l'Unità Laburista - SU LE MANI! - Numero 28 del 7 Gennaio 2020

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Numero 28 del 7 gennaio 2020

SU LE MANI!


Sommario

Donald Trump, lo Stranamore della Casa Bianca - pag. 3 di Umberto DE GIOVANNANGELI Conte alla prova del nuovo anno - pag. 10 di Aldo AVALLONE

Imitatori e falsari nella storia dell’arte. Parte quarta - pag. 15 di Giovan Giuseppe MENNELLA

Teresa e le altre - pag. 26 di Antonella BUCCINI

It’s my life - pag. 30 di Antonella GOLINELLI

Attentati e attentatori contro Mussolini - pag. 32 di Giovan Giuseppe MENNELLA

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Esteri

Donald Trump, lo Stranamore della Casa Bianca Umberto DE GIOVANNANGELI

Un atto di guerra. Un’”azione difensiva”. Variano le definizioni e i punti di vista, ma una cosa è certa: l’uccisione del generale Qassem Solemani, uno degli uomini più potenti dell’Iran, rischia di far esplodere la polveriera mediorientale, con conseguenze che andrebbero molto al di là di questa cruciale area del mondo. Nulla sarà come prima: su questo non c’è diversità di vedute nelle capitali arabe, a Gerusalemme, nelle cancellerie europee, a Bruxelles come a Mosca. E naturalmente a Washington, da dove è partito l’ordine di eliminare il comandante della Forza 3


Quds, il reparto di èlite dei Pasdaran. L’operazione americana è stata condotta con l’uso di un drone che ha individuato come obiettivo l’auto che avrebbe dovuto portare a Baghdad Soleimani e il numero due della milizia paramilitare sciita Hashd Shaabi, Abu Mahdi al-Mohandes, appena sbarcati nell’aeroporto cittadino. Al razzo che ha ucciso il militare iraniano ne sono seguiti altri che hanno provocato “almeno 12 morti”, secondo quanti riferiscono fonti russe. "Su istruzioni del presidente i militari americani hanno intrapreso una decisa azione difensiva con l'uccisione del generale Qassem Soleimani per proteggere il personale americano all'estero". Con questo comunicato il Pentagono ha annunciato il raid compiuto vicino Baghdad. Secondo il Pentagono Soleimani stava "attivamente mettendo a punto piani per colpire i diplomatici americani e uomini in servizio in Iraq e in tutta la regione”.Questo il primo commento su Twitter di Donald Trump al raid della notte scorsa . Prima di questo tweet, il presidente americano - che aveva già espresso lo stesso concetto a fine luglio - aveva postato la bandiera degli Stati Uniti. Soleimani "era responsabile direttamente o indirettamente della morte di milioni di persone tra cui l'enorme numero di manifestanti uccisi" in Iran. Così su Twitter ha poi commentato Trump. The Donald ha deciso: nell’anno presidenziale, il ruolo da rivestire non è quello del presidente che riporta a casa i ragazzi in divisa impegnati al fronte, ma quello del “commander in chief” che ha assestato un colpo durissimo, forse mortale, all’”Impero del male” del Terzo Millennio: l’Iran. E poi cosa c’è di meglio che una guerra contro lo “Stato canaglia, finanziatore del peggiore terrorismo” per cancellare la procedura di impeachment. Non sarebbe la prima volta: 1974, impeachment per Richard Nixon, bombardamento in Cambogia; 1998: Bill Clinton rischia l’impeachment per il caso Lewinsky, bombardamento natalizio su Baghdad. Ed ora, ci prova The Donald. Ma ora è allarme rosso. L'ambasciata Usa a Baghdad ha sollecitato i cittadini americani a "lasciare l'Iraq immediatamente" 4


dopo l'attacco in cui è rimasto ucciso il generale Soleimani. "I cittadini americani partano per via aerea dove possibile, altrimenti raggiungano altri paesi via terra", sottolinea l'ambasciata statunitense in una nota. E nella base americana Union III è scattato il livello di allerta estrema. L’avamposto è sede del Combined Joint Task Force-Operation Inherent Resolve e Joint Operations Command-Iraq, la coalizione internazionale anti-Isis e il commando delle operazioni militari irachene. Tutto il personale ha così l’obbligo di indossare giubbotto antiproiettile ed elmetto. È proibito inoltre girare da soli, usare strutture ricreative e fare qualsiasi movimento al di fuori della base. Nessuno si fa illusioni: la reazione iraniana, diretta o attraverso le milizie sciite mediorientali, ci sarà. E sarà durissima. Il primo a saperlo è Israele, dove è scattato lo stato di massima allerta. "L'opera e il percorso del generale Qassem Soleimani non si fermeranno qui. Una dura vendetta attende i criminali, le cui mani nefaste si sono macchiate del sangue di Soleimani e degli altri martiri dell'attacco avvenuto la notte scorsa". E' il messaggio lanciato dall'ayatollah Ali Khamenei, Guida suprema dell'Iran, che ha proclamato tre giorni di lutto nazionale dopo il raid aereo americano all'aeroporto di Baghdad

Anche il presidente irania-

no, Hassan Rouhani, poco prima di nominare il vice di Soleimani, Esmail Qaani, nuovo capo della Forza Quds, si è scagliato contro gli Stati Uniti: “Gli iraniani e altre nazioni libere del mondo si vendicheranno senza dubbio contro gli Usa criminali per l’uccisione del generale Qassen Soleimani – ha dichiarato – Tale atto malizioso e codardo è un’altra indicazione della frustrazione e dell’incapacità degli Stati Uniti nella regione per l’odio delle nazioni regionali verso il suo regime aggressivo. Il regime americano, ignorando tutte le norme umane e internazionali, ha aggiunto un’altra vergogna al record miserabile di quel Paese”. Un altro alto rango della Forza Quds, Mohammad Reza Naghdi, citato dall’agenzia Fars giura che la vendetta sarà sanguinosissima: gli Usa “devono cominciare a ritirare le loro forze 5


