l'Unità Laburista

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Numero 0 del 14 luglio 2019

Ripartiamo da un 11 Giugno il 14 Luglio


Sommario 

Ripartiamo da un 11 di Giugno il 14 di Luglio pag. 3 di Aldo AVALLONE

Il bivio - pag. 5 di Fabio CHIAVOLINI

Amir Peretz, il Corbyn israeliano - pag. 8 di Umberto DE GIOVANNANGELI

Chi vuole davvero l’Autonomia regionale differenziata? - pag. 14 di Aldo AVALLONE

Il Filo Rosso - pag. 16 di Gian Nicola MAESTRO

Giovanotti per Jovanotti - pag. 22 di Antonella GOLINELLI

Opinioni - da pag. 24

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l’Editoriale

Ripartiamo da un 11 di Giugno il 14 di Luglio di Aldo AVALLONE

Perché una nuova testata online? Domanda più che legittima. Non c’è forse già troppa informazione in rete tra cui il lettore deve districarsi per provare ad avere notizie certe e analisi utili a comprendere la realtà politica attuale? Noi crediamo di no, anzi riteniamo necessaria la presenza di una voce nuova e libera che dia spazio ai temi fondamentali dei diritti, del lavoro, del welfare, dell’ambiente, dell’istruzione e della sanità pubblica. Abbiamo scelto di chiamarla “l’Unità Laburista” per sottolineare due punti fondamentali della nostra linea editoriale. “Unità” perché la nostra sarà una testata che intende unire le diverse anime della sinistra attualmente presenti nel panorama politico italiano in un’ottica inclusiva, aperta a qualsiasi contributo rappresentativo dei valori comuni di solidarietà, eguaglianza, giustizia sociale. Laburista perché è espressione diretta di “Labour Italia”, l’Associazione laburista che si rifà direttamente al movimento Laburista europeo. Nella nostra copertina è riprodotta l’immagine stilizzata di Enrico Berlinguer. Un omaggio all’ultimo grande leader della sinistra italiana. Sono trascorsi già trentacinque anni dalla sua morte ma i valori, gli ideali, la sua assoluta dedizione alla causa sono oggi, forse ancora più di allora, necessari e attuali. Noi intendiamo ripartire proprio dal suo insegnamento, dalla sua preziosa eredità politica. Saremo una testata online di opposizione, sia ben chiaro a tutti. Al governo 3


Lega - 5Stelle, certo. Perché lo riteniamo un pericolo reale per la democrazia e per le scelte che sta operando in tema di politica economica, di rapporti con l’Unione europea, di accoglienza e solidarietà. Ma non faremo sconti nemmeno al PD che riteniamo responsabile, con i governi Letta, Renzi e Gentiloni, di scelte dannose nei confronti dei lavoratori e dei ceti più deboli. L’abolizione dell’articolo 18 è stato l’atto simbolico maggiormente rappresentativo di una serie di provvedimenti decisamente antipopolari. All’annuale convention di Cernobbio, quando Renzi nel settembre 2015 presentò il programma economico del suo governo ebbe l’approvazione incondizionata di Confindustria e la bocciatura totale dei sindacati. Ecco, se il primo ministro di un governo a guida PD prende applausi dagli imprenditori e fischi dai rappresentanti dei lavoratori noi crediamo che ci sia qualcosa di profondamente sbagliato. Viviamo un periodo storico difficile, ne siamo assolutamente consapevoli. L’intolleranza, l’odio, un fascismo che sta rialzando la testa, sembrano far presa su una parte sempre maggiore di nostri connazionali. Noi ci proponiamo di contrastare questa deriva con la forza delle idee e della verità. Noi ci crediamo fermamente e dedicheremo le nostre migliori energie a questa battaglia fondamentale per il futuro del Paese.

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Ideologia

Il bivio di Fabio CHIAVOLINI

All’inizio degli anni ‘80, per motivazioni “logistiche” e nonostante fossi nel Movimento e non nel PCI, grazie all’amicizia di alcuni compagni della FGCI frequentai da “uditore esterno” diverse lezioni magistrali alle Frattocchie, tra cui alcune di Pajetta, Berlinguer, Napolitano, D’Alema, Reichlin, ecc. Di quell’esperienza mi è rimasto un metodo: prima di parlare di risultati elettorali, studi - poi parli. Ho studiato a lungo sia i risultati di tutti i Paesi europei, sia quelli italiani. La sintesi necessita di relativamente poche parole. 1.

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Dove la sinistra vince è laburista o verde: tertium non datur. Tutti i partiti socialisti che vincono (sino al raddoppio dei voti) hanno un riferimento nel nome al lavoro (“dei Lavoratori”, che è il significato anche di “Obrero” nel PSOE) e sono, quindi, laburisti. Tutti i partiti socialdemocratici, invece - a partire dai “figli di Bad Godesberg” tedeschi - prendono scoppole micidiali, puniti dall’innaturale alleanza con il PPE ed i suoi partiti nazionali. Caso a parte quello del Labour Party inglese, cui i sondaggi assegnavano un 15% ed ha preso il 14,9% - ma deve fronteggiare il caso abnorme della Brexit e, comunque, viene accreditato dagli stessi sondaggisti del 29% in caso di elezioni politiche. Basta che si schieri apertamente sul fronte del secondo referendum - nonché del Remain - e vincerà le elezioni politiche a mani basse. Altrimenti la sinistra vota i verdi, che cavalcano la preoccupazione per il clima e, quasi ovunque, vanno dal raddoppio alla quadruplicazione dei voti (addirittura in Italia). In Italia questa tendenza non si radica perché, semplicemente, non c’è quell’offerta politica: non esiste un partito laburista ed i verdi “storici” erano e restano - troppo residuali per rappresentare una solida base di partenza e perché (diciamocelo chiaro) sono “squalificati” come tutte le altre famiglie autoctone della sinistra. L’altro grande polo vincitore delle europee è quello liberal-democratico, terzo polo europeo: anche questo in Italia quasi non esiste, essendo rappresentato dal 3% di Bonino e Pizzarotti. I sovranisti vincono crescendo in Ungheria ed Italia, restano primo partito alle europee in Francia e Polonia (ma in calo), in tutti gli altri Paesi sono residuali 5


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ed ininfluenti (il Brexit Party non è un partito sovranista ma un “movimento istantaneo” di protesta degli anziani della provincia inglese - non britannica destinato a scomparire subito come lo UKIP). Le elezioni in Italia hanno detto che il centrosinistra classico “perde con onore” alle europee ed alle regionali ma non può fare nulla di più: se ci si accontenta di battere un M5S in dissoluzione ed arrivare secondi piazzando più poltrone che si può sotto le auguste terga dei soliti noti, certo, se ne può godere come Zingaretti e Gentiloni.

