiona solo durante il cammino, quando, magicamente, si possono finalmente coniugare la stanchezza sulle gambe e la felicità del cuore.

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PAESI, LAMBRUSCO E CASTELLI

È IL NEONATO CAMMINO DELL’UNIONE IN PROVINCIA DI MODENA

Camminare è in assoluto l’attività che preferisco nella vita. Camminare per più giorni di seguito poi è per me il massimo. È un’immersione nel paesaggio e contemporaneamente un’immersione in sé stessi. È una pratica di pulizia interiore. Mentre macino chilometri macino pensieri, li trasformo, alcuni li tralascio, altri li semino, altri li perdo e alcuni li abbandono proprio, mentre sulle spalle tengo solo l’essenziale. La fatica fisica mi riporta al centro, al corpo, e, a fine giornata, mi ritrovo a vivere un senso di soddisfazione e pienezza che mi capita raramente di sentire.

Camminare per me ha l’effetto benefico di un immediato ridimensionamento di tutte le dismisure che nascono dal troppo e inutile rimuginare. Per cui,

non appena ho sentito che si preparava l’inaugurazione di un cammino proprio qui, dalle mie parti, in provincia di Modena, nella zona dell’Unione Terre dei Castelli1, non ho esitato un secondo e ho subito pensato: vado.

A piedi, zaino in spalla, ho percorso 102 km e riscoperto il luogo in cui vivo come un territorio davvero ricco sotto diversi punti di vista: storico-culturale, naturalistico e gastronomico. Un cambio di prospettiva cambia lo sguardo sulle cose: l’ho proprio sperimentato, e quel che mi era noto, dato un po’ per scontato, cucito insieme nel lento impasto di cinque giorni di cammino è diventato quasi esotico. Fin da subito.

Dalla partenza ai piedi della Rocca di Vignola, con gli occhi che vagavano su Palazzo Barozzi (o Palazzo Contrari-

Boncompagni) e che registravano lo stupore sui volti dei compagni di cammino alla notizia che lì c’è racchiusa una scala a chiocciola elicoidale totalmente aerea, un capolavoro architettonico e scenografico di altissimo livello, realizzata su disegno di uno tra i più noti architetti del ‘500, JACOPO BAROZZI detto “Il Vignola”. Uno che, per dirne una, divenne architetto ufficiale di un papa, Giulio III, uno che si intratteneva col Vasari e Michelangelo e che, quando quest’ultimo morì, portò avanti i lavori della fabbrica di San Pietro. L’illustre concittadino a cui il pasticcere EUGENIO GOLLINI nel 1907 dedicò quella che un tempo era la sua “Torta nera”, oggi conosciuta nel mondo come Torta Barozzi

Oltre a tingersi d’esotico, da subito il cammino si fa anche sorprendente:

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lasciati i ciliegi sulla sponda del fiume Panaro, visti quei cannoni, sempre e solo uditi, che sparavano alle nuvole per scongiurare grandine e pioggia sulle colture oggi protette da apposite reti, arrivati a Spilamberto, patria dell’Aceto Balsamico Tradizionale, scopro che in paese c’è la salma di un vero pellegrino. Di quelli del Medioevo. Conservato in una teca, affiora dalla terra e, insieme alle ossa, emerge il chiarore di una conchiglia, la capasanta, insegna di pellegrinaggio alla tomba di San Giacomo a Santiago de Compostela. La salma è ospitato nel Torrione, la torre più alta del circuito di mura dell’antico castello, costruito nel Duecento per far fronte ai Bolognesi sul Panaro, e oggi sede del Museo archeologico di Spilamberto

In alto: crescentine montanare cotte nelle tigelle. Le crescentine montanare sono comunemente conosciute come “tigelle”, anche se si tratta di un nome improprio. “Tigelle” è infatti il nome degli stampi di terracotta con cui una volta si cuocevano le crescentine nelle zone montane dell’Appennino emiliano. I dischi di terracotta si mettevano a scaldare fra le braci del camino, poi si impilavano infilando tra uno stampo e l’altro l’impasto con foglie di castagno per aromatizzare finché non fosse ben cotto.

È pieno di borghi, rocche, pievi e castelli il Cammino dell’Unione: lasciato Spilamberto ci si incammina verso le colline di Castelvetro e si entra nel borgo patria del Grasparossa passando l’arco a sesto acuto e salendo la scalinata che porta alla piazza con la scacchiera sulla quale in autunno, in occasione della Sagra dell’uva, si anima una dama vivente.

Volendo si può brindare qui alla chiusura della prima tappa, naturalmente con un calice di Lambrusco Grasparossa. Ma si può anche allungare un po’ il percorso, andare a visitare il piccolo oratorio di San Michele (VIII-IX secolo) e fermarsi a Levizzano, altro piccolo borgo circondato dalle vigne.

Da qui si parte per il secondo giorno di cammino intercettando un tratto del

percorso occidentale della via RomeaNonantolana e si procede in direzione Marano, paese del luppolo a cui si arriva scendendo da un monte che offre una visuale a 360 gradi e toccando il borgo di Denzano, con torre e chiesetta matildica appollaiate su un’altura.

Da queste parti il paesaggio si fa argilloso, ai filari di Grasparossa si sostituiscono gli alberi e alle colline i cosiddetti calanchi di Costa d’Esen (Costa d’Asino).

Una volta a Marano, se siete uomini, scapoli e forestieri, fate attenzione quando riempite la borraccia alla Grama2, la fontana nella piazza del paese, che una vecchia canzone popolare sosteneva: “Il forestier che, scapolo, a la grama facendo un giro attorno, l’acqua beve, residenza a Marano prender deve, da

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A sinistra: due delle tre guglie rocciose nel Parco dei Sassi di Roccamalatina (photo © Francesco De Marco).

Borlenghi e ciacci

Il borlengo è una specie di crêpe molto sottile e croccante preparata a partire da un impasto liquido estremamente semplice (è da sempre considerato un cibo povero), a base di acqua, farina, sale, olio e uova: questo impasto è detto colla. La cottura avviene con l’utilizzo di grandi padelle piatte posizionate sul fuoco. Il ripieno tradizionale, detto cunza, consiste in un battuto di lardo, aglio e rosmarino, oltre ad una spolverata di Parmigiano Reggiano. Il borlengo si serve molto caldo e ripiegato in quattro parti. Si tratta di un cibo che fa parte della cultura e della tradizione della Valle del Panaro, inserendosi in quel panorama di pani conosciuti fin dalla preistoria. La tradizione orale tramanda che si tratta di un cibo carnevalesco, cucinato nel periodo che dall’Epifania conduce al martedì grasso. Il termine borlengo, in dialetto detto burlang o burleng, deriva probabilmente da burla. Viene chiamato anche berlengo e berlingaccio, il nome con cui veniva appunto denominato il Carnevale in epoche medievali. Nella zona di Fanano è chiamato zampanella.

Il ciaccio, alla vista, sembra un incrocio tra una piadina e una crêpe: una piadina perché è tondeggiante, croccante, ma non troppo, e una crêpe, perché può essere sia dolce che salato. Come ogni piatto tradizionale, anche il ciaccio ha le sue particolarità nel modo e negli arnesi che si adoperano per cucinarlo. Si prepara impastando in una ciotola della farina (di grano o di castagne, quest’ultima preferita in passato perché più abbondante), dell’olio, del sale (in quello a base di farina di castagne no perché le castagne regalano al ciaccio una dolcezza che il sale rovinerebbe) e dell’acqua. I componenti vengono mescolati fino ad ottenere una colla omogenea e senza grumi. La cottura è la parte più interessante perché vengono utilizzate delle padelle speciali chiamate cottole (singolare, cottola). Si tratta infatti di un unico pezzo di metallo, piatto, che presenta un manico (lungo come l’avambraccio) che verso la fine si allarga e prende forma di cerchio. Un’altra cosa interessante è che per cucinare una crêpe si usa una sola padella; per il ciaccio bisogna adoperare ben due cottole. Bisogna riscaldarle tutte e due sul fuoco, posizionare una cucchiaiata abbondante dell’impasto al centro di una delle due, poi posizionare l’altra sopra la prima e schiacciare perché il composto si appiattisca (ma non troppo). Dopo qualche minuto uscirà dalle cottole un ciaccio pronto per essere condito con pesto montanaro (come vuole la tradizione) o con prosciutto o formaggio. Il ciaccio di castagne dal bel colore marroncino tipico del frutto ha un sapore dolce che si presta bene ad essere consumato con ricotta e miele.

>> Link: www.museodelcastagnoedelborlengo.it

una ragazza attratto che lo ama”. E così… addio cammino.

Da qui il Panaro di nuovo accompagna per un po’ il viandante col luccichio e lo scorrere delle sue acque, prima di cominciare a salire e incontrare un sentiero disseminato di ponticelli in mezzo al bosco. Siamo nel Parco dei Sassi di Roccamalatina e, se è vero che la salita toglie il fiato, proprio si rimane senza quando si esce dal bosco e ci si trova di fronte lo spettacolo naturale delle guglie arenacee dei Sassi.

Poco più in là, girando lo sguardo a sinistra, la Pieve di Trebbio, chiesa

di epoca romanica con a fianco il battistero ottagonale. È un luogo carico di bellezza, dall’atmosfera sospesa. Uno dei luoghi magici di questo cammino. E siccome la terza tappa è la più corta, la giornata è ideale per una visita alla pieve e per salire sul Sasso della Croce.

Nel tragitto potreste anche imbattervi in varie cassette di legno. Sopra le cassette, contenitori con dentro frutta e verdura e un cartellino col prezzo, il prezzo stabilito a tigiotto, cioè a contenitore. È il negozio a cielo aperto di Guido. Lui non c’è, ci sono però i prodotti

che coltiva, una vaschetta in cui lasciare i soldi e da cui prendere il resto se c’è bisogno di farlo, e un foglio che parla di fiducia negli altri, che, se non c’è, “la vita che senso ha”. Scrive più o meno così Guido. Insomma, siamo di fronte a una piccola pausa che è un ristoro per l’anima oltre che per il corpo.

Di nuovo si riprende a salire su per il bosco che si popola di castagni, per sbucare poi sulla strada poco prima del piccolissimo borgo di Castellino delle Formiche: qualche casa, una chiesetta del ‘400 e una torre medioevale che si alza da uno sperone di roccia, resi-

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duo dell’antico castello. Niente a che vedere con i piccoli insetti neri, il nome del borgo deriverebbe da un’errata traduzione popolare del medievale Castrum Formigis, che rimanda al latino formido, formidabilis, quindi “Castello che incute timore”.

Si continua a salire e, tra strade e boschi, toccando Samone, si arriva al Monte della Riva, si conquista il Monte Cisterna e finalmente siamo a Montalbano, paesino che da qualche anno, nei mesi di gennaio e febbraio, si trasforma nel “Borgo dei presepi”, con l’allestimento di tanti presepi disseminati lungo le vie. A questo punto ci si può fermare qui o raggiungere Zocca, che coi suoi 759 m di altitudine è il punto più alto del cammino. Per chi ama VASCO ROSSI un salto al BiBap, il mitico bar in cui ancora si registra qualche apparizione estiva del rocker, a dispensare saluti e autografi ai fan, è d’obbligo.

Siamo al quarto giorno di cammino e da Zocca si comincia a scendere. Prima però il passo è lento e in salita ancora per un po’ perché si passa da Zocchetta, tra edifici medioevali e un’edicola seicentesca, per poi dirigersi a Montecorone. Altro borgo che custodisce schegge di un passato restituito con sorpresa sotto forma di un piccolo Cristo nero in cartapesta. Prima, a quanto pare, ad un gruppetto di donne intente a raccogliere legna nei dintorni del Sasso di Sant’Andrea che lo trovarono tra stecchi e rami secchi, poi a me, che entro nella piccola chiesa e ascolto la storia di questo insolito Cristo nero oggi nell’abside di sinistra della piccola chiesa del paese. Una leggenda

diceva fosse collocato ai piedi del vicino Sasso. Pochi anni fa, il restauro di una pala d’altare posta sulla destra della navata centrale, ha mostrato la veridicità della leggenda, riportando in superficie la raffigurazione di un piccolo uomo raccolto in preghiera ai piedi del Sasso di Sant’Andrea.

Vivo in questa zona da cinquant’anni e non c’ero mai stata. La meraviglia generata dall’emergere di questo gigante di pietra dal verde fitto della vegetazione credo la ricorderò. Così come ricorderò lo stupore provato camminando sull’ampia spianata grigia della sua sommità. Da queste parti dicono che fermarsi un po’ qui, sulla spianata del Sasso, abbia un effetto rigenerante. Di certo lo è per gli occhi ammirare il panorama tutt’intorno.

Si prosegue e da qui si scende verso Guiglia. Lungo la strada si incontra l’Oratorio della Beata Vergine di San Luca che sollecita la memoria con un déjà-vu. E infatti l’Oratorio riproduce in misura ridotta il santuario della Madonna di San Luca di Bologna. Patria del borlengo e dei mastri borlengai, sede della “Scuola internazionale del Borlengo”, ogni anno, dal 1967, si tiene la sagra dedicata a questa sorta di crêpe servita con la cunza, un battuto di lardo, aglio e rosmarino e una spolverata di Parmigiano Reggiano o in altre varianti (vedi box a pagina 84).

L’ultima tappa, tra calanchi e colline, tocca i borghi di Castello di Serravalle e di Savignano sul Panaro. Se in quest’ultimo doveste capitare nel mese di settembre, lo potreste trovare pieno di gente e stand gastronomici in fermento

per la “Lotta per la Spada dei Contrari”, un palio in costume che vede sfidarsi tra loro le 6 frazioni del paese.

L’arrivo è al punto di partenza, di nuovo ai piedi della Rocca di Vignola. Partenza e arrivo dallo stesso punto per scoprire che voi siete gli stessi, solo un po’ cambiati.

Ora che il cammino è finito e star leggeri non è più necessario, se c’è posto nello zaino si può cedere a qualche peccato di gola e portarsi a casa qualcuna delle prelibatezze che il territorio offre. Un promemoria della varietà gastronomica da non perdere, in sintonia con la varietà del paesaggio, lo riporta la Guida del Cammino dell’Unione alla fine di ogni tappa e al vostro arrivo di certo l’avrete già sperimentato almeno in parte: crescentine, meglio note come tigelle, accompagnate da pollo alla cacciatora, salumi, formaggi e confetture; i funghi, porcini magari, a condire un bel piatto di tagliatelle fatte a mano, se la stagione è giusta; verso la montagna, castagne e marroni la fanno da padrone.

Se raggiungerete Zocca ad ottobre vi troverete immersi tra i banchi e il profumo di brace delle caldarroste sballottate alla Sagra della Castagna e del Marrone Tipico. Da queste parti, sono da assaggiare anche i ciacci sempre realizzati con la farina di castagne e farciti con la ricotta, o le zampanelle. C’è poi il gnocco fritto, anche questo come le tigelle accompagnato da un tripudio di salumi. E ancora, i tortellini in brodo e i tortelloni con ripieno di ricotta e spinaci. Insomma, nello zaino, se c’è posto, si può infilare una vera e propria dispensa:

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dal zampone al cotechino al Prosciutto di Modena DOP, dal Lambrusco Grasparossa di Castelvetro alle confetture

Il Cammino dell’Unione

di ciliegie e — in stagione, perché no, direttamente le ciliegie di Vignola —, fino all’Aceto Balsamico Tradizionale.

E poi crescentine, tortelloni e tortellini, freschi o confezionati. Amaretti di Spilamberto, mandorle e albume montate a neve, o la Torta Barozzi.

