Numero 11 del 20 settembre 2019
CONTRATTI E PROGRAMMI
Sommario
O’ marchese - pag. 3 di Antonella BUCCINI
Contratti e programmi - pag. 7 di Umberto SCOTTI DI UCCIO
Bruno Buozzi, un sindacalista per tempi di ferro - pag. 10 di Giovan Giuseppe MENNELLA Quindi, alla fine l’hanno fatta - pag. 21 di Antonella GOLINELLI
Israele, il voto arabo che ha detronizzato “King Bibi” - pag. 25 di Umberto DE GIOVANNANGELI Da dove cominciò la crisi. Il fallimento Lehman Brothers - pag. 32 di Giovan Giuseppe MENNELLA Giancarlo Siani: in ricordo di un giornalista scomodo - pag. 39 di Aldo AVALLONE 2
Donne
O’ marchese Antonella BUCCINI
Non voglio parlare di dame e cavalieri, il tema è un altro. Chi ha letto L’Amica geniale o ha visto la serie, forse ricorda la domanda che Lila, una delle protagoniste, fa alle sue amiche del quartiere: “Cos’è o’ marchese?”
Le bambine di un tempo a Napoli conoscevano l’argomento. La prima volta che ne sentii il peso mi trovavo a Marechiaro, sui massi di un lido che degradavano verso il mare. Un gruppo di ragazzini si muoveva scomposto e veloce verso un punto preciso della scogliera. Erano eccitati dalla loro curiosità. Si fermarono in un anfratto e uno di loro urlò “o’ marchese, o’ marchese”. Pur rimanendo distante, mi avvicinai. Un altro sollevò con la punta delle dita il trofeo rivolto verso di me: un assorbente. Ridevano tutti “e roba e’ femmene” disse uno con un’espressione schifata. “vuttalo, vuttalo” urlò un altro. Rimandiamo ad altra sessione l’inciviltà di chi 3
aveva pensato bene di disfarsi di quell’impiccio tra le onde del mare. Mi allontanai rapidamente, un po’ spaventata. Da poco avevo conosciuto quell’appuntamento mensile che, all’epoca, difficilmente gli adulti chiarivano e se lo facevano era per indurre ad una sorta di rassegnazione ad un destino complicato. Mi sedetti sul mio asciugamano e non sapevo bene perché mi sentii umiliata, confusa ma anche infuriata. Non riuscii a comprendere quell’insieme di emozioni apparentemente indistinte, non ancora. O’ marchese, dunque, indica il mestruo, forse mutuato dal francese o anche perché i nobili usavano palandrane rosse. Un’espressione ambigua, che, nella sua apparente relazione con l’aristocrazia, sembra per questo ancor più sottolineare un’implicita derisione. Le signorine di buona famiglia, per decenza, adottavano altri espedienti: le mie cose, il ciclo, sono indisposta, le regole ecc. Tutte parole timide e composte per tentare di ingentilire e camuffare una sola cosa: la perdita di sangue dalla vagina di una donna una volta al mese. Può sembrare superfluo ricordare quanto questo semplice meccanismo naturale abbia condizionato la vita delle donne. Non mi riferisco all’uso degli assorbenti o a qualche mal di pancia! Al primo mestruo si apriva un mondo o meglio si chiudeva. La ragazzina si trasformava in vittima potenziale e non solo degli istinti, sempre giustificabili, di qualche maschio infoiato, ma anche di sguardi ambigui, di desideri malcelati. Andava “protetta”. E non bastava limitarne la libertà. La colpevolizzazione, la repressione di ambizioni e desideri funzionavano molto meglio. Al contempo la stessa ragazzina poteva anche trasformarsi in carnefice. Cioè, se covava la vocazione della putta4
nella, avrebbe potuto insidiare un uomo rispettabile che, si sa, non può rifiutare la disponibilità di una piccola Lolita compromettendo al contempo la sua verginità. Quella macchia sconosciuta sulla mutandina certificava dunque un passaggio fondamentale: con le buone o con le cattive si diventava donne, donne perbene.
Una donna era intrattabile “in quei giorni”, tanto intrattabile che non si potevano neanche chiamare con il loro nome, “quei giorni”. Nel mentre poteva trasformare il vino in aceto, come Gesù, ma facendo ovviamente disastri o fare appassire i fiori. Per legge le donne erano tanto instabili da non poter accedere a tutte le professioni. Eppure l’innominabile era allo stesso tempo fondamentale nell’unico curriculum che contava veramente nella vita di una donna. La femmina che non era in grado di generare e, all’epoca gli uomini non si sottoponevano neanche agli esami del caso perché nessun sospetto doveva cedere sulla loro virilità, perdeva ogni valore. Quell’emorragia periodica tanto temuta e nascosta era la prima testimonianza di quella capacità, poi venivano i fianchi larghi e il seno abbondante, requisiti benvi5
sti dalle future suocere. Non è più così? Certo il dominio sulle donne oggi è esercitato con sistemi più ambigui e il rischio di regressione e repressione dei loro diritti è quanto mai reale. In ogni caso e in ogni latitudine comunque il destino delle donne è segnato da simboli, paure e pericoli che hanno la stessa sintassi. Leggo su la Repubblica, in un breve trafiletto, che una ragazzina di quattordici anni in Kenya, a scuola, si è sporcata di sangue, erano le sue prime mestruazioni. L’insegnante l’ha brutalmente rimproverata e allontanata. La ragazza tornata a casa, ha raccontato tutto ai genitori, poi è andata a prendere l’acqua fuori e si è impiccata. Il giornalista ci informa che in Kenya dal 2017 una legge obbliga le scuole a fornire assorbenti gratuiti alle allieve ma non tutte riescono ad attuarla. Una ragazza su dieci non va a scuola durante le mestruazioni aumentando la probabilità di abbandonarla. E’ dunque un problema di carenza di assorbenti? O magari di coppette come suggeriva il parlamentare cinque stelle? Scusate ma quella storia non cessa di innervosirmi. E’ legittimo pensare che se quella macchia fosse stata provocata da una caduta o da un qualsiasi diverso incidente la barbara insegnante sarebbe stata clemente, l’imbarazzo della bambina tollerabile. Invece il sangue mestruale è colpa in sé, va celato con pudore, evoca la sessualità, la maternità, il potere della femminilità. E’ inaccettabile.
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Politica
Contratti e programmi Umberto SCOTTI DI UCCIO
So già cosa obietteranno i puristi: si devono guardare i contenuti. Ma questa, dico io, è una frase fatta, perché vengono prima le cose più semplici. Partiamo ad esempio dal conteggio dei caratteri, spazi inclusi: 125516 e 22118. I documenti si trovano facilmente online nel formato integrale, provare per credere: il Contratto tra M5S e Lega straccia il Programma del Governo M5S-PD. Non c’è discussione, vincono loro, quelli di prima, hanno scritto quasi sei volte di più. Se poi confiniamo l’attenzione alla Scuola, il tema di cui mi occupo di solito in questi miei commenti, la situazione si fa ancora più pesante: 3848 a 514, sette volte e mezzo di più. Non c’è partita.