In Italia siamo di fronte ad un bivio: scegliere se unirci alla famiglia vincente laburista o a quella vincente verde. Come abbiamo osservato prima, però, la famiglia verde italiana è squalificata non meno di quelle socialista, socialdemocratica, comunista post-berlingueriana. La scelta, quindi, è obbligata: quella laburista. Come far nascere un grande partito laburista in Italia? A. Per quanto possa sembrare incredibile, si parte dal favorire la nascita di un consistente polo liberal-democratico: si tratta di spingere i vari Renzi, Calenda, Boschi, Lotti, Rosato e compagnia cantante ad abbandonare il PD e ad unirsi a Bonino, Pizzarotti, Brunetta ed alla “sinistra” italoforzuta nel consistente polo liberal-democratico che è la loro casa naturale, liberandone una che non è loro. Con questo nuovo soggetto si potrà anche dialogare, in un futuro e se assolutamente necessario, per questioni di governo. Ma non sotto lo stesso tetto. B. I marchi di tutti i partiti di sinistra, dal PD a PaP, sono squalificati: l’elettorato non si fida più delle loro classi dirigenti nazionali e regionali, i risultati elettorali parlano da soli. È necessario, quindi, provvedere ad un processo di generazione del futuro partito laburista non per fusione di marchi stantii ma per scioglimento delle vecchie sigle e confluimento dei singoli attivisti e militanti nella nuova formazione, a titolo personale. Bisogna rompere la logica dei “recinti”, dei “cerchi magici”, delle cordate e dei personalismi: solo così sarà possibile richiamare alle armi, inoltre, la componente maggioritaria della sinistra italiana, che è attualmente nascosta nei numeri dell’astensione. La vecchia logica del “voto d’obbedienza” non regge più: come dimostra l’analisi dei flussi elettorali delle europee, il voto è ormai in stragrande maggioranza d’opinione, se è vero che addirittura il 20% degli elettori dell’ultra-identitaria Lega ha scelto, a questo giro, altre opzioni elettorali. C. Il laburismo non è un marchio: è un’ideologia. Per questo abbiamo bisogno di 6


una vera elaborazione politica, perché solo questa genera identità e fidelizza al massimo il voto. Quindi, bisogna studiare il laburismo e generarne una versione italiana. Il che si fa con una Scuola di formazione politica degna di questo nome. D. Arriviamo al punto dolente: il ricambio della classe dirigente. Che sia colpa loro o meno, le classi dirigenti nazionali e regionali sono chiaramente non più credibili. I risultati delle comunali - in parziale ma sostanziale controtendenza con europee e regionali - indicano che nei territori esistono, invece, classi dirigenti locali ritenute credibili. Il punto è in uno “swap”: una volta generato il partito, bisognerà rintracciare tra i dirigenti cittadini e provinciali i nuovi dirigenti regionali e nazionali, “spostando” gli attuali dirigenti regionali e nazionali ai rapporti con le famiglie della Sinistra europea (dove la loro lunga esperienza può essere più utile) e provvedendo al ricambio delle dirigenze cittadine e provinciali con chi, in questo momento, “non è nulla”. Ne avremo un vantaggio in termini di novità, passione ed innovazione, a tutti i livelli. Sia chiaro: non è una questione d’età, bensì di essere “nuovi” rispetto al nuovo livello politico con cui ci si raffronta. Il tutto utilizzando la “meritocrazia di sinistra”: “la persona giusta al posto giusto” perché in grado di dare il massimo vantaggio al partito ed alla collettività in virtù delle proprie competenze tecniche e politiche, nonché delle proprie qualità umane - non perché “sta parente a”. O così, o non ci si salva - e si consegna il Paese a vent’anni di Salvini e d’isolamento in Europa. E bisogna attivare il processo subito.

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l’Intervista

Amir Peretz, il Corbyn israeliano di Umberto DE GIOVANNANGELI

“Una sinistra che rinnega se stessa, che dimentica le proprie radici e insegue la destra sul suo terreno, non è più sinistra e si condanna alla marginalità. Non si tratta di essere nostalgici di un tempo che fu, ciò sarebbe patetico oltre che politicamente inutile. La nostra sfida è coniugare tradizione e modernità, guardando al futuro”. Guai a parlare di lui e con lui come l’uomo del passato. Come una scelta dettata dalla nostalgia di un tempo che fu, quando il glorioso Partito laburista, il partito di David Ben Gurion, Golda Meir, Abba Eban, Yitzhak Rabin, Shimon Peres, identificava se stesso con lo Stato d’Israele. “Avere un passato non è un’onta, l’importante è non rimanerne prigionieri”. E lui, Amir Peretz, neo segretario del Labour, 67 anni, che alle primarie del partito ha sconfitto due avversari che assieme non facevano i suoi anni, considera la sua storia politica come un bagaglio di 8


esperienze che può tornare utile per risollevare le sorti di un partito che alle elezioni del 9 aprile ha subito non una sconfitta ma un tracollo senza precedenti, raccogliendo la miseria di sei parlamentari alla Knesset. Già segretario generale, ex ministro della Difesa, un tempo neanche tanto lontano sindaco di Haifa, parlamentare da 31 anni, Peretz si è messo già al lavoro in vista delle elezioni del 17 settembre. Con un obiettivo ambizioso, che va oltre la riconquista di qualche seggio per il suo partito: contribuire alla sconfitta di una destra che, sostiene con forza, “ha radicalizzato le sue posizioni al punto tale da spaventare anche una parte dell’elettorato moderato”.

