Numero 2 del 19 luglio 2019
Piano del Secolo vs Due Stati: la Palestina al bivio
Sommario
Millennium a Vazzola - pag. 3 di Aldo AVALLONE L’INTERVISTA/ Saeb Erekat, Segretario Generale dell’OLP: “No al ’Piano del Secolo’” - pag. 6 di Umberto DE GIOVANNANGELI
Il silenzio dei colpevoli - pag. 11 di Rosaria CATALETTO
Lettere da Sherwood - pag. 15 di Antonella GOLINELLI
L’autonomia regionale differenziata che spezzerà in due il nostro Paese - pag. 19 di Aldo AVALLONE L’INCHIESTA / Arma locale - Capitolo 1 - pag. 22 di Fabio CHIAVOLINI Di Maio, Salvini e il gioco delle parti - pag. 28 di Aldo AVALLONE
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Donne
Millennium a Vazzola di Aldo AVALLONE
Un incrocio, un furgone, un’auto, un colpo di clacson, una lite, offese, schiaffi e calci. Cosa passa nella testa di un uomo per giungere a picchiare una giovane donna la cui unica colpa è quella di aver suonato il clacson della propria auto per evitare di essere investita dal furgone guidato da questo “eroe della strada”? Nulla di nuovo, viene da pensare. 3
Di liti per una precedenza stradale ne accadono a centinaia ogni giorno in ogni parte d’Italia e, di fronte a violenze ben più gravi sulle donne, cosa hanno di così drammatico un calcetto e uno schiaffo di un uomo fuori di testa? La notizia, pubblicata da Milvana Citter sulle pagine del Corriere della Sera di qualche giorno addietro, fa riferimento a un episodio avvenuto a Vazzola, in provincia di Treviso, dove un uomo alla guida del suo automezzo avrebbe aggredito, dapprima con insulti razzisti per poi passare alle vie di fatto, una ragazza di origine nordafricana che stava recandosi al lavoro. Saranno le forze dell’ordine e, nel caso la Magistratura, a chiarire definitivamente la vicenda e assicurare alla giustizia il presunto colpevole. Ma non è questo il punto più importante della vicenda. Come riporta l’articolo della Citter, la violenza sarebbe avvenuta nel parcheggio di un bar, attraverso le cui vetrine gli avventori hanno assistito tranquillamente a tutta la scena senza muovere un dito, continuando a mangiare brioche, sorseggiando i loro caffè. Nessuno di loro ha ritenuto di intervenire a difesa della giovane donna in balìa dell’energumeno. Nel mondo animale la difesa del più debole da parte del branco è un comportamento innato. A maggior ragione, nell’evoluto essere umano diventa imprescindibile per scelta etica. Pensare che tra le decine di persone che hanno assistito alla violenza nessuno abbia sentito il bisogno di provare a fermare l’aggressore fa male. E impone di riflettere su come stia cambiando, in peggio, parte della società italiana. Le responsabilità vanno equamente ripartite tra la famiglia, la scuola, i mezzi di comunicazione di massa, la politica che, in larga parte, certamente non fornisce esempi edificanti. Si sta creando, si è già creato, un terreno di coltura in cui episodi simili a quelli di Vazzola non trovano più la totale riprovazione sociale, come spontaneamente sarebbe avvenuto fino a qualche tempo fa. 4
Prolifera indisturbata l’intolleranza e la violenza che ci circonda sta conducendo la nostra società in un vicolo cieco. Per questo è ancora più importante segnalare le voci che si levano contro questa deriva.
Il 30 aprile scorso il Presidente della Repubblica Mattarella, in occasione del cinquantesimo anniversario della legge istitutrice della pensione sociale ha dichiarato che: “Il dovere della solidarietà sociale resta alle fondamenta di un sistema democratico e di una comunità orientata verso lo sviluppo inclusivo e sostenibile. Ridurre le diseguaglianze e gli squilibri, impedire l’emarginazione sociale è interesse di tutta la comunità, migliora la qualità della vita e della convivenza, e aumenta le potenzialità stesse di crescita economica e civile”. Parole significative che vanno divulgate perché siano di insegnamento per ogni cittadino, che non restino lettera morta ma vengano messe in pratica quotidianamente. Con la consapevolezza che la strada per un mondo migliore passa anche attraverso le scelte individuali.
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l’Intervista
Saeb Erekat, Segretario Generale dell’OLP: “No al ‘Piano del Secolo’” di Umberto DE GIOVANNANGELI
È la memoria storica dei negoziati con Israele. Perché per anni è stato lui a guidare la delegazione palestinese. Oggi, Saeb Erekat è segretario generale dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp).