dalla regione islamica da oggi, o cominciare a comprare bare per i loro soldati – ha affermato – Il regime sionista dovrebbe fare le valigie e tornare nei Paesi europei, da dove è venuto, altrimenti subirà una risposta devastante dalla Ummah (la comunità, ndr) islamica. Possono scegliere, a noi non piacciono gli spargimenti di sangue“. Vendetta promettono Hezbollah, Hamas, la Jihad islamica palestinese, le milizie yemenite... Il leader sciita iracheno Moqtada al-Sadr ha già dato ordine ai suoi combattenti, su Twitter, di “tenersi pronti”, riattivando così la sua milizia ufficialmente dissolta da quasi un decennio e che aveva seminato il terrore tra le fila dei soldati americani in Iraq. In Medio Oriente il 2020 nasce nel segno di guerra. Ed è solo l’inizio. Per i Guardiani della Rivoluzione era diventato una leggenda vivente. Per le milizie sciite mediorientali era l’uomo che le legava, militarmente e finanziariamente, alla casa madre iraniana. Qassem Soleimani non era l’efficiente “strumento” di tutte le operazioni della Repubblica islamica d’Iran all’estero. Era molto di più. Ne era la mente, oltre che l’uomo di fiducia, assoluta, di colui che detiene realmente il potere a Teheran: la Guida Suprema della rivoluzione islamica,, l’ayatollah Ali Khamenei. Il “comandante ombra” era uno dei personaggi più popolari in Iran, aveva milioni di follower sui social e The Times, proprio negli scorsi giorni, lo aveva inserito nella classifica dei 20 personaggi protagonisti del 2020. “Per gli sciiti in Medio Oriente, è un mix di James Bond, Erwin Rommel e Lady Gaga”, come ha scritto l'ex analista della Cia Kenneth Pollack nel suo ritratto di Soleimani per la rivista americana Time dedicata alle 100 le persone più influenti al mondo nel 2017. Fino all'11 settembre del 2001, il generale è il punto di riferimento degli Usa nella lotta ai Talebani afghani. Ma dopo la caduta delle Torri gemelle e l’inserimento dell’Iran, da parte di Bush, nel cosiddetto “asse del male” gli Usa per lui diventano un nemico. Il Pentagono lo considera così un avversario pericoloso. Da eliminare. Un alto funzionario iracheno, qualche tempo fa, lo aveva descrit6


to come un uomo calmo e loquace. "È seduto dall'altra parte della stanza, da solo, con molta calma. Non parla, non commenta: ascolta soltanto", aveva detto all'inviato del New Yorker. Secondo uno studio pubblicato nel 2018 da IranPoll e dall'Università del Maryland, l'83% degli iraniani intervistati aveva un'opinione favorevole di Soleimani, superiore persino a quella del presidente Rohani e a quella del capo della diplomazia Zarif. “Soleimani – annota Pierre Hasky, direttore di France Inter - era una figura mitica della rivoluzione islamica, una sorta di Che Guevara iraniano, protagonista della vittoria dell’ayatollah Khomeini nel 1979 e diventato l’incarnazione del fervore e del messianismo della rivoluzione, anche oltre le frontiere iraniane. Lo abbiamo visto ovunque: in Siria, in Libano, in Yemen e naturalmente in Iraq. Lo abbiamo visto vittorioso tra le rovine di Aleppo, che Bashar alAssad non avrebbe mai potuto riconquistare senza l’aiuto dei Guardiani della rivoluzione. Lo abbiamo visto a Mosca mentre parlava di strategia con Vladimir Putin. Ma soprattutto Soleimani ha manovrato per anni per aumentare l’influenza iraniana in Iraq, attraverso le stesse milizie sciite che in settimana hanno preso d’assalto l’ambasciata degli Stati Uniti”. I servizi di intelligence occidentali, e con essi quelli arabi e il Mossad israeliano, concordano su un punto cruciale: l’eliminazione di Soleimani da parte americana è il colpo più duro sferrato alla nomenclatura teocratica-militare che “regna” a Teheran. Perché il sessantaduenne comandante della Forza Quds (lo era dal 1998) reparto di élite dei Guardiani della rivoluzione islamica (i Pasdaran) era lo stratega della penetrazione della mezzaluna rossa sciita in Medio Oriente, sulla direttrice Baghdad-Damasco-Beirut. Non solo: Soleimani era anche al centro della “Pasdaran holding”. Un impero economico, oltre che una potenza militare. Secondo uno studio recente, i Pasdaran controllerebbero addirittura il 40% dell’economia iraniana: dal petrolio al gas e alle costruzioni, dalle banche alle telecomunicazioni. Un’ascesa che si è verificata soprattutto sotto la presidenza 7


di Ahmadinejad, ma che è proseguita sotto quella di Rouhani. Se si somma il potere diretto di Khamenei a quello, altrettanto pervasivo e radicato della “Pasdaran Holding”, si ha un quadro sufficientemente nitido su un regime teocratico-militare che si è fatto, per l’appunto, sistema. Un sistema che ha sempre più condizionato le politiche della Repubblica islamica dell’Iran. Per sostenere direttamente il regime di Assad, l’Iran, come Stato, attraverso le proprie banche, ha investito oltre 4,6 miliardi di dollari, che non includono gli armamenti scaricati quotidianamente da aerei cargo iraniani all’aeroporto di Damasco, destinanti principalmente ai Guardiani della Rivoluzione impegnati, assieme agli hezbollah, a fianco dell’esercito lealista. Non basta. Almeno 50mila pasdaran hanno combattuto in questi anni in Siria, ricevendo un salario mensile di 300 dollari. Lo Stato iraniano ha pagato loro anche armi, viaggi e sussistenza. E così è avvenuto anche per i miliziani del Partito di Dio. E al centro di questo impero c’era Qassem Soleimani. Un impero che ruota attorno alla Forza Quds un network esteso in tutto il Medio Oriente, con forze in Libano, Siria, Iraq e Yemen. Per esse, Soleimani è diventato il “Martire” da vendicare. Il leader sciita iracheno Moqtada al-Sadr ha già dato ordine ai suoi combattenti, su Twitter, di “tenersi pronti”, riattivando così la sua milizia ufficialmente dissolta da quasi un decennio e che aveva seminato il terrore tra le fila dei soldati americani in Iraq. E vendetta promettono Hamas e la Jihad islamica palestinese, come Hezbollah libanese. Da comandante-ombra a shahid per cui immolarsi: Qassem Soleimani fa paura anche da morto. Ma cosa ha davvero in testa Donald Trump?. E’ la domanda delle domande, alla quale prova a dare risposta, drammaticamente convincente, Anshel Pfeffer, analista di punta di Haaretz, il quotidiano progressista israeliano: “Fino a quattro mesi fa Trump era circondato da falchi nel National Security Council, poi ha licenziato John Bolton. Ora attorno a lui «c’è a malapena uno scheletro di staff professionale e soprattutto un gruppo di adulatori». Ha ancora 8