D) I media progressisti facevano apertamente il tifo per i suoi giovani avversari. Eppure, gli iscritti al Labour hanno scelto Lei come colui che dovrebbe risollevare le sorti di un partito ridotto ai minimi termini. Non sente il peso di quella che appare come una “mission impossible”? R) Sento il peso di una responsabilità che è grande, ma al tempo stesso penso che non sia una missione impossibile. A patto di saper trarre lezione dalla disfatta subita il 9 aprile. 9


D) Lei che lezione ha tratto da quella mazzata? R) L’importanza di ascoltare ciò che la tua gente vuole dirti. Non sentirti, come gruppo dirigente, al di sopra di tutto e di tutti, cogliere il profondo malessere sociale che segna la società israeliana, non essere subalterno all’agenda politica della destra. Ed evitare personalismi esasperati, perché non esiste un uomo o una donna della provvidenza, in grado da solo di sconfiggere una destra che ha governato 15 degli ultimi 19 anni. D) Una professione di umiltà, ma sostanziata da quali priorità? Il 17 settembre è dietro l’angolo e Benjamin Netanyahu è già in trincea. R) Una cosa è certa: divisi si perde. Il problema non è sommare debolezze ma dare un segnale chiaro ad un Paese che guarda con preoccupazione al futuro. Un Paese spaccato a metà, in cui le disuguaglianze si sono moltiplicate, un Paese che non può rimanere ostaggio di un politico che sta minando le basi stesse del nostro sistema democratico…. D) Un’accusa pesantissima, quella che lei lancia a Benjamin Netanyahu… R) Come altro considerare un primo ministro che sta minando l’autonomia del potere giudiziario, che accusa magistratura e polizia di tradimento perché si sono permessi di indagare su di lui, come se essere primo ministro fosse garanzia di impunità di fronte alla legge. In Israele esiste una emergenza democratica che deve essere messa al centro della campagna elettorale. Da solo, nessun partito di centro e di sinistra riuscirà a essere all’altezza di questa sfida. Non dico che dobbiamo azzerare le differenze, quelle esistono e possono rappresentare una ricchezza dell’offerta politica. Ma le differenze non devono diventare un ostacolo insormontabile per dar vita a un’’alleanza per la democrazia che veda coinvolti i partiti di centro e di sinistra. Uniti, ne sono convinto, è possibile vincere. Divisi, la sconfitta è sicura. 10


D) Cosa le fa più paura delle destre che governano ormai da tempo Israele? Il loro estremismo, l’aver radicalizzato le proprie posizioni, l’essere portatrici di una idea stessa di ebraismo che nulla ha a che fare con quell’idea aperta, inclusiva, che fu dei fondatori dello Stato d’Israele. Questa destra sta uccidendo il sionismo, altro che difenderlo dai suoi nemici esterni! La società israeliana si sta sempre più dividendo, la faglia sociale si sta allargando sempre più. In questo senso, le manifestazioni di protesta dei Falascia (la comunità degli ebrei etiopi, ndr) è un campanello d’allarme che va non va sottovalutato. Perché è il sintomo di un disagio crescente di quanti si sentono messi ai margini, considerati dei paria. E lo stesso è avvenuto con la comunità drusa e con gli arabi israeliani. Un Paese che emargina pezzi di società, è un Paese che non ha futuro. D) Ma la sinistra israeliana ha un futuro? Tamar Zandberg, l’ex leader del Meretz (la sinistra pacifista) , si è pronunciata per una lista unica a sinistra. Qual è la sua risposta? R) Ho incontrato Tamar, così come Tzipi Livni e altre personalità che ritengo fondamentali nella costruzione di un’alternativa democratica alle destre. L’importante è non credere che l’unione di due debolezze possa fare una forza. Occorre aprire questa costituente democratica alle forze della società civile, a quei movimenti, associazioni, personalità che in questi anni hanno tenuta in vita la speranza del cambiamento, quelle forze che sono state decisive per la vittoria dei candidati progressisti alle elezioni amministrative in città importanti come Tel Aviv, Haifa, Beersheva e altre. Da quelle esperienze occorre ripartire per costruire una proposta di governo alternativa alla destra, capace di conquistare anche quei settori moderati del Likud che guardano con preoccupazione alla deriva estremista di Netanyahu. D) Nella sua lunga carriera pubblica, Lei è stato anche segretario generale dell’Histadrut, la potente centrale sindacale israeliana. Di quell’esperienza cosa ritiene ancora attuale e utile per costruire un’alternativa di governo in grado di contrastare lo strapotere delle destre? R) L’attenzione per la questione sociale; un’attenzione che si è affievolita nel corso degli anni. Eppure i segnali di un crescente malessere sociale erano evidenti, per certi versi drammatici: la crescita delle famiglie sotto la soglia di povertà, le periferie degradate, giovani che non possono mettere su famiglia per l’impossibilità di 11


