Numero 12 del 24 settembre 2019
CAMBIERA’ TUTTO
Sommario
Cambierà tutto - pag. 3 di Umberto SCOTTI DI UCCIO Mediterraneo, le rotte della disperazione e del profitto si moltiplicano. Vademecum per il nuovo governo- pag. 10 di Umberto DE GIOVANNANGELI Il più lungo sciopero dei lavoratori inglesi - pag. 19 di Giovan Giuseppe MENNELLA Quarantaquattro gatti e qualche volpe - pag. 27 di Antonella BUCCINI
Qualcuno era comunista - pag. 30 di Aldo AVALLONE
I vivaisti - pag. 34 di Antonella GOLINELLI
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Politica e Tecnologia
Cambierà tutto Umberto SCOTTI DI UCCIO
Non vorrei sembrare un millenarista, non è affatto il mio spirito. Non millanto apocalissi basate sulla cabala o sull’esegesi delle ambigue quartine di Nostradamus, no. Parlo di tecnica, cose dure e concrete, quelle che semplicemente un giorno accadono. E quando accadono, ti cambiano la vita.
Come il giorno che entrò in casa la prima televisione: eravamo divertiti, ma anche infastiditi perché lo schermo a tratti si riempiva di neve e i colori erano sbavati. E il primo telefonino? Grosso e pesante, costoso e quasi inutile. Per non dire degli smartphone: ricordiamo la nostra l’aria di compatimento per gli ossessionati che spendevano soldi per vedere male brandelli di partite in metro, invece di tornare a 3
casa e mettersi comodi. Oggi funziona tutto alla perfezione. Inutile dirlo: anche noi, come tutti, ci siamo completamente arresi e col cellulare (con “lui�, non gli umani che lo usano dall’altro lato) quasi ci parliamo.
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La notizia: il Financial Times di Venerdì 20 Settembre 2019 riporta che alcuni ricercatori di Google avrebbero dimostrato la “quantum supremacy” (https:// www.ft.com/content/b9bb4e54-dbc1-11e9-8f9b-77216ebe1f17). Detta così sembra una cosa da Risiko o Guerre Stellari ma, se la notizia sarà confermata dagli ambienti accademici, ciò che gli scienziati hanno dimostrato finirà per stravolgere le nostre vite più della televisione, più degli smartphone, molto più dei computer e dei super-server che gestiscono il flusso di informazioni di Facebook, Twitter e Instagram messi insieme. La quantum supremacy consiste in questo: un computer quantistico esegue un calcolo che nessun computer tradizionale potrebbe eseguire. Una cosa da fantascienza che, a quanto sembra, è accaduta. Proviamo a capire insieme perché è tanto importante.
Il dominio dell’uomo sulla Natura è determinato dalla sua “potenza di calcolo”, grazie alla quale è in grado di elaborare informazioni e costruire modelli interpretativi e predittivi della realtà. Per molti secoli abbiamo pensato che questa dote fosse assolutamente unica, ma gli studi recenti sull’intelligenza artificiale ci stanno rapidamente convincendo di quanto fossimo sciocchi e superbi; siamo un granello di 5
polvere nel Cosmo e anche il nostro piccolo elaboratore di bordo, il cervello, macchina stupenda, non ha nulla di speciale; è solo ben costruita. Bene, ecco il punto: siamo a un passo dal conoscere macchine costruite meglio.
Occorrono due ingredienti: il software e l’hardware. Del software c’è poco da dire: negli ultimi anni i “sistemi esperti” hanno fatto progressi spettacolari. Un sistema esperto è un software capace di imparare per esperienza, proprio come facciamo noi. Abbiamo sistemi esperti disseminati un po’ dovunque, certamente nei grandi sistemi informatici come Google, ma anche nelle piccole app che facciamo girare sui nostri pc o sui cellulari; funzionano, eccome. Dell’hardware, invece, dobbiamo constatare i limiti: rispetto a un “semplice” cervello umano, il più potente server paga ancora un grande ritardo in termini di flessibilità e gestione delle memorie. Nella nostra zucca abbiamo tra dieci e cento miliardi di neuroni e tra centomila e dieci milioni di miliardi di sinapsi, numeri da brivido, che ci permettono di ragio6
nare velocemente a dispetto di un “clock” veramente lento: andiamo sì e no a 50 Hertz, mentre il nostro pc va sui Gigahertz (quasi un miliardo di volte più in fretta). Insomma, il collo di bottiglia per l’intelligenza artificiale è l’hardware. Almeno per ora; perché forse tra non molto, con l’avvento dei computer quantistici, non lo sarà più.
Parliamo di piccolissimi chip basati sulla tecnologia dei superconduttori, da mantenere freddissimi (appena un respiro al di sopra dello zero assoluto) e schermatissimi (il minimo disturbo li rende inefficaci). L’idea prevalente è che saranno abbinati a macchine più tradizionali nei supercomputer (come Google), ma non nei nostri pc. Sgombriamo il campo dai dubbi: in questo settore l’Europa è in condizioni di 7
assoluta avanguardia. La UE mette in campo la Quantum Technologies Flagship (https://ec.europa.eu/digital-single-market/en/quantum-technologies? fbclid=IwAR0-D2J2LP4ykjYuN_mBrKBDZ0zbyvWnDq4GrLN5DJ3ZhsNW5giE_DgNgA), una struttura organizzativa che coordina e promuove le iniziative degli Stati Membri nel settore. Anche l’Italia è ben rappresentata; dal profondo Sud ricordiamo con piacere che il lavoro pionieristico di Eduardo Caianiello, Antonio Barone e della loro scuola permette oggi a Napoli di presentarsi come polo di eccellenza e attrattore industriale nel settore delle Quantum Technologies.