È lo strano caso del rientro da un cammino… con ciacci, cotechino e vino Federica Cornia

Note

1. Ente locale sovracomunale che aggrega gli 8 comuni di Castelnuovo Rangone, Castelvetro di Modena, Guiglia, Marano sul Panaro, Savignano sul Panaro, Spilamberto, Vignola, Zocca.

2. Secondo i dialetti emiliano-romagnoli per “grama” si intende l’attrezzo utilizzato per amalgamare la pasta o lavorare la canapa grezza. Il nome della fontana deriverebbe dal fatto che il movimento della leva che azionava la pompa della fontana richiamava quello della grama (fonte: www.gazzettadimodena.it).

Cinque tappe in cinque giorni, 102 km in tutto: inaugurato lo scorso aprile, il Cammino dell’Unione è un percorso ad anello tra colline e zona pedemontana in provincia di Modena: si parte da Vignola e si ritorna a Vignola. Lo hanno pensato, tracciato e promosso due appassionati di cammini: Federica Bergonzini e Giuseppe “Leo” Leonelli

Come mai avete scelto questo nome?

«Lo abbiamo chiamato così perché il cammino attraversa comuni che fanno parte dell’Unione Terre dei Castelli e anche perché ci piaceva il significato evocato dalla parola “unione”, per rompere la tendenza all’individualismo che pervade oggi la nostra società. Il nome “Cammino dell’Unione” ha un impatto evocativo non solo per chi vive in questi comuni, ma anche per chi viene da altre zone d’Italia. La parola “unione” poi richiama altri aspetti per noi importanti, per esempio sottolinea il senso di appartenenza al genere umano. E chi cammina ha ben chiaro quanto siano importanti gli incontri».

Anche per il Cammino dell’Unione, come per il Camino di Santiago, ho visto che c’è la credenziale. Come funziona?

«La credenziale è una specie di passaporto del viandante che, grazie ad accordi presi con ristoratori e strutture ricettive, permette di contenere la spesa giornaliera. Siccome in Italia i cammini sono tendenzialmente molto cari, noi abbiamo cercato di limitare i costi. Le strutture che hanno aderito alla convenzione che abbiamo proposto sono segnalate sulla guida. Purtroppo l’inflazione e gli aumenti delle spese di gestione hanno costretto alcuni operatori a rivedere al rialzo alcune tariffe. È possibile poi pernottare anche in tenda nei luoghi indicati dalla guida».

Dopo quasi un anno dall’inaugurazione come sta andando?

«Sta andando bene. È difficile quantificare quante persone siano passate ad oggi. Sarà possibile a fine stagione, contando le credenziali rimaste. A occhio e croce mi vien da dire che al momento possano essere passate intorno alle 500 persone, un numero che ha anche un certo impatto economico sul territorio. Siamo contenti perché è venuta gente un po’ da tutta Italia che ha apprezzato molto la zona». Prova concreta di quel particolare appeal del territorio in cui Leo e Federica credevano già molto quando ancora l’edizione zero del Cammino dell’Unione era in fase di preparazione e mi dicevano: «ci vorrà un po’ di tempo ma credo che le potenzialità per il successo di questo cammino ci siano. Grazie anche alla ricchezza dal punto di vista enogastronomico. Questo è un territorio che offre molto».

>> Link: camminodellunione.com

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La golosa Torta Barozzi della Pasticceria Gollini di Vignola.

Prodotti amarchio

I prodotti dell’Appennino

Parlando di Appennino, a volte ci si dimentica che è la spina dorsale dell’Italia, da Nord a Sud. Caratterizza infatti anche una regione spesso troppo poco valorizzata dal punto di vista turistico, pur godendo di una grande varietà paesaggistica, di magnifici prodotti enogastronomici, di antiche tradizio-

ni e di persone che conservano una grande onestà di carattere e pudore nei sentimenti.

Estesa come la Toscana, terra aspra, misteriosa, più di montagna che di mare, più di fatica che di piacere, la Basilicata si è fatta conoscere grazie ai Sassi di Matera che, un tempo, ne rappresentavano l’arretratezza e ne sono diventati oggi

il gioiello. Sul mare, spicca Maratea, ma quant’è bella tutta la costa a scogliera frastagliata di grotte, faraglioni, strapiombi, spiaggette nascoste, a volte vere e proprie darsene!

Un piacere per gli occhi, confermato dai piaceri del palato offerti dalla Lucania. A cominciare dai salumi: il termine “lucanica”, col quale in varie regioni

Canestrato di Moliterno IGP, viene realizzato con latte misto ovino (70/90%) e caprino (30/10%).

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GASTRONOMICI DELLA LUCANIA DA SCOPRIRE
TESORI

ANTICA CORTE PALLAVICINA

Ristorante “AL CAVALLINO BIANCO” 43010 Polesine Parmense (PR) Tel. 0524 96136 – Fax 0524 96416 www.acpallavicina.com

Nel 1905, nostro nonno Spigaroli Luigi riesce a diventare fittavolo dell’Antica Corte Pallavicina. Il vecchio castello eretto nel 1400 dai Marchesi Pallavicino, trasformato nel 1700 in azienda agricola, è situato sulla riva del Po. Nascono sei figli e l’ultimo, nel 1916, è nostro padre Spigaroli Marcello. Egli diceva che nel castello si stava bene, avevano il traghetto sul fiume, in estate curavano il podere, allevavano come sempre parecchi maiali che in inverno macellavano e facevano i salumi. Salumi che venivano venduti, da prima interi, ai passeggeri del loro traghetto poi, in seguito, al sorgere di una prima baracchetta di legno in riva al Po, affettati insieme al pane, a coloro che, sulle rive del fiume, si recavano in passeggiata anche dai paesi vicini. Da quella baracchetta successivamente ampliata, ma sempre in legno, e divenuta il “Lido di Polesine”, nel quale si ballava e si facevano merende, trarrà origine, dall’immane sforzo congiunto della zia Emilia e dei nostri genitori, il ristorante “Al Cavallino Bianco”. Di posti come il vecchio castello in riva al fiume non ne esistono quasi più, con muri di oltre un metro di spessore, con cantine stupende dove i marchesi stagionavano i loro salumi che inviavano agli Sforza a Milano. Infatti più i salumi e i culatelli sono vicini al grande fiume e più sono buoni!! Tutti quei racconti non li abbiamo mai dimenticati e quando dieci anni fa viene venduta la vecchia Corte Pallavicina decidiamo di acquistarla, con grandi sforzi economici, per poter continuare come il bisnonno, il nonno, il papà a fare dei salumi unici, non sintetici, che mangiandoli scopri da dove vengono e chi li ha fatti. Del resto alla nostra famiglia il senso del buono l’ha insegnato una persona che di cose buone se ne intendeva e noi non ce la sentivamo proprio di lasciar perdere tutta questa esperienza.

e Luciano Spigaroli figli di Marcello.

3 e le 12 settimane. Segue una leggera affumicatura. Per la conservazione, oggi si utilizza il sottovuoto mentre in passato le soppressate si ponevano in vasi di terracotta con la sugna del maiale o in vasi di vetro con olio d’oliva.

“Ciammotta, ciambotta,

ciaudedda, tapanedda: quanti modi di definire quello che nel Sud Italia significa mescolare le cose, ‘ciambottiare’. Esiste il ciambotto di pesce, di carni di verdure, perché alla fin fine il ciambotto non sono gli ingredienti ma il pane che viene riempito di sapori. A Terranova di Pollino chiamata ciambottella, si usa riempirla di peperoni, pomodoro, salsiccia e uova”. In questo caso il ripieno è a base di patate e peperoni cruschi. La ruota di pane viene tagliata dalla calotta superiore, quindi con le mani si svuota della mollica di pane e si riempie. Il pane diventa contenitore e companatico (la ricetta “Patane Sane” è di Federico Valicenti, fonte: www.basilicataturistica.com).

d’Italia ci si riferisce alla salsiccia, rimanda all’origine antica di questo insaccato caratteristico della norcineria locale.

In Basilicata, la salsiccia viene prodotta essenzialmente in due modi: con carni sceltissime di prosciutto, ripulite con minuziosa cura da nervi, tendini e infiltrazioni di grasso, o, viceversa, con tagli di scarto e interiora. Si tratta allora della salsiccia dei poveri, la “pezzente”, da mangiare cotta assieme alle verdure, e della “vecchiaredda” di Rotonda, nell’area del Pollino in provincia di Potenza, simile alla pezzente ma con l’aggiunta di cotiche nell’impasto. A secondo della zona di produzione, verranno poi aggiunti strutto e/o peperone dolce in polvere, ritrovando sempre il sa-

pore caratteristico dei semi di finocchio selvatico, spezia caratteristica presente in ogni salsiccia lucana.

La soppressata , prodotto agroalimentare tradizionale (PAT) della regione, è l’insaccato lucano “delle occasioni importanti“, un vanto per ogni famiglia. Si ottiene da carni suine di prima scelta, come muscoli della coscia e filetto, tagliate a punta di coltello, addizionate con cubetti di lardo, sale e grani di pepe nero e insaccate in budello naturale di maiale. Una volta riempito il budello, si lega con uno spago e si sottopone a leggera pressatura per 24 ore, lasciando l’insaccato a stagionare in ambienti a temperatura costante ed al buio, per un periodo compreso fra le

Il Caciocavallo podolico, ottenuto dal latte crudo di vacche Podoliche, allevate allo stato brado, è il vanto della ricca tradizione casearia della Basilicata. Questa razza, originaria dall’Ucraina, si adatta anche laddove il pascolo è povero, l’acqua poca e la sopravvivenza dura. Fu introdotta in Italia durante le invasioni barbariche. La lavorazione del formaggio è quella classica della filatura della pasta seguita dal passaggio in salamoia; le forme sono poste in grotte naturali; la buccia si ricopre di muffa nera (rimossa alla fine della maturazione) e la pasta diventa giallastra, compatta e cremosa, di sapore più dolce se viene usato caglio di vitello, più piccante con il caglio di capretto. Dopo tre mesi sarebbe pronto per il consumo ma è una vera eresia mangiarlo così fresco! Questo formaggio nobile si gusta a fine pasto, a tavola, dando il meglio di sé dopo una lunga stagionatura, anche cinque, sei anni. Sono allora tante le sue qualità organolettiche, i suoi profumi complessi e una persistenza gustativa inimitabile.

Un altro formaggio prodotto lungo l’intera dorsale appenninica meridionale è il Caciocavallo Silano DOP. Viene infatti realizzato in Basilicata, ma anche in Calabria, Molise e Puglia, e deve il suo nome dall’altopiano della Sila, uno dei territori calabresi che rinnovano ogni anno questa antica tradizione casearia. È anche lui un formaggio a pasta dura e filata, ottenuto con latte vaccino e caglio di vitello o di capretto per farlo coagulare. Nel 500 a.C. IPPOCRATE citò questo prodotto per evidenziare l’abilità dei Greci nella preparazione del formaggio.

Non possiamo non citare il Canestrato di Moliterno, piccolo centro della Val d’Agri. Purtroppo poco conosciuto se non sul territorio stesso, questo formaggio delizioso è preparato con latte misto ovino (70/90%) e caprino (30/10%). Ha ottenuto l’IGP europea. Le greggi dalle quali si ricava il latte sono alimentate principalmente al pascolo, con foraggi freschi e fieni. Quando si effettuava ancora la transu-

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cianfotto, zonzera, rappaiona, crapiata,

manza, vi erano due tipi di formaggio, quello estivo, più grasso, quando gli animali pascolavano vicino al mare, e quello invernale, meno grasso ma più aromatico, quando i pascoli erano quelli montani. La lavorazione del formaggio è sempre la stessa: la cagliata viene pressata all’interno di fascelle di giunco e le forme, salate a secco per tre settimane, sono poi allineate su assi di legno nei “fondacci”, locali freschi e aerati dal pavimento inclinato per facilitare la scolatura del siero. Per sei mesi saranno unte regolarmente con olio e aceto.

Da assaggiare anche il Casieddu, altro formaggio tipico di Moliterno preparato durante l’estate con latte di capra. La sua lavorazione è molto particolare e ne giustifica il sapore: si porta ad ebollizione il latte di capra di due mungiture in cui è stato messo un mazzetto di nipitella selvatica. Poi lo si filtra in foglie di felci intrecciate e si lascia raffreddare. Quando il latte ha raggiunto i 40 °C, si aggiunge il caglio di capretto. Dopo mezz’ora, si rompe finemente la massa che viene

modellata e avvolta in foglie di felce. Una squisitezza!

Avendo citato la razza bovina Podolica, è giusto parlare delle sue carni. Inizialmente impiegati per il lavoro nei campi, questi bovini sono ormai redditizi per la carne e il latte da quando si è sviluppata la meccanizzazione. Rustici, robusti, dal mantello bianco-grigio, questi animali crescono in allevamenti di tipo estensivo. Si nutrono di rovi e cespugli di sottobosco, anche su pendii ripidi, e la loro carne non ha niente da invidiare alle razze più rinomate, essendo ricca di Acido Linoleico Coniugato (CLA), presente in natura in numerosi vegetali che crescono spontaneamente.

Oltre alla carne bovina, possiamo apprezzare qualche specialità di antica tradizione popolare come il castrato ovino e caprino, il marro o marretto, anche detti cazmarr, grossi involtini di budella di agnello o capretto ripieni di frattaglie da arrostire sulla brace simili agli gnummareddi pugliesi.

La coltivazione di fagioli ha trovato un habitat ideale nel terreno sabbioso e poco calcareo dell’Alta Val d’Agri

ventilata e dove scorre tanta acqua. Nel Comune di Sarconi, a 600 m di altezza, sono coltivati una ventina di specie locali di borlotti e cannellini. La tenera morbidezza dei fagioli di Sarconi IGP si rivela appieno nel prodotto lasciato essiccare sulla pianta. Tutti i fagioli di quella zona non richiedono, per la cottura, ammollo o tempi lunghi di bollitura. Risultano morbidi, pastosi e digeribili senza traccia di cuticole o di pellicole coriacee.

Infine i peperoni si distinguono con la varietà IGP di Senise coltivata tra Senise, Francavilla in Sinni, Chiaromonte e Sant’Arcangelo. Hanno conservato la rusticità delle prime piante introdotte nella zona e, dallo spessore sottile e con poca acqua, sono veramente adatti all’essiccatura. Dal sapore amarognolo e intenso, fatti essiccare sono sminuzzati e ridotti in polvere utilizzata per le pietanze o per conciare i salumi. Se gettati interi in olio bollente, diventano cruschi, croccanti, da servire col baccalà, il maiale, le uova strapazzate o le olive nere soffrite.

San Marco, impronta camuna

Salumeria Italiana, 6/22 92 LOCALI DI GUSTO
Premiata

In alto: prosciutto d’agnello con ricotta affumicata e marmellata di cipolle e arance.

A sinistra: Marco Bezzi, chef e titolare del Ristorante San Marco, con una forma di Silter DOP, storico formaggio delle Comunità Montane della Valle Camonica e del Sebino.

Non ha perso lo smalto della gioventù né la consueta affabile irriverenza malgrado i trent’anni di attività. MARCO BEZZI, nel suo Ristorante San Marco, a Ponte di Legno, ultimo lembo di terra bresciana prima del Tonale, sa ancora spiazzare i commensali con la sua battuta sagace, la sua appariscente entrata in sala al termine della serata. A questo ormai storico locale e al suo inventore Marco Bezzi va innanzitutto dato atto di avere acceso i riflettori sull’immensa proposta di giacimenti gastronomici dell’intera Valle Camonica: un territorio dove albergano stupefacenti formaggi, sorprendenti carni e salumi;

ultimamente qualche buona etichetta. Tanto ispirato ai prodotti locali che il menu annovera tra gli ormai classici piatti il Risotto al fatulì e porri. Questo formaggio incarna l’essenza stessa della Valle Camonica: dal latte di capra Bionda dell’Adamello, alla peculiare affumicatura su bacche di ginepro, alla ristretta area di produzione, la isolata Val Saviore, perpendicolare della valle maggiore.