trovare una casa, il sostegno pubblico alle madri single cancellato, gli investimenti per l’istruzione dimezzati. La destra ha creato questa condizione ma al tempo stesso ha fatto leva su questo malessere per indirizzarlo contro chi sta peggio di te ma che veniva additato come responsabile del tuo star male: penso a come Netanyahu ha rappresentato il problema dei migranti. La destra ha costruito muri di ostilità all’interno della nostra stessa comunità. Quei muri noi dobbiamo abbatterli. E sono “muri” sociali e culturali. D) Lei parla di un fronte democratico anti-destre. Ma di questo fronte chi dovrebbe esserne il leader? Le elezioni del 9 aprile hanno premiato “Blue and White”, il partito centrista guidato dall’ex capo di stato maggiore Benny Gantz (35 seggi, come il Likud di Netanyahu). È lui il leader designato della coalizione anti -Bibi? R) Ne è certamente uno dei leader. L’importante in questo momento è sentirsi parte di un campo da costruire, senza pretese egemoniche. Pensare ad un fronte democratico senza il partito di Gantz vuol dire autocondannarsi alla sconfitta, ma ‘Blue and White’ non può guardare ai possibili alleati come a dei satelliti che fanno numero. Ma dagli incontri che ho avuto in questi giorni mi sento incoraggiato: l’unità è possibile. E’ un obiettivo da conseguire, e il tempo non è tanto. Dobbiamo mettercela tutta, perché non avremo un’altra chance. D) Tra gli incarichi che ha ricoperto c’è quello di ministro della Difesa. La sicurezza è sempre stato il terreno vincente della destra, quello su cui Netanyahu ha dimostrato di sapersi muovere meglio di chiunque altro. R) La sicurezza è una priorità nazionale e non è né di destra né di sinistra. E non deve coincidere sempre e comunque con l’esercizio della forza. La più grande lezione in questo campo l’ha data un uomo che è tra i Grandi d’Israele: Yitzhak Rabin, un uomo che ha combattuto per la difesa d’Israele molto più di quanto l’abbia fatto Netanyahu. Ma Rabin aveva compreso che la sicurezza d’Israele non può affidarsi solo alla forza militare ma deve investire la politica e ricercare un compromesso con i Palestinesi e i vicini Arabi. Questa lezione non va smarrita, perché è quanto mai attuale e valida.

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D) A proposito di generali vittoriosi. Nell’arena politica è tornato il militare più decorato d’Israele. Un uomo che lei conosce bene, perché nel 2007 lo scalzò dalla guida del Labour: Ehud Barak, l’ultimo laburista ad aver sconfitto alle elezioni Netanyahu. Una risorsa o un problema: cos’è per lei oggi Barak? R) Un alleato di una battaglia comune: quella contro la destra di Benjamin Netanyahu. Spero che anche lui si consideri tale. D) Lei insiste sulla necessità di costruire la più ampia coalizione anti-destre. Un discorso che riguarda anche i partiti arabo-israeliani? R) Un’alleanza non significa una lista comune. Significa trovare punti condivisi che aiutino a unire ciò che la destra ha diviso. Includere, non emarginare: è questo il vero discrimine con le destre. Il mio Labour è in campo per questo. E la comunità degli arabi israeliani è parte di questo discorso.

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Autonomie

Chi vuole davvero l’autonomia regionale differenziata? di Aldo AVALLONE

Lega e Movimento 5stelle litigano davvero sull’autonomia regionale differenziata? Salvini vuole realmente approvare la riforma così come è stata progettata? E il Pd? Proviamo a darci qualche risposte a queste domande di stretta attualità.

L’autonomia regionale differenziata è nel contratto di governo stipulato tra Lega e M5S al momento della nascita del governo giallo-verde. Dopo un anno durante il quale il dibattito sull’argomento era rimasto sottotraccia, il tema è esploso dopo il 14


clamoroso successo leghisti nelle elezioni europee. Salvini, dopo le tante promesse, da un lato vuole portare a casa il risultato che soddisferebbe il suo elettorato del Nord ma, d’altro canto, non desidera nemmeno spingere a fondo sull’acceleratore per non disperdere di colpo il consenso che, in maniera inattesa, è riuscito a conquistare nel Mezzogiorno. Le spinte in avanti (vedi le dichiarazioni sulle gabbie salariali) sembrano più ad uso del proprio elettorato che un vero diktat agli alleati di governo. Nei fatti alle minacce nei confronti dei cinque stelle non seguono mai atti concreti. Di Maio, da parte sua, avendo la maggior parte del proprio elettorato nel Sud, non può permettersi di cedere su tutto il fronte ma nemmeno è disposto a giocarsi la vita del governo sul tema dell’autonomia differenziata. In verità non è chiaro quanto l’argomento interessi davvero al Movimento. Un discorso a parte merita il PD. Va premesso che se ci troviamo in questa situazione la responsabilità è proprio del partito dell’allora segretario Renzi. Fu il premier Gentiloni, poche settimane prima delle elezioni politiche del marzo 2018, a sottoscrivere il patto per le autonomie con le regioni. Una scelta inopportuna sia per i tempi – per prassi prima della tornata elettorale il governo è in carica solo per la nomale amministrazione – che per la modalità. Infatti fu previsto solo un accordo tecnico non emendabile in Parlamento. Un misero tentativo di recuperare qualche voto nel Settentrione, miseramente fallito alla luce dei risultati elettorali. Ora il Pd è quasi costretto dal suo ruolo a un’opposizione dura al provvedimento. Un’opposizione che, al momento, non si è concretizzata che in qualche dichiarazione di facciata.

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Cultura e Società

Il filo rosso di Gian Nicola MAESTRO

"Tutto cio' che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione" – Guy Debord, ‘La societa' dello spettacolo’

È finito il tempo delle maschere. Dal gotico cerone di Alice Cooper alla vitrea fissità dell'occhio in smoking dei Residents, attraverso il travestitismo dei Tubes e l'inquietante pittura di guerra dei Killing Joke, pochi hanno resistito alla tentazione di giocare con l'apparenza e l' identità e così saltare il labile confine tra l' esecuzione musicale e la performance teatrale (il percussionista del buonanima Frank Zappa che sfoggia corna d'alce marciando con un grottesco "passo dell'oca" nazista, ridicoleggiando nostalgie passate e future). Alcuni hanno fatto della maschera una definitiva scelta stilistica, scivolando nel profondo kitsch glitter come i Kiss o elevandosi a astrazione totale come i già citati Residents (non si conoscono le loro identità, le loro facce, il numero dei componenti): gli esempi sono molteplici. Ma ora esiste una maschera differente, sottile, velata, che si sviluppa senza bisogno di artefici estetici. 16