Siccome ho una certa età, un occhio alla forma lo dedico volentieri. La prosa del Contratto è verbosa, pesante, approssimativa. Scade nel lessico (non se ne può più dell’accostamento tra studenti e polli), è imprecisa nella sintassi (se ne accorge per7
fino il correttore word), tenta vanamente di essere colloquiale e invece è noiosa; purtuttavia, non mancano slanci di ottimistico idealismo. Nel Programma, d’altro canto, regna l’anacoluto, la sintesi schematica che piace tanto ai tecnici, il puntoelenco. La forma è tanto stringata da essere ansiogena, carica il lettore di aspettative deluse, lo riempie di dubbi e, infine, di tristezza. Non c’è dubbio: il Conte 2.0 (“A volte ritornano”) non somiglia al primo Conte, al punto da chiedersi: è farina del suo sacco? Ha copiato? Ha riletto prima di firmare? Ma andiamo pure avanti: passiamo all’analisi teleologica. No, prima un inciso: i miei colti lettori avranno di certo capito che scherzo. Mettere parole difficili è necessario per far finta di avere pensieri profondi; in realtà, non ne ho. I documenti di cui parlo, inoltre, non hanno molto di filosofico, men che meno una visione finalistica, e il massimo che possiamo concedere è un carattere di suggestione. Parliamo dunque di questo: il Contratto suggerisce che l’estensore abbia adoperato molte parole per nascondere la mancanza di un disegno complessivo; il Programma, al contrario, che per nascondere la mancanza di un disegno complessivo lo scrivente abbia usato meno parole possibili. Avendo gettato inutilmente lo sguardo in avanti, volgiamolo indietro. Leggere tutti i programmi dei Governi passati è lavoro da storico e non l’ho fatto; ho dato però una scorsa, consultando Wikipedia, all’elenco dei Ministri della Pubblica Istruzione e successivamente del MIUR, dai tempi del Regno d’Italia ai giorni nostri. Se tanto mi dà tanto, i Ministri dovrebbero rappresentare l’incarnazione dei programmi. Diciamolo chiaramente: fa molta tristezza confrontare Gentile, De Sanctis, Croce, Scalfaro, Spadolini, Mattarella, De Mauro (per citarne solo alcuni) con le figure recenti. 8
Veniamo così, tra il serio e il faceto, al pianto rituale. Nei documenti e nei discorsi ufficiali, i Governi di questa legislatura citano la Scuola come elemento strategico per lo sviluppo del Paese, ma non si vede alcuna strategia e non sembra facile costruirla, perché i partiti di Governo partono da posizioni contrapposte: il PD a difesa della “Buona scuola”, il M5S contro. La sintesi toccherebbe al Ministro Fioramonti, ma per il momento parla solo di merendine e di Finlandia. E’ evidente: come gli studenti che non hanno preparato la lezione, cerca di cambiare argomento.
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Politica e Storia
Bruno Buozzi, un sindacalista per tempi di ferro Giovan Giuseppe MENNELLA
La fine dell’Ottocento era un periodo davvero buio per i lavoratori e le classi meno abbienti. Le fabbriche e campi da coltivare erano luoghi di lavoro durissimo, e malsani, dove ci si ammalava e si moriva frequentemente d’incidenti, di malnutrizione, di malattie professionali. I lavoratori non avevano neanche il diritto al voto e le manifestazioni di protesta organizzate dalle prime associazioni di tutela e di difesa, erano represse nel sangue dalle forze di polizia o dell’esercito. Le prime organizzazioni sindacali e il neonato partito socialista agivano per instillare nei lavoratori la coscienza dei loro diritti e del ruolo politico che avrebbero dovuto assumere nella società, gettando il seme dell’instaurazione di un socialismo liberale che doveva essere il pilastro degli Stati veramente moderni. Ma questa è una storia che allora era veramente lontana dall’essere pienamente realizzata. In quest’ambiente difficile e travagliato, nel 1881 a Pontelagoscuro, nella bassa ferrarese, nasce Bruno Buozzi, il personaggio che doveva diventare proprio un leader e un alfiere del socialismo. A differenza di altri esponenti del sindacalismo e del socialismo, Buozzi ha le medesime umili origini dei soggetti che avrebbe difeso e di cui avrebbe tutelato i diritti. Infatti, a causa della povertà della famiglia, è costretto come tanti altri ragazzi dell’epoca a lavorare in officina fin dall’età di undici anni. Si distingue ben presto per intelligenza, sensibilità, forte desiderio di imparare e per la consapevolezza dei problemi e delle sfide da affrontare per migliorare le condizioni dei lavoratori. Fre10
quenta le scuole serali come studente lavoratore. Diventa operaio specializzato ed entra nel Sindacato dei metallurgici milanesi. Nella grande città, da giovane preparato, intelligente e pacato, non solo affina i suoi studi presso la filantropica Società umanista milanese, dove ha una borsa di studio, ma si mette in luce anche come valido esponente del Sindacato.