Ma a Marco Bezzi va dato anche il merito di non avere seguito pedestremente mode e strategie culinarie in continuo movimento: non che i suoi piatti siano gli stessi degli anni Novanta, ma certo non ha mai abbracciato la cucina della

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chimica molecolare, dei sifoni, dei colpi di scena a suon di ingredienti accostati con temerarietà. Insomma ha preferito un percorso personale, aggiornando e rivedendo le preparazioni, ma sulle orme di una gradevole classicità.

Tra gli antipasti la slinzega (carne essiccata bovina) viene preparata con ricotta affumicata e porcini in olio come un affresco della montagna che gli è cara: i sapori forti alla fine si compenetrano e scorrono in un equilibrio di sensi e sapori che difficilmente si ritrova altrove. La Tartare di lardo con noci tostate al sale e pan brioche è un altro classico che rappresenta bene la cucina del Bezzi, saporita e gagliarda. Il prosciutto di cervo trova la sua ideale convivenza con una delicata salsa di noci e scaglie di Silter DOP, il formaggio camuno a pasta dura.

Un altro piatto, tra gli antipasti: il Prosciutto d’agnello con peperoncini ripieni e songino. La sottile marezzatura del coscio è spazzata via dall’irruenza dei peperoncini, così creando una portata armonica che prelude alla sapidità della

Lasagna al ragù di cervo, dalla lunga e paziente cottura.

Il cervo, in onore alla montagna, è presente anche nelle seconde portate. Due in particolare sono gli esempi delle doti culinarie di Marco Bezzi. Non facile la cottura rosa della Lombata servita con cardoncelli, lunga e appassionata quella dello Stufato presentato con mele senapate o polenta, d’origine camuna.

Solo in apparenza dalla fattura semplice è la Tagliata di cuberoll, capperi di Pantelleria e acciughe del Mediterraneo: il tavolo dovrà solo esprimere il grado di cottura, poi il piatto saporito dal taglio di carne e dagli ingredienti è a disposizione del commensale. Ingredienti non proprio camuni, ma qualche concessione si deve pur fare… Trovano spazio anche le lumache nel sontuoso menu. Le lumache del resto sono sempre state apprezzate dalle tavole camune, dove trovavano un tempo spazio molte merci derivanti dalla raccolta o dalla caccia. Eccole cucinate nel modo più tradizionale: in umido con spinaci al burro.

A sinistra: prosciutto di cervo con scaglie di grana e salsa di noci. Il cervo è senza dubbio l’animale simbolo della Valcamonica, al contempo divinità e preda, come dimostra la centralità delle sue numerose rappresentazioni nell’arte rupestre camuna, sin dalle sue fasi più antiche.

Al cartoccio viene cucinato il Guancialino di maiale con patate e porcini: l’alta valle è ricca di entrambi e le patate di Monno sono una delle specialità che gli avventori non vorranno perdere. Se ne fa anche polenta, che accompagna lo Stracotto di cinghiale in bianco per la delizia sempre di chi ama pietanze possenti.

Hanno davvero poco a che fare con gli elementi carnei i dessert, ma vale la pena citare il Tiramisù con spongada della Valle Camonica (un pane con poco zucchero, che ancora in media valle si consuma a Pasqua col salame), crema al genepy e cacao Per chi potrà ordinarlo dopo un pranzo luculliano.

Riccardo Lagorio

Ristorante San Marco

Piazzale Europa 18 25056 Ponte di Legno (BS) Telefono: 036 491036 E-mail: ristorantesanmarcosome@ gmail.com Web: ristorante-sanmarco.it

Premiata
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Salumeria Italiana,

Rocche dei Vignali, vini magici della montagna di Valcamonica

Pizzo Badile e Concarena stanno uno di fronte all’altro, rappresentando il maschile e il femminile, e, due volte all’anno, durante gli equinozi, si incontrano grazie a un gioco di luci: è lo “sposalizio della montagna”. Rocche dei Vignali sorge proprio alla base dei due monti sacri della Valle Camonica (in foto), a Losine (BS), a pochi chilometri dal Parco Nazionale delle Incisioni Rupestri di Capo di Ponte, un luogo magico di cui ritroviamo segni e simboli sulle etichette di questa cantina 100% camuna e punto di riferimento della viticoltura locale. “La tradizione vitivinicola camuna ha origine lontane, probabilmente medievali ed è proseguita sino agli inizi del Novecento. LaValle Camonica si collocava nell’arco alpino tra le prime regioni a vocazione vitivinicola per estensione dei vigneti e produzione complessiva di vino: una propensione sostenuta dalla buona esposizione solare del territorio e dal secolare lavoro di realizzazione dei terrazzamenti. (…) Poi l’agricoltura di montagna ha ceduto il passo ad attività considerate più redditizie e remunerative; i piccoli produttori hanno deciso di trasferirsi in pianura o di dedicarsi ad altri lavori dal reddito più costante e sicuro” si legge sul sito terrecamune.com.

«Dopo la seconda guerra mondiale i produttori sono entrati in fabbrica ed è rimasta una viticoltura di sussistenza, giusto per produrre il vino da bere in famiglia: mancava quella lungimiranza fondamentale di cura e mantenimento del territorio.Abbiamo dovuto ricostruire tutto da capo» mi di ce GIANLUIGI BONTEMPI, presidente della società agricola cooperativa Rocche dei Vignali. Rocche dei Vignali nasce nel 1999 e viene trasformata in cooperativa nel 2003; oggi conta 18 soci che coltivano una superfi cie di 12 ettari nel territorio dell’IGT Valcamonica. Qui il vino prende forma in un’ambiente controllato ottimale, che ne rispetta a pieno le caratteristiche organolettiche. La sintesi di tradizione e innovazione, unita all’esperienza maturata negli anni, consente di ottenere vini di grande qualità. Vini longevi, con elementi caratteristici di freschezza e salinità. 30.000 bottiglie in totale. Tra i vini prodotti segnaliamo Coppelle, IGT Valcamonica Bianco ottenuto da uve Incrocio Manzoni, Riesling renano e Chardonnay coltivate in piccoli appezza-menti lungo i versanti montuosi della valle, ha un profumo intenso con note tropicali e di fi ori bianchi che lasciano man mano spazio al sentore di miele e nocciola; Impronte, rosso dalla spiccata personalità dovuta al vitigno Rebo ma con una chiara impronta data dall’ambiente camuno. Di colore rosso rubino profondo, profumo intenso di piccoli frutti rossi e spezie con una nota di vaniglia, sapore pieno e vellutato di notevole struttura. E poi Camunnorum, il “vino dei camuni” (in foto), IGT Valcamonica Rosso, da uve Merlot, Marzemino e Cabernet in parte appassite e poi vinificate con il sistema tradizionale. Affi nato per circa 15 mesi in piccole botti di rovere e per almeno sei mesi in bottiglia si presenta di colore rosso rubino intenso. Il profumo è fruttato, con sensazioni di ciliegia e di frutti di bosco, sfumature di spezie e di vaniglia conferiti dall’affinamento in botti di rovere. Per finire, Il Sant, IGT Valcamonica passito da uve 100% Incrocio Manzoni, e Dèss, Spumante VSQ Metodo Classico Brut Nature dal perlage fi ne e persistente (la prima annata è del 2015). All’interno della cantina, nel punto vendita “Sapori di Valle Camonica”, il meglio dell’enogastronomia camuna: formaggi, salumi, farine, come quella di mais nero spinoso di Esine, e derivati, miele, tisane e altri prodotti provenienti dalle aziende agricole del territorio.

>>Link: www.rocchedeivignali.it

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I GRANDI SALUMI DEL PIEMONTE AL SALONE DEL GUSTO

In migliaia hanno fatto visita allo stand in cui erano in degustazione insieme ad altre eccellenze piemontesi il Prosciutto Crudo di Cuneo DOP e il Salame Piemonte IGP

Il Consorzio di tutela e promozione del Crudo di Cuneo DOP e il Consorzio di Tutela del Salame Piemonte IGP hanno preso parte congiuntamente alla 14a edizione di Terra Madre Salone del Gusto 2022, organizzata da Città di Torino, Slow Food e Regione Piemonte. Nei cinque giorni di apertura al pubblico sono state migliaia le persone che si sono avvicinate allo stand della società consortile Wonderful Alba Bra Langhe e Roero, allestito nell’area per promuovere le produzioni agroalimentari della Regione Piemonte e nel quale hanno trovato posto specialità tipiche quali il Crudo di Cuneo DOP, il Salame Piemonte IGP, il formaggio Bra DOP, i vini di Alba, Bra, Langhe e Roero, ma anche agnolotti del plin, tartufi e salsiccia di Bra. La scelta dei due Consorzi è stata quella di promuoversi congiuntamente, come già avvenuto ad esempio in occasione dell’edizione 2022 del Cibus di Parma, con l’obiettivo di far conoscere e apprezzare il grande e diversificato patrimonio della salumeria piemontese, raccontando e presentando i prodotti proposti poi in degustazione. «La nostra partecipazione a Terra Madre Salone del Gusto — spiega CHIARA ASTESANA, presidente del Consorzio di tutela e promozione del Crudo di Cuneo — ci ha visto unire le forze per valorizzare le nostre produzioni. Per questa edizione abbiamo presenziato insieme presso lo stand di Wonderful Alba Bra Langhe e Roero allo scopo di fare sinergia coi

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Lo stand della società Wonderful Alba Bra Langhe e Roero al Salone del Gusto con il Bra DOP e il Prosciutto Crudo di Cuneo DOP in primo piano.

grandi vini e i prodotti gastronomici di questa straordinaria area della provincia di Cuneo. Si può dire che il Crudo di Cuneo sia in piena sintonia col tema della manifestazione (“Rigenerazione”) e i valori del salone, quali la transizione energetica o, meglio, il risparmio energetico. Infatti, una delle principali peculiarità del Crudo di Cuneo è la filiera corta, cioè il processo produttivo avviene nel raggio di 20-30 km. Gli allevamenti e il macello distano tra loro pochi chilometri e le cosce, una volta selezionate ed entrate in salagione, vengono spostate da una cella all’altra con distanze di pochi metri. Il suo secondo segreto è la lenta stagionatura, che dura non meno di 24 mesi».

«Il Salame Piemonte IGP non poteva mancare a Terra Madre Salone del Gusto» aggiunge DANIELE VEGLIO, presidente del Consorzio di tutela del Salame Piemonte IGP. «La partecipazione in gruppo diventa quasi un obbligo, di questi tempi, allo scopo di fare sinergia tra Consorzi e far conoscere al consumatore le eccellenze del territorio nel suo insieme. La manifestazione è stata un grande successo, con oltre 300.000 visitatori, cosicché un grandissimo numero di amanti del cibo ha potuto degustare il nostro salame».

Il Consorzio di tutela e promozione del Crudo di Cuneo DOP nasce nel 1998 dall’iniziativa di un gruppo di imprenditori della filiera suinicola cuneese e ottiene nel 2009 la registrazione da parte dell’Unione Europea della denominazione Crudo di Cuneo DOP. Il Crudo di Cuneo DOP è un prodotto di salumeria, crudo e stagionato, ottenuto dalla lavorazione di cosce fresche di suini. L’area di produzione del Crudo di Cuneo si estende alle province di Cuneo e Asti e a 54 Comuni della provincia di Torino. Il Prosciutto DOP è prodotto in una delle più corte filiere d’Italia.

>> Link: www.prosciuttocrudodicuneo.it

Il Consorzio Salame Piemonte IGP nasce nel 2006 con l’obiettivo di promuovere e tutelare il Salame Piemonte IGP, registrata dal 2015, che ha origine da un’antica tradizione e dal saper fare che si manifesta nel connubio tra arte salumiera, carni e caratteristiche pedoclimatiche presenti nel territorio piemontese: la zona di produzione e stagionatura comprende infatti l’intero territorio della regione Piemonte. La peculiarità risiede nell’utilizzo di vino rosso a denominazione di origine controllata ottenuto da uve provenienti dai tre vitigni più famosi del Piemonte: Barbera, Nebbiolo e Dolcetto, a testimonianza del profondo legame del prodotto con il territorio.

>> Link: www.salamepiemonte.it

Premiata
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Salumeria Italiana,
Il presidente e il vicepresidente della Regione Piemonte, Alberto Cirio e Fabio Carosso, in visita allo stand della società Won derful Alba Bra Langhe e Roero al Salone del Gusto.
With the patronage of COMITATO TECNICO SCIENTIFICO 19 a EDIZIONE THE BRIDGE FOR YOUR GLOBAL BUSINESS BOLOGNA, 1819 GENNAIO 2023 1 blickdesign.it www.marca.bolognafiere.it

Piacere Modena

Gusti.A.Mo 2022

Èla provincia italiana più ricca di prodotti a denominazione d’origine DOP e IGP, ben 27, dal Lambrusco al Prosciutto di Modena DOP, dall’Aceto Balsamico — sia Tradizionale DOP che IGP — fino al Parmigiano Reggiano, che sono poi alcuni dei più conosciuti prodotti della nostra buona tavola. Partendo da queste golose premesse si è svolta a ottobre l’edizione 2022 di Piacere Modena – Gusti.A.Mo, una kermesse enogastronomica che ha portato in piazza Roma spettacoli e appuntamenti

con esperti del settore, all’ombra del Palazzo Ducale, ma anche un gruppo di giornalisti in visita sul territorio, tra interessanti aziende delle quattro eccellenze modenesi: vino, salumi, aceti e formaggi. Eccellenze che hanno anche significativi risvolti enoturistici

Proviamo a metterci nei panni di un visitatore foodie che arriva a Modena. Dopo aver visto un lungo elenco d’attrazioni — ad esempio: il Duomo, i portici della via Emilia, piazza Grande, il museo della Figurina, quello di Casa Enzo Ferrari, magari anche Casa Pavarotti

appena fuori città, ecc… — cosa dovrebbe fare il nostro visitatore per avere una prima infarinata sui sapori modenesi?

Senza dubbio un giro preliminare al Mercato Albinelli, cominciando la giornata nel colorato mercato liberty cittadino dove tanti fanno la spesa tra banchi d’ortaggi, vetrine di tortellini artigianali, salumeria, pesce e varie ghiottonerie; a pranzo si può fare anche uno spuntino tra i banchi del mercato, magari pollo allo spiedo e un calice di Lambrusco, come abbiamo sperimentato nel locale Artigiani del Gusto

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La storica acetaia della famiglia Pedroni a Nonantola. Si tratta di un’acetaia pluridecorata nei concorsi annuali indetti dalla Consorteria spilambertese per il riconoscimento del miglior “balsamico” prodotto nell’area degli antichi domini estensi.

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Premiata Salumeria Italiana,

(www.instagram.com/artigianidelgustomodena), tra i primi a scommettere sull’Albinelli. E poi assaggiare tutte le eccellenze modenesi al centro della rassegna enogastronomica, tra le quali scegliamo di raccontarvene due: il Prosciutto di Modena DOP e l’Aceto Balsamico Tradizionale di Modena DOP

Il prosciutto, nonostante le piccole dimensioni del Consorzio di tutela, rispetto ad una denominazione come il Parma, ha comunque un posto di tutto rispetto per la sua qualità. Può essere fatto in un’area che corrisponde alla fascia collinare e alle valli a ridosso del bacino oro-idrografico del fiume Panaro, dalla pedemontana e non oltre i 900 metri slm, compresi piccoli territori limitrofi delle province di Bologna e Reggio Emilia. La lavorazione del Modena DOP, dalla salagione alla stagionatura, avviene entro tali confini secondo le regole del Disciplinare, che prevede ad esempio una stagionatura complessiva di almeno 14 mesi; diversi produttori però si spingono fino a 16-18 mesi per una maggiore qualità.