E in questa intervista esclusiva a L’Unità Laburista, Erekat spiega le ragioni della bocciatura senza appello da parte palestinese del “Piano del secolo”, messo a punto dall’Amministrazione Trump per dare soluzione all’eterno conflitto israelopalestinese. “I nostri diritti – dice a l’Unità Laburista – non sono in vendita. Non c’è un prezzo per la libertà”. 6
“È l’occupazione – rimarca Erekat – che annienta l’economia palestinese. Abbiamo le capacità, le intelligenze, le idee per creare una economia che dia occupazione e migliori le condizioni di vita della gente. Ma questo può avvenire in uno stato di libertà, non sotto un regime imposto di apartheid”. E poi un appello all’Europa: “Prenda le distanze dal ‘Piano del secolo’ e rilanci la soluzione a due Stati. Solo così è possibile ridare una chance alla pace. Una pace giusta, stabile, duratura. Una pace tra pari”. D) La dirigenza palestinese ha rigettato con forza il “Piano del secolo” presentato dagli Usa. Su che basi si fonda il vostro rifiuto? R) Gli estensori di quel piano sembrano avere la memoria corta o ritenere che alcune forzature compiute nel recente passato possano di colpo scomparire, magari in nome di un presunto Nemico principale, l’Iran, contro cui fare fronte, magari con Israele, sacrificando per questo non solo i diritti del popolo palestinese ma anche la legalità internazionale, sancita da più risoluzioni delle Nazioni Unite, votate dagli stessi Stati Uniti d’America. D) Quando parla di memoria corta, a cosa si riferisce in particolare? R) Penso alla decisione assunta dal presidente Trump di spostare l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, sposando in toto la posizione israeliana, che contrasta con due risoluzioni delle Nazioni Unite e che rappresenta una sfida non solo al popolo palestinese ma all’intero mondo arabo e musulmano. Credo di aver accumulato una certa esperienza in materia di negoziati con Israele, e le posso assicurare che non esiste un leader palestinese e arabo, anche il più incline al compromesso, che possa sottoscrivere una pace con Israele che tagli fuori Gerusalemme. Il solo pensarlo, vuol dire chiamarsi fuori dalla realtà. Gerusalemme Est, con la Spianata delle Moschee, è il terzo luogo sacro dell’Islam, non potrà mai esistere uno Stato di Palestina che non avesse Gerusalemme Est come capitale. Il deal of century disconosce questa realtà, la cancella. I consiglieri del presidente Trump ritengono che con la scelta compiuta unilateralmente, la questione-Gerusalemme sia ormai definitivamente fuori dal negoziato, che alla fine i Palestinesi, presi per fame, dovranno prenderne atto e arrendersi. Ma un accordo di pace non può basarsi su di un ricatto. E nessun leader arabo, neanche il più vicino agli Stati Uniti, potrà mai acconsentire. D) Resta il fatto che la questione palestinese sembra essere scesa di molte posizioni nell’agenda mediorientale: la Siria, lo Yemen, i venti di guerra nel Golfo 7
Persico… R) Poche settimane fa, il presidente dell’Egitto ha affermato che il conflitto israelopalestinese resta al centro della crisi mediorientale, e senza una soluzione condivisa è impensabile un cambiamento strategico in Medio Oriente. Quella del presidente al-Sisi è una considerazione importante, perché è vera e perché viene dal leader del Paese arabo che nella storia della regione ha avuto sempre un ruolo chiave. Credo che questa percezione sia condivisa anche da molti leader europei. Non è un caso che l’Europa, nonostante le pressioni americane e d’Israele, non abbia seguito gli Usa su Gerusalemme. D) L’Europa è ancora legata, almeno ufficialmente, a un’idea di pace fondata sulla soluzione “a due Stati”. Ma esiste ancora uno spazio, e una volontà politica, per praticare questa soluzione? R) Per quanto ci riguarda, la risposta è sì. Altre soluzioni non ne esistono, almeno che non si facciano passare per soluzioni il mantenimento dello status quo o la creazione di un bantustan palestinese spacciato come Stato. Uno Stato è tale se ha piena sovranità su tutto il proprio territorio nazionale, se ha confini certi, se ha il controllo delle risorse idriche. Altrimenti è una farsa che finisce per legittimare lo stato di apartheid che vige in Cisgiordania o la punizione collettiva inflitta da Israele a due milioni di palestinesi con l’assedio a Gaza che dura ormai da oltre undici anni. Noi siamo pronti a tornare al tavolo del negoziato già da domani. Quello che chiediamo è che la trattativa sia fondata sulla legalità internazionale sancita da tre risoluzioni Onu. È chiedere troppo? D) Il che significa uno Stato palestinese entro i confini antecedenti la guerra dei Sei Giorni. Ma da quel