le migliori forze armate e la migliore intelligence del pianeta, «ma nessuno capace di pensiero strategico». Potrebbe quindi infilarsi in una guerra feroce senza un piano. L’America è mille volte più potente “ma l’Iran, dal 1979, si è dimostrato in grado di sfruttare ogni esitazione, ogni errore e ogni vuoto temporaneo da parte delle amministrazioni Usa». Per questo siamo nel regno dell’imprevedibile. “Un presidente vanaglorioso e una leadership iraniana che ha perso il suo esponente più saggio — entrambi in lotta per sopravvivere — si affrontano sull’orlo del precipizio”. Donald Trump ha scelto l'opzione estrema tra le tante presentate dai vertici militari, mentre ancora si stavano valutando le informazioni di intelligence su nuove minacce. Lo riporta il New York Times: il 28 dicembre Trump, dopo l'attacco in cui è morto un contractor americano, aveva respinto l'idea di uccidere Soleimani, optando per un raid aereo sulle postazioni di milizie filo-iraniane in Iraq e Siria. Ma dopo l'assedio all'ambasciata Usa di Baghdad il tycoon, furioso dopo aver visto le immagini in tv, ha deciso per la soluzione estrema lasciando esterrefatti i vertici del Pentagono. E questo sarebbe il capo dell’iper potenza mondiale... C’è da avere paura, molta paura.

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Politica

Conte alla prova del nuovo anno Aldo AVALLONE

Giorni convulsi a livello politico quelli a cavallo tra il vecchio e il nuovo anno. Il governo aveva appena incassato il sì del Parlamento alla manovra economica e già si sono proposte nuove tensioni che ne mettono a rischio la tenuta. Innanzitutto le contraddizioni ormai evidenti nel Movimento 5 Stelle con le dimissioni del ministro Fieramonti e l’espulsione del senatore Paragone, preludio di una resa dei conti che potrebbe portare addirittura a una scissione. Quindi le emergenze da affrontare: in primis la questione delle concessioni autostradali e ancora l’Ilva di Taranto. Infine, il voto al Senato sull’autorizzazione a procedere nei confronti di Salvini per la vicenda della “Gregoretti” con l’accusa di sequestro di persona nei confronti dell’ex ministro . Il M5S dovrebbe votare a favore mentre esiste la possibilità del voto contrario da parte di Italia Viva. Si tratta di nodi importanti che l’esecutivo 10


dovrà provare a sciogliere se vorrà proseguire il suo cammino senza ulteriori scossoni. Ma ritorniamo agli eventi di questi giorni. Due, in particolare, hanno segnato la fine dell’anno appena trascorso: la tradizionale conferenza stampa del primo ministro e l’altrettanto consueto discorso agli italiani del Presidente della Repubblica. Partiamo dal premier. Di là del giudizio che si può dare sulle politiche attuate dal governo, l’impressione sull’uomo “Giuseppe Conte” è stata certamente positiva. Innanzitutto, ha risposto in maniera esaustiva, citando dati e fonti, a tutte le domande postegli dai quaranta giornalisti delle testate sorteggiate, senza ricorrere a manovre diversive o svianti come molto spesso accade in tali situazioni. E nei casi in cui non aveva risposte esaurienti ha ammesso sinceramente la difficoltà ribadendo che le questioni ancora in sospeso sarebbero state oggetto di approfondimento da parte sua e del governo. Niente toni roboanti ed esaltanti. Sembra poco ma non lo è. Si è ritornati a un discorso politico più pacato che lascia da parte la propaganda per soffermarsi sui fatti, su ciò che c’è da fare e su come raggiungere gli obiettivi che ci si è prefissati. Dal punto di vista dei risultati, il mio giudizio sull’operato del governo vede alternarsi luci e ombre. Le prime riguardano certamente il rapporto con l’Europa che è profondamente migliorato con il Conte bis. Sono state sedate, almeno per il momento, le polemiche relative alla firma del MES, sul quale potrà riaprirsi un confronto costruttivo con gli altri Paesi, fermo restando la necessità di aderire al trattato smussandone, magari, alcuni aspetti. Andare contro l’Europa è certamente dannoso agli interessi nazionali. Un successo è stato certamente aver evitato l’aumento dell’IVA senza strette fiscali, aver stanziato risorse per il taglio del cuneo fiscale, per la sanità e l’istruzione pubbliche. Ancora positivo il bilancio sull’immigrazione: gli sbarchi sono diminuiti e il ministro Lamorgese, senza proclami e lavorando sodo ha saputo operare soprattutto sulla ricollocazione dei mi11


granti negli altri Paesi europei. Resta il nodo dei “decreti sicurezza” che non sono stati ancora abrogati. Conte ha ribadito che essendo uno dei punti del programma di governo, sarà affrontato nelle prossime settimane. Il settore che indubbiamente dà risultati meno soddisfacenti è quello economico. La crescita del Pil si mantiene e, nelle previsioni del 2020 si manterrà, nell’ordine dello zero virgola. Dato assolutamente insufficiente per quella ripresa che sarebbe necessaria. Nel Paese persistono sacche di povertà e di emarginazione che non sono soltanto dati statistici. Si tratta di persone in carne e ossa che soffrono per la mancanza di abitazioni, di cure sanitarie sufficienti, in casi estremi anche di cibo. Tutto ciò non dovrà essere tollerato. E solo con una ripresa economica generale potranno essere reperite e stanziate risorse per affrontare in maniera efficace la questione. Al Paese servono politiche per il lavoro, serve aumentare i salari, serve investire in ricerca e innovazione per rendere più competitive le imprese. Serve, soprattutto, una riflessione approfondita sul tema del lavoro che cambia. Si potrebbe ipotizzare una tassa sui robot i cui proventi possano essere utilizzati per integrare il reddito dei lavoratori che perdono occupazione proprio a causa dell’automazione? Dal governo mi attendo un atto di coraggio. Vivacchiare non serve a niente e, alla fine, le destre vincerebbero comunque le elezioni. Nel Paese, finalmente, si respira un clima diverso: grazie alle Sardine le piazze sono tornate a riempirsi. E anche le manifestazioni a sostegno del procuratore Gratteri ne danno conferma. E’ il momento di osare. Mi auguro che Conte abbia il coraggio di rischiare per indirizzare l’azione governativa su posizioni sempre più attente ai bisogni dei lavoratori e dei ceti sociali maggiormente in difficoltà. A mio avviso, si tratta dell’unica chance per la nazione di crescere e, per lui, di sopravvivere. Ed eccoci all’altro evento rilevante di fine 2019. Come di consuetudine, il 31 dicembre il Presidente della Repubblica, a reti unificate, rivolge un discorso agli ita12