Per il suo impegno ha anche modo di suscitare l’ammirazione e il plauso non solo di un intellettuale importantissimo del mondo socialista come Antonio Gramsci, ma anche di esponenti del mondo dell’alta cultura borghese, come l’economista e futuro Presidente della Repubblica Luigi Einaudi. Gino Castagno, suo amico e compagno di lotta di allora, ebbe a testimoniare che la 11
capacità principale di Buozzi era di saper indicare efficacemente ai lavoratori che il metodo di lotta doveva essere indirizzato non solo verso il semplice riscatto dalle peggiori condizioni di miseria umana ma soprattutto verso concrete e realizzabili rivendicazioni di miglioramenti economici e normativi. In pratica, comincia a elaborare un metodo di contrattazione con la controparte padronale basato sulla statistica, sullo studio delle condizioni e dei fatti concreti, per squadernarli in argomentazioni chiare, da porgere con la diplomazia della bonomia e del sorriso. Questo modo di procedere suscita sempre una certa simpatia da parte di compagni e avversari, lo stesso Mussolini lo considerò sempre uno degli avversari più validi e preparati, ma anche attacchi violenti e subdoli da parte di molti detrattori, in prima fila i sindacalisti rivoluzionari e gli stessi comunisti, che per minarne la credibilità non esitarono a ricorrere alla calunnia e a illazioni non provate. La sua efficace e concreta azione sindacale, unita alle qualità umane, lo portano nel 1909 a diventare, a soli ventotto anni, Segretario della Fiom, la Federazione degli operai metallurgici, in un periodo assai difficile, giacché quel Sindacato viveva un periodo di crisi e di scarso potere rivendicativo, anche per le accuse di appropriazione indebita rivolte al Segretario uscente. In soli due anni la guida di Buozzi porta la FIOM non solo a riprendersi dalla crisi, ma a influire concretamente nella vita sociale e politica dell’intera Nazione. Quelli sono anni importanti e decisivi, il giovane Benito Mussolini è diventato un massimalista e vociferante capo del Partito Socialista, ben presto è concesso il diritto di voto agli operai di età superiore ai trenta anni, cominciano a nascere i partiti di massa, tra cui lo stesso Partito socialista. E prendono forza anche le rivendicazioni di potenza e di espansione imperialista dei nazionalisti, con alla testa come punte di lancia alcuni movimenti intellettuali, tra cui degno di nota il Futurismo. 12
Il Partito socialista e le stesse Associazioni sindacali sono spaccate tra Massimalisti e Riformisti. La spaccatura è significativa soprattutto sul metodo da seguire per ottenere una società socialista, un metodo rivoluzionario violento per i Massimalisti e un metodo democratico, rivendicativo e gradualista per i Riformisti. Il nostro Buozzi è fautore non della lotta di classe rivoluzionaria in sé e per sé, ma dei progressi che la lotta più indurre in una società democratica nel suo complesso. La battaglia vera deve essere quella del Sindacato, un Sindacato democratico, aperto a tutte le tendenze, per ottenere quei miglioramenti e quelle conquiste che disegnino una società democratica e un socialismo umanista e positivista. Insomma, per Buozzi l’obiettivo decisivo e fondamentale deve essere quello di una più equa distribuzione delle risorse economiche della Nazione. La prima forma di democrazia deve essere instaurata nella fabbrica. Esemplare per capire il suo metodo è un suo discorso in un’accesa riunione con gli industriali proprietari, nell’ambito di una difficile vertenza riguardante i metallurgici. Nel suo discorso Buozzi ebbe a sottolineare che aveva sempre avuto una posizione possibili13
sta, consigliando agli operai di tenere conto anche delle condizioni economiche delle industrie, che non si era mai ritenuto infallibile ascoltando seriamente quanto emergeva nelle trattative, ma che pretendeva una reciprocità da parte degli industriali che pure dovevano sforzarsi di comprendere le esigenze e necessità vitali dei lavoratori. Poi viene la Grande Guerra; Buozzi fa propaganda contro la guerra, come tutti i socialisti e la gran parte dei sindacalisti. I nazionalisti e i militari lo prendono di mira, lo pedinano, probabilmente fanno piani per ucciderlo, ma il Governo ferma tutto, per non perdere l’appoggio dei lavoratori allo sforzo bellico. E lui approfitta della situazione nuova, quella dei comitati per la mobilitazione a fini bellici dei lavoratori, per farne un’opportunità per nuove forme di contrattazione organizzata che nel corso del conflitto riesce anche a ottenere alcuni aumenti salariali e migliori condizioni di sicurezza nelle fabbriche. Finita la guerra, le condizioni del Paese rimangono molto difficili, per il grave debito pubblico accumulato, per la disoccupazione causata dalla riconversione dell’industria bellica e la smobilitazione di centinaia di migliaia di militari ormai resi estranei al mondo produttivo per la lunga assenza dalla società. Nel 1920 il conflitto sociale porta all’occupazione delle fabbriche metallurgiche. Buozzi è alla testa del movimento e cerca di governarlo e indirizzarlo in positivo. Ottiene le otto ore lavorative giornaliere, il minimo salariale, l’istituzione delle Commissioni interne. Propone anche, a livello politico, la cogestione delle risorse tra datori di lavoro e lavoratori che però non passa, anche se suscita l’interesse dello stesso Mussolini. C’è un incontro tra i due, in cui Mussolini chiede a Buozzi se con l’occupazione delle fabbriche se intendesse fare non solo delle rivendicazioni ma anche della politica, proponendogli di appoggiarlo per un tentativo rivoluzionario. Buozzi rifiuta 14
e più tardi racconta che in quel frangente Mussolini sembrava non sapesse esattamente dove voleva arrivare, ma dava l’idea di voler comunque arrivare al potere in qualunque modo e con qualunque programma. In realtà non c’erano le condizioni per un movimento rivoluzionario e alcuni ne erano consapevoli, come ha appurato anche la storiografia successiva. E’ interessante però riflettere sull’atteggiamento che in quel momento e anche in seguito assuma Mussolini nei confronti di Buozzi. E’ di grande considerazione per la statura e le capacità del personaggio e cercherà sempre di contrattare con lui e di portarlo dalla propria parte, come vedremo in seguito. Durante
l’occupazione
delle
fabbriche
s’inaugura
il
metodo
di
lotta
dell’ostruzionismo, alternativo allo sciopero. Buozzi lo giustifica, rispondendo a Luigi Einaudi che lo criticava, in quanto con uno sciopero prolungato gli industriali avrebbero consumato notevoli risorse finanziarie e gli operai si sarebbero ridotti alla fame. Il suo rapporto con i deputati del Partito Popolare passa da una prima fase di aperta critica, in cui li accusa di fomentare la guerra civile contro i socialisti, a una proposta di alleanza in funzione antifascista e antinazionalista. Quanto questa posizione fosse preveggente sta a dimostrarlo l’alleanza antifascista successiva che durante la Resistenza portò al Comitato di Liberazione Nazionale, con tutte le forze antifasciste, foriero della rinascita democratica della Nazione nel dopoguerra. Nell’ambito di quest’azione politica di ricucitura delle forze antifasciste, propone la previdenza sociale per i lavoratori e la promulgazione di un Codice del Lavoro, anch’essi istituti che dovevano svilupparsi proficuamente nella Italia democratica risorta dalle macerie della Seconda Guerra Mondiale.
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Ma in quell’epoca, questi sviluppi non si realizzano e anzi, nel 1921, con il fallimento politico del movimento di occupazione delle fabbriche, maturano sia la conquista violenta delle piazze da parte delle squadre paramilitari del fascismo agrario dell’Italia settentrionale, sia, all’interno del movimento socialista, la scissione di una parte dell’ala massimalista socialista che fa nascere, nel Congresso di Livorno, il Partito Comunista d’Italia, composto dalle due frange dei bordighisti, contrari al metodo parlamentare, e dei gramsciani dell’Ordine Nuovo favorevoli alla lotta di base dalle fabbriche. E’ proprio dall’interno del PCd’I che, in adesione ai ventuno punti di Lenin richiesti per l’ammissione all’Internazionale Comunista, tra cui quello dell’obbligo di critica ed espulsione dei socialisti riformisti, fioccano critiche durissime e ingenerose contro Buozzi, definito servo dei padroni perché non aveva dato sbocco rivoluzionario all’occupazione delle fabbriche. 16
Così il nostro protagonista fonda insieme a Giacomo Matteotti e Sandro Pertini il Partito Socialista Unitario. Dopo la Marcia su Roma, quando Mussolini ha formato il suo primo Governo ma vigono ancora il sistema parlamentare e le elezioni rappresentative, Buozzi e Matteotti prendono più di una volta la parola esprimendo la ferma opposizione al Governo, considerandolo chiaramente contro gli interessi dei lavoratori.
