l’Unità Laburista - Egitto, la nuova Primavera contro il faraone - Numero 13 del 26 settembre 2019

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Numero 13 del 26 settembre 2019

EGITTO

La nuova Primavera contro il faraone


Sommario

Egitto, la nuova Primavera contro il faraone pag. 3 di Umberto DE GIOVANNANGELI Cronache marziane - pag. 11 di Antonella BUCCINI Jazzisti americani in missione diplomatica - pag. 16 di Giovan Giuseppe MENNELLA La Sinistra e il ritorno sui territori - pag. 25 di Raffaele FLAMINIO

C’è del marcio in Gran Bretagna - pag. 30 di Aldo AVALLONE

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Esteri

Egitto, la nuova Primavera contro il faraone Umberto DE GIOVANNANGELI

Era stata il cuore della “Primavera” che spazzò via il regime trentennale di Hosni Mubarak. Un modello per tutti i popoli che nel Sud del Mediterraneo rivendicavano libertà, diritti, democrazia, giustizia sociale. Semplicemente “Piazza Tahir”. Una Piazza che ha vissuto brutali repressioni, che era stata data per morta, svuotata di migliaia di giovani che erano andati a riempire le patrie galere nella sistematica repressione portata avanti dal “faraone” d’Egitto: il generale-presidente Abdel Fattah al-Sisi. E presto per dire che siamo agli inizi di una seconda “Primavera” egiziana ma una cosa è certa: Piazza Tahir vive. E torna a riempirsi di giovani, tante le 3


ragazze, che non hanno smesso di sognare, e di battersi, per quei principi universali che il regime non è riuscito a spazzare via. E il regime risponde con il solo “linguaggio” che conosce: quello della forza. La protesta da Piazza Tahir si è estesa ad Alessandria, Damietta, El-Mahalla El-Kubra e in altre località del paese. Alla vigilia delle ulteriori proteste annunciate per venerdì 27 settembre, Amnesty International ha chiesto ai capo di stato presenti all'Assemblea generale delle Nazioni Unite di condannare la repressione in corso in Egitto e chiedere al presidente alSisi di fermarla. Amnesty International ha documentato arresti di manifestanti, giornalisti, avvocati per i diritti umani, attivisti ed esponenti politici nel tentativo di impedire le proteste. La Bbc e Alhurra sono stati aggiunti alla lista dei 513 siti Internet già bloccati mentre le comunicazioni tramite app di messaggistica, come Wire, sono state interrotte e altre come WhatsApp Signal hanno funzionato solo a tratti. "Il mondo non può rimanere in silenzio mentre il presidente al-Sisi calpesta i diritti degli egiziani alla protesta pacifica e alla libertà di espressione. Invece di inasprire la repressione, le autorità del Cairo devono rilasciare immediatamente tutte le persone arrestate per aver esercitato pacificamente i loro diritti alla libertà di espressione e di manifestazione pacifica e consentire lo svolgimento delle proteste in programma venerdì", ha dichiarato Najia Bounaim, direttrice delle campagne sull'Africa del Nord di Amnesty International.

Amnesty International ha documentato almeno 59 arresti in cinque città nella notte tra il 20 e il 21 settembre. Le organizzazioni locali per i diritti umani parlano di centinaia di arre4


sti dall'inizio delle proteste, mentre il Centro egiziano per i diritti economici e sociali ha riferito di 964 arresti tra il 19 e il 24 settembre. Tutte le persone arrestate rischiano di essere incriminate per reati connessi al "terrorismo". Ai giornalisti che lo hanno intervistato a New York, il presidente al-Sisi ha risposto che le proteste sono istigate dall' "Islam politico". Secondo Amnesty International, invece, alle manifestazioni hanno preso parte persone di età, condizione socio-economica, genere e orientamento religioso diversi e anche persone prive di un profilo politico. La risposta delle autorità alle proteste, mai viste da anni in piazza Tahrir al Cairo così come ad Alessandria, Dumyat, Mahalla e Suez in cui venivano intonati slogan contro il presidente al-Sisi, la corruzione e gli arresti, è stata brutale. Amnesty International ha verificato tre video che mostrano agenti di polizia picchiare manifestanti, sparare pallini da caccia ed esplodere gas lacrimogeni per disperdere proteste pacifiche. In quelle immagini, Amnesty International ha notato la presenza di blindati della francese MIDS, già usati per reprimere precedenti proteste, e dell'italiana IVECO.