liani. E, la sera di San Silvestro, erano in dieci milioni di fronte agli schermi televisivi per ascoltare le parole di Mattarella. Fiducia e responsabilità: queste le parole chiave sulle quali il Presidente ha scelto di soffermarsi. Molto spesso, in una narrazione generica e superficiale, gli italiani sono considerati poveri di autostima. Mattarella, invece, ha sottolineato la presenza di una maggioranza di cittadini che, in silenzio e lontano dalla luce dei riflettori, compie, affrontando ogni tipo di difficoltà, con impegno e rigore il proprio dovere. È su questo popolo operoso che bisogna fare affidamento per ritrovare la fiducia nel futuro che in questi ultimi anni il Paese ha perso. Il riappropriarsi comune della fiducia è, per il Capo dello Stato, la precondizione per la ripartenza mettendo definitivamente da parte l’ottica del declino. E insieme alla fiducia, occorre una nuova cultura della responsabilità che coinvolga in uno sforzo unitario tutte le componenti della nazione: istituzionali, politiche ed economiche. Mattarella ha poi focalizzato l’attenzione sui giovani, la risorsa principale sulla quale investire per il futuro. Una delle priorità dovrà essere quella di mettere fine all’emigrazione continua dei nostri ragazzi che per trovare lavoro sono costretti a recarsi all’estero. Bisogna dare fiducia ai giovani, ascoltarli e offrire loro occasioni di lavoro e di sviluppo, far sì che possano costruire il loro futuro nel loro Paese. Un’ultima annotazione nel discorso del Presidente della Repubblica che mi preme evidenziare è il richiamo alla necessità di ridurre il divario che sta nuovamente crescendo tra il Nord e il Sud d’Italia. A subirne le conseguenze non è solo il Mezzogiorno ma l’intero Paese. Perché se non cresce il Sud non cresce l’Italia. Un appello particolarmente importante alla solidarietà nazionale per interrompere ancor più il clima d’intolleranza, di odio, di aggressività che ha inquinato la nostra società negli ultimi tempi. In conclusione, provo a essere moderatamente ottimista, di accogliere con fiducia le indicazioni del Presidente Mattarella e invito a far sentire sempre più, nelle piazze e in ogni altro luogo, la nostra voce di cittadi13


ni. PerchÊ solo con la partecipazione si può sperare di cambiare il Paese.

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Storia dell’Arte

Imitatori e falsari nella storia dell’arte. Parte quarta Giovan Giuseppe MENNELLA

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La fruizione dell’opera d’arte nell’età contemporanea si va caratterizzando sempre più come un feticcio. Chi ha mezzi economici tende a investire in opere d’arte come se lo facesse in case d’abitazione, ma deve stare molto attento, e non sempre basta, perché le falsificazioni sono all’ordine del giorno. Tutte le transazioni ruotano su giudizi di accertamento dell’autenticità delle opere. Il caso del Salvator Mundi è emblematico. Si tratta di una immagine di Cristo su tavola, dipinta a olio nel 1499, presumibilmente da Leonardo Da Vinci per un privato, poco prima che il grande artista toscano fuggisse da Milano quando Ludovico il Moro fu spodestato dai francesi. Il successo dell’opera fu all’origine della produzione di numerose copie. Alcune fonti riportano che, dopo l’occupazione di Milano da parte dei francesi, il dipinto originale sarebbe finito in un convento di Nantes. L’artista Wenceslaus Hollar nel 1650 ne fece una copia, precisamente un’incisione, quando il quadro si trovava nella collezione del Re d’Inghilterra Carlo I Stuart. Dopo la decapitazione del sovrano, le sue grandi raccolte d’arte furono disperse in varie aste. Dopo diverse vicende, durante le quali si perse la traccia dell’originale, riapparve un Salvator Mundi nelle raccolte del gentiluomo inglese sir Francis Cook. Era forse un lavoro dell’allievo di Leonardo, Francesco Melzi, ma fu attribuito anche a Boltraffio o a Marco D’Oggiono, come un manufatto derivato dall’originale leonardesco. I curatori del Metropolitan Museum di New York e quelli del Fine Arts di Boston, interpellati sul dipinto, non si pronunciarono. Nel 2010 fu portato alla National Gallery di Londra e sottoposto a un restauro che eliminò vecchie ridipinture facendo apparire colori vivissimi e una qualità pittorica alta come quella dell’Ultima Cena. Il direttore della National, Nicholas Penny, invitò quattro studiosi per valutarlo, precisamente Pietro Marani e Maria Teresa Fiorio, studiosi di Leonardo, Carme C. Brambach, e Martin Kemp, professore emerito 16


di storia dell’arte a Oxford. Dopo il loro parere positivo sulla mano di Leonardo, il quadro è stato esposto al pubblico in una mostra su Leonardo alla National dal novembre 2011. Tuttavia, altri studiosi hanno contestato l’attribuzione. Nonostante i dubbi, il dipinto è passato di mano in varie aste, incrementando vertiginosamente il suo valore, fino a essere venduto in un’asta di Christie’s per 450 milioni di dollari, più 40 per diritti d’asta, dal miliardario russo e presidente della squadra di calcio del Monaco Dmitrij Evgen'evič Rybolovlev al Dipartimento della cultura degli Emirati Arabi Uniti. E così, sull’onda della moderna frenesia per gli investimenti in opere d’arte, è stato venduto e rivenduto, a cifre sempre più colossali, un quadro dall’attribuzione incerta, se non sospetta. Nel 2018 la mostra sui falsi al National Museum di Taipei, con 1.585.000 visitatori in sei mesi, è stata la più vista in tutto il mondo. Secondo il Comando Tutela Patrimonio Culturale dei Carabinieri, si falsifica soprattutto l’arte contemporanea, mentre è più difficile falsificare l’arte antica. Nel 2018 sono stati individuati 1.230 pezzi di arte contemporanea falsificati, a fronte di 90 pezzi di arte antica. Il volume di affari della vendita di falsi è stato calcolato nel 2018 in 400 milioni di euro. E’ un mercato insidioso che va fronteggiato con indagini e sequestri. Il circuito dei falsi si può valere di tre ingranaggi: le case d’aste, le gallerie private e le collezioni private. Spesso i compratori non hanno le idee chiare su cosa occorra chiedere ai venditori, che si trovano a essere facilitati nelle loro eventuali velleità di falsificazione. Una regola per mettere in sicurezza gli acquisti dovrebbe essere quella di pretendere il timbro e la firma del venditore sul retro dell’opera, se si acquista da casa d’aste o galleria private. Un pericolo da cui guardarsi è quello di acquistare l’opera autenticata su foto inserita nel catalogo ufficiale generale che però potrebbe rivelarsi una foto del falso, mentre l’originale è rimasto nel cassetto. 17