Ne abbiamo fatto un assaggio al Prosciuttificio Fratelli Guerzoni (foto a pag. 99, www.salumificioguerzoni.it), a Gorzano, produttori artigianali anche di Nostrano Terra del Mito e di una bella gamma di salumi selezionati, ottenuti da carni suine pregiate.

Un’altra eccellenza è il cosiddetto Oro nero, un condimento denso, scuro, agrodolce, cioè l’Aceto Balsamico Tradizionale di Modena DOP, che siamo andati ad assaggiare all’Acetaia Pedroni, a Nonantola, proprietaria anche di una storica osteria aperta dal 1862 (www.acetaiapedroni.it). È un prodotto di eccellenza e nicchia che si fa artigianalmente in acetaia, nei sottotetti, con un lungo periodo di prelievi, travasi e rincalzi attraverso una batteria di botti.

Le origini non sono certe. Si ipotizza una nascita casuale avvenuta per processi microbiologici in contenitori di mosto d’uva cotto, con un successivo intervento umano per fissare una tecnica produttiva in uso da secoli. Le prime documentazioni risalgono solo al periodo della Corte Ducale Estense, che nel 1598 si trasferì da Ferrara a Modena.

Il Balsamico Tradizionale è frutto dunque di un lungo metodo artigianale, che lo distingue per caratteristiche organolettiche — e prezzo — dall’Aceto Balsamico di Modena IGP, prodotto industrialmente o con metodo non tradizionale.

Ecco il procedimento del Tradizionale: da uve Trebbiane e Lambrusche si ottiene un mosto separato dalle vinacce, che viene versato in recipienti di cottura

alimentati a fuoco diretto; questo permette una lenta concentrazione del liquido per evaporazione a vaso aperto.

A fine processo il mosto cotto, con un alto contenuto zuccherino, viene raffreddato, decantato e versato nella prima botte — la più grande — di una batteria decrescente. La batteria comprende botticelle di volume e legno diverso (rovere, castagno, gelso, ciliegio, ginepro, ecc…). Questo sistema è collocato nei sottotetti in ambiente fresco e ventilato.

L’invecchiamento parte da minimo 3 botti, ma mediamente se ne usano 7. Il passaggio del liquido avviene attraverso prelievi, travasi e rincalzi. Ogni anno, in inverno, è prelevata una quantità media del 6% dalla botte più piccola (quindi di aceto più vecchio), pronta per essere imbottigliata. Lo stesso barile è riempito con il travaso della botte precedente e quest’ultima con una porzione di liquido della botte ancora più grande e di aceto ancor più “giovane”. Il processo dura minimo 12 anni; 25 per la tipologia Extravecchio.

Il Balsamico è confezionato in bottigliette di 100 cc. a forma d’ampolla, disegnate da GIORGETTO GIUGIARO

Nota

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Massimiliano Rella Photo © Massimiliano Rella. L’Aceto Balsamico Tradizionale di Modena dell’Acetaia Pedroni di Nonantola, confezionato nelle bottigliette disegnate da Giorgetto Giugiaro.

OGLIASTRA, DALLA

TERRA DEI CENTENARI, I FORMAGGI CHE NON TI ASPETTI

In un paesino sul mare si producono specialità casearie uniche e sino a qualche decennio fa reperibili solo dal pastore

Sardegna uguale pecorino, è così nell’immaginario collettivo. Ma se il binomio è in certo qual modo corretto, è allo stesso tempo decisamente riduttivo. Ci sono infatti produzioni minori (solo in termini quantitativi, sia chiaro!) che contraddistinguono l’Isola nel panorama culinario nazionale ed internazionale.

I formaggi caprini, seppur meno diffusi, rappresentano un’eccellenza, soprattutto in zone vocate come il Sulcis, il Sarrabus o l’Ogliastra.

È anche in quest’ultima che trova tradizione una specialità pregiata come il Casu ageru (o axedu), un prodotto caseario poco noto al grande pubblico, che vanta indubbie proprietà organolettiche

e nutritive e a cui gli studiosi attribuiscono effetti benefici per l’organismo. Si tratta di un formaggio ottenuto dalla coagulazione acido presamica di latte crudo o pastorizzato, intero ad acidità naturale con aggiunta di caglio e siero, innestato dalla lavorazione precedente. All’apparenza si presenta come uno yogurt dal colore bianco candido,

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Salumeria Italiana,
FORMAGGIO
di Sebastiano Corona Casu ageru, un prodotto caseario ogliastrino poco noto al grande pubblico ma che vanta indubbie proprietà organolettiche e nutritive e a cui gli studiosi attribuiscono svariati effetti benefici per l’organismo.

ma dalla consistenza più compatta, al punto che viene servito a fette e non al cucchiaio.

Dagli studi effettuati da diverse Università che operano nel mondo della microbiologia lattiero casearia, gli effetti benefici del Casu ageru si possono ricondurre alla regolazione del Ph gastrico, al miglioramento dei processi digestivi, ad un’azione anticarcinogenica e terapeutica in caso di stipsi e all’attivazione del sistema immunitario, in generale.

Basterebbe questo ad incoraggiarne il consumo, ma il Casu ageru è soprattutto gradevole al palato e versatile nel consumo. Ottimo per colazione, è spesso servito anche come antipasto o dessert e, pur essendo eccellente al naturale, può essere abbinato, a seconda dei gusti, a confetture, miele o creme e utilizzato come ingrediente in piatti più complessi.

La produzione del Casu ageru è in generale ancora modesta e, sino a qualche anno fa, questo pregiato prodotto era pressoché introvabile lontano dai circuiti della vendita diretta. Da qualche tempo invece è reperibile anche nelle principali cittadine isolane e nelle maggiori insegne della Grande Distribuzione Organizzata. L’intuizione di produrlo in quantità importanti e di proporlo commercialmente ad un mercato più vasto di quello locale, è certamente da riconoscere ai titolari di un caseificio di Bari Sardo, provincia di Nuoro, dove si è riusciti ad aumentare la produzione senza rinunciare alla qualità.

Pur realizzando diverse specialità isolane, l’azienda agricola Chiai (www.caseificiochiai.com) porta il Casu ageru come prodotto di punta della propria offerta, proponendolo nelle versioni pecora, capra e misto e negli anni ha ottenuto numerosi riconoscimenti da enti pubblici e privati per l’eccellenza che rappresenta.

Chi cerca un produttore a tutto tondo, troverà in Chiai un importante punto di riferimento. Non si tratta infatti di meri trasformatori, ma di una famiglia che vanta un’azienda a ciclo completo, dal campo alla tavola. Una struttura che tra allevamento e produzione conta anche una quindicina di collaboratori impegnati in un territorio di 160 ettari nell’altopiano di Teccu. Qui pascolano allo stato brado e semibrado più di 900

La produzione del Casu ageru, nelle versioni pecora, capra e misto, rappresenta l’eccellenza dell’azienda agricola Chiai di Bari Sardo, realtà a conduzione famigliare attiva dal 1993 su un terreno di 160 ettari coltivato a granturco, granella e foraggi, oltre che essere adibito ai pascoli. Allevano pecore e capre, che producono un latte ricco di gusto, aromatico, ideale per la lavorazione dei formaggi del caseificio.

pecore e oltre 400 capre di diverse razze (Murciana, Maltese e Sarda) che garantiscono un latte ricco e aromatizzato che esalta la macchia mediterranea in cui gli animali vivono e si cibano. Le restanti produzioni utilizzate per integrare il pascolo sono ugualmente di provenienza aziendale come granturco, granella e foraggi. Uno sforzo notevole per gestire quantità, senza che la qualità di un tempo ne venga in qualche modo intaccata.

La produzione di Casu ageru del Caseificio Chiai ricopre oggi infatti il 70% circa di quella regionale, a seguito di un investimento importante che ha portato all’introduzione di metodi, processi e macchinari in un’azienda che, pur essendo costituita nel 1993, è in realtà ben più datata ed espressione di una cultura pastorale che i Chiai hanno trasmesso da padre in figlio per generazioni. In quell’impresa che oggi è intitolata a LUCIANO, lavorano infatti anche la moglie ROSA CASU, i figli DAVIDE, EMANUELE e GABRIELE CHIAI e le rispettive compagne.

Ma un tempo quelle terre e quei pascoli erano dominio del padre SERVILIO, anch’egli pastore. Del nonno, quei tre ragazzi hanno ereditato l’amore per il lavoro e, una volta diplomati in agraria, hanno voluto applicare le più moderne tecniche di produzione per realizzare in

maniera moderna e salubre un prodotto antico, gradito ad un mercato esigente e dinamico, sempre in cerca di prodotti tradizionali presentati in maniera fruibile e in chiave nuova.

E chi crede che il Casu ageru sia l’unica produzione locale, si stupirà nell’osservare un’offerta folta e variegata. Un catalogo aziendale che comprende anche il Casu ammurgiau, un formaggio in salamoia molto utilizzato per la preparazione di minestre, anche questo ottimo ingrediente per il ripieno dei noti Culurgionis ogliastrini e della Coccoi prena. E i cultori della materia saranno lieti di sapere che fa parte dell’elenco anche il caglio di capretto, in sardo Su callu de Crabittu, ora finalmente sdoganato dopo anni in cui la produzione e la vendita erano vietate dalla legge.

E se le specialità più richieste sono le creme di formaggio spalmabili, i pecorini e i caprini freschi, stagionati e semistagionati e il formaggio semicotto, vale la pena di provare la ricotta, lo yogurt di pecora e capra, questi ultimi realizzati anche con aromi diversi di frutta. Alcune produzioni sono negli scaffali dei supermercati, ma chi è stato da quelle parti assicura che queste ed altre specialità ogliastrine meritino un viaggio.

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CORTESE: MALGARI PER VOCAZIONE E CASARI PER CASO

Malgari per vocazione, casari… per caso. L’evoluzione dell’azienda agricola della FAMIGLIA CORTESE a Lusiana Conco (VI), da quattro generazioni e fino al 2009 impegnata esclusivamente con

l’allevamento di vacche, la mungitura ed il conferimento del latte, sembrava scritto: arrivare prima o poi a gestire una malga dove portare i bovini al pascolo nelle stagioni più calde. Che poi questa malga potesse diventare negli anni un

laboratorio caseario, un punto vendita e un agriturismo moderno ed accurato non era affatto previsto né scontato. Esattamente come il coinvolgimento di MILADY, DAVIDE e MICHELE, i tre figli di MAURIZIO e MANUELA, che pian piano

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hanno abbandonato il loro lavoro per occuparsi a tempo pieno e con ruoli diversi dell’azienda di famiglia. Malga Verde, così si chiama, si trova in Val Lastaro sull’Altopiano di Asiago a 1095 m di altitudine. Vi si trova un punto vendita dove si possono acquistare i loro prodotti come burro, ricotta, tosella, caciotte, yogurt, panna cotta e anche l’Asiago DOP – Prodotto della Montagna disponibile nelle versioni Fresco, Mezzano, Vecchio e Stravecchio. In particolare, l’Asiago Stravecchio DOP Prodotto della montagna è un presidio Slow Food, sussistendo pratiche di allevamento che esigono il pascolo ed escludono insilati, mangimi industriali e prodotti OGM.

Non solo! In malga allevano pure maiali che poi macellano e trasformano in salumi e insaccati. «I nostri maiali — puntualizza Maurizio Cortese — sono alimentati in modo ecosostenibile, riutilizzando il siero di latte derivato dalle trasformazioni casearie in aggiunta a mangimi selezionati rigorosamente senza OGM. Ne abbiamo circa una

A sinistra: la famiglia Cortese. In alto: la produzione dei formaggi avviene in modo tradizionale, senza l’utilizzo di conservanti e antiossidanti, proprio come si faceva un tempo, in un’ottica di economica circolare, riducendo al minimo i prodotti di scarto. L’Asiago DOP di Malga Verde è inoltre marchiato “Prodotto della Montagna”, in quanto tutta la filiera produttiva avviene nel rispetto di un rigoroso disciplinare di produzione che esalta un’antica tradizione a tutela dell’ambiente, delle mucche al pascolo e del consumatore. L’Asiago Stravecchio DOP “Prodotto della montagna” è infine anche un presidio Slow Food, prevedendo pratiche di allevamento che esigono il pascolo ed escludono insilati, mangimi industriali e prodotti OGM.

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ventina e verso fine ottobre iniziamo la macellazione con l’aiuto di norcini professionisti. Carne, sale, pepe e qualche spezia naturale. Questi gli ingredienti con cui otteniamo salami, sopresse, speck, pancette, cotechini, salsicce, lardi, ossocolli e brasolare».

Al momento è l’unica malga in Altopiano ad aver ottenuto il riconosci-

mento ex bollo CE per il laboratorio di trasformazione casearia che ne attesta il raggiungimento di standard strutturali ed igienico sanitari specifici e riconosciuti dall’Unione Europea.

Malga Verde è, come tutte, una malga comunale in concessione ed è aperta in un periodo compreso tra maggio e ottobre. Nel periodo invernale

e di inizio primavera, inadatto a causa delle temperature a tenere gli animali al pascolo, la malga resta chiusa e a novembre l’attività di famiglia si concentra sugli obblighi di chiusura e sistemazione oltre che di affinamento delle forme di Asiago DOP. A seguire, i lavori di norcineria, per poi dedicare il periodo delle festività natalizie alla vendita dei prodotti e al confezionamento dei pacchi natalizi che spediscono anche tramite corriere.

Dopo la transumanza, di rientro nelle storiche stalle di famiglia a Lusiana Conco e fino alla successiva apertura della malga, la raccolta di latte viene completamente conferita alla Cooperativa Latterie Vicentine. «Se anche tenessimo aperto dopo ottobre per trasformare dovremmo portare il latte in malga. Un latte totalmente differente perché gli animali al pascolo vivono e si alimentano in maniera diversa ed il gusto del formaggio cambia radicalmente. È importante che il prodotto sia buono e riconoscibile per le proprietà organolettiche acquisite dal latte derivante dalle vacche al pascolo durante l’alpeggio».

Appena presa in gestione la malga i Cortese si sono affiancati ad un casaro professionista che li ha introdotti e accompagnati nel mondo della trasformazione del latte. «Successivamente — ricorda Maurizio — abbiamo aperto lo spaccio iniziando così le vendite dei nostri prodotti. Un’attività complessivamente cresciuta sempre di più al punto che con gli anni i figli si sono lasciati coinvolgere a partire da Milady, che si è appassionata della parte commerciale e ha lasciato lo studio dove lavorava per restare in azienda. Poi Michele, che è in pianta stabile in azienda da 8-9 anni dopo aver iniziato a lavorare in malga d’estate affiancandosi al casaro. Anche con Davide lo stesso percorso e da cinque anni è con noi e gestisce l’agriturismo».