Centinaia di arrestati sono stati inizialmente tratte-

nuti senza avere contatti con avvocati o familiari. Sebbene alcuni siano stati rilasciati, almeno 274 sono stati portati di fronte alla Procura suprema per la sicurezza dello stato (SSSP) e almeno altri 146 di fronte alle procure locali del Cairo. Secondo gli avvocati, le persone arrestate sono indagate per "collaborazione con un gruppo terroristico nel raggiungimento dei suoi obiettivi", "diffusione di notizie false", "partecipazione a proteste non autorizzate" e "utilizzo dei social media per diffondere informazioni riguardanti un gruppo terrorista", definizione quest'ultima riferita alla Fratellanza musulmana. Per tutti gli arrestati sono stati disposti 15 giorni di carcere, rinnovabili. Le forze di sicurezza se la sono presa anche con avvocati, giornalisti, attivisti ed esponenti politici. Amnesty International ha documentato l'arresto di cinque giornalisti, tra cui Sayed Abdellah, che stava tra5


smettendo tramite Facebook notizie sulle proteste a Suez, e Mohammed Ibrahim, il fondatore del noto blog "Ossigeno Egitto", che a sua volta aveva diffuso video sulle

proteste.

La nota attivista e avvocata per i diritti umani Mahienour el-Masry è stata prelevata alle 19 del 22 settembre da uomini in borghese e fatta salire su un furgone all'uscita della sede della SSSP dove si era recata per assumere la difesa di un collega. Anche nel suo caso è stata disposta la detenzione, per le infondate accuse di "collaborazione con un gruppo terroristico nel raggiungimento dei suoi obiettivi" e "diffusione di notizie false", per fatti riferiti a precedenti proteste del marzo 2019. Il dirigente sindacale Rashad Mohammed Kamal è stato arrestato a Suez e sette tra dirigenti di partito e avvocati sono stati arrestati in altre parti dell'Egitto nelle prime ore del 24 settembre.

Dopo il blocco del sito della Bbc per aver coperto in modo "non accurato" le manifestazioni, i corrispondenti della stampa internazionale sono stati ammoniti a "rispettare gli standard professionali riconosciuti a livello internazionale nella loro copertura delle notizie e degli affari egiziani". “Da quando il presidente al-Sisi ha 6


preso il potere, la situazione d“Le autorità egiziane dovrebbero proteggere il diritto a protestare pacificamente nel rispetto degli obblighi dell'Egitto assunti in base al diritto internazionale dei diritti umani", ha sottolineato Human Rights Watch in una nota in riferimento alle proteste contro il presidente al-Sisi, aggiungendo che le autorità dovrebbero rilasciare immediatamente tutti gli arrestati per il fatto di aver esercitato esclusivamente i loro diritti. Il vice direttore di Hrw per il Medio Oriente e il Nord Africa, Michael Page, afferma che "le agenzie di sicurezza del presidente al-Sisi hanno di nuovo usato una forza brutale per sedare le proteste pacifiche", aggiungendo che "le autorità devono riconoscere che il mondo sta guardando e devono compiere i passi necessari per evitare che si ripetano le atrocità del passato". ''Sisi vai via'' e ''La gente vuole deporre il regime'' sono alcuni degli slogan intonati dai manifestanti. Sotto la presidenza al-Sisi e col pretesto di combattere il terrorismo, migliaia di persone sono state arrestate arbitrariamente - centinaia delle quali per aver espresso critiche o manifestato pacificamente - ed è proseguita l'impunità per le amplissime violazioni dei diritti umani quali i maltrattamenti e le torture, le sparizioni forzate di massa, le esecuzioni extragiudiziali e l'uso eccessivo della forza. Nel dicembre 2018 sono stati annunciati emendamenti alla legge ma non è chiaro se questi avranno a che fare con questioni legate ai diritti umani. Dal 2014 almeno 31 rappresentanti di Ong sono stati colpiti da divieti di viaggio e le autorità hanno congelato i beni patrimoniali di 10 persone e di sette Ong nell'ambito di un'inchiesta sui finanziamenti provenienti dall'estero. Nel 2018 sono state approvate la legge sui mezzi d’informazione e quella sui crimini informatici, che hanno esteso ulteriormente i poteri di censura sulla stampa cartacea e online e sulle emittenti radio-televisive. Secondo l'Associazione per la libertà di pensiero e di espressione, dal maggio 2017 le autorità egiziane hanno bloccato almeno 718 siti web, tra cui portali informativi e di organizzazioni per i diritti umani. Una serie di e7