Una maschera fatta di ipocrisia, di patetica rincorsa delle mode, e il più delle volte incollata così bene al volto da far dimenticare a chi la indossa la sua vera pelle. Un travestimento gemello del nostro, una maschera con un sorriso imbelle o un ghigno fintamente cattivo e (ah,ah) alternativo. In questi grami tempi di tecnologia leggera, arte effimera, pensiero debole, di supermercato del villaggio globale è difficilissimo scampare dall'indossarne o applaudirne una. Il rock "cattivo" dei punk da centro commerciale (tutti bei bimbi americani), i rapper sintetici di casa nostra (quanti sono?, come si riproducono?, per fortuna la genia è in declino), le etno bande che non sanno più a quale minoranza etnica andare a rompere i coglioni, i raggamuffer in ciabatte conditi di machismo di bassa lega. E questo senza sparare sulle ambulanze della musica da classifica. La maschera che spiaccica anime e cervelli, e che tutti, me compreso, alimentiamo è evanescente e viscida. Sotto le scritte al neon di "alternativo", "controcorrente", "arte", "impegno", "ribellione" maturano gli stessi meccanismi della finzione tipici del resto della stracitata società dello spettacolo. Solo che non vogliamo accorgercene. Un processo quasi impossibile da evitare. La nostra maschera è un volto vacuamente sorridente. C'è più onestà nella retorica trash del festival di Sanremo, dove le maschere sono maschere enormi, assurde, stereotipi totali - dai metallari da cortile alla ragazzina tutta voce e 'ccore - che nel cantore dell' ingiustizia che vende i cd a 40 sacchi. Tutta l'estetica della musica, la fascia esterna, la pelle, infine la "maschera" dell' underground nei suoi mille pezzi di specchio è ormai surclassata dalla maschera neutra dell'uniformità', mischiata a estetizzanti e innocue ribellioni. I segni, i marchi, gli emblemi che romanticamente si fondevano con i suoni di Japan, Devo o Sex Pistols (mascherati anche loro, ma con segnali estetici nuovi e forti) sono annientati da imitazioni infinite e ripetitive, fino alla perdita di senso degli originali stessi. Un affascinante percorso semantico, la codificazione di tratti estetici nuovi e l'attuale banalizzazione in una specie di grossa lavatrice-tritarifiuti musicale. Maschere-mode musicali sfogliate ad una velocità vertiginosa - è appena finita l'ondina del pop britannico, preceduta dal velocissimo revival punk, che seguiva il grunge, che soppiantava l'acid jazz, che saltava fuori dall' hiphop e via' così - senza nulla togliere alla buona fede ma tutti con il giusto corredo di simboli, estetismi, cliché. Tutti a fondersi in quell' unica , grigia, neutra maschera grondante noia. Spero solo che il bruciore dei nostri cuori riesca ancora a scioglierla via dalla nostra pelle. Questi sono i veri suoni in maschera dei nostri dolci giorni... a fare da contrappunto esiste invece una musica che è stata creata per essere l' esoscheletro, il travesti17


mento , il contorno e la maschera di qualcosa d'altro. È IL S U P E R M E R C A T O, BABY!

Viviamo di consumi, di solito splendidamente sintetici, plasticosi, industrialmente prodotti e riprodotti (un lisergico incubo che W. Benjamin quando scrisse il suo saggio sulla riproducibilità non poteva neanche immaginare) e dei riferimenti che il Gigantesco Supermercato Che Sta Diventando Il Mondo ci inculca gentilmentesubliminalmente. Il supermercato è la chiesa moderna, dove tutti, eretici o credenti vanno (per fortuna che qualcuno ruba ancora le elemosine!) in funzione di una religione-shopping superiore a qualsiasi definizione di classe, razza, gusto o cultura. E' possibile estrapolare dai gorghi dei consumi di massa i canoni di una nonestetica che avvolge - o meglio maschera - 40 anni di produttività occidentale (mondiale, ormai) accompagnati dalla musica adeguata. Attenzione, non si parla qua del vero trash, tipo mutande di leopardo o coprisedili in peluche con la voce testicolare di Barry White in quadrifonia, ma di prodotti che attraversano quotidianamente le nostre faticose vite di consumatori. I colori sono festosi, lampi, stelle fluo oro argento, i caratteri tipografici sono quantomeno improbabili, gli slogan capaci di suscitare reazioni di pura violenza, i materiali usati offendono ogni logica di risparmio e infine il tipo di ammiccamento al cliente è – ovviamente - americaneggiante. Quest'ultimo meccanismo produce effetti irresistibili specie nell'oriente industrializzato, dove le confezioni mostrano, ad esempio, allegre massaie di Chiang Mai usare inutili contenitori Tupperware, oppure paffuti 18


signori di Bangalore impiastricciarsi di Aqua Velva (citazioni su citazioni tutti gli spot Diesel). Il rito del supermercato, nato negli Stati Uniti, prevedeva l'uso di una musica creata ad hoc, proveniente dritta dritta dal cuore della Space Age Bachelor Pad Music, ora resuscitata nel revival Exotica (date una occhiata alla rubrica di F. Adinolfi su Ultrasuoni, alla domenica ne Il Manifesto) che negli anni 50/60 imperversò negli usa. La musica dell'era spaziale, moog, teremin, hifi, Esquivel, P. Prado, Martin Denny, Henry Rene, etc. La musica da supermercato apparteneva ad un sottogenere Exotica, chiamato Mood Music, musica per cene, cocktail, aerei, supermercati e anche ascensori (cfr. J. Lanza "Elevator music" Picador Press ). Combinando Mantovani, Laurence Welk, Percy Faith e Ray Connif, xilofoni e canti gregoriani, fino ad acquisire con Brian Eno una valenza "alta" (la nota ambient music) uscendo definitivamente dagli ascensori e dai supermercati. Un continuo gioco tra identità e apparenza, tra maschera e mascherato. Ormai, nei centri commerciali nostrani si sente la radio, tranne che in qualche Standa mal messa (una era la Standa di corso Regina Margherita a Torino, perennemente puzzosa e squallida, ma ora è chiusa) dove girano ancora bobine di mood music mediterranea di cui un micidiale esponente era Fausto Papetti, più famoso per le tette in copertina che per le tragiche versioni di successi altrui. Di conseguenza, le nostre affaticate cortecce cerebrali accoppiano Dash e Zucchero Fornaciari, Lines Ultra e Pittura Freska, maionese Calve' ai Green Day: la tristezza insita nelle luccicose confezioni di prodotti si mischia con le risate idiote di disgraziati deejays e a suoni, al di là della levatura artistica (sia rock duro o musica da camera, non importa ) che diventano solo puro involucro delle merci.