Per ovviare a questo problema, il compratore dovrebbe pretendere per l’autentica dell’opera originale e non la foto. In un laboratorio di un falsario gli inquirenti trovarono un’opera originale mentre la foto del falso era già stata mandata per l’autentica alla casa d’aste. Piero Manzoni è il più falsificato tra gli artisti moderni perché i suoi manufatti acquisirono subito valore ed erano facili da riprodurre. Nei tardi anni ’70 già circolavano falsi fatti dalla stessa mano e con gli stessi errori. Oggi ci sono falsi venduti on line a prezzi bassi. La sua opera “merda d’artista” è una scatoletta con dentro non si sa cosa, forse gesso, forse veramente feci. Il suo “fiato d’artista”, un palloncino gonfiato, anche negli autentici ormai non c’è più, perché è rimasto solo il palloncino rinsecchito. Nelle opere con materiali organici è difficile ridare vita a qualcosa di concreto, resta solo da dare vita a un’idea. Lo statuto identitario di un oggetto d’arte ha a che fare con tutta la sua storia, anche con la morte, la fine dell’oggetto organico. La morte stessa dell’oggetto può essere parte dell’oggetto d’arte, cioè può mostrare con efficacia cosa sia l’effimero, la contingenza. Occorre accettare che l’opera è costruita per un’esistenza e quindi deperisce. Se i materiali dell’opera sono messi lì per deperire, vuol dire che l’opera è fatta per documentare la deperibilità della vita autonoma dell’oggetto d’arte. L’acquirente dell’oggetto d’arte compra un’idea o un’opera per la sua consistenza materiale? Nell’epoca del fake, la reazione degli artisti è di appropriarsi del falso. La provocazione del falso può essere un modo per fare una critica sociale che denuncia gli altri tipi di menzogna del mondo contemporaneo. Gli artisti vogliono dire e fare menzogne sempre più grandi per smascherare quelle davvero enormi dell’attuale società, soprattutto quelle della politica e dell’informazione. Per gli artisti contemporanei, la sovrapproduzione di immagini e di informazioni 18


che condiziona il nostro modo di vivere non è più un limite ma un bagaglio, un ecosistema culturale, da cui trarre spunto. L’operazione è portata avanti con il falso, con la citazione, con l’imitazione. Si sfrutta nel contemporaneo l’informazione che è preda di internet e dei media di massa. Anche nel falso, l’arte contemporanea può trovare riflessioni interessanti. Credere nel falso è quasi meglio che credere alla realtà come è descritta e posta all’attenzione dagli odierni mezzi di comunicazione di massa. Il fotografo Thomas Stemman ha indagato il rapporto tra la realtà e la rappresentazione della realtà. Ha fotografato l’ufficio in cui Donald Trump mostrava i documenti con cui aveva delegato i suoi affari ai figli, ma la foto mostrava che erano solo fogli bianchi. L’orinatoio di Marcel Duchamp era un oggetto non solo prosaico ma anche prodotto in serie. L’artista ne prese uno solo dei tanti e lo pose in un museo. L’operazione si potrebbe configurare come un doppio inganno, realizzato agli albori della produzione in serie dei manufatti. Dopo quell’episodio, e fino ai nostri giorni, l’artigianato artistico, cioè il manufatto unico, è diventato man mano sempre più obsoleto ed è andata sempre più in crisi l’unicità del gesto. Gli artisti si sono presi una sempre maggiore libertà di azione e quasi non fanno più caso alla distinzione tra originali e riproduzioni seriali. Giorgio De Chirico ha mescolato nella sua arte vari stili di artisti del passato, come se non volesse più inventare nulla, quasi che l’invenzione portasse alla morte, come l’invenzione di nuovi strumenti bellici aveva portato alla morte di massa della Grande Guerra. Falsificava e duplicava anche se stesso. Non rivoluzionava le forme, ma il senso e il significato delle cose, ricercava ciò che non si vede, l’inafferrabilità dell’essere. Andy Warhol realizzò oltre cento versioni dell’Ultima Cena. Disse che il suo mae19


stro era De Chirico che copiava una immagine che era l’immagine di se stesso, mentre lui ne copiava tante in un unico quadro, come le tante Marylin di un suo lavoro. Damien Hirst nel 2017 finse di aver copiato gli oggetti e le statue recuperati da una nave di un liberto romano affondata nel primo secolo dopo Cristo. La mostra si intitolava “Treasures from the wreck of the unbelievable” a Punta della Dogana e a Palazzo Grassi a Venezia. Narrava che quello esposto era un tesoro vecchio di duemila anni, ritrovato in fondo all’oceano indiano nel 2008, appartenente a Cif Amoton II, un liberto e collezionista romano originario di Antiochia, vissuto tra la metà del Primo e l’inizio del Secondo Secolo dopo Cristo e destinato al tempio dedicato al dio Sole che aveva fatto costruire. Ma, a causa del naufragio, l’Apistos (“Incredibile” in greco) andò perduto fino ad allora e poi ritrovato. Foto e filmati del rinvenimento del tesoro dimostravano la sua veridicità e le sculture erano adornate con coralli e creature marine per dare l’impressione che fossero state dimenticate in fondo al mare per millenni. La pluralità dei soggetti raffigurati era strabiliante, da capogiro, da Buddha a Baloo, da Medusa a Mickey Mouse, la mostra si configurava come un viaggio psichedelico tra le icone che hanno segnato la storia dell’umanità. Hirst prendeva in giro i visitatori con un gioco sottile. Le opere non portavano fisicamente la sua firma, ma l’attenzione maniacale ai dettagli, la lavorazione minuziosa delle sculture, soprattutto le concrezioni marine che le ricoprivano offuscando gli oggetti “originali”, portavano la sua chiara impronta. Le dee greche avevano le proporzioni di “Barbie”, dietro una statua c’era la scritta “made in China” e un’altra, chiamata “The Collector”, il collezionista, pure incrostata di concrezioni marine, era un chiaro autoritratto di Hirst stesso. Eredi Brancusi sono un gruppo italiano di artisti, attivo dal 1992, che, partendo dal tema della storia e della memoria, portano in primo piano il concetto 20