mendamenti controfirmati dal presidente al-Sisi nel 2017 hanno poi conferito alle autorità il potere di eseguire arresti di massa, hanno prolungato all'infinito i tempi della detenzione preventiva e hanno pregiudicato il diritto a un processo equo. Dal 2013 migliaia di persone sono state trattenute in detenzione. preventiva per lunghi periodi di tempo, a volte anche per cinque anni, spesso in condizioni inumane e crudeli, senza cure mediche adeguate e con scarso accesso alle visite familiari. In alcuni casi, la polizia ha trattenuto per mesi persone di cui i tribunali avevano ordinato il rilascio. Durante una fase particolarmente acuta della repressione, tra dicembre 2017 e gennaio 2019, almeno 156 persone sono state arrestate per aver criticato in modo pacifico le autorità, aver preso parte a riunioni o aver partecipato a manifestazioni. Più di recente, nel maggio e nel giugno 2019, sono stati arrestati almeno 10 oppositori pacifici, tra cui un ex parlamentare, leader dell'opposizione, giornalisti e attivisti. Le autorità hanno anche approvato leggi che rafforzano le limitazioni ai sindacati indipendenti e l'impunità per le alte cariche delle forze armate per reati commessi dal 2013 al 2016, un periodo nel quale centinaia di manifestanti sono stati vittime di uccisioni illegali da parte delle forze di sicurezza. Gli emendamenti costituzionali adottati nel 2019 hanno indebolito il primato della legge, compromesso l'indipendenza del potere giudiziario, aumentato i processi in corte marziale per i civili, eroso ulteriormente le garanzie di un processo equo e cristallizzato l'impunità per i membri delle forze armate. Una inchiesta della BBC, The shadow over Egypt. si occupa delle sparizioni forzate ma anche dei casi di tortura sistematici e degli imprigionamenti avvenuti in Egitto negli ultimi anni, citando i casi di Giulio Regeni e di alcuni giovani attivisti egiziani. L’articolo multimediale cita l’Egyptian commission for rights and freedoms denunciando “almeno 1.500 sparizioni forzate” negli ultimi quattro anni. Il coordinatore della campagna contro le sparizioni forzate Mohamed Lotfy spiega anche che le sparizioni sono ad8


dirittura diventate una firma del regime di al- Sisi”. Spregio dei diritti umani, corruzione dilagante. E non solo. La già pesante situazione economica e sociale del Paese è stata, infatti, ulteriormente aggravata dalle dure e inefficaci riforme economiche che colpiscono gran parte degli egiziani, dalle fasce medio-alte a quelle più basse: la disoccupazione schizzata al 24.7%, un tasso di povertà salito al 25%, i prezzi dei principali beni, inclusi i medicinali, raddoppiati, la sterlina egiziana precipitata nei confronti del dollaro e gli stipendi rimasti invariati, aumenti tra il 30,5 e il 46,8% del costo dei carburanti, con la decisione del governo di tagliare i sussidi pubblici alla benzina .Secondo i dati del ministero dell’Approvvigionamento, 70 milioni di egiziani su 92 acquistano il cibo attraverso 20 milioni di tessere alimentari che danno accesso al mercato sovvenzionato. Per gli alimenti il deficit è vicino al 50% di quanto consumato. Secondo l’Ente statistico nazionale Capmas la produzione di grano è cresciuta del 5,6% per cento nell’ultimo anno, ma il livello di autosufficienza è appena al 49 %. Nel 2018 la popolazione egiziana ha raggiunto la cifra record di 96 milioni. In soli 7 anni sono nati undici milioni di egiziani. Un “baby boom” che ha reso ancora più esplosiva la situazione sociale. Tanto più di fronte ad un radicato sistema di corruzione che ha resistito alla caduta del regime di Hosni Mubarak e che, nonostante le solenni promesse ripetute anche in campagna elettorale, al-Sisi non è riuscito, o non ha voluto, intaccare. Negli anni di turbolenze che seguirono la caduta di Mubarak, molti giovani che chiedevano libertà abbandonarono questa richiesta a favore della stabilità economica e della sicurezza. La gente “era arrabbiata, ma ha optato per la calma”, spiega Sami, che hai tempi di Piazza Tahrir aveva vent’anni e di quella stagione fu tra i protagonisti. “Ora – dice - il risultato è zero: economicamente, tutti sono sotto pressione, non importa il tuo livello di reddito, tutti i tuoi risparmi e il reddito sono stati tagliati a metà... Socialmente sei frustrato: ti senti incapace di muoverti o di parlare facilmente, tan9


ta paranoia, troppa sicurezza isterica, al punto che il Paese è tornato a essere gestito da una singola entità”. Sono in tanti a pensarla come Sami. E molti di loro sono tornati a riempire Piazza Tahrir, tornata ad essere “Piazza della Libertà”.

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Costume

Cronache marziane Antonella BUCCINI

Sapete che vi dico: Uomini e Donne è la trasmissione più geniale della tv generalista. Ecco, l’ho detto. Ci ho pensato a lungo. Mi mancava il coraggio ma alla fine ho deciso. Evviva la libertà di espressione checché ne pensi Crimi, il deputato pentastellato.