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Tutta questa salsa estetico-musicale per fortuna ogni tanto viene ri-rovesciata addosso al mercato da qualche ribelle: in Gran Bretagna nei tardi '80, i cosidetti bedroom mixers (cioè chi remissava piratescamente hits altrui) spopolano, i giovani designers mixano vestiti con i rifiuti del consumismo (Creative Salvage, Economy Ecology, Trash Fashion) e i grafici si danno lo stesso daffare: Trevor Jackson miscela icone religiose e commerciali sulla copertina del remix pirata di Sweet Dreams degli Eurythmics, Blame estrapola dai pittogrammi delle toilettes la grafica del singolo Daydreaming dei Massive Attack, Ian Swift pirata il logo Chanel negli inviti dei clubs e mille altri riutilizzano referenti estetici presi dalla strada o dai prodotti piu' famosi e ne fanno di nuovi, dissacranti e moderni. Tornando a prodotti e musica, una meravigliosa simbiosi si è creata nell'ex Europa dell'est, dove (sempre più raramente) è possibile entrare in tristissimi supermarket con ancora molti prodotti delle industrie nazionali, dall'aspetto retrò e quasi commovente, contornati però dalla musica "amerikana". Assolutamente magnifico, una sorta di nemesi (o apoteosi) per la musica commerciale. Il connubio tra grafica insulsa (brutta?) e musica brutta (insulsa!) passa sugli scaffali del supermercato vicino a casa e aumenta la certezza un po' snob che la distanza che ci separa dal mondo così rappresentato è siderale, perché qui non si parla degli abissi trash delle pieghe del consumismo (la tazza kitsch di Gillo Dorfles o i già citati slip-tanga da uomo maculati ) e della muzak (Popmuzik, ve la ricordate?) o dell' Exotica – magari – qui abbiamo il vero specchio della mediocrità, del quotidiano, niente abissi, niente trash. Solo il mondo così com'è e la grafica e la musica che ci accompagnano nello shopping, sotto le luci al neon, sotto l'allegria sgargiante e forzata, formano lentamente il sorriso neuro-sedativo del Grande Fratello. L'unico problema è alzare, anche solo per un attimo, la maschera. Buona Spesa.

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Spettacolo e Lavoro

Giovanotti per Jovanotti di Antonella GOLINELLI

Ragioniamo. Una grande star organizza un tour, una serie di spettacoli con modalità “nuova”. Una festa in spiaggia. Bello. Peccato che feste o spettacoli o eventi siano, lasciano sporco. E qui arriva la genialata. Si ricercano giovani volenterosi e volontari per pulire e tenere ordine. Almeno, così ho capito. Appare un “manifesto” accattivante, colorato, esuberante. 22


Termini di pagamento: un panino, poi diventati due, due buoni per qualcosa da bere e l'ingresso allo spettacolo. A fronte di sedici, poi diventate dieci, ore di lavoro. Siamo proprio sicuri sia corretto? Voglio dire: è lavoro, perché non può essere remunerato? Cosa vi è saltato in mente di contenere i costi non pagando il personale di supporto? Quale perversione vi ha afflitto per pensare di sfruttare il volontariato? Perché il lavoro non deve essere remunerato? È pur vero che abbiamo trascorsi importanti con bandi ministeriali proponenti lavori e collaborazioni importanti, gratis, nel settore cultura. È pur vero che hanno ridotto generazioni ad elemosinare una paghetta. È pur vero che è passato il concetto che la paga è un di più in un rapporto di lavoro. Ciò nonostante continuo a chiedermi se tours costosissimi e frequentatissimi debbano essere supportati da ragazzi e ragazze che, per partecipare ad un evento che non si possono permettere, lavorano dieci ore o più per due panini e due bibite. Confesso di non farmene una ragione. Come non mi faccio una ragione della giustificazione dell'organizzazione che rivendica la bontà dell'offerta. Di assumere e pagare chi lavora, anche solo per un giorno, non passa più per la testa di nessuno? Dobbiamo scendere sempre più in basso nello sfruttamento e nella degradazione morale? Che classe imprenditoriale è quella che ha come scopo solo lo sfruttamento della manovalanza?