dell’autenticità dell’opera e del rapporto con la storia dell’arte, giocano col verosimile visto come collante tra reale e immaginario e recuperano con la memoria le avanguardie. Utilizzano per le loro installazioni i resti, gli scarti, le scorie di lavorazione degli artisti del ‘900 storico o anche memorie o scritti che siano legati a oggetti deperiti o semidistrutti. Così hanno proposto un’opera intitolata “Lascito Stegermann” avente a oggetto pagine bruciacchiate del diario di Else Magdalene Stegermann, una abitante di Berlino che aveva annotato in un diario sensazioni e osservazioni dei giorni tragici della caduta della città nel maggio del 1945, tra cui il raccapriccio suscitatole dall’incendio della Flakturm di Friedrchshain, una torre in cui, nei giorni successivi all’entrata dei sovietici in città, erano bruciate centinaia di opere d’arte di inestimabile valore che vi erano custodite, tra cui la prima versione del San Matteo e l’Angelo per la cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi di Caravaggio. L’installazione di Eredi Brancusi comprendeva brandelli delle pagine del diario e frammenti bruciati delle opere andate perdute. Altra opera è “Lasciti di scarti”, in cui sono assemblati resti di materiali manipolati ma non utilizzati da artisti quali Brancusi, Duchamp, Matisse, Arp, Calder, Man Ray, Pino Pascali, Picasso, Burri, Piero Manzoni. Ma l’opera più curiosa del gruppo italiano è la dedica, a partire dal 1999, di un terreno boschivo di 60.000 metri quadrati alla commemorazione, con relative lapidi, di personaggi romanzeschi morti nel racconto o a personaggi storici senza tomba. La motivazione è che ci sono persone che provano dolore per la morte di personaggi di un romanzo o di un film e desiderano una lapide mortuaria dove andare a omaggiare i personaggi immaginari, nati dalla fantasia di scrittori o registi, morti nelle finzioni di cui sono parte. Si tratta di luoghi di sepoltura che consentono di abituarsi a piccole morti immaginarie, in attesa di vere morti di parenti o amici. Un posto che custodisce dolore in senso generale. Nel bosco ci sono le lapidi di Anna Karenina, Dorian Gray, la Marinella della canzone di Fa21


brizio De Andrè, la Pina di Roma città aperta interpretata da Anna Magnani, ObiWan Kenobi di Guerre stellari e di Roy Batty, il replicante di Blade Runner, quello che pronuncia le famose parole “ho visto cose che voi umani…” E allora, dove si situa il vero? Ma il vero ci rispecchia? Esiste una linea di demarcazione tra vero e falso? Se esiste, nel ‘900 è molto affievolita, come testimonia l’interrogativo su quale destino possa essere mai toccato alla bicicletta cui Duchamp aveva staccato la ruota per comporre la sua opera o a un sacco scartato da Burri. Matteo Ferrero del gruppo Eredi Brancusi ha esposto 30 o 40 tele quasi completamente consumate, di proprietà dell’artista e collezionista Carrucci e i visitatori della mostra tendono a chiedersi cosa sia successo loro. Le risposte possibili sono le più varie, dal fatto che Carrucci possa essere diventato cieco o che abbia toccato le tele talmente tante volte da deteriorarle. La situazione può magari insegnare che la ricerca del vero o del falso esime dalla ricerca del senso. L’arte contemporanea nuota nel labirinto della verità. Gabriele De Matteo, artista e performer campano, autore di mostre come “Evacuare Napoli”, dotatosi di un alter ego fittizio chiamato Armando Della Vittoria, pensa che i copisti e le copie siano più importanti degli originali. Salvatore Russo, maestro dei copisti d’arte napoletani, si rivolse a lui portandogli in visione la copia, da lui dipinta, di un pittore fiammingo del ‘600. Né Di Matteo, né il gallerista cui era stata affidata l’opera riuscirono a capire da quale fiammingo fosse stato dipinto l’originale. Russo rispose che, oltre a quello in visione, aveva fatto lui le copie di molti altri quadri antichi ma senza sapere assolutamente a quale maestro si riferissero. Negli anni del secolo scorso, dai ’70 ai ’90, c’erano moltissimi abili copisti napoletani che dipingevano quadri commerciali. Il mercato ne era pieno, ogni volta partivano da Napoli interi TIR con i quadri commerciali, che si vendevano molto bene. 22


Poi arrivarono i cinesi che invasero quel mercato a prezzi bassi. Di Matteo ha invitato i copisti napoletani, rimasti disoccupati, a copiare a loro volta i quadri cinesi più importanti e di valore. Così ha voluto dimostrare che la copia è un work in progress infinito. Ogni volta che una pittura è venduta e poi rifatta, può essere a sua volta venduta e poi ancora rifatta, quasi all’infinito. Di Matteo ritiene che le copie finiscano per essere più preziose e di valore degli originali. In fondo, nelle accademie d’arte del mondo occidentale si è sempre copiato. Moira Ricci è un’artista e fotografa italiana, i cui lavori, foto, video e installazioni spesso autobiografici, sono riferiti a storie identitarie, singole o collettive, storie di famiglia, legami con il territorio. Utilizza mezzi tecnologici per riscoprire e interpretare tradizioni e storie popolari, in genere del territorio toscano. In particolare, ha costruito un archivio per immagini (foto e video) e documenti, come ritagli di giornale, per rendere verosimili alcune leggende tramandate oralmente nella campagna toscana, legate a tre personaggi, la bambina cinghiale, l’uomo sasso, l’uomo lupo mannaro. L’unico elemento reale è costituito dalle interviste audio fatte a persone che ne narrano la storia, tutto il resto è una documentata illusione, la pura fantasia delle credenze popolari attorno al bizzarro, all’oscuro che attrae per la sua forza selvaggia. In particolare, è interessante quella della bambina nata metà bambina e metà cinghiale a Magliano in Toscana, nel grossetano; nessuno l’ha vista, solo il presunto fotografo e i parenti, nemmeno i vicini, non si sa quando sia morta, ma non sarebbe morta a sei anni come dicono i parenti. E’ un cortocircuito attraverso cui si può indagare la realtà. Qualcuno ha detto che una mappa del mondo in cui non si contempla l’utopia non è guardabile, e il lavoro di Moira Ricci produce una mescolanza tra realtà e utopia, come la ricostruzione sulla storia fantasiosa del bambino che aveva nella pancia un gemello che gli mangiava gli organi. O come la storia del lupo mannaro che ululava ai bordi della stra23