Cosa ci aspetta? Per quello che ho detto, non ritengo che l’Europa corra il rischio di restare ai margini della rivoluzione quantistica; tutto lascia pensare che ne possa essere protagonista. Ancora una volta, è necessario ricordarlo, le singole Nazioni non bastano; il punto di forza è la UE, che le dichiarazioni della Von der Leyen impegnano fortemente su questo tema strategico. Altra cosa è il piano sociale. Capiteranno nei prossimi decenni cose tipo parlare con un computer credendo di parlare con un umano, perdere il lavoro perché un computer lo fa meglio di noi… e il resto non lo so. 8
Intanto Isaac Asimov è tornato di moda: lui fu il primo a porre la questione etica dell’intelligenza artificiale, che ora molti filosofi studiano già con impegno. Cosa permetteremo e cosa non permetteremo alle macchine? Come proteggeremo i nostri interessi da “cose” che pensano più in fretta di noi? Come eviteremo che alcuni uomini cinici utilizzino le macchine contro le masse? Tutto questo non accadrà domani: per ora, ci assicurano i ricercatori, la quantum supremacy riguarda un singolo esempio molto specifico e di interesse puramente accademico. Accadrà dopodomani.
Ringrazio Rossana Cioffi per i suggerimenti e l’utile discussione sul tema.
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Esteri e Migranti
Mediterraneo, le rotte della disperazione e del profitto si moltiplicano. Vademecum per il nuovo governo Umberto DE GIOVANNANGELI
Provi a chiudere una rotta, se ne aprono altre tre. Il problema dei problemi si chiama frontiere esterne. Che poi si traducono in rotte: quella libica, quella tunisina e ora anche quella algerina. Tre rotte per tre Paesi che, ognuno con la sua specificitĂ , presentano segni preoccupanti di crisi: politica, sociale, istituzionale. Si emigra per 10
disperazione, ma anche per protesta. E’ il caso dell’Algeria. “La migrazione degli algerini, la harga, è un problema perché uccide molte persone – annota Kamel Daoud,
in
un
pregnante
reportage
per The
New
York
Times,
riportato
da Internazionale -. Ma soprattutto è un problema per il governo di Algeri: il fatto che i suoi cittadini intraprendano un viaggio così pericoloso è la prova evidente dei suoi tanti fallimenti, politici ed economici, della sua politica repressiva, della disoccupazione e dell’aumento del costo della vita…”. Tutti, rimarca Daoud, conoscono i corridoi di fuga. Dall’estremità orientale del paese, a circa cinquecento chilometri da Algeri, si parte verso l’Italia. Dalla regione di Orano, nella parte occidentale del paese, la destinazione è invece la Spagna. Per partire bisogna mettere in conto una spesa di quasi mille euro (il salario minimo garantito in Algeria è di 18mila dinari al mese, meno di 130 euro al tasso di cambio attuale al mercato nero), che non comprende l’attrezzatura di salvataggio né provviste. La traversata verso la Spagna, spiega lo scrittore e giornalista algerino, dura un giorno, nel peggiore dei casi due. Il fatto è, che Madrid ha securizzato la “rotta algerina” e questo ha finito per rafforzare la tratta per l’Italia (aprendo peraltro un quarto fronte: quello col Marocco). Ecco allora riemergere la necessità di un “patto euro-mediterraneo” che non lasci sola l’Italia a farsi carico dei salvataggi in mare, e dell’accoglienza, e, con una visione più lungimirante, riporti a Bruxelles la questione, ineludibile, di un “Piano Marshall per l’Africa”. “Se mi chiedi qual è la mia più grande preoccupazione in questo momento, allora dico la Spagna”. A sostenerlo è il direttore di Frontex, Fabrice Leggieri, in un’intervista rilasciata
al quotidiano tede-
sco Welt Am Sonntag, nella quale ha chiarito che la rotta più importante intrapresa dai migranti provenienti dal Niger, attraverso il Marocco, è quella 11
che procede verso la Spagna. Sempre più spesso i trafficanti del Niger offrono ai migranti di portarli in Europa attraverso il Marocco, anziché la Libia. A giugno, si sono avuti circa 6mila attraversamenti irregolari di frontiera dall’Africa nel Mediterraneo occidentale: “Se i numeri crescono lì come hanno fatto negli ultimi anni, questo percorso diventerà il più importante”, avverte Leggeri. Quella che si sta consumando sulle due sponde del “Mare nostrum” è una partita che investe affari, petrolio, geopolitica, nuovi equilibri di potenza in una delle aree più turbolente del pianeta. Una partita che, sul fronte-migranti, sta assumendo tratti nuovi e, per l’Italia, allarmanti. Perché, a Sud, le nostre frontiere esterne sono composte da Paesi che non sono solo più di transito, per migranti e rifugiati, ma di origine. E’ il caso della Tunisia. Sono i migranti tunisini a imbarcarsi dai porti di Sfax e Kerkenna, raramente gli stranieri (secondo il Forum tunisino dei diritti economici e sociali, tra il 2011 e il 2016 il 74,6% delle persone che hanno lasciato il Parse sono cittadini tunisini). Sebbene negli ultimi mesi il flusso di migranti sub sahariani lungo il confine tunisino-libico sia cresciuto (migranti che vengono in Tunisia per trovare lavoro e raccogliere i soldi per pagare i passeur), ad oggi i protagonisti della rotta restano i giovani tunisini che, stretti nella morsa di una economia impoverita e di un clima politico asfissiante, fuggono a bordo dei social media prima ancora che delle imbarcazioni di fortuna. Sicurezza è sviluppo, investimenti che diano speranza, cioè lavoro, a popoli giovani. Vanno in questa direzione i finanziamenti per 5,5 miliardi di euro che saranno assegnati alla Tunisia da otto fondi internazionali. Le istituzioni coinvolte nell’iniziativa sono l’Agenzia francese per lo sviluppo, la Banca africana per lo sviluppo, la Banca europea per gli investimenti, la Banca Mondiale, il Fondo monetario internazionale, la Banca eu12