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Opinioni

Una scala di assi sconnesse e pietre sbrecciate pag. 25 di Lina VADALÀ

La svolta danese - pag. 28 di Marco CASTALDO

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Opinioni

Una scala di assi sconnesse e pietre sbrecciate di Lina VADALÀ

Cari compagni vicini e lontani, conosciuti e spero da conoscere: buongiorno e buona vita. Sono Angela, per gli amici Lina, e sono la “decana” di Labour Italia, come con affetto mi ha “nominato” la nostra cara e preziosa presidente Rosaria Cataletto. Insomma, sono la più vecchia di questa magnifica Associazione! Sono stata incaricata di darvi un benvenuto nel nostro mondo, quello dei Laburisti italiani. Avrò 83 anni il 27 di Luglio: solo ieri ero una bambina che si riparava la testa con un cuscino per proteggersi dalle schegge delle bombe, correndo con mamma e fratellini verso il rifugio - la cantina di un palazzo più sicuro, una casa di pietra dell'800 con orto e alberi di fichi, dove abitavamo con la nonna paterna e le zie. Sei anni circa: già in guerra. Una ragazza, mia madre: ventisei anni e tre cuccioli. "Corri, a mamma”: correvo e lei con gli altri due in braccio. Coi cuscini. Mia madre, ragazza già mamma e guerriera. Mio padre era in Marina a Venezia. Sposati a diciannove anni entrambi, a venti genitori. Mio padre , operaio poligrafico con qualche velleità o sogni anarchici, già consapevole di tutto (i tipografi: ricordo quando ho saputo di Sacco e Vanzetti e altro e quando intonavo, accompagnata dal suo violino, il canto della Baez). Ma io come ci son finita qui, nei Laburisti? Passo passo. E per amore. Per amore di mia nonna materna, che era la donna di un " gentiluomo" – non la moglie, ché non lo è stata mai ma solo madre di due figli del suddetto gentleman: capirete, per l'epoca. Secondo loro, sono stati pure onesti: trovarono un buon lavoro alla signora, riconobbero i figli – e mia madre e mio zio risultarono figli di un 'don", come nel Gattopardo, più o meno. I bambini però li incontravano allo chalet. Col passeggio e 25


la musica, come i signori. Primo amore, la difesa dei maltrattati: poi ci fu l'avventura abruzzese. Un naufrago di una battaglia nei pressi dello stretto fu salvato e ricoverato all' Ospedale Margherita, dove mia zia (vedova con due figli) era infermiera professionale. Si sposarono e il naufrago, dimesso, ci portò con sé al suo paese: Pescara. Gli alleati risalivano la penisola e lui pure: era fascista e le gambe gli tremavano. Siamo saliti sui monti (Pescara era bombardata) e, così, ci siamo piazzati sulla Linea Gustav: la prima linea! Avevo freddo e fame: il sindaco - o chiunque fosse - ci aprì le case popolari. I paesani ci chiamavano "zingari", gridavano “prima gli Abruzzesi!”, il sindaco “prima chi è al freddo e ha fame!” e ordinava di portare da mangiare ai bambini, almeno. “È comunista: il sindaco è Comunista!”, urlavano. Allora, questo sindaco comunista (non sapevo cosa voleva dire) è buono. E restai presa al laccio: che amore il sindaco che dava cibo e riparo agli zingari! E ci ha, in seguito, protetti. Comunista, che strana parola. Infine il mio grande amore, il mio papà che, essendo stato di guardia a palazzo Venezia durante un’adunata oceanica, così commentava: “si apriva il balcone e usciva la ‘testa di c...o’ e tutti ‘Duce! Duce!’ e le femmine svenivano. Put...e!”. Ecco tutta la mia educazione comunista o socialista: tutta qui. Da una nonna, un sindaco, un padre affabulatore. Non ho letto Marx, cari compagni, non sono stata l' utile idiota di nessuno: anzi, sì, una volta sì. Mi elessero copresidente dei Ds di Messina: cercavano un nome al di sopra di ogni sospetto, per rifarsi un po' di verginità. Pensavo di resistere e salvare - o contribuire a salvare - il salvabile. Non avevo scheletri. Come Kennedy, dicevo: "pensa a quello che tu puoi fare per il tuo Paese”. Ma nel PD non sono mai entrata. Ora voi mi direte: non sei stanca e disgustata? No. Sono “inciampata” in questo gruppo di carbonari e mi sono sentita a casa mia. Non più divisioni, anzi: recuperiamo unità molto “indietro” nel tempo, dimentichiamo la “madre di tutte le scissioni” e ci diamo un nome che non evochi banchetti di bambini (dovreste leggere l' Apologeticum di Tertulliano: "In difesa dei Cristiani accusati di oscenità, libero amore e sacrifici di bambini” – accuse per distruggere il nemico). Si, Laburisti. Sul lavoro è nato il Socialismo della prima ora: quello che diceva da26


temi un’ idea che si possa realizzare, datemi un'Utopia - “Siamo realisti, esigiamo l'impossibile!” E, allora, ci sostenga un ideale, ci nutra l'amore: teniamo fede agli insegnamenti nei nostri predecessori! Io non mi faccio rottamare e, dopotutto, domani è un altro giorno: si vedrà. Il Socialismo è il futuro. Il Sol dell'Avvenir, escatologicamente, si sovrappone alle parole Amore, Coraggio, Speranza. E credetemi, se ve lo dico io: la mia vita non è stata una scala di cristallo ma di assi sconnesse e pietre sbrecciate. Vi ho salutato, compagni: chissà se potremo mai mangiare il pane assieme. Assieme!

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Opinioni

La svolta danese di Marco CASTALDO

In Danimarca gli elettori hanno scelto una nuova direzione e un nuovo governo. Lo ha detto la leader dei socialdemocratici danesi, Mette Frederiksen, dopo la vittoria alle elezioni parlamentari, definendole "le prime elezioni climatiche nella storia della Danimarca". I socialdemocratici di Frederiksen si confermano primo partito con il 26%, pur perdendo lo 0,3% rispetto alle elezioni del 2015. Ma, al contrario di quattro anni fa, questa volta potranno contare sul sostegno di altre forze di sinistra in crescita per raggiungere la maggioranza di 90 seggi su 179. Guadagna voti il Partito liberale del premier uscente Rasmussen, che arriva al 23,4% (+3,9% rispetto al 2015), ma non gli alleati del blocco conservatore. In particolare, il partito dell'Alleanza liberale ottiene il 2,3%, con il leader e attuale ministro degli Esteri Anders Samuelsen che non entrerà nel nuovo parlamento. I populisti xenofobi del Partito del popolo danese infine precipitano dal 21,1% all'8,8%, mentre entra con 4 seggi in parlamento la Nuova Destra, fondata dall'architetto Pernille Vermund. Il primo aspetto da constatare è il ritorno dei socialdemocratici al governo del paese nordeuropeo famoso per il suo welfare, ma, negli ultimi vent’anni in Danimarca, in tema di welfare ci sono stati tagli a istruzione e salute hanno ingrossato l'erosione dello stato sociale che, mescolata alla convivenza spesso complessa con i migranti, ha prodotto lo status quo. Circa un quarto degli ospedali sono stati chiusi in due lustri e più della metà dei danesi non ritiene soddisfacente il servizio erogato dalla sanità pubblica, mentre al contempo sono aumentate le polizze stipulate con assicurazioni private. Nella scuola un quinto degli istituti sono stati chiusi e la spending review che ha toccato le case di cura, la pulizia e la riabilitazione per gli over 65. L’altro aspetto positivo è che il popolo danese ha scelto una leader donna socialdemocratica, Mette Frederiksen che all’età di 41 anni, la più giovane premier del28