da per cercare un lago o un fiume in cui bagnarsi per evitare la trasformazione. Moira Ricci nelle sue installazioni indaga, o meglio finge di indagare, se le storie in questione siano vere o false. Comunque, dalle parole di quelli che le avrebbero osservate, salta fuori che ognuno ci aggiunge sempre qualcosa di nuovo e di diverso. Nell’arte, dall’800 in poi si è guadagnata molta più possibilità di libertà espressiva, ma ciò può portare a confondere le idee su ciò che è arte da ciò che non lo è. Dico che ti faccio il ritratto e poi intingo il pennello mulinandolo a casaccio sulla tela. E’ una realtà espressiva artistica o è l’unica modalità tecnica che posso padroneggiare per fare un ritratto? Nella società algoritmica, l’artista reagisce come reagivano alle novità tecniche i pittori del ‘500 dipingendo corpi distorti e contorti, come i manieristi italiani ed El Greco. Una domanda che oggi si affaccia, fatalmente, è se il medium esprima arte in se stesso. Si può immaginare un prodotto artistico senza autore? Oggi ci sono melodie create in maniera autonoma da algoritmi. L’oggetto d’arte fatto dall’essere uomo può rappresentare lo sforzo struggente degli umani di comprendersi, di rappresentarsi e di immaginarsi per come potrebbero essere. Con tanta tecnologia a disposizione, la consapevolezza di essere soli e mortali rende più urgente la sensibilità rispetto a che cosa significa essere umani e avere senso come umani. Moira Ricci racconta la storia che lei ha elaborato nella sua infanzia, come è arrivata a lei e come l’ha rielaborata. Matteo Ferrero e Eredi Brancusi con le tombe per i personaggi immaginari dei romanzi tendono pure a far appropriare le persone di loro sentimenti ed emozioni. Molti artisti si sono assunti il compito di svelare le mistificazioni della società di un internet impazzito e dei suoi fakes molto meglio di ogni demistficazione fatta 24


razionalmente, ma da altre branche della stessa società dell’informazione. Dal Cupido di Michelangelo all’algoritmo capace di produrre immagini e arte, nell’epoca della post-verità, forse il falso può costituire il vero svelamento della verità.

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Donne

Teresa e le altre Antonella BUCCINI

Teresa Kachindamoto è una capo tribù e una dei 300 leader tribali nel Malawi, uno dei paesi più poveri del mondo dove il matrimonio con bambine o poco più, basato su compensi economici, è una pratica culturalmente accettata. Bene, Teresa, supportata da una rete di donne locali, The Mother’s Group e da UN Women, l’ente delle Nazioni Unite per l’uguaglianza e l’empowerment femminile, ha annullato circa 1000 matrimoni di spose bambine e ha riportato le ragazze a scuola. Ha ricevuto minacce di morte ma Teresa è andata avanti come un treno. Ha stipulato accordi con altri capitribù abolendo per legge i matrimoni tra adulti e bambini e, con l’autorità che le deriva dal ruolo ricoperto, ha allontanato i leader che favorivano ancora questa barbarie. Si prodiga, inoltre, per garantire il finanziamento 26


dell’istruzione delle bambine quando la famiglia non può permetterselo: “quando le ragazze sono istruite ogni cosa è possibile” sostiene Teresa. Hefrin Khalaf era Segretaria Generale del Partito del Futuro Siriano, Ministro degli esteri del popolo curdo, popolo che pratica la democrazia e l’uguaglianza di genere e che ha combattuto contro la feroce aggressione della Turchia. Era una giovane magnifica donna, nel pieno della sua vita, riconosciuta a livello internazionale per le sue capacità di mediazione e la sua tenacia nella ricerca di una convivenza pacifica tra etnie e religioni diverse E’ stata barbaramente uccisa in un agguato il 12 ottobre 2019. Valerio Del Grosso è il presunto assassino di Luca Sacchi, ucciso, sembra, per un affare di droga. Una famiglia, la sua, semplice e perbene, coinvolta in una tragedia che, chi vive in quelle periferie, lambisce ogni giorno ma che la risolutezza e l’onestà dei genitori avevano saputo tenere lontana dai quattro figli maschi. Giovanna Proietti, la madre, all’indomani della vicenda si trova di fronte a una serie di sospetti e timori fino a quando, ormai certa del coinvolgimento del figlio, decide di denunciarlo. “E’ meglio saperlo nelle vostre mani che in quelle di spacciatori, delinquenti e criminali” dichiara ai carabinieri. Sahar Khodayari si è travestita da uomo per vedere la partita della sua squadra lo scorso 12 marzo allo stadio Azadi di Teheran. Infatti le donne in Iran non possono entrare in un uno stadio, è considerato un reato e la pena è la galera. Si è anche ripresa in un selfie e per questo era stata soprannominata “the blue girl”. Scoperta è stata arrestata e rinchiusa nel carcere femminile di Gharchak Varamin, tra i peggiori per le condizioni di vita. Rilasciata su cauzione le è stato comunicato che avrebbe dovuto scontare una condanna a sei mesi per oltraggio al pudore. Sconvolta si è data fuoco per protesta davanti a un tribunale di Teheran ed è morta in ospedale il 9 settembre 2019 per la gravità delle ustioni riportate. 27


Se cerco un senso all’essere donna e se lo cerco per l’anno appena passato penso al valore della memoria. Una memoria attiva che induca alla riflessione, sia sprone al cambiamento e magari istighi a un agire. Una memoria, oggi drammaticamente evanescente, che custodisca e abbia cura dello spirito di altre donne per ribadire la natura e la forza del femminile tutto. Abbiamo infatti dimenticato Hefrin come tutta la questione curda, archiviata dai media, evaporata nel susseguirsi di notizie spesso ridicole per contenuti e intenti. Siamo come dei bambini che rimuovono le paure chiudendo gli occhi. Il mondo scompare se non guardiamo. Dobbiamo invece aprirli gli occhi e osservare e condividere e sostenere una donna come Teresa che, in un contesto sociale ostile, segna caparbiamente la strada dell’emancipazione e della libertà non solo delle donne: l’istruzione, l’informazione, la cultura veri strumenti di potere e, ancora, accogliere Giovanna di cui possiamo solo vagamente intuire il tormento e il dolore. Quante madri si sarebbero chieste se denunciare il proprio figlio invece di difenderlo al di là di ogni evidenza?. Lei non ha dubbi, vuole salvare suo figlio anche da se stesso. Una complessa declinazione dell’amore materno, e per questo doloroso e immenso, espressione di compassione e determinazione insieme. Ancora di amore si tratta raccontando di Sahar, di passione e di vita. La sua sembra una storia distopica creata dalla fantasia di uno scrittore. Sfugge infatti il senso di una discriminazione tanto crudelmente ottusa. Il calcio è un universo maschile, ostinatamente autoreferenziale, celebrativo spesso di caratteri e stereotipi arcani. L’omosessualità non è contemplata anche se praticata, le giornaliste sono di relativa recente ammissione tanto che ancora in Italia se ne critica la competenza. In Iran la connotazione di un territorio già ostile assume aspetti paradossali ma coerenti con un regime che, a dispetto di una società complessa e più orientata al progresso di quanto si immagini, non arretra su principi e regole contro le donne. 28