Dal canto suo, Mussolini vorrebbe avere proprio l’appoggio dei lavoratori e propone a Buozzi, in quanto ormai riconosciuto come il loro più ascoltato leader sindacale e politico, di diventare Ministro del Lavoro. Siamo alla fine del 1922, ma quest’opzione dura poco, sia perché rifiutata decisamente da Buozzi, sia perché il Capo del Fascismo si orienta ben presto verso l’alleanza con gli industriali e le classi proprietarie dominanti e, con gli sviluppi del caso Matteotti, arrivano le leggi liberticide e la dittatura. Filippo Turati, il padre nobile del socialismo riformista e umanitario, deve lasciare l’Italia dopo la famosa e rocambolesca fuga preparata da Aldo Rosselli e Adriano Olivetti e dopo avere dormito per una notte nascosto nella casa del professor Giuseppe Levi, come ricordato in “Lessico familiare” dalla figlia del professore, l’allora adolescente Natalia Ginzburg. 17
Buozzi non si piega alle proposte di collaborare con il Regime, è aggredito dagli squadristi nel 1924 durante un’assemblea della FIOM, riesce a scappare fortunosamente, grondante di sangue. Nel 1925 è eletto Segretario della CGIL, la Confederazione Generale del Lavoro. Ma ormai il tempo della libertà e della libera azione sindacale e politica è scaduto. Deve scappare anche lui a Parigi. Nel periodo del suo esilio, Mussolini tenta ancora una volta di strappare la sua collaborazione al regime, cerca di farlo rientrare in Italia. Infatti, prepara la gestione corporativa del lavoro con la Camera dei Fasci e delle Corporazioni e un diritto del lavoro e Organizzazioni dei lavoratori asservite. Buozzi ancora una volta rifiuta. Dice chiaramente in varie prese di posizione che non avallerà mai un regime che ha privato i cittadini della libertà, delle libere manifestazioni del pensiero, del diritto di associazione, ha istituito il Tribunale Speciale per la difesa dello Stato. Non ha nulla da chiedere al Regime, meglio in esilio che in Italia per gentile concessione del Capo. Anche se, sempre ragionevole e saggio, non esprime alcuna condanna per chi resta in Italia, infatti, non può andare in esilio un intero popolo. Con la caduta del fascismo il 25 luglio 1943, rientra in Italia ed è subito Ministro nel Governo Badoglio, ma con l’occupazione tedesca deve entrare in clandestinità e riprende ad organizzare la lotta antifascista a Roma. In questo periodo sigla con gli altri due leader sindacali, Di Vittorio per i Comunisti e Grandi per i cattolici, il Patto di Roma per l’unificazione dei rappresentanti dei lavoratori in un Sindacato unitario, di cui dopo la guerra sarebbe stato sicuramente il Segretario Generale.
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Ma è catturato dai nazisti per il tradimento di un giovane socialista, convinto da Erich Priebke a collaborare con promesse di denaro e minacce. Gli avvenimenti si susseguono rapidamente, è rinchiuso a Regina Coeli dove dimostra ancora una volta il suo carattere cordiale e accogliente. Conforta gli altri detenuti, indifferente alle violenze e ai soprusi dei carcerieri, si priva della razione di pane per darla a chi è più affamato, è considerato dagli altri detenuti quasi come un padre e una volta rimane a parlare tutta la notte con un giovane prigioniero per convincerlo a non togliersi la vita. Al momento della fuga dei tedeschi da Roma quando il 4 giugno 1944 gli alleati stanno per entrare in città, i detenuti sono divisi in tre scaglioni, una parte è fucilata immediatamente, una parte rimane in carcere e una terza parte, tra cui Buozzi è 19
messa sui camion per essere deportata al Nord e forse in Germania nei campi di concentramento. Si è ipotizzato che Buozzi fosse condotto a Nord per ordine di Mussolini che voleva ancora una volta tentare di convincerlo a collaborare con il nascente Fascismo repubblicano. Comunque, in località La Storta, a nord di Roma, il camion su cui si trova lui va fuori uso. Nella concitazione del momento un funzionario della Polizia germanica decide di far uccidere tutti gli occupanti. Muore così a sessantatre anni il grande leader sindacale politico del socialismo riformista. Si è molto discusso tra gli storici se la sua uccisione debba essere considerata frutto della fatalità e del caso o non sia stata dovuta ad un preciso ordine venuto dall’alto. La circostanza accertata che sul posto erano presenti anche Herbert Kappler ed Erich Priebke farebbe propendere per la seconda ipotesi, non sembrando plausibile che un ordine per eliminare un personaggio così importante sia stato dato da un oscuro funzionario di polizia in presenza dei vertici della Gestapo a Roma. La perdita di un personaggio così importante per il sindacato e la politica è davvero lamentevole, considerato quanto avrebbe potuto ancora dare in termini di intelligenza politica e diplomazia nell’Italia del dopoguerra. Sarebbe stato sicuramente il Capo del Sindacato Unitario e un politico di grande livello, un Di Vittorio socialista. 20
Politica
Quindi alla fine l'hanno fatta Antonella GOLINELLI
Dopo anni di minacce e promesse a vuoto, di gufi e infinite serie di insulti di provenienza ornitologica, di cori e rottamazioni, di velocità e inaugurazioni, alla fine. Certo l'avessimo saputo che le grida alla Leopolda “FUORI FUORI”era una dichiarazione d'intenti e non un poco garbato invito ad andarcene tutti saremmo stati più sereni.
Non sono chiari nei loro intenti, hanno la tendenza generalizzata a confondere i 21
piani. Non si capisce mai cosa hanno nello spartiorecchie. Giocatori specializzati nel bluff. Certo è vero che il senatore semplice l'aveva ventilata più volte, fatta filtrare l'ipotesi ogni volta qualcuno osava contestare o mettere semplicemente in discussione le sue personalissime, a volte astruse, posizioni. Ogni volta si osava mettere in discussione il verbo oplà! Sui giornali si palesava il retroscena ipotizzante l'uscita. Mai tenuto fede. Rientrava sempre tutto. Stavolta invece no. Io la vedo cosi: risulterebbe che il sito Italia viva, o comunque si chiami, sia stato registrato ai primi di agosto. Risulterebbe che i pagamenti alla fondazione interna all’ex corrente abbiano registrato un incremento consistente sin dalla primavera. Che poi bisognerà anche andarci dentro a questa fondazione del PD. Prima o poi... Comunque si registrerebbe anche un aumento dei costi per pubblicità sul web da qualche mese. Si registrerebbe pure, pare, la riattivazione di un giornale cartaceo con una possibile commistione di interessi all'interno piuttosto interessante. Nel frattempo cade un governo e se ne fa un altro. In maniera piuttosto surreale, tanto surreale che l'ipotesi elezioni anticipate si rivela una pistola scarica sul tavolo. Quindi si procede alla formazione del governo con un’applicazione del Cencelli pressoché perfetta. Finiti i giuramenti, con le firme non ancora asciutte, si annuncia la scissione. Tralascio le lacrime di addio di tanti, tralascio pure le lacrime di commozione convinta di chi resta, le giustificazioni improbabili, il mischione che ne è derivato. Alla fine della fiera alla camera sono venticinque con alcune provenienze che... al senato sono meno ma fanno gruppo pure lì con l'escamotage di usare il simbolo dei socialisti di Nencini. Assisteremo quindi alla formazione Partito Socialista Italia 22
Viva. Ovvero una formazione che ambisce ad occupare il centro, a rappresentare i moderati (come se esistessero) dichiarando nel nome di essere socialista io qualche problema me lo pongo. Non vi pare un filino strano? Ma va bene. Resta da scoprire se tutti questi usciti, no! Chiamiamoli pure col nome appropriato. Scissionisti, si chiamano scissionisti. Dicevo, resta da scoprire se gli scissionisti sono in regola con il versamento delle quote, di tutte le quote. Ho sentito dire che alcuni petali privilegiati del giglio avessero un'esenzione dal versamento. Sarebbe interessante scoprirlo. Soprattutto perché, ricordo, i funzionari del Nazareno sono in cassa integrazione, molti a zero ore. Insisto su questo punto e insisterò fino ad ottenere risposta.