Dunque sono giunta a questa conclusione perché le trasmissioni in onda in realtà sono tutte uguali, cambia solo il conduttore. Ospiti, intervistina leziosa, pubblicità del libro, del film, della serie ecc. Punto. Ci può essere il diversivo del fatto di cronaca nera che tinge un po’ rosso sangue la mattina, il pomeriggio o la sera, o la discussione sul tema: è più bella “fiori rosa fiori di pesco” o “emozioni”? 11


“Uomini e donne” invece mette insieme un’umanità improbabile. Se ho compreso la dinamica, la vicenda va così: un gruppo di giovani palestrati e tatuati, un altro di donne, stesso genere, poi c’è il tronista o la tronista che deve scegliere il suo o la sua preferita mentre il pubblico o qualcosa di simile partecipa e commenta. Più o meno di questo si tratta.

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Certo il pezzo forte è la drammatizzazione: litigi, gelosie, invidie, “ti lascio”, “no non ancora”, “ti scelgo”, “sei falso/a”, “sei il/la più sincero/a”, “perché non mi hai baciato/a?, “ti aspettavo”, in una liturgia di cui è difficile cogliere il senso ma ancor più il perché. L’esterna, termine usato con disinvoltura dai partecipanti per suggerire ripetutamente la dimestichezza con il mezzo televisivo e che quindi non sono abusivi del nulla, consiste in esperimenti sentimentali dei due fuori dallo studio. Alla fine della fiera c’è un vincitore o meglio due si mettono insieme o almeno così ce la raccontano.

Chi l’ha pensata questa cosa qui ha una vocazione, un talento speciale, non so dire quale ma ce l’ha. Ce l’ha perché ha messo insieme consapevolmente una rappresentazione che non è credibile, con personaggi corredati di due, tre emozioni basiche e di un vocabolario stretto stretto, e dove tutti si muovono intorno a un paio di concetti fondamentali: “mi piaci”, “si” “no”, “sii te stesso/a” (Gesù !!!), “sei fedele?” “si”, “no”.

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La messinscena funziona, è seguitissima tant’è che va in onda da almeno un decennio ed è una fucina di soggetti che poi ritrovi in altri e diversi luoghi televisivi di analogo spessore intellettuale. Questa però non me la aspettavo: leggo che Giulia De Lellis, ex tronista, diventata intanto una influencer dai toni genuini, adorata da milioni di followers e contesa dai grandi marchi, che non ha mai letto un libro (lo ha dichiarato lei) ed è convinta che l’Egitto sia la capitale dell’Africa, ha pubblicato “Le corna stanno bene su tutto. Ma io stavo meglio senza”, 160 pagine di diario sul tradimento subito, scritto però da una ghostwriter, giusto per la sintassi. Il racconto delle sue corna appassiona, evidentemente in tanti si identificano nell’anonimato della lettura solitaria. Il libro, edito da Mondadori Electa, è in cima alle classifiche delle vendite. Intanto è notizia di oggi che la marina americana riconosce come autentici i video fatti da tre piloti di cacciabombardieri che riprendono degli UFO, oggetti non identificati, a forma di caramella. Vuoi vedere che gli alieni in giro per galassie hanno saputo di “Uomini e 14


donne� o hanno letto il libro della De Lellis e sono venuti a salvarci o a distruggerci? Dipende dal punto di vista. Per l’inusuale forma a caramella degli UFO chiederei alla De Lellis, non escludo, comunque, che su Marte gli indigeni siano proprio incartati come noi e magari, loro sÏ, hanno concesso lo ius soli ai cioccolatini!

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Musica e Politica

Jazzisti americani in missione diplomatica Giovan Giuseppe MENNELLA

Nel 1955 si svolse a Bandung, in un’Indonesia da non molto indipendente dal dominio coloniale dei Paesi Bassi, la Conferenza mondiale dei Paesi che si dichiaravano non allineati né con gli USA né con l’URSS. Erano i Paesi, per lo più extraeuropei ma non solo, che avevano ritenuto di non fare parte di alcuno dei due schieramenti che si andavano fronteggiando, in alleanze militari e non, nella Guerra Fredda tra le due superpotenze.

Vi si imposero, con la loro presenza carismatica, alcuni Capi di Stato ormai mitici nei loro Paesi per la partecipazione alle lotte di liberazione e che dovevano caratterizzare, nel bene ma spesso anche nel male, la politica mondiale di là a venire. Si parla di personaggi come Tito, Nasser, Nehru, Sukarno, nonché di parecchi leader carismatici africani che si accingevano ad assumere la guida dei loro popoli nell’imminenza della conquista dell’indipendenza dal dominio coloniale, in quell’anno mitico 1960 che doveva presto arrivare e passare alla storia come quello 16


della liberazione dell’Africa. E proprio di origine afroamericana, sia pure con ascendenze anche europee e amerinde, era un altro politico che si trovava anche lui a Bandung, anche se come semplice osservatore inviato dal Congresso degli Stati uniti d’America. Stiamo parlando di tale Adam Clayton Powell. Chi era costui, avrebbe detto Don Abbondio. Eppure è stato un personaggio particolare, degno di nota per alcune non banali iniziative che lo caratterizzarono, tra cui quella di cui parleremo tra poco.