luglio del 1967 è trascorso più di mezzo secolo e la realtà sul terreno è profondamente cambiata. Non c’è del vero in questa considerazione che viene fatta da politici israeliani, non solo della destra? R) Questa realtà cambiata non è dovuta a eventi naturali ma a forzature unilaterali compiute nel corso di questi decenni da Israele. Cosa c’è di “naturale” nella colonizzazione della Cisgiordania, nella confisca di terre palestinesi, nella pulizia etnica portata avanti nei confronti dei palestinesi a Gerusalemme Est? La realtà non è immutabile. Quel che diciamo è molto semplice: le risoluzioni Onu sono la base di una seria trattativa, possono esserci modifiche, circoscritte, delle linee di confine ma esse vanno negoziate sulla base del principio di reciprocità. In questo senso, un 8
vero deal of century già esiste, e realizzarlo significherebbe davvero cambiare il volto del Medio Oriente. D) E quale sarebbe il taumaturgico Piano? R) L’Iniziativa di Pace Araba. Quella accettata da tutti i paesi che fanno parte della Lega Araba. L’Iniziativa che prevede la nascita di uno Stato palestinese indipendente, entro i confini del ’67, a fianco dello Stato d’Israele. E con Gerusalemme Est come sua capitale. La forza di quell’Iniziativa non sta solo nel fatto di rendere giustizia a un popolo che rivendica il proprio diritto all’autodeterminazione. La forza sta che su questa strada vi sarebbe la normalizzazione dei rapporti tra Israele e l’insieme dei Paesi arabi. Una svolta storica. D) Ma il mondo arabo non sembra dar prova di una solida unità. Basti pensare alla guerra in Siria o in Yemen, per non parlare dell’Iran… R) Nessuno nega l’evidenza, ma ciò che voglio sottolineare è che sulla questione palestinese, e sull’Iniziativa di Pace Araba, può determinarsi una unità che potrebbe avere un positivo effetto domino anche su altri fronti. D) Israele è di nuovo in campagna elettorale, e le cose non sembrano mettersi bene per le forze che sostengono il dialogo con i palestinesi… R) Vede, Israele, e non da oggi, ha sempre provato a scegliersi interlocutori di comodo in campo palestinese, e chiunque non avesse questo profilo, era una controparte inaffidabile, si chiamasse Yasser Arafat o Mahmoud Abbas… Delegittimare ogni controparte favorisce solo le componenti più radicali, una pratica che Israele ha esercitato con costanza, salvo rarissime eccezioni, dopo la morte di Rabin. Noi non scegliamo i nostri interlocutori, personalmente ho negoziati con governi israeliani a guida laburista o Likud. Certo, sarebbe difficile pensare di poter portare avanti il dialogo se a prevalere fossero di nuovo coloro che una soluzione alla questione palestinese l’hanno già in tasca: deportarci tutti in Giordania… D) In precedenza lei ha fatto riferimento alla drammatica situazione in cui versa la popolazione palestinese della Striscia Di Gaza. L’Autorità Palestinese sarebbe favorevole a una forza d’interposizione, modello Unifil in Libano, ai confini tra 9
Gaza e Israele? R) Assolutamente sì. Una forza sotto egida Onu garante della fine dell’assedio sarebbe la benvenuta. Ma dubito fortemente che coloro che governano oggi Israele siano su questa linea. L’assedio di Gaza dura da oltre undici anni ed è contrario al diritto umanitario e alla stessa Convenzione di Ginevra sulla guerra. Si tratta di una punizione collettiva ignobile, disumana, che colpisce indiscriminatamente due milioni di palestinesi, di cui oltre la metà sotto i 18 anni. Cosa c’entra l’affamare un popolo, razionare l’energia elettrica, con il diritto di difesa che Israele invoca per fare di Gaza una enorme prigione a cielo aperto, isolata forzosamente dal mondo? Gaza deve tornare a vivere. È una questione di giustizia, non solo di umanità. E senza giustizia, pace è una parola vuota. E per Israele è sinonimo di resa. Ma noi palestinesi non ci arrenderemo. Mai. D) Cosa si sente di chiedere oggi all’Italia? R) Un atto politico che rafforzerebbe la ricerca di una pace giusta: riconoscere lo Stato di Palestina. Entro i confini del ’67. Nel mondo già 137 Paesi lo hanno fatto. Unitevi a loro.
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Sociale
Il Silenzio dei colpevoli di Rosaria CATALETTO
È forte l'immagine di quei bambini che vengono strappati alle mamme, ai papà, levando in alto quel disperato grido di dolore "papà vienimi a prendere". E' qualcosa di dilaniante, degno di pellicole hollywoodiane atte a riempire sale cinematografiche. Purtroppo non è una pellicola, non è una rappresentazione scenica ma è una realtà nostra, tutta italiana, che non ha portato gloria a nessuno, se non un infinito mare di sofferenza alle vittime di queste irreali vicende.