ropea per la ricostruzione e lo sviluppo, la Banca tedesca per lo sviluppo, la Società finanziaria internazionale. I fondi, ha spiegato il commissario europeo per la Politica di vicinato e i negoziati per l’allargamento Johannes Hahn, serviranno a sostenere il Paese nel corso del processo di costruzione democratica, e risponde, in termini concreti e vincolanti, all’appello lanciato dal presidente tunisino Beji Caid Essebsi, recentemente scomparso, ai partner della Tunisia affinché appoggiassero la giovane democrazia tunisina in un passaggio di estrema delicatezza. Un discorso che investe l’insieme del Nord Africa. Sviluppo, benessere, lavoro sono le “armi” più incisive per contrastare il proselitismo jihadista tra i giovani attratti dalle organizzazioni dell’islam radicale armato anche, e per certi versi soprattutto, dal “salario” erogato. In questo contesto, emerge il “caso Marocco”. Marocco, fucina di jihadisti. Il Marocco è il secondo esportatore di terroristi dell’Africa del Nord, dopo la Tunisia. Sono oltre duemila i combattenti di origine marocchina che si sono arruolati nell’Isis in Siria e Iraq. Anche negli attentati di Barcellona e di Turku, in Finlandia, gli autori sono originari del Marocco. Da tempo lo Stato islamico ha sguinzagliato in Marocco (così come anche in Tunisia ed in Libia) dei “persuasori” che avvicinano giovani sbandati, dando loro in occasione di ogni incontro un po’ di denaro (l’equivalente di una quarantina di euro per volta), sino a quando non li convincono ad arruolarsi. L’ultimo incontro, quello decisivo, si conclude con la consegna di 7500 dirham (quasi 700 euro) ed un biglietto di sola andata, quasi sempre per la Turchia. Soldi che i ragazzi quasi sempre consegnano alle famiglie, ben sapendo che, dalle settimane successive, se riusciranno a salvare la pelle, avranno un vero e proprio stipendio. Il “mare” in cui pescano i reclutatori del Daesh è soprattutto quello dei giovani delle periferie delle grandi città, 13
Rabat, Casablanca, Tangeri (il 75 per cento) ma anche quello dei ragazzi che vivono nelle zone rurali dimenticate dai piani di investimento, sviluppo e incentivo all’occupazione. Criticato dalle organizzazioni per i diritti umani per la conseguente limitazione di libertà politiche di base, il governo ha utilizzato il capillare monitoraggio del territorio per impedire la nascita di reti maggiormente strutturate. Una città in particolare, Tetouan, sembra rappresentare la simbologia del terrorismo in Marocco: da Tetouan sono usciti circa 30 kamikaze che si sono immolati in Iraq ed una parte della filiera protagonista dei sanguinosi attentati alla stazione di Atocha a Madrid, l’11 marzo 2004 (il più atroce nella storia della Spagna, 119 morti e 1800 feriti). Gli investigatori spagnoli hanno individuato una cellula di 12 giovani radicalizzati di origine marocchina, che vivevano nella cittadina catalana di Ripoll. Dei 12 della banda, cinque sono stati uccisi a Cambrils, due sono morti nell’esplosione di Alcanar e quattro sono stati arrestati. Dei cinque terroristi uccisi a Cambrils tre sono stati identificati: oltre al 17enne Moussa Oubakir, Mohamed Hychami, 24 anni, e Said Aallaa, 18. Tutti di origini marocchine e tutti residenti a Ripoll, nel nord della regione. E marocchino era il ventiduenne Younes Abouyaaqoub, l’autista del furgone bianco che ha seminato la morte sulla Rambla, (in seguito ucciso ferito m in un’operazione della polizia catalana a Subirats). Ed anche la maggior parte dei terroristi che hanno colpito Bruxelles, e prima ancora Parigi, sono originari del Marocco, in particolare della zona del Rif, la regione settentrionale del Paese che va dal Capo Spartel e Tangeri fino al confine con l’Algeria. “Esistono molte ragioni che hanno spinto i giovani marocchini ad unirsi alla jihad – spiega Mohammad Masbah, sociologo del Carnegie Middle East Center di Rabat– e tra queste certamente ci sono emarginazione sociale, povertà, mancanza 14
di prospettive per il futuro. La scappatoia al disagio e alla disperazione, per molti, era a pochi km di distanza, in un Paese come la Siria che non richiedeva alcun visto”. “Le statistiche mostrano che oltre i tre quarti dei terroristi marocchini in Siria e di quelli che si sono poi trasferiti in Europa provenivano da zone emarginate – rimarca ancora Masbah – il che conferma il fatto che non ci sono solo motivazioni ideologiche ma che queste si sono radicate su sentimenti di frustrazione e rabbia generalizzata”. Dall’indomani degli attacchi dell’11 settembre 2001 contro New York e Washington, il Marocco ha smantellato almeno 168 cellule jihadiste e nell’ultimo anno ha accresciuto la cooperazione con Ue e americani, concentrandosi sull’enclave di Ceuta, adoperata dai jihadisti come testa di ponte per infiltrarsi sulle coste settentrionali del Mediterraneo, Ogni giorno, ha riferito una fonte della polizia spagnola, citata dal Pais, da Ceuta e Melilla, le due enclave spagnole in Marocco, arrivano centinaia di segnalazioni di possibili attentati. Le due piccole cittadine, prese d’assalto dai migranti, frequentate da ambulanti locali e abitate in parte da marocchini, sono diventate una specie di crocevia del terrorismo maghrebino. Nei dodici chilometri quadrati di Melilla, sono ‘monitorati’ circa 600 sospetti e agiscono ben cinque servizi segreti differenti: i tre organismi della sicurezza spagnoli (la Cni, la polizia nazionale e la Guardia civile), l’intelligence marocchina e il Mossad israeliano. Anche a Ceuta la situazione è simile, con persone che ogni giorno, formalmente per motivi di lavoro, attraversano il confine. Fra il 2012 e il 2014 almeno 11 jihadisti partono da Ceuta, altre decine da Melilla. L’alta percentuale di soggetti provenienti da Ceuta e Melilla si conferma nelle statistiche, elaborate dal Combating terrorism center, che riguardano i 178 jihadisti arrestati in Spagna fra il 2013 e il 2016: il 32%proviene dalle due enclave, il 20% da Bar15