Ad ogni modo il senatore semplice è riuscito a tornare al tavolo dove si decide. Non poteva assolutamente permettersi di tornare a essere uno normale.
Mi chiedo se la prossima Leopolda sarà un congresso o una semplice acclamazione. Chissà se al loro interno discuteranno o sarà vietato come nel PD sotto la sua inflessibile direzione. 23
Oh ma saranno comunque giornate interessanti. Caspita! Si registra qualche annuncio di uscita degli eletti nei territori. Molte di più sono le persone che stanno riflettendo. Ecco. Io qui rido. Cosa volete, son fatta cosi. Quando sento un sindaco, un consigliere o altro affermare che sta riflettendo so per certo che sta valutando le offerte ricevute, o la mancanza delle stesse. Mi stupisco sempre di quanto ci considerino stupidi noi semplici mortali. Infine bisognerà anche risolvere la vicenda nei circoli, chi va dove. Altro che fare chiarezza! Qui si è alzato un polverone da paura. Si diraderà alla fine. È inevitabile. Semplice gravità.
Resta solo da chiarire, in fretta, perché tanti cascami del renzismo non abbiano seguito il capo.
Ma non dubito lo sapremo presto.
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Esteri
Israele, il voto arabo che ha detronizzato “King Bibi” Umberto DE GIOVANNANGELI
Nei passaggi più difficili della sua perigliosa storia, Israele si è sempre affidato ai suoi generali. Non perché sia una comunità militarista ma perché vivere in trincea finisce per costruire la “psicologia di una nazione”. La storia d’Israele è piena di generali passati alla politica: fu così con Moshe Dayan, con Yitzhak Rabin, con Ariel Sharon, con Ehud Barak… E oggi, con l’inizio del tramonto dell’era Netanyahu, Israele affida il suo futuro a un altro generale: il sessantenne ex capo di stato maggiore delle Idf (le Forze di difesa israeliane) Benny Gantz, Kahol Lavan (Blue 25
and White), il partito centrista di cui Gantz è il leader, ha conquistato trentatré seggi, due in più di quelli che sono andati al Likud di “Bibi” (mentre il centro-sinistra, contando anche la Joint List dei partiti arabo israeliani, terza forza alla Knesst) raggiunge i cinquantasette seggi. . Chiuse le urne, finiti di conteggiare i voti, si sono aperte le trattative per dare un governo stabile a un Paese che nel giro di cinque mesi è andato due volte alle urne. Il Generale vince sul “Re”. Perché una cosa è certa. E a sancirla, inesorabilmente, sono i numeri: Benjamin Netanyahu non ha una maggioranza su cui costruire il suo sesto governo: complessivamente, l’eterogeneo, e rissoso, campo delle destre pro-Bibi raggiunge i cinquantacinque seggi, lontani dalla fatidica soglia dei sessantuno necessari per governare. Netanyahu ha personalizzato il voto, trasformandolo in un referendum sulla sua persona, ancor più che sulla sua politica. Quel referendum l’ha perso. E sì che per provare ad allungare la sua vita politica, Bibi le aveva provate tutte, spostando il Likud su un versante oltranzista che negava la storia stessa di uno dei partiti, assieme al Labour, che hanno costruito la storia dello Stato ebraico. Per restare il primo partito, “King Bibi” ha cercato di cannibalizzare i partiti e partitini ultra: ultraortodossi, ultranazionalisti, spingendosi sino al punto di promettere l’impromettibile: l’annessione della Valle del Giordano. L’operazione non gli è riuscita. Ora, concordano gli analisti a Tel Aviv, proverà a vendere cara la pelle, anche per evitare che invece che le “dorate” porte dell’ufficio del primo ministro, nel cuore della Gerusalemme ebraica, per lui si aprano le “dolorose” porte di un carcere, perché a ottobre sarà chiamato a rispondere in tribunale di pesanti accuse di corruzione. Ci proverà, Bibi. Lo sta già facendo. Per quanti, come chi scrive, hanno conosciuto Benjamin Netanyahu negli anni della sua irresistibile ascesa, fa fatica a riconoscere l’uomo che sguardo basso e tono dimesso si rivolge al Generale (Gantz è stato capo di Stato maggiore delle Forze di Difesa israeliane) che l’ha buttato nell’ultima 26
battaglia politica.