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Adam Clayton Powell jr. nacque il 29 Novembre 1908 in Virginia, fu pastore battista, politico ed eletto alla Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti nel collegio di Harlem a New York, primo discendente di etnia afroamericana ad essere eletto al Congresso come rappresentante di New York. Era del Partito Democratico e sostenne sempre i diritti civili degli afroamericani e le cause sociali. In quanto abbastanza influente presso il Presidente Eisenhower, cercò di convincerlo ad aiutare le nazioni e i popoli emergenti dell’Africa e dell’Asia una volta che avessero ottenuto l’indipendenza. In effetti, gli anni ’50 del Novecento furono gli anni del processo di decolonizzazione, in cui si sfaldarono come ormai anacronistici gli imperi coloniali di Gran Bretagna, Francia, Paesi Bassi. Moltissime nazioni, che allora erano chiamate del “Terzo Mondo”, diventarono indipendenti. Fu come un primo passo verso la globalizzazione, un terzo del Mondo passava da regimi coloniali in tutto asserviti al mondo imperialista si incamminava a essere potenzialmente non allineato e quindi soggetto attivo e non passivo della politica e dell’economia mondiali.

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Powell in quella conferenza internazionale fece un’ottima impressione con i suoi discorsi, in quanto espresse il malessere degli afroamericani nel contesto della società statunitense ma non attaccò il Governo degli Stati Uniti, anzi difese la propria nazione contro gli attacchi dei Paesi del blocco comunista e dei loro simpatizzanti. Perciò, quando tornò in patria, aveva acquisito un’autorevolezza e una credibilità che gli consentì di avere successo in una particolare proposta che espresse al Dipartimento di Stato. Poiché aveva notato a Bandung, nel corso dei lavori, dei discorsi, degli incontri informali, un’avversione per l’intera società degli USA, anche nei confronti delle sue arti figurative, della sua musica del suo balletto, tutte ritenute espressioni di una cultura bianca e dominante, propose che da quel momento in poi gli USA dovessero essere rappresentati culturalmente nel Mondo da espressioni di arte nativa e popolare. Propose quindi che la cultura americana dovesse essere rappresentata nel mondo dal jazz, la forma di arte che più popolare e spontanea, oltretutto spesso suonato da formazioni multietniche. Il progetto fu accettato e fatto proprio dal Dipartimento di Stato che propose come obiettivo appunto quello di dare un segnale culturale e diplomatico filo-americano a nazioni le cui simpatie est/ovest non erano state ancora esplicitate. Così nel 1956 fu creato dal Governo “The jazz ambassadors” un gruppo di jazzisti famosi come Dizzie Gillespie, Dave Brubeck, Benny Goodman, Louis Armstrong, che ebbero il compito di svolgere il ruolo di ambasciatori culturali nei Pa19


esi d’oltremare, per migliorare l’immagine pubblica degli USA alla luce delle critiche formulate dall’Unione Sovietica circa le disuguaglianze razziali. Fu contattato anche Duke Ellington che però non si disse disposto a collaborare almeno fino a quando non si fosse avviato a soluzione il problema dell’integrazione tra bianchi e neri. Lo stesso Dizzie Gillespie ebbe dei dubbi, ma poi accettò di partecipare a patto che non gli si imponesse di dire o fare nessuna cosa esageratamente propagandistica che non condividesse.

Il primo tour partì nel Marzo 1956 e durò dieci mesi. La band, formata da diciotto elementi, era guidata da Dizzy Gillespie e si esibì Iran, Pakistan, Libano, Turchia, Yugoslavia e Grecia. Un ambasciatore americano disse che con i costi della tournée si sarebbe potuto costruire forse un nuovo carro armato ma non si sarebbe potuto ricavare tanta simpatia per gli Stati Uniti come quella che si era ottenuta con le esibizioni della Dizzy Gillespie band. Nel 1964, forse ricordando il suo ruolo di Ambasciatore del 1956, Dizzy dichiarò scherzosamente che si sarebbe candidato a Presidente degli Stati Uniti e che, se fosse stato eletto, avrebbe rinominato la Casa 20