Tutto inizia con "C'era una volta", ispirandosi alla famosa fiaba dei fratelli Grimm, Hans e Gretel. Come tutte le fiabe, anche in questa c'è un fondamento di realtà. Siamo nel XVII secolo, la storia è di una giovane donna, Katharina Schraderin, vit11
tima dei tempi, accusata prima di stregoneria e poi assolta, e vittima per mano di un uomo, Hans che la uccise per impossessarsi del segreto del suo lievito con la complicità della sorella Gretel. E' chiaro che una storia tanto cruenta suscita la fantasia per intesserci una favola con tanto di morale. Nulla di nascosto, nulla di segreto, i professionisti che avevano creato l'associazione omonima della fiaba, nella loro malata perversione avevano chiaramente detto cosa andavano a fare, agendo nelle fasi di vita in cui i processi di separazione individuazione sono in atto. Il continuo confrontarsi che si verifica in età prepuberale tra il mondo esterno e il mondo interno, dove una volta si scappa dall'uno, una volta dall'altro spesso richiede una forma di protezione in una terza figura, quella esterna. Su questo si è agito. Da qui la necessità di alterare i ricordi attraverso l'induzione di parole e simboli che evocavano inconsce paure, la fuga verso l'appoggio e il nutrimento in un'altra figura salvifica che potesse fare da sostituto materno. E seguendo la trama della fiaba, la vecchina amabile non era il contenitore affettivo e base sicura che richiedevano i minori, ma la strega malvagia e divorante così come in alcuni di questi affidi, si sono poi rivelate le figure affidatarie. Inizia così quel vorticoso giro di denaro sulla disperazione di genitori e di bambini, ignorando la sofferenza degli uni e degli altri. Le vittime erano scelte in base a criteri ben specifici; bambini che attraversavano momenti di difficoltà familiare. Ma, invece di attivare sistemi a rete che potessero aiutare le famiglie, era più facile e conveniente distribuirli tra i diversi centri di accoglienza o amici vari. Impulsi elettrici poco prima delle udienze, disegni artefatti, rappresentazioni sceniche di mostri, risposte pilotate, minacce subliminali, hanno portato centinaia di bambini ad alterare i loro ricordi, le immagini percettive delle loro figure genitoriali, per essere poi dati in affido a coppie che percepivano sussidi comunali. Esami d’idoneità genitoriale, per questi sempre positivi, nonostante oggi le attuali indagini hanno rivelato ben altro, mentre per le famiglie naturali, bastava ben poco, per essere considerati inadeguati da alcuni operatori dei servizi sociali coinvolti, per avere il potere di allontanare i bambini dal loro naturale nucleo e inserirli nel business più redditizio dagli albori dell'umanità: quello di carne umana. Uno Stato civile prevede che quando le famiglie attraversano fasi di stagnazioni come conseguenza di un qualsiasi disagio, sarebbe compito di questo coadiuvare la stessa con supporti emotivi e concreti, al fine di aiutare a superare quelle fasi di difficoltà. 12
Procedimenti questi, sicuramente molto meno dispendiosi, ma ben lontani dai risvolti economici e spesso anche politici che hanno sorretto questa infernale macchina di menzogna e dolore da oltre vent'anni a oggi. Diagnosi false, sentenze avvenute, nuovi procedimenti, nuove speranze, ripetute delusioni, suicidi consequenziali, controlli mai avvenuti e certificati, fiumi di carte atte solo a infangare intere comunità del più aberrante dei crimini, "la violazione dell'infanzia". Come nella favola dei Fratelli Grimm, la casa nel bosco era diventata la casa degli orrori, la bassa modenese era diventato simbolicamente il bosco irto di pericoli e di paure. Indagini partite dalla quella zona e ora estese, fortunatamente, a tappeto su tutta la penisola. A tal proposito sono riemersi anche casi simili nelle dinamiche dell'allontanamento dei bambini, nel salernitano, dove stranamente i ricordi evocati erano gli stessi; messe nere, bambini ammazzati, figli costretti dai genitori a bere sangue umano. Ricordi che nella realtà non hanno mai trovato rispondenza. E spesso, la pur mancata corrispondenza della realtà, anche quando sentenziata da Tribunali, non riusciva a riportare i minori a casa, nonostante le leggi a riguardo lo prevedano. E' forte la rabbia popolare. Lo sconcerto è elevato di fronte a simili efferatezze ma ancora più sconcertante è vedere il silenzio delle forze politiche intorno alla vicenda. Ci si chiede perché? Le risposte sono difficili, Il sistema sociale ruota intorno alle forze politiche, tutte le forze politiche. Si potrebbe a questo punto ipotizzare, che sono responsabili tutti, ma questo non sarebbe possibile, troppo semplicistico come sviluppo, per cui è saggio utilizzare la logica della responsabilità personale, dove ogni coinvolto, risponderà alla giustizia. Si allarga la lista degli indagati e alcune forze oppositrici urlano alla gogna, ogni qualvolta salta il nome di un politico, facendone di un dramma umano, una propaganda elettorale. Ancora tutto è nebuloso, ancora tutto è incerto circa i nomi coinvolti, ma una sola certezza si ha al momento; a prescindere chi e quanti sono i personaggi politici coinvolti sempre che sono realmente coinvolti, la vera colpa è nella mancanza di controlli serrati a tali procedure, perché l'affido a terzi o la sistemazione in strutture alternative, secondo la legge, deve essere solo l'estrema soluzione in caso di disagio conclamato e irreparabile.