“Incontriamoci, dobbiamo formare un governo di unità", dice il leader del Likud rivolgendosi a Gantz in un video su Twitter chiedendo un incontro già oggi per "portare avanti questo processo che è più rilevante che mai". “Durante la campagna elettorale - ha proseguito Netanyahu - ho fatto appello alla costituzione di un governo di destra. Ma con mio dispiacere il risultato delle elezioni dimostra che esso non è fattibile. Il popolo non ha scelto fra i due blocchi. Perciò non c'è altra scelta che dar vita a un governo il più vasto possibile, che si poggi su tutte le forze cui Israele sta a cuore". "Per questa ragione - ha detto ancora Netanyahu - faccio appello a te, Benny. Incontriamoci oggi stesso, a qualsiasi ora, per mettere in moto questo processo che è di importanza essenziale. Occorre fare tutto il possibile per evitare una terza tornata elettorale". Più che un appello, quello di “Bibi” appare come disperato tentativo di evitare un’uscita di scena disastrosa, non solo per le sue am27
bizioni politiche ma anche per il cittadino Netanyahu: a ottobre il premier uscente rischia seriamente di finire a processo per corruzione. Questione che pesa come un macigno nelle trattative sul nuovo governo, al punto che il portavoce di Bibi ha dovuto dichiarare che le voci secondo cui il primo ministro intende raggiungere un patteggiamento nei casi di corruzione che lo riguardano, sono false. La risposta di Gantz all’appello di Netanyahu non si è fatta attendere: “Kahol Lavan ha vinto le elezioni ed è il partito più grande. Intendo formare un governo di unità ampio e liberale sotto la mia leadership". Il che significa, concordano gli analisti politici a Tel Aviv: 1) Netanyahu non sarà mai né premier né vice, in un governo a guida Gantz; 2) Un governo liberale non può contenere i partiti ultraortodossi che di “liberale” hanno niente. "Ascolteremo tutti ma non accetteremo che ci si dettino cose", ha aggiunto Gantz, rimarcando che "nel momento in cui vi parlo abbiamo trentatré seggi" contro i trentuno di Netanyahu. Un botta e risposta che conferma che i margini di manovra del premier uscente sono ridotti pressoché a zero. A dirlo non sono solo i numeri, ma anche il quadro regionale e, soprattutto, gli interessi di chi di Bibi è fino a ieri stato il più grande sostenitore: Donald Trump. Fino a ieri. Perché oggi, con gli occhi rivolti alle presidenziali del 2020, The Donald tutto vorrebbe meno che imbarcarsi in una nuova guerra in Medio Oriente. Il che significa non avallare l’idea, cara al suo dimissionato ex consigliere per la sicurezza nazionale, John Bolton, che per stabilizzare la regione occorre destabilizzare il regime teocratico di Teheran. Una convinzione che invece anima Netanyahu. Anche nell’ultima campagna elettorale, ha indicato come primo tra i nemici mortali d’Israele l’Iran degli ayatollah e dei pasdaran. Ecco allora l’inquilino della Casa Bianca farsi sponsor, sotterraneo ma attivo, di un governo di unione nazionale in Israele, guidato da un generale, inattaccabile sul terreno caro a Netanyahu, quello della sicurezza, ma che non ha alimentato, in una campagna elettorale dai toni in28
clusivi e rassicuranti, la psicosi della Shoah nucleare. E se per ottenere un governo pacificato c’è da voltare le spalle all’amico Bibi, pazienza, Trump questo sacrificio l’ha già messo in conto. E così al centro della frantumata scena politica israeliana non c’è più un “Re” ma un Generale. Che ha promesso di unire Israele e di ricucire una tela sociale che “King Bibi” e le destre radicali hanno lacerato. Gantz gioca la partita della vita, muovendosi a tutto campo: non lasciando cadere, anzi, la prospettiva, cara a Washington ma anche al capo dello stato israeliano, Reuven Rivlin, di dar vita a un esecutivo con il Likud, ma un Likud senza più l’ingombroNetanyahu. Al tempo stesso, Gantz lascia aperta un’altra porta con un atto che in sé già segna una svolta, in qualche medo epocale, nella vita politica israeliana: l’apertura alla Joint List, la lista che raggruppa i partiti arabi israeliani. Con tredici seggi (a oltre il novanta per cento dei voti conteggiati), la Joint List torna a essere la terza forza della nuova Knesset. Una forza che Gantz intende “scongelare”. Non è un dettaglio, un espediente tattico per forzare la mano a coloro che nel Likud stanno organizzando la fronda “governista” senza e contro Netanyahu. Per tutta la campagna elettorale, l’ex capo di stato maggiore si è presentato come l’uomo che unisce, che include, che non mette in discussione l’identità ebraica come uno dei pilastri nazionali, ma che, a differenza delle destre oltranziste, non vive questa identità come fondamento di un’etnocrazia. Annunciare la sua intenzione di aprire un tavolo di discussione, per dare un governo stabile a Israele, anche ai leader della Joint List è anzitutto un messaggio al paese: nessuno deve sentirsi escluso a priori dalla determinazione degli assetti politici e istituzionali d’Israele. È un messaggio importante, che segna uno spartiacque tra il prima e il dopo, anche se quel tavolo non dovesse portare a risultati concreti. Un messaggio che era stato anticipato dall’appello di quasi cento accademici israeliani pubblicato su Haaretz due giorni prima delle elezioni, nel quale si motivavano le ragioni di un voto alla Joint List. E 29
la ragione fondamentale è che quella lista rappresentava “la casa di tutti quelli che credono nella piena uguaglianza civile e nazionale per arabi ed ebrei, ponendo fine all’occupazione, rafforzando la democrazia, puntando sulla pace e sulla giustizia sociale. I firmatari dell’annuncio includevano venti accademici dell’Università di Tel Aviv, undici dell’Università Ben-Gurion, nove dell’Università di Haifa, oltre docenti della Hebrew University, Tel-Hai College, Bar-Ilan University, Sapir College, Shenkar College, Weizmann Institute of Science e Beit Berl College. Un segnale importante, fondato su un principio di cittadinanza dove a far premio è l’essere Israeliano e non essere ebreo. Una visione inclusiva che rientra nell’orizzonte di Gantz. Il capo di Blu Bianco ha già preso contatti con il leader della Joint List (Lista Unita araba), Ayman Odeh, vera sorpresa dal voto, con i tredici seggi guadagnati grazie a un’affluenza mai registrata (gli arabi tendevano a disertare le urne): il 60% degli aventi diritto. Odeh non ha escluso di poter aderire al progetto dell’ex capo di Stato maggiore. Ma Gantz, per formare una coalizione, dovrebbe comunque mettersi alla ricerca di altri deputati. Va anche rimarcato che se non si ritroverà al governo, la Joint List potrebbe finire per essere il partitoleader dell’opposizione, guadagnando importanti prerogative previste per legge, tra cui l’accesso ad alcuni dossier dei servizi di sicurezza interni. È un fatto, comunque, che la comunità araba ha acquisito peso specifico, e che quindi reclamerà maggiore ascolto. Il disgelo è iniziato. Ma qui entra in scena chi i commentatori politici israeliani hanno giustamente definito il king maker del futuro governo: Avigdor Lieberman. Anche conteggiando i voti della Joint List, e sommandoli a quelli di “BluBianco e delle due formazioni di sinistra (Labor-Gesher sei seggi, e l’Unione democratica dell’ex premier Ehud Barak, cinque) il centro-sinistra raggiungerebbe cinquantasette seggi, insufficienti a conquistare la maggioranza. Ecco allora essere decisivi gli otto seggi del partito russofono dell’ex ministro della dife30
sa. Cosa voglia, Lieberman lo ha già detto: dar vita a un governo Kahol Lavan-LikudYisrael Beiteinu, senza Netanyahu, con il quale “Avigdor il russo” ha consumato una rottura personale prim’ancora che politica. Una possibilità molto concreta. Ora la parola spetta al presidente Reuvin Rivlin : sarà lui a indicare il premier incaricato. Con ogni probabilità sarà Benny Gantz. Il dopo-Netanyahu è già iniziato.