Bianca “Blues House”. Nel 1958 fu la volta di Dave Brubeck con il suo quartetto a partire per un tour diplomatico- musicale nell’Europa dell’Est, in Medio Oriente e nel Sud-est asiatico. In questo e altri tour sponsorizzati dal Governo, lui e il suo quartetto presentarono il jazz come un distillato e una riflessione sui più alti ideali e aspirazioni culturali dell’America. Brubeck aveva avuto già una lunga esperienza di impegno civile per la causa dell’uguaglianza dei diritti sociali ed etnici. Mentre era sotto le armi aveva organizzato “The Wolf pack”, un gruppo musicale già integrato razzialmente tra bianchi e neri quando nelle Forze Armate statunitensi vigeva ancora la segregazione razziale. Anche dopo, rimase sempre fermo nel suo obiettivo di favorire l’uguaglianza razziale, rifiutandosi di esibirsi dove non accettavano la presenza di un componente afroamericano della sua band e e per tutti gli anni ’50 e ’60 non suonò mai nel Sud segregazionista ed evitò di farlo anche nel 1976 nel Sud-Africa razzista. Comunque, tutti questi jazzisti furono sempre tormentati dal dilemma di come potevano promuovere nel Mondo l’immagine di un’America aperta e tollerante quando nel Paese si praticava ancora la segregazione razziale e l’uguaglianza rimaneva per il popolo afroamericano un sogno irrealizzato.

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Così la moglie di Brubeck, Lola, scrisse nel 1961 un musical intitolato appunto “The Real Ambassadors”, in cui mise alla berlina la segregazione razziale e che era ispirato appunto all’esperienza dei tour propagandistici del marito. Il musical è notevole non tanto per il successo che ebbe, scarso in verità, ma perché vi partecipava una vera e propria squadra di “all stars” con tre quarti del quartetto di Dave Brubeck – manca il sax di Paul Desmond – accanto nientemeno che a Louis Armstrong con alcuni suoi fedelissimi come Trummy Young e alle voci di Carmen Mc Rae e del trio Lambert, Hendricks e Ross. E nel 1962 proprio a sua maestà “Satchmo “Armstrong toccò di partire per il tour successivo. Suonò in Congo, nell’ambito di un più ampio giro nell’Africa nera, che lo vide spesso attraversare le strade in trionfo assiso su un vero e proprio trono, con tamburini e ballerini che lo accompagnavano in parata. Quando suonò nella provincia secessionista del Katanga di Moisè Ciombè, fu proclamata una tregua nella guerra civile che insanguinava quel disgraziato paese, per consentire ai miliziani delle opposte fazioni di assistere alle sue esibizioni. Purtroppo la tournée fu anche funestata dalla morte della cantante che da tanto tempo accompagnava le performance di Armstrong. Nel 1962 fu la volta di Benny Goodman di intraprendere il giro di concerti nell’Est che lo portarono con la sua band alla mitica esibizione a Mosca. Dalla registrazione dal vivo di quel concerto è stato tratto un famoso disco. Pare che Krusciov stesso, ascoltando la musica di Goodman, abbia detto “è solo musica da ballo”. Il leader sovietico voleva diminuire l’importanza di quella musica tipicamente americana, ma senza volerlo aveva dato un giudizio critico non lontano dal vero, visto che il jazz era stato fini ad allora anche una musica per ballare. I sovietici scelsero Goodman e non Ellington o Armstrong perché ritennero che quella del clarinettista fosse “musica organizzata”, suonata su uno spartito e non improvvisata, più vicina 22


alla musica classica, di cui Goodman pure era apprezzato interprete. Inoltre, ricordavano che la famiglia di Goodman veniva proprio dalla Russia, anche se è probabile che ne fosse scappata con alle calcagna alcuni cosacchi che li volevano far fuori per completare l’ennesimo pogrom. Finalmente, nel 1964 toccò a Duke Ellington, che si risolse ad accettare l’incarico di condurre un tournée “diplomatica” all’estero solo dopo che il Presidente Johnson gli ebbe assicurato che stava per far votare al Congresso la legge sui diritti civili degli afroamericani. Tuttavia, ben presto scoppiarono tumulti razziali in molte città americane e il “Duke” ci ripensò. Si concluse così quasi un decennio di giri musicali per il mondo dei jazzisti americani, afroamericani e non solo, che si svolse sempre in equilibrio precario tra il desiderio di far conoscere nei Paesi del Terzo Mondo le cose positive e innovative degli Stati Uniti e le perplessità suscitate in loro dal perdurare dell’emarginazione, nella società e nella politica, del popolo afroamericano e in genere dei meno abbienti. Comunque questo interessante esperimento socio-culturale era nato dall’intuizione di quel particolare personaggio politico che era Powell, di ritorno dalla Conferenza di Bandung. Da notare infine che recentemente, nell’Aprile 2018, è stato presentato all’Harlem International Film Festival il documentario “The Jazz Ambassador”, per la regia di Hugo Berkeley, con Bill Crow, Quincy Jones e altri, che tratta in modo approfondito proprio della storia che abbiamo raccontato. Non sappiamo se è stato o sarà proiettato nelle sale italiane, o almeno in televisione, ma sarebbe molto interessante visionarlo, anche solo per il valore musicale dei pezzi suonati.