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Difficile dire se fatta la legge, non si sono eseguiti i controlli dovuti, affinché questa fosse rispettata in tutte le sue forme, E, infatti, a oggi nel registro degli indagati, in tutta Italia, ben duecento giudici non togati risultano avere legami con strutture di accoglienza. E la legge vieta a questi, qualsiasi rapporto di carattere economico o professionale con i centri di accoglienza. Purtroppo il sistema è cosi complesso e articolato che riesce difficile anche da spiegare. L'opinione pubblica è tesa solo al risultato, dato dall'infinita sofferenza a intere famiglie, alcune delle quali al dolore non hanno retto. E' inutile negare lo stato di delusione per il silenzio della politica. Ma purtroppo viviamo uno stato di tale incertezza, dove negli ultimi mesi tra lo scandalo di una magistratura traballante, il dramma dei migranti che riaffiora ciclicamente e oggi anche il sospetto di Rublogate, l'insofferenza popolare è alta. E' chiaro che di fronte a cosi gravi incertezze, si avverte il senso di minaccia per il più antico sistema inserito nella nostra società: la famiglia. Ed è dovere delle istituzioni, dello Stato e dei Governi assicurarsi che il diritto di un minore non venga leso in qualsiasi sua forma. Forse sarebbe il caso, in questa grande nube fatta di forse e di sospetti, aspettare che la magistratura faccia il suo corso, individui i reali responsabili e faccia giustizia alle tante vittime di quest’orrida vicenda. Nell'attesa chiediamo di non spegnere la luce su questo inferno ovattato, di non abbassare la guardia per il futuro e di non permettere mai più che il silenzio regni sull'ingiustizia e sulla sofferenza.
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Politica
Lettere da Sherwood di Antonella GOLINELLI
Mi è arrivato l'invito per partecipare alla Costituente delle idee del PD, che si terrà ad inizio autunno dalle mie parti. Intanto sono contenta di non essere sparita dagli archivi, come immagino tanti altri.
Sono anche abbastanza contenta che ripartano da una costituente aperta, un campo largo di civismo e associazionismo (ok, le parole le ho usate tut15
te giuste). Già me l'immagino l'infilata di rappresentanti dei vari mondi, che sono importantissimi sia chiaro e imprescindibili nella costruzione dei principi. Sono apportatori di necessità di una piccola porzione di mondo, una tessera del mosaico delle sofferenze, dei problemi, dei disagi. Altrettanto importanti sono i punti cardine sui quali dispiegare la discussione. Ancora più importante è ribadire che non è l'elaborazione di un programma ma lo sviluppo di cosa si vuole essere e come si vuole essere. È già un bel passo avanti. Solo mi chiedo se e quando, oltre agli inviti e alle convocazioni, si andrà alla ricerca di quelli che stanno a Sherwood, noi forestali; volendo, anche noi “imboscati”. Siamo parecchi sapete. C'è un fitto qui a Sherwood che tocca realizzare sentieri a senso unico e rotonde per governare il flusso dei pedoni. Davamo fastidio a Renzi e veniamo tuttora ignorati se non per essere pubblico. Beh, io pubblico posso anche esserlo però mi devi convincere. Vedremo. Nell'assemblea di sabato scorso si è insediata, credo, la Commissione Statuto, per la revisione e la riscrittura dello Statuto del PD. Lasciatemi dire: era ora! Quello statuto è nato in pieno delirio di americanismo, sull'onda del blairismo che già era agli sgoccioli. Ma noi siamo sempre provincia e da provinciali ci comportiamo. 16
Nato incompleto, lo integrammo (più o meno) tutti noi delle Commissioni provinciali e regionali sottoponendo quesiti specifici. Anche noi di Ravenna contribuimmo doverosamente in quota parte. E io, che ne ero presidente, ne vado ancora fiera. Dicevo, lo statuto si basa su due principi: la coincidenza tra leader (segretario) e candidato premier e le primarie. Finalmente si sono resi conto che in un sistema proporzionale non ha più senso far coincidere le due figure. Non ha valore. Non che ne avesse molto anche prima, lo abbiamo visto bene. Di fronte al rampantismo non c'è regola che tenga. Le primarie invece sono una vera e propria sciagura: spero con tutto il cuore che le tolgano definitivamente. Non c'è necessità di lasciarle a nessun livello. Torniamo al principio base che il segretario se lo eleggono gli iscritti e non i passanti. Perché gli iscritti hanno il dovere di partecipare ai congressi, schierarsi, riconoscersi e votare. Non i passanti. Quelli servono per i colpi di stato, per l'appropriazione del potere. Uno qualsiasi a qualunque livello. Lo so. Ho provato. Una struttura definita, scevra di forme bislacche, è necessaria per capire e definire cosa si vuole essere, chi si vuole rappresentare e come. Essere un po' meno impegnati ai gazebo e un po' più nelle sezioni forse aiuta. 17
Magari il confronto e anche il conflitto portano un risultato. Certo magari non è utile per chi vuole riconquistare un potere che non ha più, ma cosa vuoi farci? Non ci si può sempre avventare sulla ciccia, spolpare il tutto e lasciare le ossa. Non bastano pochi mesi di pace, più o meno pace, serve più tempo per ricostruire il muscolo. Non ce n'è ancora abbastanza per sfamarvi. Detto questo, sabato scorso si svolgeva anche l'assemblea di Art. 1. Non pervenuta; non c'è stata copertura. Ma si potrà!