la storia danese, seconda donna ad assumere la carica, dopo Helle ThorningSchmidt. Entrata nel partito a 15 anni e in Parlamento a 26, è stata ministro del Lavoro e della Giustizia. I danesi, dunque, non declinano la parità di genere come banalmente in Italia con l’obbligo per i partiti politici di individuare candidati rispettando l’alternanza di genere. Come dire che non ricopre alcuna importanza il valore intrinseco della persona, ma è sufficiente il rispetto di una formale regola matematica per metterci la coscienza a posto.

Per vincere le elezioni i socialdemocratici hanno virato più a sinistra in tema di economia e di Stato sociale (“basta austerity” è uno dei cavalli di battaglia), ma più a destra per quanto riguarda l’immigrazione. Frederiksen ha infatti accolto le istanze presentate dal Partito popolare danese: bando del burqa in pubblico, riduzione del diritto d’asilo, rimpatri, confisca dei beni dei migranti per contribuire al loro mantenimento, proposta di istituire un “limite per l’immigrazione non occidentale”. I socialdemocratici hanno anche promesso di aumentare la spesa pubblica (dello 29


0,8% nei prossimi cinque anni), riconoscendo il ruolo del welfare per i danesi. Hanno indicato le coperture in maggiori tasse che le imprese dovrebbero versare in uno speciale fondo sociale. Frederiksen ha anche promesso nuove politiche edilizie con il vademecum «Città con spazio per tutti», per rendere la vita urbana accessibile alle famiglie con reddito medio, come impiegati e insegnanti, che ora non possono permettersi di vivere dove lavorano. Per cui propone di ridurre gli affitti di alloggi pubblici, garantire più posti di residenza per gli studenti e impedire ai fondi di capitali stranieri di acquistare alloggi a basso costo per ristrutturarli e affittarli. In Italia Salvini ha vinto con una politica migratoria di chiusura totale, sia dei porti, sia dei rapporti con buona parte dei Paesi da cui provengono i migranti, ma il problema principale non è la presenza degli stranieri, bensì l’incapacità constatabile dell’attuale governo italiano di attuare politiche di investimento per il lavoro e lo sviluppo della società, a cominciare dai giovani, essi stessi migranti in cerca di lavoro all’estero. La destra vince perché la sinistra in Italia non ha idee chiare sulle problematiche migratorie e, quando ha tentato di porre rimedio all’afflusso degli sbarchi sulle coste italiane, lo ha fatto in modo sbagliato per assecondare la crescente richiesta di maggior rigore nei confronti degli stranieri che arrivano in Italia. Il modello socialdemocratico danese in tema di politiche migratorie insegna che tra la politica di sinistra dell’”accogliamoli tutti” e quelle di destra dei “porti chiusi” ci deve essere, la politica dei diritti e dei doveri uguali per tutti, indigeni e stranieri. La Danimarca accoglie profughi e migranti economici e dà a tutti a gli stessi diritti, danesi/europei e no, incluso lo ius soli e la cittadinanza in 5 anni. Se gli stranieri commettono HATE CRIMES (rapina, stupro, omicidio - e tentato - pedofilia, ecc.: non furterelli o evasione fiscale) scatta la condanna e la pena che deve essere scontata in Danimarca e, dopo il carcere, si riporta lo straniero verrà espulso dall’Unione Europea o in un paese di sua scelta o in quello indicato dallo Stato danese. I socialdemocratici, con questi provvedimenti, intendono proteggere il sistema sociale del Paese e anche facilitare l'integrazione degli immigrati e rifugiati presenti sul territorio con tempi adeguati di attuazione. Va ricordato che la Danimarca che è il paese d’Europa, insieme alla Svezia, con il più alto tasso di mi30


granti diventati cittadini danesi. I partiti di sinistra italiani non hanno compreso le istanze ed i bisogni dei ceti più deboli, che erano il loro elettorato e che che si sono spostati a destra. Il Partito Democratico vince nei grandi centri urbani e nei quartieri più ricchi, mentre perde clamorosamente nelle periferie, i bacini di voto storici delle forze di sinistra. hanno fatto sì che Gli slogan violenti e razzisti delle destre hanno trovato terreno fertile nelle zone degradate con precarie condizioni economiche. E’ in quelle situazioni che occorre dare risposte pragmatiche e di buon senso senza inasprire gli scontri e le divergenze provocate da una sempre più esasperata crisi economica e sociale. Ritengo essenziale che le forze di sinistra in Italia comincino a parlare un linguaggio chiaro e netto circa le politiche di accoglienza dei migranti e della loro integrazione nella società italiana, abbandonando l’atteggiamento di superiorità culturale della sinistra italiana, percepito dalla popolazione come lontano dalle reali necessità delle persone. Ci sono diverse culture del popolo danese e di quello italiano, ma è necessario cominciare se non si vuole perdere la possibilità di uscire dalla gretta constatazione del fatto che siamo costretti ad accettare una perenne guerra tra poveri, di cui beneficiano forze politiche che esprimono disvalori e pericolose derive divisive, antidemocratiche e violente.

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