cellona e dintorni. In questo campione di islamisti la componente maghrebina è elevata: il 42,7 % hanno nazionalità marocchina, contro il 41,5 % di spagnoli, la metà sono immigrati di seconda generazione, il 40% di prima generazione, il 10 convertiti. Con l’avvio dell’estate è stata ripristinata l’operazione “Marhaba” che vede l’arrivo di milioni di marocchini dall’Europa attraverso la frontiera di Tangeri. Questa operazione consiste nella realizzazione di una serie di misure di sicurezza in tutti i posti di frontiera del Regno. Le istruzioni che sono state date ai funzionari del ministero dell’Interno e doganale di stanza sui vari valichi di frontiera, è quella di rafforzare le misure di sicurezza atte a contrastare ogni tentativo di infiltrazione di terroristi e di introduzione nel paese di armi, esplosivi o prodotti utilizzati nella loro fabbricazione. In particolare, i controlli dei passeggeri e dei bagagli saranno rafforzati. Si potrà ricorrere all’uso di mezzi sofisticati, soprattutto il porto di Tangeri-Med, presso il valico di frontiera di Bab Ceuta e l’aeroporto Mohammed V di Casablanca. Le autorità di Rabat sono preoccupate per un nuovo flusso di migrati illegali provenienti dall’Africa subsahariana che scelgono il Marocco come punto di transito verso l’Europa. Un
recente
rapporto
dell’intelligence
spagnola
ha
rivelato
che
l’immigrazione illegale dalla costa mediterranea del Marocco abbia raggiunto proporzioni allarmanti. Questo perché la Libia è diventata un passaggio “ad alto rischio” per i migrati africani. Recentemente, il quotidiano marocchino “Akhbar Al Yaoum” riferisce che i servizi segreti spagnoli, sulla base delle statistiche compilate per i primi sei mesi di quest’anno, sostengono che la costa mediterranea del Marocco sia diventata sempre più “popolare” fra i migranti diretti in Europa. Si parla di uno spostamento del flusso che dal Niger solitamente andava verso la Libia e che ora passa per 16
l’Algeria e per il Marocco. Le forze di sicurezza marocchine hanno fermato dal 2002 al marzo 2019 più di 480 mila tentativi di immigrazione clandestina verso l’Europa. Allo stesso modo sono 4.082 le reti di trafficanti di esseri umani che sono state smantellate da quell’anno. Ma è una lotta infinita. Perché, come al Qaeda e l’Isis, anche gli schiavisti del Terzo Millennio hanno imparato a reinventarsi. In modus operandi. E in rotte da solcare. Rotte mortali. “La rotta del Mediterraneo centrale – intrapresa ogni anno da decine di migliaia di donne, uomini e bambini in cerca di salvezza a bordo di barche fatiscenti – è diventata sempre più pericolosa e contraddistinta da un alto tasso di mortalità. Le persone in fuga da guerre, persecuzioni e carestie che tentano la traversata del Mediterraneo – spesso già provate da prolungati periodi di detenzione nelle carceri libiche, uno dei paesi con il maggior numero di partenze –, sono sempre più esposte al rischio di morte a causa della progressiva scomparsa di entità – internazionali, governative e non governative – dedite al soccorso in mare. La sostanziale inattività delle missioni europee, come il decadimento della missione Sophia, e l’inasprimento delle politiche italiane in tema di migrazione, hanno di fatto posto le basi per quella che da più parti è stata definita una vera e propria “ecatombe” nel Mar Mediterraneo. Una responsabilità di tutta l’Europa e
dell’Italia che,
dal
2016,
iniziarono
a
investire
nel rafforzamento della capacità delle autorità marittime libiche di pattugliare le loro coste, intercettare in mare rifugiati e migranti diretti verso l’Europa e riportarli in Libia, oltre che a stringere accordi informali con milizie coinvolte nel traffico dei rifugiati e migranti. Sono state ignorate, invece, le richieste più volte lanciate dalle organizzazioni della società civile di riformare strutturalmente le politiche migratorie europee e garantire 17
l’apertura di canali sicuri e regolari per rifugiati e migranti, in misura adeguata alla gravità della situazione. Se osserviamo nello specifico gli ultimi 12 mesi, oltre ai naufragi, purtroppo già accaduti in passato, a partire dal suo insediamento a giugno 2018, il nuovo governo italiano ha deciso di assicurare e spettacolarizzare il blocco di nuovi arrivi di persone straniere via mare trattenendole per giorni senza una base legale o un ordine della magistratura. Le conseguenze della politica dei “porti chiusi” e della complementare strategia di criminalizzazione e denigrazione delle Ong – iniziata già con il provvedimento del precedente ministro dell’Interno Marco Minniti e il codice di condotta delle Ong – sono ormai evidenti: con l’annichilimento delle flotte non governative votate al soccorso in mare, nei mesi estivi si è registrato uno spaventoso aumento del tasso di mortalità in mare..”. Così Amnesty International in un rapporto d’inizio agosto. Ora, si è insediato un nuovo governo e al Viminale non c’è più il ministro della “Inferno” e dell’odio verso gli “invasori”. Ma i problemi, drammatici, restano. E sono raccolti in questi dati: 14.768 LE PERSONE MORTE NEL MAR MEDITERRANEO TRA IL 2014 E IL 2019; 2.747 LE PERSONE RIPORTATE IN LIBIA NEL 2019, 343 LE PERSONE MORTE NEL MEDITERRANEO CENTRALE NEL 2019; 1 SU 6 IL RAPPORTO TRA PARTENZE E PERSONE MORTE IN MARE. LO SCENARIO È DRAMMATICAMENTE MUTATO: NEL 2018 MORIVA IN MARE 1 PERSONA OGNI 29 PARTITE. QUEST'ANNO PER OGNI 6 PERSONE PARTITE 1 È MORTA.