La struttura della malga è così dal duemila circa e va sottolineato che il comune ha investito parecchio nella ristrutturazione, compreso il caseificio nuovo. L’attività di agriturismo è partita tre anni fa ed è aperta nello stesso periodo di apertura della malga. Mediamente in malga dispongono di una settantina di vacche in lattazione di razza Frisona (70%) e Bruna alpina (30%). Potrebbero

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I salumi e la brasolara prodotti dalla famiglia Cortese.

arrivare a cento considerando che il numero massimo di capi è calcolato dal concessionario in rapporto ai pascoli a disposizione. I venti quintali di latte al giorno che raccolgono vengono quasi tutti trasformati; in particolare il 40% va in Asiago DOP tra fresco e stagionato. «Potremmo trasformare anche latte non nostro ma non lo facciamo, anche per non ingenerare confusione nel consumatore, aspetto al quale teniamo. Tra l’altro è l’unica malga dell’altipiano dotata del bollino CE che ne certifica gli standard igienico-sanitari relativamente al laboratorio di trasformazione. E questo non solo ci dà un’immagine diversa ma

anche dal punto di vista commerciale ci permette di vendere senza limitazioni il nostro formaggio fuori regione e anche all’estero. I prodotti non a denominazione d’origine e per questo anonimi come una caciotta li marchiamo col nostro bollo e con l’inchiostro alimentare ed è un riconoscimento sanitario ma che ci identifica anche commercialmente».

Guardando al futuro i Cortese covano l’idea di aggiungere qualche altro nuovo trasformato, ad esempio il gelato, e valutano qualche ulteriore investimento strutturale, per quanto, essendo in una proprietà comunale in concessione per sei anni gli interventi, e relativi esborsi,

“Le malghe ricoprono un ruolo fondamentale per la tutela del proprio territorio. È infatti compito del gestore mantenere in buono stato i prati da pascolo e liberarli da erbe infestanti e dall’avanzamento del bosco. Anche per questo la montagna offre splendidi paesaggi con prati aperti, ricchi di centinaia di erbe e di fiori, favorendo una biodiversità altrimenti difficile da gestire”

vanno calibrati. «Certamente — continua Maurizio — il posto si presterebbe a garantire anche il pernotto come tanta clientela ci chiede. Ma se da un lato le due camere sopra l’agriturismo servono a noi e gli altri locali sono utilizzati per quanto necessita alla struttura, dall’altro tutto quello che facciamo assorbe pienamente noi cinque della famiglia e pure qualche collaboratore. Ampliare le attività sarebbe un lavoro aggiuntivo che richiederebbe più impegno e manodopera».

Problemi di predazione? Quest’anno no e neanche lo scorso anno. «Ma due anni fa — conclude Maurizio — una vacca è stata sbranata dai lupi e l’anno prima due. Qui attorno qualcuno ha perso asini e pecore, ma il danno più grande sono i cinghiali. Nel giro di una settimana dove passano distruggono un intero appezzamento adibito a pascolo e ora che cresce l’erba nuovamente ci vuole del tempo. Si possono cacciare, ma sono tanti. Noi abbiamo perso raccolti di foraggio e sono dovuto intervenire con i mezzi agricoli per fresare il terreno e livellarlo».

>> Link: www.fattoriacortese.com

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Tagliere con formaggi e salumi di produzione propria da gustare nell’agriturismo Malga Verde.

PANI tradizionali

Premiata Salumeria Italiana, 6/22 110 PANI ITALIANI
EMILIA-ROMAGNA:

Fin dall’antichità per i popoli del Mediterraneo il pane è base del sostentamento vitale. Gli antichi Greci, iniziando da Omero, considerano il pane sinonimo di umanità, solo i popoli civili ne hanno conoscenza e gli altri sono semplici bruti. Nella cultura italiana il pane divide il cibo in due categorie: tutto quello che non è pane è companatico, cum panaticus, qualcosa che accompagni il pane. A tavola poi si diviene compagni quando si mangia lo stesso pane, cum panis, per non parlare dei significati religiosi, dagli azzimi della cultura ebraica al pane eucaristico cristiano. Inoltre, ogni casa aveva il suo pane, per cui difficile, ma non impossibile, è oggi parlate dei pani di una regione, in un tentativo necessario di fronte al rapido scomparire di tradizioni millenarie.

Pani dell’Emilia-Romagna

L’Emilia-Romagna, una regione ripartita nella sua cultura alimentare, è ricordata per i suoi salumi e i suoi primi piatti di pasta con forme e denominazioni che variano ad ogni giornata di cammino, si evocano anche altri cibi come torte, piade, tigelle e paste fritte, ma, salvo alcune eccezioni, si trascurano i pani, che erano alla base dell’alimentazione soprattutto popolare, un cibo che ha suscitato la poesia di un grande romagnolo, GIOVANNI PASCOLI (1855-1912): e l’odore del pane empie la casa (…) Entra, vegliardo, antico ospite: ed ecco l’azimo antico degli eroi, che cupi sedeano all’ombra della nave in secco (…), il pane della povertà, che trovi tu, reduce aratore, esca veloce, che sol s’intrise all’apparir dei bovi: il pane dell’umanità, che cuoce in mezzo a tutti, sopra l’ara, e intorno poi si partisce in forma della croce: il pane della libertà, che il forno sdegna venale. Azimo santo e povero dei mesti agricoltori, il pane del passaggio tu sei, che s’accompagna all’erbe agresti; il pane, che, verrà tempo e nel raggio del cielo, sulla terra alma, gli umani lavoreranno nel calendimaggio Che porranno quel di sugli altipiani le tende, e nel comune attendamento l’arte ognun ciberà delle sue mani. Ecco il gran fuoco, che s’accende al vento di primavera, ma in disparte, gravi, sulla palma le bianche onde del mento, parlano i vecchi di non sò che schiavi d’altri e di sé: ma sembrano

parole sepolte, dei lontani avi degli avi. Guardano poi la prole della prole seder concorde, e, con le donne loro e i loro figli, in terra sotto il sole, frangere in pace il pane del lavoro (La Piada). Come in tutte le regioni italiane anche in Emilia-Romagna il pane è un alimento indispensabile e usato in ogni condizione, secondo il detto pane e acqua per il carcerato, pane e vino per l’uomo libero e pane, vino, formaggio o salame per il ricco. Molti pani tradizionali sono scomparsi o stanno scomparendo, anche perché sono venuti a mancare i grani antichi e i lieviti madre che davano loro caratteristiche inimitabili, ma alcuni sono stati recuperati e meritano un breve cenno.

Bologna

Bologna aveva molti pani tipici per forma e denominazioni. In periodi molto antichi erano fatti in casa, ma da tempi a noi più vicini i pani erano preparati con grande maestria dai fornai (furner in dialetto locale) della città che, notte dopo notte, trasformano farina, acqua e lievito nel pane cosiddetto comune ma anche in forme diverse dette rosette, rondini, ragni e ragnini, spolette, barillini, crocette (che si differenziano da quelle ferraresi per il nodo centrale), nastrini, carciofini o garofanini chiamati in modo diverso nei vari quartieri, montasù, mustafà o schioppo, baffo, esse oltre al pane piuma o pane della domenica acquistato il sabato per consumarlo di

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In alto: la Coppia ferrarese, ciupa o ciupèta nel dialetto locale. A sinistra: il Baffo, pane della tradizione reggiana con crosta esterna croccante e interno ricco di mollica.

Batarò,

domenica. Inoltre pani all’olio, al latte o al burro o con destinazioni particolari, come la rosetta destinata a contenere alcune fette di mortadella.

Un tempo il pane era preparato utilizzando la biga, un preimpasto di farina, acqua e lievito e lasciato riposare per almeno 18 ore e ora sostituito da lieviti più rapidi. Si trattava di pani inoltre un tempo cotti in forni a legna, poi sostituiti da forni con più moderni metodi di riscaldamento.

Tipico dell’Appennino bolognese è il pane montanaro, impastato con grani locali, farro, lievito madre e acqua di sorgente.

E, in una città che vanta di essere grassa, non manca certo un pane dedicato al Santo Patrono, San Petronio (4 ottobre). Il pane di San Petronio è farcito con strutto, burro o latte, oppure con prosciutto crudo e Parmigiano. Dall’impasto morbido e saporito e con molte varianti, ha una ricetta recentemente decretata dall’Accademia Italiana della Cucina di Bologna e depositata presso la Camera di Commercio cittadina.

Ferrara

Ferrara è la patria della Coppia ferrarese IGP che, assieme al Pane casereccio di Genzano IGP, al Pane di Altamura DOP, alla Pagnotta del Dittaino DOP, al Pane di Altamura DOP e al Pane di Matera IGP, ha ottenuto il riconoscimento dell’Unione Europea dell’Indicazione Geografica. La Coppia ferrarese IGP dal 2001, chiamata ciupa o ciupeta (coppietta) in dialetto, ha una forma particolare, con quattro sottili bracci arrotolati su sé stessi e uniti al centro. L’impasto è più ricco rispetto a quello classico del pane. Oltre alla farina di grano tenero, al lievito madre, all’acqua e al sale sono presenti l’olio extravergine d’oliva e lo strutto, che la rendono saporita e fragrante.

La sua forma non ha soltanto un fine estetico, ma è pensata per dar vita ad un pane che, con la sua consistenza croccante e friabile dei bracci e quella più morbida del cuore, è in grado di accompagnare sia salumi che preparazioni brodose o salse. In modo particolare questo pane ben si sposa

con gli insaccati tradizionali ferraresi come la coppa di testa, la salama da sugo e la zia, un salame insaccato in un particolare budello medio-sottile e tondeggiante, legato con uno spago fine e stagionato in cantine fresche e umide per minimo di 60 giorni.

La Coppia ferrarese ha antiche e origini nobili: durante il Carnevale del 1536 alla corte degli Estensi agli ospiti viene offerto un singolare “pane ritorto” opera del cuoco di corte CRISTOFORO DI MESSISBUGO. Secondo la tradizione va posta in tavola diritta, in onore alla Madonna.

La Tirotta con cipolla (Tiratta ala zivola, che a Mantova diventa il Tirotto, Tirot), nata dal connubio tra il pane ferrarese e la cipolla, è una sorta di focaccia a base di impasto di pane, fatta con farina di grano tenero, acqua, olio extravergine d’oliva, strutto di puro suino, sale, malto, lievito di birra, cipolla fresca tipo Tropea.

Il Pane di zucca, pane classico di mistura (grano e zucca) del Ferrarese, zona tipica di coltivazione delle zucche,

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il panino della Val Tidone, zona collinare in provincia di Piacenza. Cotto nel forno a legna, lo si mangia farcito con i salumi tipici, come coppa e pancetta.

è antichissimo e la zucca, il pane dei poveri nella Bassa Padana, si porta dietro storie di sopravvivenza, ma oggi rinasce. È un pane noto anche nel Veneto (pan co la suca), dove è tipico delle feste e fa parte della cultura tradizionale contadina da tempo immemorabile perché le origini della coltivazione della zucca sono lontanissime ed incerte, e forse furono gli Etruschi a coltivarle, o, prima ancora, i navigatori Fenici, quando approdarono alle foci dei fiumi italici.

Modena

Il Pane di Pavullo o di Verica nasce sulle colline modenesi. Questo pane a pasta dura, dopo 8 ore di lievitazione, è modellato nella forma di pagnotta rotonda o allungata e, nelle varie dimensioni, gode di una meritata fama dovuta alla consistenza e alla sua alta digeribilità. Sue caratteristiche principali sono l’utilizzo di farina di grano tenero coltivato nelle colline modenesi, la mancanza di sale, una piccola quantità di strutto e l’impiego di un lievito naturale o pasta acida rinnovato ogni 6 ore in estate, 12 in inverno.

La Tigella è un pane tipico della montagna modenese in forma di piccoli dischi. Le tigelle, infatti, prendono il loro nome dai dischi realizzati con materiale refrattario del diametro di circa 10/12 cm e due di spessore usati un tempo per la loro cottura, un termine che probabilmente deriva dal verbo latino tegere, ovvero coprire, e da qui anche la parola tegola. Questo prodotto è stato l’alimento base delle famiglie contadine del Frignano. La ricetta originale prevede un impasto di farina, bicarbonato, lievito, sale e acqua (gassata o naturale), con recenti varianti con o senza strutto, burro o zucchero. Variabile il ripieno ma tradizionale è la cunza, un trito di lardo di maiale, rosmarino e aglio.

Parma

La Micca di Parma è un pane dal sapore inconfondibile e unico, difficile da imitare. All’interno la mollica è bianca e soffice, con alveoli molto fini, la crosta leggera e croccante. Solitamente è servita con i formaggi e affettati del posto insieme a un buon bicchiere di vino frizzante.

La Miseria o Pane di Busseto (PR) noto anche come Pane della Misericor-

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L’ACETO BALSAMICO è DI MODENA

Unico. Autentico. Di Modena.

Premiata Salumeria Italiana, di M O D ENA A C ETO B A L SAMI C O CONSORZIO TUTELA

dia è simile alla micca e se è di pezzatura superiore al mezzo chilogrammo è definita Gran Miseria. Si tratta di un pane povero di farina di grano tenero dalla forma oblunga di circa 30 cm, insaporito con strutto e sale e inciso al centro, in modo da dargli la classica forma a farfalla.

Piacenza

La Crocetta piacentina è un pane a pasta dura che deve il nome (crùsota) alla forma a stella e del quale già parlava il CARDINALE ALBERONI nel 1715. Ha una lunga preparazione e per questo motivo oggi è prodotta da pochi fornai. Si presenta come una piccola pagnotta croccante, diversa dagli altri pani per la bassa percentuale di umidità oltre che per la forma. Si conserva senza difficoltà anche per 48 ore e la tradizione popolare ne suggerisce il consumo il giorno successivo alla cottura.

Il Pane del bollo (o col bollo ) tradizionale del Piacentino, in particolare del paese di Ponte dell’Olio, è molto noto anche fuori provincia. È un pane molto morbido con lunghi tempi di conservazione. Questo pane nasce nel Millequattrocento quando il

bollo — una pallina di pasta messa al centro del pane, come fosse un sigillo —, serve per distinguere le pagnotte destinate ai pellegrini che transitano nel tratto emiliano della Via Francigena e la farina con cui è preparato è pagata dalla Chiesa.

Il Batarò o pane schiacciato tipico della Val Tidone (PC) è una piccola focaccina realizzata mescolando farine di grano e mais, a volte uva passa, usata solitamente per accompagnare salumi tipici.

La Chisola tipica della Val Tidone, e in particolare di Borgonovo, è una focaccia impastata a base di ciccioli un tempo consumata dai contadini della zona che si muovevano tra la Val Padana e l’Appennino e della quale vi erano diverse varianti (a Parma, ad esempio, è una semplice schiacciata preparata con farina, lievito e strutto, talvolta condita con cipolle o formaggio). I Chisolini invece sono piccole focacce non lievitate di varia forma, fritte nello strutto, tipiche della tradizione culinaria del borgo di Fiorenzuola d’Arda.

Reggio Emilia

Il Pane reggiano ha la fama di essere un buon pane e nel Milletrecento, in piena

età comunale, quella dei Fornari è una delle 32 associazioni di mestiere della città. La leggenda narra che in origine il taglio centrale tipico di questo pane si ottenesse con un colpo di gomito su ogni forma lievitata, pronta per essere cotta. Il pane reggiano è per sua natura un pane condito, tradizionalmente ammorbidito con lo strutto, nelle classiche forme della crocetta, del cornino o del baffo. Più compatta e massiccia è la Tera montanara di Carpineti e di Marola.

Oggi si produce il Pan de Re realizzato secondo le regole della tracciabilità in modo che il consumatore possa conoscerne le origini: a partire dal luogo di coltivazione dei cereali alla molitura delle farine, alla panificazione, e fatto con farina tipo 1, meno raffinata e più ricca di nutrienti, olio extravergine di oliva, sale iodato nella misura massima dell’1,5%, lievitazione lenta e naturale.