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Economia e Politica
Da dove cominciò la crisi. Il fallimento Lehman Brothers Giovan Giuseppe MENNELLA
Era proprio in questi giorni di Settembre del 2008, il giorno 15 di quell’anno di svolta, che uno dei più grandi complessi bancari degli Stati Uniti chiudeva i battenti per fallimento. Stiamo parlando ovviamente della Lehmann Brothers. A 11 anni di distanza può essere utile raccontare i retroscena di quel crack e considerare le conseguenze che ha avuto sull’epoca che viviamo. Non a caso è stato detto in scritti economici, in saggi e perfino, come vedremo, in romanzi e spettacoli teatrali, che dopo nulla è stato più come e prima ed è cambiato il Mondo, almeno quello capitalistico. In realtà la crisi della finanza era cominciata l’anno prima, il 2007, quando era parso evidente che molte banche importanti non sarebbero riuscite a controllare e gestire gli innumerevoli strumenti finanziari innovativi e rischiosi che avevano nel portafoglio. La Lehman Brothers era la più grande di queste. Andarono a vuoto tutti i tentativi di venderla ad altre banche proprio perché erano troppi i titoli a grande rischio da smaltire, anche se, col senno di poi, si sarebbe potuta vendere a pezzi, come stanno facendo talvolta i cinesi con le loro pure numerose banche in sofferenza. Comunque certamente si sarebbe trasposto il problema alle altre banche. Il potere pubblico statunitense non ritenne di nazionalizzarla, o quantomeno fornire i mezzi finanziari per continuare a essere gestita, in amministrazione controllata, per dare, come si disse, un esempio, cioè per dimostrare che non era valido 32
l’assunto che le banche più importanti avrebbero potuto compiere le più spericolate e perdenti operazioni finanziarie senza fallire, perché sarebbero state salvate in ottemperanza al principio che erano “too big to fail”.
In realtà, il rimedio si rivelò peggiore del male, perché, per evitare il crollo totale del sistema finanziario, si sarebbero dovute impegnare molte più risorse di quelle che sarebbero bastate per nazionalizzarla o per fornirle gli aiuti necessari per continuare ad esistere sotto controllo giudiziario. La cosa importante è che il crack non avvenne per malversazioni o truffe, come pure verificatosi in altri casi come quello di Warren Baffet, ma per fattori strutturali, ineluttabili alla luce dell’eccessivo livello di rischi che si era assunta. Tanto è vero che nei 5 anni successivi al fallimento, tutti gli impiegati anche di alto livello della Lehmann trovarono nuovi posti di lavoro, d’importanza e di remunerazione perlomeno pari a quelli precedenti. Secondo un interessante articolo del Wall Street Journal pubblicato anche in Italia 33
su “Il Sole 24 ore”, quel crack epocale ha alterato per sempre la visione con cui le persone concepiscono il mondo e interagiscono con esso. Prima del 2008 si pensava il mondo con gli occhi del grande boom degli anni ’90 del Novecento, gli anni ruggenti del capitalismo rimasto padrone del mondo dopo il crollo dell’Unione Sovietica, quando Francis Fukuyama poteva parlare di fine della Storia. In quegli anni tutti, a partire dai direttori delle Banche Centrali del mondo e dai più accreditati analisti finanziari, pensavano che non si sarebbero più verificate crisi del sistema economico e finanziario mondiale, neanche paragonabili a quella del 1929. Quindi si diede vita alla più grande deregolamentazione dei mercati finanziari della storia, a partire dalla promulgazione nel 1999 da parte del Congresso a maggioranza repubblicana del “Gramm-Leach Bliley Act” che abrogava quel “Glass-Steagall act”, votato dal Congresso degli Stati Uniti all’alba della prima Presidenza Roosevelt nel 1933, che aveva separato nettamente le banche commerciali tradizionali dalle banche assicurative e d’investimento e le operazioni di finanziamento industriale da quelle di emissione di titoli finanziari rischiosi. Il crack epocale ci fu e la Federal Reserve e il Tesoro americano dovettero mettere mano alla tasca, anche se poi, alla fine, hanno recuperato gran parte delle somme sborsate per i salvataggi bancari. Senza questo intervento, la crisi mondiale poteva essere peggiore di quella del 1929. Certo, il massiccio intervento finanziario delle istituzioni monetarie americane fu favorito dall’inesistenza in quel Paese dei vincoli strettissimi cui sono tenute le omologhe istituzioni europee per via della rigida politica di austerity contro l’inflazione vigente nel Vecchio Continente. Anche se va sottolineato che la crisi del 2008 non ha riguardato il centro del Mon34
do, come quella del 1929 quando il Mondo che contava economicamente era costituito solo dagli Stati Uniti e dall’Europa. L’ultima grande crisi del 2008 non ha toccato, o ha toccato in misura minore, Paesi molto sviluppati come la Cina, l’India, i Paesi dell’Oriente e quelli fortemente emergenti.
La conseguenza politica importante della crisi fu l’elezione alla Presidenza di Obama, il promotore politico del grande esborso finanziario della Federal Reserve e del Tesoro per tamponare la crisi che era diventata anche e soprattutto crisi industriale e sociale. Qualche riforma del mercato finanziario è stata adottata, ma solo per quanto riguarda l’adozione di sistemi di protezione per riparare danni quando questi siano già stati prodotti, ma non per prevenirli. In particolare, è stato previsto che il Financial Stability Board dei Paesi del G 20 metta sull’avviso il sistema quando risulta eccessivamente esposto. Però si è ancora a rischio, considerato che le Banche Centrali, tagliando fino a zero i tassi, hanno spinto moltissimi capitali a cercare sempre e comunque strumenti finanziari molto rischiosi per avere una forte remunerazione. 35
Ancora più significative sono state le conseguenze del crack e della crisi sul morale e sulla visione del mondo delle popolazioni. Le istituzioni finanziarie erano sempre state considerate un po’ come il gatto e la volpe di Collodi che convincono Pinocchio a sotterrare le monete d’oro nel campo dei miracoli per derubarlo. La voce comune tende sempre più a considerare le banche e le istituzioni finanziarie come sfruttatrici del popolo, anche se di fatto non è per niente così, visto che l’accumulazione di denaro per utilizzarlo in futuro rappresenta quello che l’umanità ha sempre cercato. Far fruttare il denaro è sempre stato un fenomeno insito nella natura umana. In fondo, anche gli animali tendono a nascondere le prede che non possono divorare immediatamente per utilizzarle in seguito in periodi di fame. In Italia questa sfiducia è aggravata dal frequente verificarsi di scandali bancari dovuti a malversazioni, più che a operazioni legali anche se spericolate. E comunque dappertutto la sfiducia ha creato quel populismo dei penultimi che se la prendono con i primi e con gli ultimi, cioè con Wall Street e con i migranti. Da qui è iniziata la crisi politica dei Partiti riformisti nel Mondo che potrebbe essere anche peggiore di quella degli anni ’30 perché finora non ha prodotto quel rivolgimento profondo del pensiero sociale e politico che dopo la crisi di Wall Street del 1929, portò agli accordi di Bretton Woods del 1944 per la regolazione dei rapporti finanziari tra le Nazioni e ai sistemi di Welfare. Anche se le condizioni sono diversissime ed è cambiato il Mondo, che non è più composto per due terzi, come negli anni ‘30, da Paesi Comunisti e da Colonie. Negli USA con la crisi è stata pignorata la casa a 10 milioni di famiglie, quindi 30 milioni di persone si sono trovate in mezzo ad una strada. Sono stati falcidiati i risparmi di decine di milioni di persone in un falò che ha bruciato le praterie del reddito. I vertici delle banche avevano avuto comportamenti criminali continuando a 36
piazzare pressi ignari risparmiatori i titoli tossici, confortati dai giudizi tecnici sempre positivi delle società di analisi finanziarie che continuavano ad assegnare la tripla A a tutti. Lo stesso salvataggio del sistema bancario americano e mondiale, che ha comportato l’esborso di 14 trilioni di dollari del Tesoro, si è scaricato sulle popolazioni, con il taglio drastico dei bilanci pubblici che hanno inaugurato l’austerity e non hanno potuto più assicurare larghe fasce di welfare. Dopo il crack e la crisi, i cittadini sono arrabbiati anche perché pensano che le banche si potessero nazionalizzare, oppure si poteva far pagare il crack agli azionisti, anche se così si sarebbe solo spostato il problema perché comunque i bilanci pubblici e privati ne avrebbero ugualmente sofferto.