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Storia e Politica
Il piĂš lungo sciopero dei lavoratori inglesi Giovan Giuseppe MENNELLA
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Il 12 marzo 1984 iniziò quello che doveva rivelarsi il più lungo sciopero mai intrapreso dai lavoratori della Gran Bretagna. Lo sciopero fu proclamato dal Sindacato britannico dei minatori per contrastare il disegno del Primo Ministro Margareth Thatcher di diminuire il numero e la produzione dei pozzi di estrazione del carbone. Lo scontro tra i minatori e il Governo britannico era iniziato molti anni prima, all’inizio degli anni ’70, nel contesto della fine del periodo di espansione economica, durato per tutto il dopoguerra, a causa della crisi petrolifera e dell’energia, della grave inflazione monetaria, della fine della convertibilità del dollaro in oro per il gravissimo deficit statale degli Stati Uniti dovuto alle enormi spese militari per la guerra in Vietnam e, non per ultimo, per l’incipiente processo di ristrutturazione industriale resosi necessario per fronteggiare le innovazioni tecnologiche. In quel contesto l’estrazione del carbone risultava fuori mercato, perché costava troppo, soprattutto di manodopera. Tutta la società britannica, come del resto molte altre realtà dell’occidente, era stata scossa dalla crisi dei primi anni settanta e ne era scaturita quella che è stata definita la maggiore conflittualità sociale in Gran Bretagna in tutto il ‘900. Nel 1970 il Primo Ministro conservatore Edward Heath aveva tentato una manovra economica e sociale per diminuire l’inflazione, abbassare le tasse e lottare contro la disoccupazione. Il primo provvedimento riguardò la diminuzione delle produzioni estrattive e industriali in perdita economica, a cominciare dall’estrazione del carbone. Ciò avrebbe comportato una forte diminuzione dei livelli occupazionali e del salario di molte categorie di lavoratori, a iniziare proprio dai minatori addetti all’estrazione del carbone. Le lotte e le proteste di tutte le categorie e di molta parte della società britannica furono subito durissime. Nel 1974 I minatori arrivarono a scioperare per quaranta 20
giorni consecutivi. Scioperarono anche, i lavoratori ferroviari, i vigili del fuoco, i pubblici dipendenti. Per gli effetti della legge antisciopero, cinque portuali finirono in prigione. Ben presto cominciarono a mancare i generi di prima necessità e l’energia per il riscaldamento domestico e per l’industria, a cominciare dal carbone e dal petrolio. Fu necessario razionare l’energia elettrica, le fabbriche potevano lavorare solo tre giorni a settimana, l’inflazione galoppava, la sterlina era sotto attacco speculativo, si giunse a una situazione di emergenza nazionale e quasi insurrezionale. Non pochi arrivarono a temere, o a sperare, in una rivoluzione socialista. In quei giorni dei primi anni settanta il Times arrivò a parlare di “suicidio di una nazione”. Quella lotta si chiuse con una vittoria dei lavoratori. Nel 1974 Heath si dimise da Primo Ministro e negli anni successivi si ottennero notevoli aumenti salariali, che per i minatori arrivarono al 50% nel periodo dal 1975 al 1979. Ma la vittoria fu effimera, perché pagata a caro prezzo, con l’aumento notevolissimo dell’inflazione e la presa di distanza dai lavoratori di una gran parte dei cittadini, preoccupati e impauriti per la perdita di ricchezza e competitività del paese e soprattutto per la possibilità di un rivolgimento sociale in direzione socialista e collettivista. Furono le cause e i prodromi del travolgente successo elettorale che portò al governo nella primavera del 1979 i conservatori di Margareth Thatcher, che doveva assumere il soprannome di “Lady di ferro” sia per la sua conduzione determinata della guerra delle Falkland, sia per la lotta durissima che avrebbe dichiarato contro i lavoratori e i loro sindacati. Nell’ambito della politica industriale e sindacale la signora Thatcher ideò un programma ben preciso, in due punti. 1) Un piano energetico nazionale per diminuire l’uso del carbone, troppo costoso da estrarre e quindi fuori mercato. 2) Adozione di norme per limitare il diritto di sciopero, soprattutto riguardo alla pratica illegale dei 21
picchetti. Quando si accinse a mettere mano a questa parte del programma che riguardava la lotta ai sindacati, la Lady di ferro era stata appena rieletta, nel 1982, e godeva di grande popolarità. Nominò il manager americano di origini scozzesi Ian McGregor, che già aveva guidato la Società britannica per l’acciaio, plenipotenziario per attuare un piano energetico nazionale che portasse ad un minore utilizzo del carbone, con conseguente taglio occupazionale dei minatori. Si minacciarono licenziamenti per 70.000 unità. McGregor nel marzo 1984 annunciò la chiusura dei primi venti pozzi, col taglio di ventimila posti di lavoro, cominciando dal sud dello Yorkshire dove si riteneva che la situazione fosse più tranquilla e agendo alla fine dell’inverno quando c’era minore fabbisogno di energia. Ma la reazione dei lavoratori fu invece immediata, il primo sciopero iniziò il 12 marzo 1984 e ben presto ci furono disordini e scontri. Tra Inghilterra, Scozia e Galles furono coinvolti nel complesso, da una parte e dall’altra, 165.000 minatori e 60.000 appartenenti alle forze dell’ordine. Il 12 marzo ci fu il primo morto tra gli scioperanti, il giovane ventenne David Jones. Fu il Governo che cercò per lo più lo scontro fisico, per la Thatcher la priorità non era il negoziato ma la sconfitta del sindacato minatori e la riduzione dei diritti sindacali. 22
Un aspetto non secondario della vicenda fu la personalità e il carattere dei due protagonisti che si fronteggiarono. Da una parte Margareth Thatcher, di cui si conosceva ormai la determinazione e la durezza, dall’altra il Segretario del Sindacato dei minatori Arthur Scargill, di cui si sarebbe appresa solo in corso d’opera la scarsa attitudine a trattare e a venire a patti pur di non rinunciare ad un programma socialista e all’intenzione di rovesciare politicamente lo stesso Primo Ministro. Infatti, Scargill dichiarò fin dall’inizio della lotta che si considerava un rivoluzionario che credeva nel marxismo-leninismo e che avrebbe combattuto fino alla fine per ottenere le dimissioni del Primo Ministro. Si dichiarò certo che i lavoratori avrebbero vinto come nel 1974 contro Heath, non considerando però il forte appoggio al Governo dei cittadini spaventati dall’intenzione, proclamata da Scargill, di portare il paese verso il socialismo marxista. 23