La Stria (strega) è una focaccia secca e croccante. Pare debba le sue origini al bisogno di sfruttare i ritagli di pasta avanzati dalla panificazione e alla bassa temperatura generata nel forno dalle braci prima di esaurirsi.

Romagna

In Romagna diffusa era la Treccia pressata che deve questo nome alla sua forma. A Cattolica il Bizulà è una tipica ciambella di pane biscottato per i marinai che restavano in mare per giorni e veniva consumato al posto del pane classico dopo essere posto a bagno nell’acqua o nel vino per ammorbidirlo. Il nome di questo pane biscottato deriva dal veneziano bozolatus, a sua volta dal tardo latino bucellatum, ossia bucella o piccolo boccone, bocconcino. La preparazione prevede di impastare la farina con il lievito precedentemente sciolto in acqua tiepida, aggiungere olio e sale, impastare e realizzare degli anelli dal diametro di un braccio d’uomo. Dopo lievitazione avviene la cottura al forno.

A Maiolo, sulle colline dell’entroterra riminese, si produce il Pane di Maiolo realizzato con farine locali, metodi tradizionali e pasta madre, cotto nel forno a legna alimentato con fasci di vite e di ginestra e protagonista di una fiera organizzata a fine giugno.

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Bizulà, ciambella di pane ottenuta da farina, lievito di birra, acqua e sale tipico di Cattolica in provincia di Rimini. Rientra nell’elenco dei prodotti agroalimentari tradizionali (PAT) dell’Emilia-Romagna.

Ti Voglio Pane: incoraggiare le persone al consumo di pane fresco attraverso l’acquisizione di consapevolezza culturale e scientifica

“Ti Voglio Pane” è il claim del progetto “Il Pane fa tendenza 2022” proposto per promuovere e valorizzare il consumo consapevole del pane fresco e dei prodotti da forno artigianali tra i cittadini dell’EmiliaRomagna, specialmente tra bambini, giovani e famiglie. Il progetto intende far conoscere cosa significhi degustare i prodotti da forno e, in particolare, il pane fresco artigianale: un alimento antico, semplice, buono e naturale dall’impasto di acqua e farina fino alla cottura, viene fatto espresso in giornata, da veri maestri artigiani che caratterizzano la produzione di questo territorio nel settore della panificazione e del dolciario.

All’interno di questo progetto il ruolo del CREA è stato centrale. Come? «Il centro di ricerca Cerealicoltura e Colture Industriali si è occupato dell’organizzazione di seminari e incontri tematici sulle strategie che le imprese possono adottare per incrementare la qualità del prodotto, favorire l’innovazione e implementare azioni e investimenti per la sostenibilità: attività necessarie a superare l’attuale scenario economico, la crisi energetica e l’aumento dei costi delle materie prime» ha dichiarato la ricercatrice Daniela Pacifico, referente del progetto per il CREA. «L’innovazione dei sistemi cerealicoli, il miglioramento genetico, la gestione sostenibile dei sistemi colturali, la tutela della biodiversità dal seme alla tavola e gli alimenti tipici e innovativi ad elevata valenza nutrizionale e sicurezza alimentare, sono state le tematiche cardine di queste azioni di valorizzazione Sono stati coinvolti tutti i territori della regione, permettendo di unire simbolicamente oltre 400 panificatori artigiani emiliano-romagnoli». I partner scientifici elaboreranno un’analisi economica e di contesto, che sarà presentata durante l’iniziativa conclusiva del progetto: verranno approfonditi i temi legati all’efficientamento energetico e le dinamiche della filiera Grano pane, mediante una valutazione della molteplicità di fattori di tipo congiunturale e strutturale che hanno portato all’aumento dei prezzi e dei costi di produzione, con particolare riferimento agli scenari di mercato del frumento tenero e duro.

Parte importante degli eventi territoriali è stata dedicata al coinvolgimento delle scuole del territorio per trasmettere ai ragazzi la cultura del pane fresco (fonte: www.crea.gov.it).

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O NERO?

Lo “stile Panforte” conquista tutti

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BIANCO

Già nel ‘200 nelle campagne senesi si producevano dei pani molto ricchi di miele e spezie, che possono essere considerati dei precursori del panforte. È però a partire dal ‘400 che il prodotto acquisisce grande notorietà, anche grazie al commercio al di fuori del territorio locale: oltre che a Roma, veniva apprezzato come prodotto raffinato anche nelle principali corti europee. Dolce tipico delle festività natalizie, oggi viene consumato tutto l’anno.

Nelle settimane che precedono il Natale, la città di Siena assume un’aria particolarmente romantica e gentile: l’Avvento è tempo di attesa, di passeggiate festose nelle vie del centro storico, di allegre soste ai chioschi dei mercatini. Antiche botteghe, caffè e pasticcerie confortano i sensi e il palato in locali accoglienti, dove è piacevole abbandonarsi ad una delle specialità natalizie in cui vive la tradizione più autentica: il Panforte. Le belle vie medievali della città profumano di spezie e le vetrine si riempiono di Panforti di tutte le misure: tranci da acquistare a peso, formelle intere, tonde e piatte, di diversa grandezza, o gigantini, dolcetti piccoli e alti. Quello migliore, a detta dei Senesi, è quello che si compra avvolto nella carta oleata.

La storia del dolce senese, tra i più esportati al mondo, affonda nel Medioevo. Le origini sono misteriose, come spesso accade con le ricette di lunga data. Una prima versione nacque già nel XIII secolo, quando, al tempo delle Crociate, fiorì il commercio con il lontano Oriente, e i Senesi scoprirono per la prima volta le spezie. Cannella, noce moscata, coriandolo, chiodi di garofano, anice stellato e pimento: sono questi i profumi che, insieme alle

mandorle, rendono così inconfondibile questo aromatico pane delle festività. Inizialmente solo le classi sociali più ricche, i monasteri e i conventi potevano disporre di questi preziosi ingredienti; spesso erano gli stessi mercanti a donarli come segno di riconoscenza, al ritorno dalle loro rotte d’affari.

La leggenda vuole che il Panforte sia nato in un convento, grazie all’intervento di una suora, Suor Ginevra, che erroneamente unì le spezie mescolate all’impasto che si usava allora per preparare il pane mielato: una sorta di focaccia ottenuta dalla farina, acqua, miele e frutta lasciata appassire lentamente sul fuoco che, con il tempo, prendeva un sapore spiccatamente acidulo. Da qui il nome “panis fortis”

Con l’avvento delle tante spezie, il pane mielato diventò sempre più “pepato”, oltre che ricercatissimo. In poco tempo la fama di questo dolce valicò i confini della città e diventò una delle ricette più apprezzate e desiderate ai banchetti delle corti di tutta Italia. Quando, poi, si scoprirono le virtù medicali della spezie, il commercio passò nelle mani degli “speziali”, i sapienti farmacisti medioevali.

La storia degli speziali di Siena nacque dopo la battaglia di Montaperti, località a pochi chilometri a sud-est della

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città, nel 1260, tra le truppe ghibelline capeggiate da Siena e quelle guelfe guidate dai fiorentini. In quella occasione i Lucchesi cambiarono schieramento e si allearono con Siena, una scelta che portò i porti fiorentini di Livorno e Pisa a non essere più luoghi di riferimento per il commercio delle spezie. Lucca, che allora era considerata centro europeo per il traffico delle spezie, si vide costretta ad utilizzare un altro porto per i suoi commerci, quello di Talamone, e gli speziali lucchesi si trasferirono in massa nella città del Palio. Nella “Contrada della Pantera” trovarono sede oltre 50 spezierie. Così, oltre a preparare infusi, decotti e unguenti, gli speziali si specializzarono anche nella preparazione del Panforte. Nel 1599 ne ottennero, addirittura, l’esclusiva per la produzione con un decreto del governatore della città, il Granduca Ferdinando de Medici.

Passarono i secoli e all’inizio dell’800 la produzione del famoso dolce passò dalle spezierie alle botteghe e alle prime fabbriche, che cominciarono ad

introdurre qualche novità per ingentilirne il sapore. Una svolta decisiva si ebbe nel 1879, quando la regina MARGHERITA DI SAVOIA (la stessa a cui venne dedicata la pizza) andò a Siena per il Palio di agosto. Per l’occasione i fornai prepararono un panforte speciale, con una miscela di spezie dal gusto più delicato e la superficie spolverata di zucchero a velo. Nacque così il “Panforte Margherita”, la versione che, da allora, ha conquistato tutto il mondo al punto che già nel 1927 i panfortai si riunirono in un consorzio con lo scopo di difendere l’originalità della ricetta. Un’iniziativa che è stata coronata dal riconoscimento IGP nel 2013, dando il merito ad un dolce che, come pochi altri, si identifica immediatamente con la città d’origine.

Il Disciplinare di produzione stabilisce che il Panforte di Siena si può trovare in commercio in duplice versione: bianca, se la copertura è a base di zucchero a velo, e nera, se la copertura è a base di spezie. La produzione per l’IGP si articola in tre fasi fondamentali:

impastatura, modellamento e cottura. Gli zuccheri vengono disciolti in acqua e portati a cottura, miscelati con la frutta candita tagliata a cubetti, fino ad ottenere un composto omogeneo. Terminata l’operazione, l’impasto viene travasato nell’impastatrice dove vengono aggiunte la frutta secca, la farina e le spezie. Si procede, quindi, alla mescola fino al completo amalgama degli ingredienti. L’impasto viene, dunque, prelevato dall’impastatrice e porzionato.

Ogni singola porzione viene pesata, adagiata su ostie di amido e circondata da una fascetta di contenimento in carta alimentare. Infine, si passa alla cottura in forno, alla temperatura di 200-230 °C per una durata di tempo variabile da 13 a 45 minuti in base alla pezzatura del prodotto. Terminata la cottura, il prodotto viene lasciato raffreddare e spolverizzato con un leggero strato di zucchero a velo nella versione bianca, oppure con la miscela di spezie nella versione nera.

Il Panforte è tra i regali irrinunciabili a Natale. Nei forni artigiani attorno a Piazza del Campo si prepara il dolce delle feste e lo si propone accompagnato con un buon Vin Santo. Il legame del tradizionale dolce senese col Natale risale ad un’antica leggenda locale, raccontata da GIOVANNI RIGHI PARENTI nel suo “I dolci di Siena e della Toscana” (1991) e incentrata sul miracolo di un tozzo di pane trasformato in panforte proprio nella notte della nascita di Gesù Bambino.

Oggi il Panforte di Siena IGP viene realizzato anche al di fuori delle tradizionali festività natalizie da diversi laboratori industriali di media dimensione e da svariati forni e pasticcerie sparsi su tutto il territorio, che insieme realizzano circa la metà del fatturato complessivo dei dolci tipici senesi. Un altro aspetto del legame del prodotto col territorio è dato dall’esistenza in città di un singolare indotto, proveniente dalla tradizione degli speziali e rappresentato dalla decorazione delle confezioni del prodotto secondo forme che si richiamano al neogotico ed al liberty floreale. Su questa attività si è sviluppata fin dalla fine dell’800 ad opera degli artisti senesi una vera e propria scuola e si è consolidato uno speciale stile definito “stile panforte”

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Golosa questa versione di panforte al cacao con mandorle e pistacchi.

BILANCIA, ESALTA , AGGIUNGI

Abbiniamo l’olio extravergine di oliva ai nostri piatti

“L’

olio extravergine di oliva di qualità, aggiunto a crudo sulla pietanza, non deve prevaricare né sparire al suo cospetto. Deve semplicemente accompagnarla, esaltandone il sapore”: partendo da questo assioma iniziamo ad abituarci a ragionare né più né meno di come facciamo già col vino. Una volta l’abbinamento vino-cibo era soltanto “il rosso con la carne, il bianco con il pesce” Oggi, in maniera sempre più attenta, studiamo e cerchiamo di fondere le proprietà organolettiche dei due attori al fine di regalare al nostro e al vostro palato sensazioni che meritano uno spazio nella memoria. Scendono in campo il fruttato, la mineralità, la nota del legno, il floreale, i tannini, i frutti rossi, il richiamo al cuoio, al tabacco, alle spezie, poi ancora i lieviti, i tostati, la pasticceria. Ebbene, proviamo a farlo anche coi diversi extravergine che il nostro Paese ci regala, da Riva del Garda a Marzamemi.

Caratteristiche organolettiche

Le caratteristiche organolettiche che dobbiamo attenzionare nell’extravergine sono l’intensità olfattiva, la natura dei profumi che spazia dalle note verdi, vegetali, erba tagliata, cardo, carciofo, foglia di pomodoro, alla virata sui fruttati, freschi e agrumati o secchi con note mandorlate. Senza tralasciare i rimandi balsamici: menta, basilico, rosmarino. Infine, la struttura in bocca, intesa come grassezza, nota polifenolica amara e piccante e persistenza al palato.

Nella scelta dell’olio extravergine d’oliva iniziamo a ragionare come già facciamo col vino, studiando i piatti del nostro menu e poi scoprendo, assaggiando, sperimentando… stupendo noi e i nostri ospiti

Le sensazioni del piatto Studiamo ora il piatto con le sue sensazioni prevalenti, che possono spaziare dall’acidità alla sapidità, dall’amarezza alla dolcezza. Se un piatto è ricco e complesso, avrà bisogno di un olio ricco e complesso. Se è delicato, di non essere coperto con un olio troppo robusto.

• Fruttato leggero, delicato, lievi sensazioni di piccante e amaro. Lo serviremo sul pesce crudo, bollito o a vapore, crostacei, sui latticini freschi, carpacci di carne.

• Fruttato medio, dalle sensazioni più rotonde e dai profumi freschi e puliti, piccante e amaro più forti ma equilibrati, lo prediligeremo su zuppe e minestre, verdure grigliate o bollite, creme di legumi, insalate, uova sode, pesce o calamari arrosto, strudel di mele.

• Fruttato intenso dal gusto potente, con amaro e piccante protagonisti, anche se non disarmonici. Lo vogliamo su piatti alla griglia, tagliate, bruschette, bolliti, brasati, stracotti, carne rossa in generale e selvaggina, sughi strutturati come lepre, capriolo, cinghiale, stufati di agnello o capretto, pinzimoni aromatici, cicorie, catalogne e radicchi.

Ragionare per regione

Contemporaneamente, e fermo restando i parametri descritti, andiamo a ragionare per regione. Piatti tipici siciliani gradiranno una Biancolilla piuttosto che una Nocellara del Belice, così come in Sardegna godrò dei profumi unici della Semidana ed in Molise dell’Aurina. I piatti pugliesi sposeranno una Coratina piuttosto che una Cellina di Nardò, la cucina laziale virerà sull’Itrana o la Caninese, l’Abruzzo sulla Toccolana, l’Intosso o la Gentile di Chieti, in Umbria, o in Toscana abbinerò ai miei piatti le cultivar Leccino, Moraiolo e la Frantoio.

Una Nostrana di Brisighella esalterà i piatti romagnoli, così come la Casaliva sarà la regina del Garda e la Taggiasca si renderà protagonista del nostro pesto ligure.

Insomma, c’è un mondo. Da scoprire. Da assaggiare. Da sperimentare.

Così come stupiamo i nostri ospiti abbinando un vino passito ad un formaggio erborinato, spiazziamoli al momento del dessert proponendo una mousse di cioccolato bianco con una foglia di menta ed un filo d’olio extravergine, magari una Tondina calabrese o un’Ascolana tenera marchigiana. Iniziamo?