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Politica

La Sinistra e il ritorno sui territori Raffaele FLAMINIO

Lo spiraglio di speranza aperto da questa nuova fase governativa, impegna severamente le forze progressiste e riformiste del panorama politico italiano. I temi rimasti irrisolti sono molteplici, tutti di estrema difficoltà e pericolosità, rappresentano un efficace comburente alla disgregazione sociale. I primi passi del governo, fresco di fiducia, si muovono nella direzione auspicata. La disponibilità dell’esecutivo ad affrontare l’emergenza lavoro prima di tutto, rappresenta un elemento di collante culturale essenziale per la tenuta democratica del paese.

Il lavoro e la sua sicurezza sono la pietra miliare del nostro ordinamento giuridico, senza lavoro non v’è dignità, non c’è esistenza fisica e morale. È per questo moti25


vo che la Sinistra Italiana, al netto delle scissioni più o meno personalistiche e opportunistiche, deve porre mano a una capillare operazione di recupero territoriale, tradurre dalle parole ai fatti il paradigma “ di stare in mezzo alla gente”.

Stare in mezzo alla gente significa ascoltare quotidianamente le difficoltà che incombono sul vissuto degli individui, stare in mezzo alla gente significa sporcarsi le mani. Il progetto di riorganizzazione proposto alcuni anni fa da Fabrizio Barca al PD renziano, intercettava l’esigenza morale e pratica che un partito di sinistra ideologico o post ideologico doveva e deve porsi. Se è vero che l’altro tema dominante nel paese è il decadimento dell’istruzione, è ancora più vero per la sinistra che deve riorganizzarsi dal punto di vista culturale. Le sezioni di quartiere sono state e restano la cinghia di trasmissione con la gente e in mezzo alla gente. Sono l’unico elemento di confronto con il “Popolo”; esse devono rappresentare l’archivio e la sintesi della proposta politica della Sinistra.

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Le Sezioni rappresentano presidi di legalità, voce affidabile e strutturata dei cittadini capaci di fornire spunti di iniziativa politica e amministrativa. Il collegamento tra le sezioni , i CAAF, i Patronati sindacali confederali saranno la prima risposta a ristoro delle incertezze della gente. Fabrizio Barca il 13 giugno 2015 ha parlato di “partito palestra” . Un luogo di democrazia dove le idee circolano libere senza condizionamenti e infingimenti di sorta, dove il Leader non domina e impedisce ma, favorisce l’inclusione e la sintesi dell’elaborato quotidiano. Un metodo che contribuisca alla selezione delle idee e della futura classe dirigente di cui la Sinistra vorrà dotarsi. Una sinistra e un partito che non si assuma il compito di un bilanciamento tra i poteri, ma incida idealmente e praticamente nella definizione dei conflitti e degli interessi di parte. Perché 27


alle origini del malessere c’è il conflitto. L’apprendimento delle ragioni e delle origini del conflitto in atto, attraverso la conoscenza e le iniziative territoriali, favoriranno lo spirito di appartenenza dei cittadini che da passivi, soli ed isolati, troveranno motivo di aggregazione nello spirito Costituzionale dell’articolo 49. “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”.

Il nuovo secolo, ha visto nascere decine di movimenti di liberi cittadini che si opponevano alla brutale finanziarizzazione dell’economia, alla smaterializzazione del lavoro, ai cambiamenti climatici. Ciò in parte ha rappresentato un elemento positivo di riaggregazione sociale, una forte domanda di partecipazione che la sinistra e i partiti a essa legati storicamente, non hanno saputo cogliere generando un vuoto di rappresentanza. Il controllo delle istanze e delle aspirazioni dei territori è, invece, il propellente positivo che la sinistra deve sfruttare compiendo l’immane fatica dell’ascolto e della proposta. La sezione deve essere il punto di sintesi della cittadinanza attiva al fine di promuovere e agire un’efficace sintesi politica, forza persuasiva e consapevole 28


per il cambiamento. I partiti di sinistra nel secolo scorso sono stati le cinghie di collegamento con le istituzioni del paese, molto spesso sono stati capaci di tradurre in leggi le battaglie e le proposte del mondo sindacale. Quel legame importante che negli ultimi anni si è interrotto, va riannodato.