Ci fu comunque a favore dei minatori la solidarietà di un’altra parte della popolazione, anche se non maggioritaria. Alcuni negozianti fecero credito alle famiglie degli scioperanti, le donne impiantarono mense sociali. Non mancò l’appoggio dei sindacati internazionali. Intanto i disordini continuavano. Il 18 giugno 1984 presso i pozzi di Overgrave nel Sud Yorkshire si accese tra minatori e polizia lo scontro più duro dell’intera storia sindacale inglese. Cinquemila lavoratori furono attaccati violentemente dalla polizia a cavallo che contava ottomila uomini in pieno assetto antisommossa. Si contarono tra i minatori decine di feriti e centinaia di arrestati. La violenza della polizia non era giustificata perché i minatori si erano presentati disarmati, anzi in jeans e scarpette da ginnastica. In realtà le forze dell’ordine avevano ricevuto dal potere il preciso ordine di impartire una lezione a tutto il movimento. La giovane Lesly Bolton diventò famosa per le fotografie che la ritraevano mentre scappa terrorizzata sotto le manganellate. Dichiarò inoltre che i minatori non avevano intenzioni violente; infatti si erano tolte le magliette e le sventolavano in segno di pace, sfilando solo con blue jeans e scarpe da ginnastica, mentre la Polizia era in pieno assetto antisommossa. Alcuni anni più tardi, nel 1991, un giudice britannico condannò la polizia a risarcire con centinaia di migliaia di sterline trentanove minatori arrestati illegalmente in quello scontro. Il 6 settembre 1984 a Kellingley, nel Nord Yorkshire, altri duecento scioperanti furono affrontati da settecento poliziotti e ci furono altri feriti e altri arresti. Nonostante la determinazione alla lotta e la solidarietà di una parte dei cittadini, cominciarono a esserci nelle famiglie degli scioperanti ricadute negative. Mancava il denaro anche per comprare il cibo e l’energia per il riscaldamento. In un documentario della rete Channel 4 è riportata la testimonianza di Stewart Taylorson, allora un bambino di nove anni, che come figlio di uno scioperante ricordò quei mesi 24
come orribili; senza sufficiente cibo e senza latte, solo pane e patate, senza i quali sarebbero probabilmente morti tutti di fame. Un riflesso di quelle battaglie e di quei mesi durissimi si coglie in due film. “Billy Elliot” del 2000 in cui il protagonista sopporta le conseguenze della lotta durissima in cui erano impegnati insieme ai minatori il padre e il fratello maggiore. E “Pride” del 2014 in cui alcuni omosessuali portano la loro solidarietà ai minatori e li applaudono nella sfilata del “Gay Pride” del 1984. In realtà, né Margareth Thatcher né Alrthur Scargill avevano intenzione di trattare. Il Governo censurò le notizie che avrebbero potuto portare solidarietà dell’opinione pubblica agli scioperanti, mentre Scargill continuò ad affermare che lo scopo della lotta era la caduta del Primo Ministro e la vittoria del socialismo marxista in Gran Bretagna. Purtroppo per i minatori e per il sindacato, Scargill era l’avversario perfetto per essere sconfitto, incapace di suscitare eccessiva solidarietà e anzi temuto dai cittadini per le sue idee estremiste Lo sciopero terminò quando il 3 Marzo 1985, a più di un anno dall’inizio, con soli 7 voti di maggioranza, 98 a 91, il Sindacato minatori ne decise la fine. Scargill fu sfiduciato e lasciò la guida del Sindacato. Probabilmente si sarebbe potuta evitare la sconfitta totale e ottenere qualche miglioramento della situazione se si fosse fatto svolgere un referendum democratico tra i lavoratori e si fosse trattato separatamente pozzo per pozzo, industria per industria, o anche ampliata la lotta ad altri settori oltre alle miniere. Ma non vi è la certezza che con forme di lotta alternative e con un altro leader sindacale le cose sarebbero andate meglio, considerata la ferma intenzione politica del Governo di stroncare comunque il movimento dei lavoratori. E in effetti, le conseguenze della sconfitta furono gravi. I pozzi furono chiusi, moltissimi minatori licenziati. Le unità impiegate nell’attività estrattiva calarono dalle 25
181.000 dei primi anni ’80 alle 8.000 degli anni '90. Anche i livelli di reddito si abbassarono e da quel momento in poi ogni forma di scontro tra i lavoratori e il Governo e le industrie venne criminalizzato. Furono introdotte norme di legge per indebolire i sindacati e le possibilità degli stessi di incidere nella vita sociale ed economica del paese. Lo scrittore David Peace, testimone della lotta, nel suo romanzo “G. B.84”, edito nel 2016 da “Il Saggiatore”, scrive che durante quei mesi in cui la Thatcher pronunciò la famosa frase “non esiste la società, esistono solo gli individui”, l’obiettivo era stato di criminalizzare i vincoli alla proprietà industriale e al mercato, additare i minatori quasi come terroristi dell’IRA e impedire quasi ogni rivendicazione sindacale nei confronti dei Governi. La sconfitta dei lavoratori aprì la strada alla nascita della società odierna in cui la lotta per i diritti sociali raramente fa perno sull’azione collettiva e il lavoro è parcellizzato e disperso in svariate forme a carattere piuttosto individualistico. Comunque quella lotta coraggiosa è passata alla storia negli annali delle lotte sindacali ed è ricordata oggi con maggiore interesse e simpatia dell’azione politica della signora Thatcher. I minatori che lottarono allora sono oggi ricordati quasi come eroi popolari che sfidarono a testa alta il Potere. Non per caso furono fatti oggetto di opere cinematografiche, letterarie e musicali. Come ha detto qualcuno, quei minatori furono orgogliosi nella lotta e dignitosi nella sconfitta. E comunque, per ironia della storia e della letteratura, quell’anno 1984 della battaglia e della sconfitta dei minatori coincide con quello in cui si svolge il romanzo distopico di George Orwell in cui è instaurata una società subdolamente oppressiva. 26
Politica
Quarantaquattro gatti e qualche volpe Antonella BUCCINI
Non è lo Zecchino d’oro, né il coro dell’Antoniano e neanche un saggio della scuola. A Pontida i bambini non si esibiscono ma sono esibiti. Un cambio di pro27
spettiva che ha un certo peso. Se solo però pensiamo ai comunisti che li mangiano la cosa in sé è risibile ai più. Nondimeno due parole vogliamo spenderle. Dunque, come è noto, a Pontida ogni anno si celebra il raduno dei leghisti, un tempo con l’ampolla. Questa volta era necessaria una liturgia di assoluzione per il capitano che ha fatto una cazzata. Nell’onda di commovente riappacificazione il capitano ha voluto strafare evocando i sentimenti puri e semplici del suo popolo. Poco rileva se Lerner è stato apostrofato per le sue origini o la stampa, quella dei “giornaloni”, ha faticato ad avere accesso. Il momento di massima aggregazione doveva ancora arrivare. I bambini, si sa, fanno sempre un certo effetto. Sono catalizzatori di generosità a buon mercato anche per i più riluttanti, sollecitano emozioni un po’ come a Natale. In questo caso a trionfare era la notiziona che “giustizia è fatta”, sì perché la ragazzina, che il capitano abbraccia e solleva sul palco, sarebbe sfuggita al peggiore dei destini e restituita alla famiglia. Una storia a lieto fine a fronte delle perversioni di Bibbiano. Il racconto del fatto è un tantino vago. Forse perché la condizione della piccola Greta non è esattamente quella che si vuole far intuire al popolo inconsapevole di Pontida. Infatti la bambina ha una storia affatto diversa da quelle riconducibili a Bibbiano, e che comprende una sentenza del tribunale di Milano, un affido temporaneo a una comunità, la fuga della stessa bambina a casa della madre da cui era stata allontanata per gravi problemi. Ma che importa. Per questa volta si mette da parte il rosario e, senza fare ammenda alla Vergine Maria, si approfitta di un efficace testimone delle “buone” intenzioni della politica, quella che sarebbe più vicina al popolo plaudente. La piccola Greta, già vittima di un disagio famigliare di 28
non poco conto, si è ritrovata al centro di uno spot elettorale di cui non può ancora aver colto la crudeltà e il cinismo, furbo e ingiusto anche se fosse stata sottratta all’uomo nero. I papà e le mamme sempre citate dal capitano a margine di ogni infelice azione che ne pensano? Non abbiamo una maglietta da mostrare a nessuno, tantomeno in parlamento, ma “Parliamo di Greta”. Sarebbe urgente chiarire e poi impedire questa deriva della politica per il decoro e la democrazia di questo paese.