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Politica
L’autonomia regionale differenziata che spezzerà in due il nostro Paese di Aldo AVALLONE
Art. 3 Cost. Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Art. 5 La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell'autonomia e del decentramento. Avete letto questi due articoli della nostra Carta Costituzionale? Essi ribadiscono due principi fondamentali su cui si fonda la Repubblica italiana: l’eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge e l’unità intoccabile del Paese. Bene. Anzi male, tra poco rischiano di diventare carta straccia. Finora nessuno ha mai ritenuto che questi due pilastri basilari dell’essere nazione potessero essere messi in discussione. Ma oggi ci troviamo di fronte a un attacco senza pari che, se dovesse andare in porto, spezzerebbe in due l’Italia condannando il Mezzogiorno a un ruolo di pura subalternità e impendendogli per sempre di poter colmare il gap che, ancora oggi a un secolo e mezzo dall’unità d’ Italia, lo divide dal resto del Paese. Non è questa la sede per un’analisi storica dei motivi per i quali ci si trova nella situazione attuale. Qui
e
ora
è
necessario 19
e
imprescindibile
denunciare con la maggiore forza possibile il disegno che alcune regioni, (Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, ma non solo) stanno portando avanti per ottenere la cosiddetta “autonomia differenziata”. Il progetto che prevede il passaggio di competenze di materie finora concorrenti ad esclusiva competenza regionale parte da lontano, della riforma del Titolo V della Costituzione, approvata nel 2001 dal centrosinistra con lo scopo di fare un accordo con la Lega Nord, intesa che poi non si realizzò. Se dovesse andare in porto, materie quali l’istruzione, la tutela dell’ambiente, la tutela dei beni culturali, le infrastrutture, addirittura l’amministrazione della giustizia attraverso il giudice di pace, diventerebbero di totale competenza regionale. E, soprattutto, una quota estremamente rilevante del gettito fiscale rimarrebbe nelle regioni dove è stato prodotto. Si verrebbe a realizzare, di fatto, una spaccatura netta del Paese dove maggiori risorse consentirebbero naturalmente migliori e più efficienti servizi a fronte di un ulteriore impoverimento di quelle regioni che, ancora oggi, scontano uno storico ritardo di sviluppo. Appena qualche giorno fa, la Lega ha riproposto l’introduzione delle gabbie sala20
riali: stipendi più alti al Nord e più bassi al Sud, una proposta inaccettabile che riporterebbe il Paese indietro di cinquant’anni. Tutto questo non può e non deve passare. Noi crediamo che una delle modalità, forse la più importante, per contrastare questo perverso disegno è l’informazione. Avrebbero voluto far passare l’autonomia regionale differenziata sotto il massimo silenzio, addirittura senza prevedere alcun dibattito parlamentare. Solo un forte movimento d’opinione che coinvolga politici attenti, intellettuali, giornalisti e, naturalmente, i cittadini potrà fermare tutto ciò. Per chi volesse approfondire segnaliamo il libro di Massimo Villone “Italia, divisa e diseguale”.
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Inchiesta
Arma locale – Capitolo uno di Fabio CHIAVOLINI
Inizia oggi un’inchiesta sullo stato della nostra economia, con particolare attenzione alle criticità e ai punti di forza del sistema produttivo italiano, con lo scopo d’individuare una via laburista alla governance dell’economia, che parta dai nostri territori e ponga il nostro Paese in grado di colmare il gap con i principali partner dell’Unione Europea, salvaguardare le nostre specificità territoriali, tutelare i Lavoratori e combattere il liberismo globale, senza per questo scadere nel “sovranismo di sinistra”. Una “terza via” tra il liberismo selvaggio occidentale e le economie pianificate liberiste autoritarie degli ex Paesi comunisti – questa volta vera – che si ponga l’obiettivo di medio termine del superamento del capitalismo liberista con la piena comprensione, però, del fatto che in un mondo globalizzato e multipolare gli obiettivi possono essere raggiunti solo per gradi e, talvolta, utilizzando “le armi del nemico”.