Così tanto ha influito quell’avvenimento nell’immaginario collettivo che è stato fatto oggetto dallo scrittore italiano Stefano Massina di uno spettacolo teatrale che racconta la storia lunga 160 anni della famiglia Lehman, dall’arrivo di Henry negli 37
Stati Uniti nel1848 fino al crollo della banca nel 2008, rivivendo contemporaneamente la storia dei cambiamenti sociali ed economici degli USA. Lo spettacolo ha debuttato al Piccolo Teatro di Milano nel 2013 per la regia di Luca Ronconi, con un’anteprima radiofonica andata in onda su Radio 3 il 26 Novembre 2012, trasmesso anche in televisione su Rai 5 il 3 Ottobre 2015. Ci sono state riprese dello spettacolo nei temoli della grande finanza, a Londra al Royal National Theatre e a New York nel 2019. Poi, Massini ha trasfuso la materia, ampliandola, in un romanzo, in parte anche satirico, del 2016 intitolato “Qualcosa sui Lehman”. Sul mondo della grande finanza è stato edito recentemente l’interessante romanzo “Lealtà” della scrittrice Letizia Pezzali che tenta di cogliere l’analogia tra il sistema finanziario e il sistema dei sentimenti amorosi. Si tratta dell’ossessione amorosa della giovane Giulia per un uomo di 20 anni più anziano, nel contesto dell’ambiente dell’alta finanza di Londra, nello scenario del futuribile centro finanziario di Canary Wharf. Se è per questo, è simpatico ricordare che anche il giovane Lucio Dalla nel 1976 compose, a sua volta, con Roberto Roversi, una divertente e interessante canzone intitolata “La borsa valori” in cui, con il suo caratteristico canto skat, scherzava sulle transazioni finanziarie pronunciando semplicemente i titoli e le voci di un listino di borsa. Sarebbe divertente riascoltarla in sottofondo ogni volta che si ragioni sui problemi della finanza mondiale. 38
Camorra e Giornalismo Antimafia
Giancarlo Siani: in ricordo di un giornalista scomodo Aldo AVALLONE
Ieri avrebbe compiuto sessant’anni. Fra tre giorni, il 23 settembre, ricorrerà il trentaquattresimo anniversario della sua morte. Fu ucciso in una sera di autunno, a pochi passi da dove abitavo allora, da sicari della camorra. Era ora di cena, ricordo ancora il rumore degli spari, tanti, la confusione, il capannello di persone che si affollavano intorno alla sua auto, una Citroen Mehari scoperta che in zona tutti conoscevamo, le sirene dell’autoambulanza e delle auto della polizia. Poi, la notizia sconvolgente, hanno ammazzato Giancarlo. Non ci frequentavamo, lui era più giovane di me di qualche anno, solo un saluto di sfuggita incontrandolo per strada la mattina quando andava al giornale o la sera quando si fermava a parcheggiare l’auto sotto casa. Un po’ lo invidiavo perché era sempre pieno di ragazze e, soprattutto, perché faceva il mestiere che avrei voluto fare anch’io. Il giornalista. Ma non 39
quei giornalisti che stanno in redazione dietro la macchina da scrivere a ricopiare i comunicati stampa. Giancarlo era un giornalista che andava per strada a raccogliere le notizie, a parlare con la gente, ad accumulare dati su cui ragionare e poi scrivere. Da sempre il giornalismo era stato la sua passione e, dopo tanta gavetta, infine era riuscito a lavorare per il Mattino: corrispondente da Torre Annunziata, un comune alle falde del Vesuvio a pochi chilometri da Napoli. Il suo sogno era strappare un contratto da praticante per poi sostenere l’esame da giornalista professionista. A Torre Annunziata si occupava di cronaca nera e, quindi, di camorra. Quella terra, bellissima ma distrutta dalla speculazione edilizia, era sotto il tallone del boss locale, Valentino Gionta, che partendo dal contrabbando di sigarette era giunto al traffico di droga costruendo un vero e proprio impero economico. Le sue inchieste riuscirono a svelare i rapporti e le guerre tra i vari clan camorristici, gli affari illeciti a seguito della ricostruzione post terremoto del 1980, gli intrecci tra criminalità organizzata e potere politico. In un suo articolo, Giancarlo annunciò le intenzioni del clan Nuvoletta, che operava a Marano, un comune a nord di Napoli, di sbarazzarsi del Gionta “vendendolo” alla polizia. Il boss di Torre Annunziata fu effettivamente arrestato dopo un summit tenutosi nella villa dei Nuvoletta. Quell’articolo segnò la condanna a morte di Giancarlo: nessun camorrista poteva tollerare di essere tacciato di collaborare con la polizia. I vari gradi dei processi hanno confermato le condanne ai mandanti maranesi, anche se sussistono ancora dei dubbi sugli esecutori materiali del delitto. 40
Paolo, fratello di Giancarlo e ora parlamentare PD, in una lettera a Repubblica ieri ha scritto: “Sessant'anni sono una tappa importante per la vita di una persona. A sessant’anni ci si avvicina alla terza età, il fisico mostra gli inevitabili segni del tempo, si comincia a intravedere il traguardo della propria attività lavorativa. Insomma, è una tappa veramente fondamentale nella vita di un uomo. Giancarlo invece resta giovane, sorridente, allegro, resta per sempre un precario dell'informazione, un abusivo”. Anche a me piace ricordarlo così, con quel suo ciuffo nero che gli copriva la fronte, gli occhialetti da intellettuale e il sorriso sempre disegnato sul volto, con il rammarico di aver perso una voce libera e importante dell’informazione nazionale. Forse un precario dell’informazione, un abusivo, come ha scritto il fratello, ma un giornalista – giornalista di cui tanto avremmo avuto necessità in un periodo in cui troppo spesso i professionisti della notizia si limitano a leggere veline e a inchinarsi al potente di turno. 41
Testata online aperiodica Proprietà: Comitato per l’Unità Laburista, Strada Sesia 39 14100 Asti (AT) Direttore Responsabile: Aldo Avallone - Stampatore: www.issuu.com web: www.issuu.com/lunitalaburista - mail: lunitalaburista@gmail.com - Tel. +39.347.3612172 Palo Alto, CA (USA), 20 settembre 2019 42