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Politica
Qualcuno era comunista Aldo AVALLONE
“Qualcuno era comunista perché era nato in Emilia. Qualcuno era comunista perché il nonno, lo zio, il papà… Qualcuno era comunista perché Berlinguer era una brava persona. Qualcuno era comunista perché Andreotti non era una brava perso30
na. Qualcuno era comunista perché non ne poteva più di quarant'anni di governi democristiani
incapaci
e
mafiosi.
Qualcuno era comunista perché Piazza Fontana, Brescia, la stazione di Bologna, l'Italicus, Ustica, eccetera, eccetera, eccetera. Qualcuno era comunista perché chi era contro, era comunista”. Così scrivevano Giorgio Gaber e Alessandro Luporini nel 1992. Lo scrittore e sceneggiatore Francesco Piccolo nel suo libro “La matematica del gol” racconta che diventò comunista a dieci anni durante la partita Germania Est – Germania Ovest dei mondiali di calcio del 1974. C’erano di fronte due squadre: in una giocavano i forti, nell’altra i deboli; in una i ricchi, nell’altra i poveri; in una c’erano tutti calciatori famosi, nell’altra tutti sconosciuti; una squadra era padrona di casa, l’altra no, anche se si giocava in Germania – ma non era la loro parte di Germania. E, lui, fatalmente, si schierò con i più poveri e i più deboli che vinsero quella partita con un gol dell’ignoto centravanti Sparwasser che costrinse alla sconfitta di fronte ai propri tifosi il grande Beckenbauer. Un altro ragazzino di dieci anni diventò comunista perché giocando ai cow boy nel cortile di casa voleva sempre fare la parte che gli altri rifiutavano: quella dell’indiano. Perché pensava che gli indiani non fossero i cattivi che tutti i film e i fumetti proponevano, che gli americani avevano compiuto un vero genocidio nei loro confronti e che, allora, l’unica potenza che poteva contrastarli era l’Unione Sovietica. Quel ragazzino ero io. E fu da allora che ebbi la precisa consapevolezza che il mondo era ingiusto e che se avessi voluto fare qualcosa di buono nella vita sarei dovuto stare dalla parte dei più deboli. Storie piccole e grandi per raccontare la presa di coscienza, a volta ragionata, altre volte emotiva, per la quale milioni e milioni di persone in Italia e nel mondo hanno deciso un giorno di schierarsi dalla parte dei più deboli, dei non garantiti, dei pove31
ri e degli sfruttati. E si sono battute, a volte anche sbagliando, per difenderne i diritti. Essere comunisti, o esserlo stato, perché la storia non si ferma e il comunismo inteso in senso storico non esiste più da decenni, significa soprattutto questo e nessuna “deliberazione parlamentare” potrà modificarne il significato profondo. Semplicemente i valori e gli ideali non si decidono in un’aula istituzionale, per quanto autorevole possa essere. La risoluzione approvata giovedì scorso dal Parlamento europeo “sull’importanza della memoria europea” partendo da un’analisi storica del tutto distorta, termina mettendo, di fatto, sullo stesso piano il nazismo e il comunismo. Ma in sintesi cosa dice la risoluzione? Innanzitutto che la responsabilità dello scoppio della seconda guerra mondiale è da attribuirsi non solo alla Germania ma anche all’Unione Sovietica, affermazione che, secondo il Parlamento europeo, trova conferma nel patto Molotov-Ribbentrop, siglato il 23 agosto 1939. Dimentica però altri eventi altrettanto importanti, come il patto di non aggressione del 1934 firmato tra la stessa Germania e la Polonia, le richieste, rifiutate, di alleanze anti germaniche proposte dall’URSS a Francia e Germania, l’offerta di aiuti militari, anch’essa rifiuta, fatta ancora dall’URSS alla Polonia proprio pochi mesi prima dell’invasione nazista. Ultima annotazione, non propriamente priva d’importanza, il patto di non aggressione Molotov – Ribbentrop permise all’Unione Sovietica di riorganizzare il proprio apparato industriale e militare in vista dell’inevitabile scontro con il Terzo Reich. Tutto ciò per documentare quanto sia imprecisa dal punto di vista storico la risoluzione europea che dimentica anche il contributo di sangue (ventidue milioni di morti) dato dall’URSS per sconfiggere il nazismo. La resistenza eroica di Stanlingrado e l’ingresso dell’Armata Rossa prima ad Auschwitz e poi a Berlino vanno ben oltre l’evento militare e segnano, anche simbolicamente, la sconfitta della Germania nazista. 32
Nessuno si sogna di affermare che l’Unione Sovietica fosse il paradiso in terra. Qualsiasi regime totalitario è da condannare con la massima determinazione e Stalin è stato certamente un dittatore spietato e disumano. Però è semplicistico, riduttivo e, anche in malafede, far coincidere la dittatura sovietica con l’ideologia comunista. Non credo occorra ricordare il contributo dei comunisti italiani alla lotta contro il fascismo, il sangue dei ragazzi morti in montagna per la libertà di tutti. Erano comunisti i fratelli Cervi massacrati dai fascisti il 28 dicembre 1943, erano comunisti Lauro Farioli, Ovidio Franchi, Emilio Reverberi, Marino Serri e Afro Tondelli, tutti iscritti al PCI, uccisi dalla polizia il 7 luglio 1960 durante una manifestazione sindacale a Reggio Emilia, era comunista, iscritto al PCI e sindacalista