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Premessa In Italia, i rapporti tra istituzioni, società e mercato richiedono un’analisi accurata della complessità: da questa discendono l’individuazione e la definizione di formule alternative di cooperazione tra pubblico e privato, conferendo loro una legittimazione fatta di capacità operativa e di regole. Il modello dell’Holding Territoriale (che spiegheremo nel seguito), muovendo dal territorio e dai suoi attori, rende concreta l'idea di una “rete di sicurezza” tramite la quale alimentare nuovi e proficui sentieri di sviluppo ecologicamente, socialmente e finanziariamente sostenibile. Occorre, a tal scopo, riesaminare i rapporti tra imprese, enti locali e ordinamento bancario. È necessario ripensare le forme d’organizzazione, i processi di governance (delle imprese e del territorio) e sviluppare un nuovo paradigma, idoneo a ottenere il massimo rendimento dalle risorse che il nostro sistema produttivo e i nostri territori sono in grado di esprimere. Lo scenario Il sistema produttivo italiano è composto soprattutto da piccole e medie imprese (che chiameremo d’ora in poi “PMI”), sottopatrimonializzate e gravate di debiti, che operano su mercati complessi e a concorrenza globalizzata. Non dobbiamo commettere l’errore, però, di percepire esclusivamente come avversa la condizione economica, bensì chiederci da dove hanno origine i nostri svantaggi, quali siano i rimedi su cui puntare e come agire per servirsene al meglio. In Italia esiste una correlazione tra l’arretratezza della gestione finanziaria e la diffusione insufficiente di forme di cooperazione imprenditoriale. All’interno delle reti esistenti le esperienze di cooperazione nella conduzione finanziaria hanno limitata rilevanza: spesso e con logica opportunistica, si mira a riversare i pericoli in direzione dei nodi contrattualmente meno resistenti. Il trasferimento del rischio di business, la delocalizzazione produttiva e la radicata dilazione nei pagamenti da parte dei committenti sono solo alcuni degli indici più preoccupanti di questo fenomeno. In quest’ottica, l’antica crescita dei distretti industriali può anche essere interpretata come un “artificio” utilizzato nel passato dall’Italia per ovviare all’inadeguatezza del mercato dei capitali. Gli schemi adoperati per la mobilitazione delle risorse, come i rapporti di subfornitura, si mostrano inadatti a sorreggere gli investimenti in innovazione che esigono rilevanti capitali esterni e una conduzione strategica energica, se non sostenu23
ti da un contesto – istituzionale, delle regole, culturale – che riduca i margini di ”funambolismo” e favorisca la collaborazione. La predisposizione di soluzioni originali ed efficienti nelle reti di PMI è una sfida che deve tener conto di un complesso di bisogni, obblighi e interessi. A causa di tale grande complessità, verosimilmente, il sistema distrettuale non potrà più essere il soggetto intorno al quale si riordinerà l’impianto finanziario delle PMI. La questione potrà essere affrontata più facilmente all’interno di concentrazioni flessibili di aziende e altri attori di territorio che reputino essenziale aggregarsi per accrescere e condividere servizi qualificati. Questo è il primo atto di un processo di cambiamento progressivo dall’attuale modello verso un assetto innovativo che salvaguardi i pregi dell’impresa italiana (imprenditorialità ed elasticità) ma rinvigorisca la capacità d’attrazione del capitale di rischio, rispetto alla quale è necessario focalizzarsi su irreprensibilità nei rapporti tra stakeholders e impiego efficace del capitale. Quando le imprese vedono discendere il proprio successo da risorse complesse, di natura intangibile (capitale umano, conoscenza, reti di relazioni), appare inadeguato il modello “statico” oggi prevalente nei manuali di economia, che considera l’impresa un “portafoglio di diritti di proprietà” su flussi di cassa a venire. Di qui l’interesse per nuovi modelli di governance del territorio e d’organizzazione d’impresa, intesa come holding territoriale di impieghi specifici durevolmente attratti intorno a risorse critiche. Il perimetro della holding territoriale non si disegna esclusivamente con i confini di uno o più soggetti giuridici ma comprende una trama complessa di relazioni contrattuali, istituzionali, sociali. Simile schema può essere esteso a forme di cooperazione tra enti locali e imprese che possiedono come asset primario il “capitale sociale”, costituito dai benefici dell’appartenenza a un complesso di connessioni tra soggetti che tendono a un fine collettivo e concorrono per ottenerlo. La capacità della holding territoriale di abbinare capitale sociale e capitale finanziario fa della stessa un organismo di conduzione singolare sul piano del coordinamento, accreditando l’idea della holding territoriale stessa come modello di organizzazione in condizione di concorrere alla generazione del “bene comune locale”. I modi di agire e i risultati di una holding territoriale non hanno l'obbligo di essere chiariti in base alle qualità specifiche, sperimentalmente riscontrabili, dei singoli attori che ne fanno parte – ma riportati alle forze causali, attivate dal sistema di connessioni e relazioni che lega gli attori tra loro. 24
Il presupposto è che il sottosviluppo finanziario del nostro sistema non sia effetto di un’eredità delle epoche passate (oppure di fiacche virtù civili), bensì sorga da un impianto di dipendenze che strozza la circolazione di conoscenza e “abbatte” la collaborazione tra enti locali e imprese. Intervenire sui nodi di questo sistema a rete “malfunzionante” è il punto strategico. La grande impresa pubblica, il capitalismo familiare e le banche (tutti assuefatti a un mercato protetto): tali primi attori hanno mostrato la corda appena iniziato il confronto con i capitalismi evoluti e le regole della concorrenza globale. Nell’ultimo ventennio le cose sono parzialmente cambiate ma è un mutamento in gran parte sulla carta, poiché i “nuovi attori” poco si discostano dai “vecchi canoni”. Alla "questione proprietaria" si aggiungono quelle "dimensionale" e "tecnologica", che nascono dalla compensazione della debolezza della grande industria con un’inconsueta (secondo i canoni europei) diffusione della piccola e media impresa, sparsa sul territorio e attestata in settori tradizionali. Senza perderci nel valutarne meriti o colpe, possiamo affermare che oggi le piccole imprese forniscono all’economia italiana una base d’appoggio inadeguata rispetto alle esigenze di scala e d’innovazione tecnologica imposte dalla nuova concorrenza europea e globale. Insomma, abbiamo imprese troppo piccole (e settori troppo tradizionali) per acquisire peso e deterrenza nel riposizionamento competitivo dei capitalismi concorrenti.