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LO CHEF DELL’OLIO
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VINI EMOZIONALI, FATTI BENE, PER PIACERE

Come ben sa chi si è appassionato alla rubrica dedicata ai vini di Natale, da più di un decennio presente sul dorso di PSI, non è obiettivo di questa rassegna comporre classifiche. Specie con tutte le graduatorie che sono in fase di pubblicazione o sono ormai abbandonate su qualche polveroso scaffale. Questi sono vini emozionali provati dal novembre 2021 al novembre 2022, fatti bene, per piacere. Anzi, per farsi piacere, durante il periodo più bello dell’anno,

le festività natalizie. Chi, leggendo le pagine degli anni precedenti, ne ha seguito i suggerimenti, mi dicono abbia trascorso meravigliose settimane di fine anno. Così, se non ci credete, provate…

Mi ha incantato — era maggio — il Pjcol Ross Lambrusco Metodo Classico dell’AZIENDA AGRICOLA RINALDINI (rinaldinivini.it) di Sant’Ilario d’Enza (RE). La cantina è stata ricavata da un’antica cascina del 1884 che sorge al centro dei vigneti. Un’azienda familiare che ha avuto il coraggio di riscoprire un vitigno locale

impiantato a piede franco. Nel palato l’aroma vinoso, schietto, asciutto, esprime la grande stoffa di questa bottiglia. Un matrimonio felice con la cucina natalizia: lo zampone, il cotechino, i brodi, ma non deve sorprendere la piacevole bevuta con ostriche e piatti di pesce.

C’è un altro Metodo Classico con cui trascorrere qualche ora spensierata. Viene da Trento e lo produce UMBERTO SAINI FASANOTTI (tenutesajnifasanotti.it). Senzapensieri è un Trento DOC Riserva e si presenta con colore giallo pastello

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VINI DI NATALE

e profumi di bergamotto e salvia, con vago aroma di marna bagnata. Senzapensieri nasce da uve raccolte in località Zell, nel comune di Trento, e rimane sui lieviti per almeno 45 mesi prima di essere sboccato. Soffici e continue le bollicine. Si celebra al meglio col bollito di cappone.

Certo, l’aspetto familiare è centrale anche nelle vicende de LA MONTINA ( lamontina.com ), una delle poche aziende franciacortine che può vantare radici rurali. Proprio al fondatore della

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SONO VINI ASSAGGIATI DAL NOVEMBRE 2021 AL 2022, FATTI BENE, PER PIACERE. ANZI, PER FARSI PIACERE LE FESTIVITÀ NATALIZIE. CHI HA GIÀ SEGUITO QUESTI SUGGERIMENTI, MI DICONO ABBIA TRASCORSO MERAVIGLIOSE SETTIMANE DI FINE ANNO. SE CI CREDETE, PROVATE ANCHE VOI

dinastia BOZZA è stato dedicato Quor, a quell’errore ortografico rinvenuto su una lettera inviata alla moglie. 72 mesi sui lieviti, vendemmia 2016, presenta bollicine continue e sottili. Il primo impatto col naso ricorda legni esotici come l’incenso, in bocca sfodera dapprima sentori di frutta matura, per lo più fichi bianchi. Da provare con salumi, vitello tonnato e carni bianche di cortile.

A Forlì, in località Ravaldino in Monte, il Sangiovese di STEFANO BERTI (stefanoberti.it) viene trasformato in un garbato vino rosato frizzante al quale è stato dato il nome di Rossetto (IGP Forlì). Il sorso lungo e fruttato dà entusiasmo, fiducia, energia. Un vino solo in apparenza semplice, va d’accordo con lasagne e pasta con ragù di vitello. E pensare che Stefano Berti si definisce garagista

Una delle 3.324 bottiglie di Umbria Trebbiano spoletino IGT BIANCOFONGOLI (fongoli.com) del 2017 venne aperta il 25 luglio 2022. Bisogna ricordare che i vigneti vengono coltivati con le tecniche biodinamiche, le uve fermentano con lieviti spontanei e non viene aggiunta solforosa. Bicchiere giallo paglierino, profumo agrumato con piacevole inizio di ossidazione al naso che apre le porte a un sorso secco, appena viperino e salato. Carni bianche grigliate o arrosto, unitevi!

TERRAZZE SINGHIE (terrazzesinghie.it) è un’azienda agricola familiare nata nel 2017. Si trova a Carcare, nell’entroterra savonese. La Lumassima di Bosco, annata 2018, proviene da vigne antiche, aggrappate ad una foresta immobile e pietrificata di pali di castagno. Un sistema di allevamento pressoché estinto, ad ambustrin. Nel bicchiere il colore è dorato ed emana profumi di ginestra, pera cotta, zagara. L’intensa acidità iniziale lascia il passo a sentori di salsedine e pietra focaia. Frutti di

mare e tutti i piatti dove appare il pesto di basilico sono prenotati.

Scriveva MARIO SOLDATI nel 1975 all’interno del celebre “Vino al vino”, “…visita al dottor Vittorio Colacino, nel villaggio di Manzi, Savuto di quattro annate diverse, dal ‘71 al ‘74”. Sì, Savuto DOC si presenta color rosa intenso, luminoso con qualche sprazzo rubino. Sentori di fiori freschi, rosa e ginestra sono i profumi più evidenti mentre in bocca viene da definirlo vino fruttato, con un’elevata acidità e una lunga persistenza (colacinowines.com).

C’è scritto tutto sull’etichetta del Langhe DOC Nebbiolo di ESTER CANALE ROSSO (www.giovannirosso.com): uve raccolte da terreni compresi su Foglio 8, Particella 251 P a Serralunga d’Alba, proprietà della famiglia Canale dal 1934. Il 2016 si presentava con bouquet intenso, penetrante di fragola e pesca gialla, noce moscata e in un soffio di goudron. Sorso di stoffa eccelsa, sostenuto, con liquirizia finale. Accattivante con arrosti di faraona.

L’azienda familiare di MARKUS FLIRI ha sede a Ciardes, in Val Venosta (himmelreich-hof.info). Anche agriturismo, i vini vengono venduti per lo più sul posto. Lo Zweigelt 2016 Mitterberg IGT si compiace per il rosso granato acceso con cui si presenta, dai sentori di susina e amarena. Al palato è polposo e intenso; svetta col carpaccio di carni crude.

20 marzo: una sorpresa l’annata 2014 dell’ Ormeasco di Pornassio DOC Le Braje dell’AZIENDA AGRICOLA LUPI, assorbita nel 2020 da PEQ Agri (peqagri.it). Vino di razza dal colore rosso rubino profondo, profumato di tabacco, liquirizia, cuoio. Caldo, intenso, infinito il sorso. Impareggiabile coi formaggi stagionati.

Facile fare bella figura a Natale con queste bottiglie sulla tavola.

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Uve di Andalusia e Estremadura

Premiata Salumeria Italiana, 6/22 124 VINO
Photo © Paco Ayala

Negli ultimi anni l’evoluzione della vitivinicoltura mondiale ha prodotto una perdita dell’originalità che lega le uve alla zona di produzione. La superficie coltivata con varietà internazionali è in costante crescita e questa tendenza conduce, con l’eccezione di pochi grandi vini, verso prodotti tecnicamente ineccepibili e apprezzati dal grande pubblico, ma dal gusto standardizzato.

La conseguenza è che il mercato è zeppo di certe tipologie di vini e varietà dal carattere omogeneo e carenti di una reale tipicità. Così, presto, la tendenza dovrà essere invertita da parte di coloro che si prefiggono caratteri differenziati e peculiari per valore aggiunto a prezzi competitivi. Uno dei metodi per salvare la viticoltura da questa omologazione è di produrre vini con profili di alta qualità, peculiari, legati al territorio e

differenziando quanto più possibile i prodotti. Per emergere sui mercati, nel prossimo futuro diventerà sempre più importante puntare sulla coltivazione di varietà minoritarie e locali per la preparazione di vini di alta qualità che mostrano un profilo organolettico differenziato.

In particolare la viticoltura spagnola, millenaria al pari di quella italiana, disponeva di un notevole

Premiata Salumeria Italiana, 6/22 125
1) José Manuel Concustell con Atalayar, ottenuto dalla varietà di uva Vijiriega dalla cantina Señorío de Nevada. 2) Antonio López de la Casa di Bodega Xolayr col suo Elvira, anche questo ottenuto dalla Vijiriega. 3) Francisco Salado, sesta generazione della famiglia a capo dell’omonima Bodega Salado, con Umbretum Brut Nature, spumante metodo classico di sua creazione. 4) Ignacio Garijo, della Cantina Dimobe, scommette invece sul Moscatello d’Alessandria con il Metodo Classico Tartratos, la nuova frontiera nell’utilizzo di questo vitigno.

patrimonio genetico per molti aspetti al limite della sparizione, dopo quasi un secolo di abbandono in conseguenza della ricostruzione varietale post-filossera.

In tutte le regioni vinicole spagnole si stanno studiando casi di recupero varietale, volti a studiare, selezionare e recuperare il patrimonio genetico più adeguato per ciascun areale. Particolarmente attiva sotto questo profilo è l’Andalusia. SIMÓN DE ROXAS CLEMENTE, botanico e considerato padre dell’ampelografia spagnola grazie alla raccolta delle varietà di viti Plano de Flor (1807), citava in particolare l’uva Vijiriega, diffusa in provincia di Cadice e sui monti dell’Alpujarra, definendola dal colore bianco-verde, dolce e dagli acini rotondi.

L’enologo JOSÉ MANUEL CONCUSTELL, che lavora per la cantina Señorío de Nevada (senoriodenevada.es), a Villamena nella provincia di Granada, spiega che «da 6 anni abbiamo in sperimentazione l’uva Vijiriega e un vino, Atalayar, è ottenuto solo con questi acini».

Gli appezzamenti si trovano a 750 metri di altitudine e godono di un microclima del tutto speciale condizionato dalla Sierra Nevada e dal Mediterraneo che permette la maturazione tardiva, prima delle piogge autunnali. «Se ne producono al momento 2.500 bottiglie, ma il mercato ne richiederebbe molte di più». Il bicchiere è giallo chiaro con

arricciature verdoline, spiccano profumi d’ananas, albicocca e pesca bianca e la vena amaricante limita la percezione alcolica.

Nella tenuta, composta anche di un raffinato ristorante e di hotel a 4 stelle con vista sui vigneti e sulla Sierra Nevada, si sta recuperando anche l’uva Romé, «a bacca nera e ideale per ottenere vini rosati. In questo caso la sperimentazione è ancora in fase iniziale, ma i vini ottenuti si prospettano di grande interesse, dai profumi di frutti rossi e fiori e buona alcolicità» svela Concustell.

I pregi dell’uva, originaria dell’Axarquía (in provincia di Malaga), risiedono nell’omogenea invaiatura e nel perfetto adattamento al clima secco della provincia di Granada.

Coltiva Vijiriega anche ANTONIO LÓPEZ DE LA CASA (Bodega Xolayr), in piccole porzioni di terra aggrappate alla montagna ai 1.200 metri di Cozvíjar. Il suo Elvira esprime una forte personalità varietale, dal profilo aromatico apparentemente discreto che nasconde una sottile filigrana floreale e salina con ricordi lontani di lievito. Infinito il retrogusto citrino.

Ha puntato sul Garrido Fino la Bodega Salado, fondata nel 1810 a Umbrete, poco più di 20 km da Siviglia (bodegassalado.com). La sesta generazione, incarnata da FRANCISCO, ha ripreso su 14 ettari questa antica varietà

dagli acini verdi che virano al giallo, pelle sottile e corpo succoso. «Sebbene al momento la provincia di Siviglia non possegga una DOP, l’Aljarafe ha una storia antica nella produzione di vini, che un tempo venivano utilizzati a Jerez» spiega Francisco.

È anche sua l’idea di Umbretum Brut Nature, uno spumante Metodo Classico che in bocca esprime un ampio bouquet di spezie. Lieviti indigeni sui quali il vino riposa per almeno 14 mesi dando vita a questo che, al momento, è l’unico spumante di Garrido fino al mondo.

La Cantina Dimobe (dimobe.es) di Moclinejo (Malaga) scommette invece sul Moscatello d’Alessandria, «perché si tratta di un vitigno versatile, che utilizziamo per vini secchi, dolci e anche spumanti» chiarisce IGNACIO GARIJO, tecnico della cantina. Proprio il Metodo Classico Tartratos è la nuova frontiera nell’utilizzo di questo vitigno, coltivato nell’Axarquía, con forti pendenze e terreni ricchi d’ardesia che guardano il Mediterraneo. Il Brut Nature trascorre 52 mesi sui lieviti, le bollicine sono sottili e costanti, al naso esprime sentori di cardamomo e di pane mentre in bocca si apprezza la sua asperità, che lo rende ideale a tutto pasto.

A dimostrazione che le tecniche attuali permettono di sfruttare al meglio le antiche varietà, a tutto favore della biodiversità.

Premiata
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Salumeria Italiana,
Vigneti nella provincia di provincia di Cadice, Andalusia (photo © Kiko Jimenez).

Slow Wine 2023: “fare vino è un atto agricolo, vuol dire prendersi cura del territorio e delle comunità che lo vivono

È stata presentata al Blue Note di Milano la 13ª edizione della guida Slow Food dedicata ai vini buoni, puliti e giusti: «Raccontiamo l’Italia del vino grazie ai 200 collaboratori che ci permettono di mappare tutta la Penisola e di scoprire nuove aziende in sintonia con la filosofia Slow Food: sono infatti 110 su 1957 le novità che abbiamo inserito in questa edizione» ha detto Giancarlo Gariglio, curatore della guida Slow Wine e responsabile della Slow Wine Coalition. «Grazie a 379 video accessibili con QR-Code, diamo la possibilità ai nostri lettori di provare l’esperienza di visita dei collaboratori. Filmati che testimoniano il tema principe di quest’anno: il cambiamento climatico e la siccità, cui i viticoltori hanno risposto mettendo in campo la propria esperienza. Ma non è possibile affidare questa sfida così importante ai produttori, per questo vogliamo fare un appello alle istituzioni affinché sostengano la ricerca scientifica per trovare soluzioni e tecnologie su questi fronti. Tornando alla guida, oltre il 56% delle aziende sono bio, a testimoniare non solo una grande consapevolezza dei vignaioli ma anche che il vino bio è buono e si può fare. Una segnalazione curiosa è il numero dei Vini quotidiani, cioè quelle etichette di altissima qualità che hanno un ottimo rapporto qualità prezzo: a causa dell’aumento dei costi lungo tutta la filiera infatti questi vini diventano sempre di meno».

L’evento di Milano è stata anche l’occasione per presentare la seconda edizione della Slow Wine Fair, in programma a Bologna dal 26 al 28 febbraio 2023 >> Link: www.slowfoodeditore.it

Le migliori grappe italiane premiate alla 39a edizione dell’Alambicco d’Oro

Premiata Salumeria Italiana, 6/22 128 BEVANDE

La grappa rappresenta un chiaro esempio delle tante eccellenze italiane: essa, infatti, viene definita dallo stesso Regolamento europeo 110/28 come acquavite di vinaccia distillata esclusivamente in Italia. Ciò significa che i semi e le bucce d’uva, risultanti dal processo di vinificazione e creando così la vinaccia, devono provenire e appartenere esclusivamente a uve coltivate e vinificate in Italia.

L’

etimologia è quanto mai incerta, ma la sostanza è inequivocabile: la grappa è il più tipico distillato made in Italy. Si ottiene dalla vinaccia dell’uva che rimane dalla produzione del vino e, da sempre, Veneti, Piemontesi e Trentini se ne contendono l’origine. Di sicuro sappiamo che la distillazione era praticata già nel 1.400 nelle regioni settentrionali italiane, mentre risalgono al 1.600 i primi studi dettagliati sulle produzioni della grappa, ad opera dei Gesuiti. L’abbondanza di materia prima e il desiderio di sfruttarla al meglio hanno portato, nel tempo, a migliorarne la qualità e a caratterizzarla sempre di più rispetto alla zona d’origine.