E’ necessario che la sinistra politica prenda coscienza delle tensioni quotidiane nei luoghi di lavoro e dell’esperienza maturata dal movimento sindacale e in particolare dal nuovo corso impresso dalla CGIL di Maurizio Landini. Nel rispetto della reciproca autonomia le componenti politica e sindacale della sinistra devono compiere un sforzo congiunto nell’approntamento delle sezioni territoriali che devono diventare luogo di promozione di cittadinanza attiva, primo sostanziale passo sulla strada dell’elaborazione di un progetto politico complessivo che risponda in primis alle necessità di erogazione di servizi che i cittadini chiedono. Solo affrontando direttamente la domanda di ascolto si è capaci di compiere, attraverso risposte adeguate, l’alfabetizzazione dei cittadini bisognosi di rappresentanza. 29


Esteri

C’è del marcio in Gran Bretagna Aldo AVALLONE

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C’è del marcio in Gran Bretagna, viene da dire parafrasando il grande Shakspeare, dopo la pronuncia del 24 settembre scorso della Corte Suprema presieduta da Lady Brenda Hale. Con una sentenza definitiva il tribunale ha definito “illegale, nulla e priva di effetti” la decisione del premier Boris Johnson di sospendere le attività del Parlamento britannico fino al 14 ottobre per non dare modo ai rappresentati della Camera dei Comuni di ridiscutere la Brexit e per portare, di fatto, il Paese fuori dall’Europa senza nessun tipo di accordo. Secondo la sentenza il governo non ha presentato “alcuna giustificazione plausibile per bloccare i lavori parlamentari” e la chiusura per un tempo così lungo “non è una sospensione normale”.

Il verdetto, pronunciato all’unanimità dagli undici giudici che compongono la Corte, chiude la querelle che si era aperta dopo che Johnson aveva chiesto e ottenuto dalla Regina Elisabetta l’interruzione delle attività parlamentari impedendo altri dibattiti sull’uscita della Gran Bretagna dall’Europa. L’opposizione era insorta definendo il provvedimento “un colpo di mano” e proponendo ricorsi presso le sedi 31


giudiziarie. In precedenza si erano già pronunciati, in maniera diametralmente opposta, il tribunale scozzese che aveva giudicato la decisione del governo illegittima e quello inglese che, al contrario, l’aveva ritenuta possibile in quanto “scelta politica”.

Inoltre, per sospendere le attività parlamentari, Johnson aveva chiesto e ottenuto il via libera da parte della Regina; le opposizioni da subito avevano accusato Elisabetta di aver mancato alla neutralità che le impone il ruolo dopo essersi fatta trascinare in una scelta palesemente illegittima. La sentenza della Corte Suprema dimostra che un Paese che possegga meccanismi di garanzia idonei e indipendenti può reggere alle spinte populistiche ed è estremamente confortante sapere che la democrazia è dotata di armi sufficienti per difendere le libertà costituzionali e anticorpi efficaci per contrastare il sovranismo della destra. È di queste ore la notizia che Nancy Pelosi, presidente della Camera statunitense e leader del Partito Democratico al Congresso, ha annunciato l’avvio di una procedura di impeachment contro il presidente Donald Trump dopo che negli ulti32


mi giorni era emerso che Trump aveva fatto pressioni su un leader straniero – il presidente ucraino Volodymyr Zelensky – perché aprisse un’indagine nei confronti di Joe Biden, ex vicepresidente americano e probabile sfidante dello stesso Trump alle elezioni del 2020.

Ma torniamo in Gran Bretagna. Ci si chiede adesso cosa potrà accadere: la Camera dei Comuni riaprirà la prossima settimana e Johnson, che si trova indubbiamente in una posizione di estrema debolezza anche per l’uscita dal partito conservatore di ventitré deputati, di fatto, non ha più una maggioranza che lo sostenga. Il premier ha già annunciato l’intenzione di andare avanti comunque ma ha un solo asso nella manica da giocarsi: non rispettare la legge. Infatti, il Parlamento ha votato qualche settimana fa il “Benn Act”, un provvedimento che obbliga Johnson a posticipare la Brexit se non riuscisse a trovare un accordo entro il 19 ottobre. Molti commenta33


tori britannici ritengono che il primo ministro non rispetterà la decisione parlamentare e porterà il Paese fuori dall’Unione europea senza nessun accordo preventivo, disposto a pagare il costo di infrangere la legge e passare come martire di fronte all’opinione pubblica, di proporsi come il leader del popolo che rischia di persona pur di liberare la nazione dai poteri forti legati alla Ue. Teoricamente le opposizioni avrebbero un’arma per provare a fermarlo: presentare e approvare una mozione di sfiducia nei suoi confronti. In base al regolamento del Parlamento britannico, l’unico a poterla presentare sarebbe il leader dell’opposizione, Jeremy Corbyn che, però, non pare intenzionato ad agire in tal senso. Il motivo è che non esiste accordo sull’eventuale sostituto: i laburisti, naturalmente, vorrebbero fosse lo stesso Corbyn mentre i liberali e i ventitré conservatori dissidenti gradirebbero un nome diverso, meno divisivo. Mentre prosegue lo stallo, basterà attendere poco più di un mese per conoscere la conclusione della vicenda che, comunque vada a finire, influirà considerevolmente sui destini futuri dell’Europa.

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