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Innovazione organizzativa e tecnologica: per un’economia della conoscenza Il sistema industriale italiano mostra, quindi, un’elevata frammentazione societaria e livelli insufficienti di spesa per ricerca e innovazione, cui si associano altri fattori: competitività non più basata su costi e livelli di cambio; individualismo imprenditoriale che frena le aggregazioni; ritardo nell’informatizzazione e nell’inserimento di competenze professionali e manageriali; distanza tra i sistemi imprese – pubblico – università; carenze infrastrutturali e logistiche. L’economia del Paese si trova a un bivio tra una competizione impossibile con i mercati emergenti nei settori tradizionali e un veloce passaggio a una fase superiore di sviluppo sostenibile: l'economia della conoscenza. Se vogliamo una società che competa globalmente dobbiamo modificare il modello di sviluppo e quello finanziario di supporto. È necessario passare a una gestione della finanza in grado di riprodurre i capitali essenziali per un modello di sviluppo economico ecologicamente, socialmente e finanziariamente sostenibile, basato sulle attività connesse alla conoscenza e al territorio. Occorrono investimenti in tecnologie e capitale immateriale e finanziario, basi del nuovo modello produttivo. La storica vocazione a "rincorrere" non è sufficiente: bisogna vincere le riluttanze all’innovazione e al cambiamento. L'uso migliore della nostra diversità, nell’economia globale, è nell’utilizzarla per elaborare una nozione originale di modernità a partire dal territorio e, in particolare, da quei territori che sono stati a lungo in testa alla corsa.
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Il territorio Per territorio (contrariamente alla cultura tradizionale della “crescita” che lo intende quale semplice piattaforma per le attività economiche), intenderemo un patrimonio, un esito storico di rapporti tra uomo, natura e storia, di fronte al quale sono possibili tre atteggiamenti: dissipazione, conservazione oppure valorizzazione, nel significato di puntare al "valore aggiunto territoriale". Occorre mirare a una valorizzazione del territorio che generi “stili di sviluppo differenziati che si rapportino tra loro con uno scambio paritario e non con un rapporto di sfruttamento delle risorse e di distruzione delle culture locali”. Un territorio in crisi, sul quale insiste una comunità locale non coesa, ha come conseguenza – date le risorse limitate – di produrre inefficienze e diseconomie di scala che nascono dalla replicazione di funzioni di governance e produttive. Queste “sotto-reti” che si producono all’interno dello stesso Territorio, oltre ad essere non efficienti, non raggiungono “massa critica”. Ma non basta: va fatto obbligatorio cenno all’autoreferenzialità del territorio. Se il sistema territoriale, nel suo complesso, ha vitalità “interna” (i dati Istat dicono che nel 2013, mediamente, l’85% del valore prodotto in un sistema territoriale restava all’interno di quel sistema), tende a divenire autoreferenziale dal punto di vista economico. Questo meccanismo è aiutato dalle dinamiche sociali, perché il lavoro si svolge su un’area territoriale sulla quale insistono spostamenti di masse di individui: nei sistemi produttivi evoluti, difatti, la gran parte del valore del prodotto non è data dal processo o dalle materie prime ma dal lavoro, che partecipa nello “scaricare a terra” la ricchezza prodotta. continua sul prossimo numero
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Politica Europea
Di Maio, Salvini e il gioco delle parti di Aldo AVALLONE
Il Movimento 5 Stelle ha votato ieri a Bruxelles, insieme ai popolari e ai socialisti, a favore della nomina di Ursula von der Leyen a Presidente della Commissione europea. Un voto che ha fatto imbufalire Salvini che da Helsinky, dove si trova per partecipare a una riunione informale dei ministri dell’interno dell’Unione sul tema immigrazione, tuona sulla fine della fiducia nei confronti degli alleati di governo. Dal canto suo Di Maio ribadisce l’impegno governativo del Movimento, spiegando il voto a favore della von der Leyen con la necessità per l’Italia di non rimanere isolata in ambito europeo.
Fa trapelare sottovoce che il malessere della Lega è alle stelle solo perché è sfumata la nomina di un leghista a commissario europeo e rilancia prospettando l’idea di 28
una possibile abolizione della tassa di possesso automobilistica con i risparmi derivanti dal calo dello spread. Salvini minaccia apertamente le elezioni anticipate, ma sappiamo bene che l’ultima data possibile per sfiduciare l’esecutivo, per votare in autunno, è il 20 luglio prossimo. Si alzano i toni ma nessuno ha realmente voglia di fronte all’opinione pubblica di prendersi la responsabilità di far cadere il governo. Di Maio teme il calo dei consensi che viene attribuito da tutti i sondaggi ai cinque stelle; Salvini paventa un possibile governo tecnico o addirittura un accordo Pd – M5S, per lui disastroso in una fase in cui restare al potere servirà anche a controllare gli eventuali riflessi giuridici negativi del Rublogate. Dal nostro punto di vista l’esecutivo resterà in carica almeno fino alla prossima primavera, i due vicepremier continueranno a litigare a uso e consumo dei propri elettori, in un gioco delle parti che non aiuta affatto il Paese.
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Opinioni
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