Quest’anno l’Alambicco d’Oro, il concorso nazionale organizzato da ANAG (Associazione nazionale assaggiatori di grappa e acquaviti) giunto alla 39a edizione, ha premiato 80 distillati italiani d’eccellenza. Nello specifico, sono state assegnate 5 medaglie Best Gold, 42 Gold e 33 Silver, oltre ai 2 premi speciali previsti dal concorso: “Il

miglior punteggio complessivo”, andato alla Distilleria Sibona per essersi aggiudicata 10 medaglie (3 Gold e 7 Silver), e “Il vestito della grappa”, assegnato alla grappa 18 Lune della Distilleria Marzadro da una giuria composta da giornalisti, architetti, designer ed esperti enogastronomici. Il medagliere regionale ha visto al primo posto il Piemonte con 35 medaglie, seguito dal Trentino (16), Veneto (7), Alto Adige (6), Toscana e Sicilia (4 ciascuno), Sardegna (3), Friuli Venezia Giulia (2), Campania, Lazio e Puglia (1 ciascuno). Un grande risultato, frutto di una tradizione secolare che ha saputo modernizzarsi e diversificarsi, andando incontro alle nuove esigenze di mercato.

Ma come si produce la grappa e come possiamo classifi carla? La produzione si sviluppa l’operazione fondamentale e sfrutta le diverse temperature di bollitura dell’acqua (100 °C) e dell’alcol etilico (78,4 °C), al fine di separare il distillato alcolico dalla parte acquosa, che rimane nella vinaccia. Per fare questo, si utilizzano gli alambicchi,

Premiata Salumeria Italiana, 6/22 129

attrezzature composte da due parti: una caldaia che riscalda le vinacce per far sviluppare i vapori alcolici e un condensatore per dare il liquido distillato. Con la rettificazione, invece, si vanno ad eliminare le impurità che darebbero origine a odori e sapori sgradevoli per il prodotto finito. Queste impurità sono presenti nelle prime frazioni distillate, la cosiddetta testa, e nelle ultime (coda del distillato); nella pratica, si conserva soltanto il cuore della grappa, ossia la parte in cui prevale la presenza di alcol etilico, unita a minime quantità di altre sostanze.

Successivamente, la grappa ottenuta viene fatta maturare in modo che si equilibri nel gusto e nei profumi, oppure può essere messa in botti per l’invecchiamento, che dura di solito 12 mesi, ma può essere anche superiore (in questo caso è classificata come stravecchia o riserva).

Eccellenza del distillato italiano

L’edizione 2022 del concorso nazionale Alambicco d’Oro ANAG ha visto ancora una volta al primo posto le grappe passate in legno con 35 riconoscimenti (4 Best Gold, 20 Gold e 11 Silver), seguite dalle grappe giovani con 22 medaglie (12 Gold e 10 Silver). Nutrita anche la categoria delle grappe aromatiche passate in legno, che si aggiudicano 11 riconoscimenti (4 Gold e 7 Silver). Seguono le grappe giovani aromatiche con 5 medaglie (2 Gold e 3 Silver), le grappe aromatizzate con 3 medaglie (2 Gold e 1 Silver), le acquaviti d’uva giovane aromatica con 2 riconoscimenti (1 Gold e 1 Silver) e i Brandy, ancora con 2 medaglie (1 Best Gold e 1 Gold). «Il 39o concorso nazionale Alambicco d’Oro — commenta la presidente nazionale ANAG Paola Soldi — conferma la presenza numerosa fra i vincitori delle grappe invecchiate, anche se in forma ridotta rispetto alle passate edizioni del nostro concorso. In questi prodotti i profumi dell’invecchiamento in legno sono prevalenti e questa è diventata una richiesta decisa dei consumatori a cui le distillerie rispondono con grappe di elevata qualità, come testimoniano i riconoscimenti “Best Gold”. Il nostro concorso, inoltre, registra un costante aumento dei prodotti in arrivo dalle distillerie del Sud Italia, che portano alla ribalta profumi nuovi soprattutto nelle grappe giovani più legate al vitigno».

Il concorso nazionale Alambicco d’Oro ANAG è promosso da ANAG, Associazione Nazionale Assaggiatori Grappa e Acquaviti aps, e aperto a grappe, acquaviti d’uva e brandy prodotti in tutta Italia da distillerie e aziende vitivinicole che producono “grappe di fattoria”, ossia ottenute con le loro vinacce da distillerie esterne. L’appuntamento conta sul patrocinio della Camera di Commercio Alessandria e Asti e di AssoDistil, Associazione Nazionale Industriale Distillatori di Alcoli e Acquaviti. I risultati completi sono pubblicati sul sito anag.it (photo © ANAG).

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Premiata Salumeria Italiana,
Biscotti “fondenti” al burro, cioccolato e grappa.

Prima di essere imbottigliata, la grappa viene ridotta nel grado alcolico con l’aggiunta di acqua distillata. In base alle caratteristiche organolettiche le grappe vengono distinte in quattro tipologie fondamentali:

1. giovani, affinate per breve periodo in contenitori non in legno, in modo da presentare unicamente gli aromi caratteristici del vitigno e della fermentazione;

2. invecchiate , sottoposte ad un periodo più o meno lungo di invecchiamento (almeno 12 mesi) in fusti di legno, generalmente rovere o frassino, così da acquisire nuove caratteristiche rispetto a quelle di partenza;

3. aromatiche, ottenute dalla vinacce di uve dall’aroma intenso e particolare, che condiziona quello della grappa (ad esempio, di Moscato, di Traminer, di Sauvignon, di Malvasia…);

4. aromatizzate, il cui aroma si distingue per le note tipiche ottenute dalla macerazione di piante officinali o frutta. Tra le più note si annoverano quelle alla ruta, alla genziana o al mirtillo.

Da Cenerentola dei distillati a regina indiscussa del dopo pasto, riservata agli intenditori più raffinati, la grappa costituisce un piccolo universo, ineguagliabile per la varietà dei sapori, degli aromi e delle sensazioni che regala. Qualcuno, timidamente, azzarda a renderla protagonista in cucina, ma è da sola che sa dare il meglio di sé

Va bevuta liscia e non troppo fredda; una temperatura tra i 10° e i 13°C è ideale per apprezzare le grappe giovani, mentre quelle invecchiate si gustano meglio a temperature superiori, intorno ai 17-18 °C. Un’eccezione è costituita da alcune aromatizzate che si rivelano praticamente gradevoli se bevute quasi ghiacciate.

È evidente che non si debba pensare alla grappa come ad un prodotto uniforme, pur nella sua tipicità. «L’Alambicco d’Oro ANAG vuole portare a conoscenza di tutti la grande varietà della distillazione italiana — afferma P AOLA S OLDI , presidente nazionale ANAG — e l’ottima qualità raggiunta è una grande soddisfazione per la nostra associazione e i nostri qualificati assaggiatori».

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Massimo Spigaroli, una mia idea di cucina gastrofluviale

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Piccola storia dei Tajarin Viaggio affettuoso di un piatto povero diventato ricco

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Una storia iniziata più di cent’anni fa, il recupero di un vecchio castello e tante ricette sono solo alcuni dei temi affrontati nel volume che racconta vita e cucina di MASSIMO SPIGAROLI, noto in tutto il mondo per i suoi culatelli. Lo scritto è diviso in due parti. La prima racconta la storia della famiglia Spigaroli, la nascita dell’Antica Corte Pallavicina, dei prodotti della Bassa, di come Massimo, assieme ad altri, abbia creato il Consorzio di tutela del Culatello di Zibello DOP, della stella Michelin, degli allievi formatisi presso la sua cucina… La seconda parte riporta invece le ricette che hanno reso grande Massimo Spigaroli, quelle che si rifanno agli insegnamenti ricevuti da ragazzo, quando, tornato a casa da scuola, aiutava zia Emilia in cucina, fino a quelle che raccontano l’amore di un cuoco/ produttore per il proprio territorio unito all’esperienza proveniente dai viaggi in giro per l’Europa, presso le cucine dei migliori chef. Massimo Spigaroli spiega esaurientemente questo percorso, inserendo in ogni pagina qualche curiosità riferita a questo o quel piatto.

Il celebre piatto piemontese, traducibile con l’italiano taglierini ed erroneamente assimilato ai tagliolini, è il pretesto che spinge l’autore a narrare la storia gastronomica di un territorio un tempo povero e maledetto, la Langa, raccontato da BEPPE FENOGLIO nella Malora. Una ricetta di cui le donne erano custodi e che costituiva quasi un requisito per potersi sposare — saper tirare la sfoglia sottilissima per farli simili a capelli d’angelo —, percorre la storia e i suoi eventi narrando di personaggi noti e meno noti (CESARE PAVESE, FENOGLIO, GIACOMO MORRA), tracciando un affresco sociale prima che culinario. I tajarin raccontano il passaggio dalla cultura contadina a quella industriale, la malora dei campi e i successi dell’imprenditoria langarola: da piatto legato al pranzo in famiglia — sono sempre abbondanti non come i ravioli che vengono spesso contati — diventano protagonisti del contesto borghese soprattutto grazie al fortunato incontro col tartufo bianco d’Alba. Infine si passa alla ricetta, secondo le osterie e gli chef stellati: nessuno rinuncia alla sua versione dei tajarin.

Guida alle birre d’Italia 2023

Editore: Slow Food Collana: Guide Slow 704 pp. – € 19,50 (€ 18,53 on-line € 15,60 soci Slow Food)

Torna finalmente la guida che racconta il meglio della scena brassicola nazionale. Questa nuova edizione si presenta con tantissime novità, come la sezione dedicata ai produttori di fermentati di mela e pera. I birrifici recensiti sono 456, 38 dei quali segnalati col riconoscimento della Chiocciola e 80 con l’Eccellenza. Ben 2.346 birre descritte, anche attraverso semplici ma efficaci parole-chiave. Le etichette premiate sono 651 e da quest’anno sono organizzate in un sistema di liste, utili nella scelta della bottiglia giusta per ogni occasione. Completa il volume un elenco di 700 locali — beer shop, pub, osterie e altro — dove si consiglia di bere e acquistare birre artigianali.

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Il racconto del salame dalle grotte lucane e le capanne longobarde agli ambienti climatizzati

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Dopo 15 anni di Campionato Italiano del Salame, per anni con il patrocinio del MIPAAF, l’Accademia delle 5T ha deciso di pubblicare tutto ciò che giurati, produttori, studenti e consumatori hanno imparato e costruito golosamente insieme: è nato così Fette di Bontà, 416 pagine di racconto del salame, non solo una guida. Ecco 100+1 produttori, la loro storia e i loro salami — ne sono descritti e mostrati più di 300 —, ognuno nato da un territorio con la sua storia, da maiali (o pecore o oche…) che hanno vissuto bene, dall’abilità atavica di artigiani che hanno un profondo rispetto per il loro territorio, per gli equilibri e soprattutto i tempi della natura. Al suo interno c’è tutto quello che è utile e soprattutto divertente sapere sulla storia, la tecnologia, il mito, la gastronomia del salame e di “pane e salame”, il binomio della memoria. Per ordini: info@accademia5t.it

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Così lontana e così vicina. La cucina nipponica, coi suoi sapori che ci ricordano qualcosa di familiare e di insolito allo stesso tempo, per molti resta un punto di domanda, nonostante sia sempre più presente nei menu dei ristoranti, sugli scaffali dei supermercati, perfino nei bar o nei fast food. Questo dizionario costituisce un vero e proprio tesoro culturale e gastronomico, dedicato a chiunque sia interessato alla cucina giapponese, da quelli che l’avvicinano per la prima volta a quelli che l’hanno fraintesa per anni o che vogliono approfondire le loro conoscenze. Finalmente un libro che ne chiarisce i misteri, ne spiega le sfumature, rivelando finalmente tutta la bellezza e la complessità del cibo giapponese

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Fino all’ultima briciola

L’arte del riuso del pane

Edizioni: Guido Tommasi, 2022 Collana: Gli illustrati 144 pp. – € 25,00

La cucina tradizionale è ricca di ricette create appositamente per recuperare ciò che rimane del pane di ogni giorno: polpette, zuppe, sformati… Ma, nonostante tutto, abbiamo perso la buona abitudine di non lasciare nemmeno le briciole di questo alimento così semplice, ma essenziale.

Tra le pagine del volume Fino all’ultima briciola, il pane torna nuovamente a essere uno degli elementi cardine della nostra tavola e si trasforma mostrandoci la sua incredibile molteplicità. Dalle salse al gazpacho, per passare alla pizza e ai dolci, il pane porta in ogni ricetta consistenze e nuovi sapori.

A partire da quattro tipologie differenti di pane, l’autrice MANUELA CONTI propone una raccolta di ricette che vuole essere un approccio forse solo più moderno, ma comunque consapevole, per imparare nuovamente l’arte del recupero.

FABIO CICONTE

Fragole d’inverno Perché saper scegliere cosa mangiamo salverà il pianeta (e il clima) Edizioni: Laterza, 2020 Collana: i Robinson/Letture 136 pp. – € 15,00

JAMES BRISCIONE, BROOKE PARKHURST

La matrice dei sapori L’arte e la scienza di abbinare ingredienti comuni per creare piatti straordinari Edizioni: Bibliotheca Culinaria, 2019 Illustrazioni: ANDREW PURCELL 310 pp. – € 44,55

Siamo abituati ad associare le emissioni di CO2 solo alla produzione energetica e ai trasporti. Ma vi siete mai chiesti quanto esse dipendano da cosa scegliamo di mangiare? La risposta è una sola: moltissimo, perché le abitudini di consumo, i processi di produzione e il riscaldamento globale ormai sono legati a doppio filo. Il direttore dell’associazione ambientalista Terra! e autore di importanti inchieste sulle filiere agroalimentari ci racconta perché saper scegliere cosa mangiamo ci salverà dalla crisi climatica.

Se il clima cambia, cambia l’agricoltura. Se cambia l’agricoltura, cambia anche il cibo che mangiamo. Comprendelo significa da una parte assumere abitudini di consumo rispettose del clima, delle stagioni e della biodiversità; dall’altra chiedere alla politica e alle istituzioni di rendere l’agricoltura non una nemica, ma un’alleata del pianeta.

Cioccolato bianco e caviale? Finocchi e prugne? Alcuni abbinamenti suggeriti dagli chef possono sembrare stravaganti trovate pubblicitarie più che rigorose scelte gastronomiche, ma non è necessariamente così. Con l’aiuto di un sous chef particolare, il supercomputer dell’IBM, James Briscione ha usato algoritmi per approfondire la scienza che regge la percezione dei gusti e dei sapori, traducendo le sue ricerche in un formato visivo facilmente decifrabile e consultabile. Lo chef ha creato una specie di impronta digitale per circa 150 ingredienti, distillando le informazioni in infografici o matrici che permettono di esplorare in modo efficiente e razionale un universo di sapori che potrebbero sposarsi felicemente. Anziché ripiegare su una limitata memoria gustativa personale, le matrici fanno affidamento sull’analisi delle strutture molecolari condivise dai singoli ingredienti. Un passo ben oltre i compendi di semplici liste di abbinamenti e più economico dei database dei consulenti delle industrie alimentari, il libro assiste il professionista sopraffatto da una crescente quantità di opzioni, razionalizzando le sue ricerche e liberando il suo estro creativo.

Premiata
Italiana, 6/22 136
Salumeria

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