della FIOM – CGIL, Guido Rossa, assassinato a Genova il 24 gennaio 1979 dalla Brigate Rosse. Sono solo degli esempi dei tanti operai, contadini, lavoratori comunisti che si sono battuti sempre e comunque per la difesa della libertà e della democrazia nel nostro Paese. Per la memoria dei compagni morti, per l’impegno civile dei milioni di comunisti italiani, per tutti noi che abbiamo creduto in un mondo migliore, nel quale le diseguaglianze sociali fossero attenuate, la risoluzione del Parlamento europea è offensiva, oltre che anti storica. Fa male pensare che una grande idea di lotta per l’emancipazione dei più deboli sia usata strumentalmente dall’Europa soltanto per attaccare la Russia di Putin. E fa ancora più male pensare che la grande maggioranza degli eurodeputati del PD, la forza erede del Partito comunista italiano, abbia votato a favore di tale risoluzione. 33
Politica
I vivaisti Antonella GOLINELLI
Di tutti gli slogan e iniziative strampalate del nuovo partito centrista, gli scissionisti dico, mi ha colpito particolarmente il binomio tessere-alberi. Davvero. Afferma serenamente il senatore semplice che “per ogni tessera, online, verrà piantato un albero”. Dove? Ma questa è la domanda più semplice. Non avete capito vero? Mi spiego. Mi sono chiesta su che criterio piantino alberi. Creano un bosco da qualche parte 34
con gli alberi corrispondenti alle tessere fatte (si, lo so, sono ottimista. Non dite nulla) o piantano alberi nei luoghi di provenienza degli iscritti? Me lo sono chiesta ma subito dopo mi sono messa a ridere. Non a caso, sia chiaro, mi sono messa a ridere perchè mi è venuto in mente che questa gente qui ha governato direttamente o per interposta persona per 5 lunghi anni. Mi è venuto in mente che in Italia di aree industriali dismesse ce ne sono tante, tantissime e non tutte recenti, non tutte dovute alla crisi del 2008. Mi è venuto in mente che nei 5 anni di governo mai è stata detta una parola sul recupero eco delle zone dismesse, mai un cenno alla demolizione degli stabili fatiscenti, alla bonifica delle aree e alla piantumazione al fine di ripulire terreni e aria. Nulla. Si sono riempiti la bocca di industria 4.0, di eccellenze e compagnia cantante. Come se il resto del lavoro non esistesse. E #adesso saltano fuori con un albero per tessera, i contadini, anzi no scusate, gli agricoltori e l'ecologia. La butto in politica (si, lo so, sono antipatica). Dopo questa crisi, se e quando finirà, per tornare ai livelli di prima occorreranno almeno 50 anni, bene che vada. Da qui a 50 chissà come si produrrà, con quali mezzi e quali esigenze edilizie. Come saranno le fabbriche verso la fine di questo secolo non è dato dirlo. Almeno io non sono in grado. Vedo la tendenza ma non ho certezza sugli sviluppi architettonici. Le nostre città e non solo sono costellate di siti industriali fatiscenti, già in disuso da decenni. Ogni cambio industriale e societario lascia cadaveri sul terreno. Nel senso che lascia capannoni, edifici per uffici, magazzini, piazzali e tanto altro, che non hanno e non avranno mai più utilizzo. A questi ruderi si sono aggiunti, causa crisi, siti più recenti certo ma di scarsissimo 35
valore edilizio. Li vuoti che cascano a pezzi e occupano spazio. Ora, in 5 anni di governo non si sarebbe potuto avviare un piano di demolizione e recupero ambientale? Sono consapevole di ripetermi ma fa lo stesso: durante il mandato di governo non potevano avviare un piano industriale che comportasse azioni semplici come la demolizione dei poveri resti rugginosi di fabbriche di cui ormai non si ricorda più il nome? Togliere di mezzo questi rimasugli industriali, rimuovere l'impermeabilizzazione del terreno (le asfaltature oramai in briciole), rimuovere gli impianti interrati (di questi non si ricorda mai nessuno), bonificare i terreni e piantare alberi? Perchè vedete, avere un bosco su un'area abbandonata di 10/20 mila metri quadri piuttosto che spuntoni rugginosi fa la differenza. Soprattutto se le aree sono centinaia o migliaia. Boschi di pulizia, diciamo così, aiutano. Aiutano l'aria, aiutano le temperature, aiutano la fauna, aiutano soprattutto noi. Mal che vada fra 50 anni avremo legna da ardere, cellulosa, materiale naturale per costruire mobili. Soprattutto avremo terreno sano per l'agricoltura. Sapete quello strano mestiere che serve a produrre il cibo che portiamo in tavola, quello dimenticato e disprezzato da tutti da quasi sempre. Quello che non è cool e non è smart. Quello che fa sudare ed è faticoso. Quell'agricoltura di produzione che pure l'Europa ha dimenticato, prediligendo i contributi agli impianti alla produzione. Che fatti curiosi. Comunque #adesso si sono svegliati i begli addormentati e per ogni tessera pianteranno un albero. Dove non si sa, su che base non si sa uguale, ma lo faranno. Forse.
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Testata online aperiodica Proprietà: Comitato per l’Unità Laburista, Strada Sesia 39 14100 Asti (AT) Direttore Responsabile: Aldo Avallone - Stampatore: www.issuu.com web: www.issuu.com/lunitalaburista - mail: lunitalaburista@gmail.com - Tel. +39.347.3612172 Palo Alto, CA (USA), 24 settembre 2019 38