Conforta l’attenzione prestata alle calciatrici della Nazionale italiana che solo qualche anno fa furono definite “quattro lesbiche”, e anche se il sospetto di una nuova prospettiva di mercato pure si insinua a fronte del loro ingresso nel professionismo, occorre essere ottimisti e dichiarare il passo avanti sulla strada dell’uguaglianza di genere. E’ bene allora tenere a mente queste storie, ci tornerà utile quando sarà evidente che un unico filo stringe insieme il destino degli uomini tutti.

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Lavoro e Famiglia

It's my life Antonella GOLINELLI

Stanotte mi sono alzata alle 2 per accompagnare mio marito, altrimenti detto l'amante inglese, in aeroporto. La vita dell'emigrato. Si rientra per le feste e si riparte. Domani si ricomincia a lavorare, rientrano tutti. È impressionante prima di natale la mole di arrivi. Altrettanto impressionanti le partenze. Tutta gente che se ne è andata per sopravvivere, per potersi fare o rifare una vita. Nel disinteresse generale centinaia di migliaia di persone di tutte le età sono partite. Interi comparti economici sono scomparsi senza che nessuno muovesse foglia. Cosa si poteva fare altrimenti? Andarsene non è quasi mai una scelta. È una necessità. Non hai lavoro, se ce l'hai è pagato malissimo, non hai alternative. Te ne vai. Cerchi in giro e trovi che ti vuole 30


e ti paga. Ti crei un presente e un futuro altrove. Lasci affetti e famiglia a casa e te ne vai per il mondo. Di questo però nelle campagne elettorali non si parla. Sfrecciano per la regione candidati e segretari ma silenzio. Qui nella civile e progredita Emilia Romagna, no non ce lo metto il trattino. Sono io il trattino. Ci vivo sul trattino. Dicevo, qui nella civile e progredita Emilia Romagna il fenomeno è ampio, molto più diffuso di quanto si pensi. Anche solo un periodo di qualche anno di emigrazione l'hanno fatto in parecchi. Giovani e non. Sempre ignorati. Prima dai grandi capitalisti, poi da quelli di Erasmus, ancora da quelli del Papeete, infine dagli attuali. Tutti zitti. Muti come pesci. Come sardine (perdonate il lazzo). Sono entrata nel millesimo dei miei 60 anni, per quanto portati da biondo dio sono parecchi, e son qui che da anni sfreccio per aeroporti. Porto qualcuno che parte, parto io, qualcuno ritorna, ritorno io. Sono qui da sola da 6 anni ormai a combattere col quotidiano. Sono sposata da 38 anni e sono sola. Non ho un quotidiano da condividere, ho solo una perenne solitudine intervallata da chiacchierate al telefono e qualche trasferimento. Son soddisfazioni. E questi continuano a parlare di niente, incapaci di vedere il mondo che hanno creato. Se volete il mio voto dovete impegnarvi di più, un bel po' di più.

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Politica e Storia

Attentati e attentatori contro Mussolini Giovan Giuseppe MENNELLA

Gli attentati contro la vita di Benito Mussolini possono essere divisi in due tipologie, corrispondenti a due periodi storici distinti tra loro. Il primo periodo è quello intercorrente tra il discorso pronunciato dal Capo del Governo il 3 gennaio 1925 alla Camera dei Deputati e la promulgazione della legge del 25 novembre 1926 di costituzione del Tribunale Speciale per la difesa dello Stato, che, insieme ad altre leggi cosiddette “fascistissime”, diede un definitivo giro di vite all’abolizione delle garanzie democratiche e all’instaurazione della dittatura. 32


Infatti, in quel discorso Mussolini pronunciò le parole: “nelle 48 ore successive a questo mio discorso, la situazione sarà chiarita su tutta l’area”. Seguì poco dopo la circolare di Luigi Federzoni ai Prefetti che dispose drastiche limitazioni alla libertà di stampa e la chiusura di tutti i circoli dei partiti di opposizione in tutto il Paese. Il discorso e le misure drastiche che ne seguirono sono ritenuti dagli storici l’atto costitutivo del fascismo come regime autoritario. Infatti, con la predetta legge del 25 novembre 1926 fu istituito il Tribunale speciale. Inoltre, con legge del 24 dicembre 1925 furono aumentati i poteri e le prerogative del Presidente del Consiglio che si sarebbe chiamato Capo del Governo. Con la legge del 3 aprile 1926 fu proibito lo sciopero e solo i Sindacati legalmente riconosciuti, cioè quelli fascisti, furono autorizzati a stipulare i contratti collettivi. La legge del 31 dicembre 1926 limitò la libertà di stampa. E la legge delega del 4 dicembre 1925 autorizzò il Governo a emendare il Codice penale allora in vigore, naturalmente con finalità di repressione del dissenso, non ultima la reintroduzione della pena di morte. Il percorso di riforma si concluse con l’entrata in vigore, il primo luglio 1931, del famigerato Codice Rocco, definito tale dal nome di Alfredo Rocco il giurista che lo firmò in funzione di Guardasigilli. Gli attentati di questo primo periodo si caratterizzarono per essere fatti da individui singoli, decisi a liberare il Paese da un tiranno e che agirono sotto la spinta emotiva della mancata caduta di Mussolini in seguito all’assassinio di Matteotti. Furono proprio quegli attentati a far schierare la maggior parte dell’opinione pubblica a favore del fascismo e, in parte, a contribuire alla promulgazione delle leggi che abolirono definitivamente in Italia le garanzie democratiche e la libertà. Il secondo periodo fu quello successivo all’instaurazione della dittatura e del Tribunale Speciale per la difesa dello Stato. I partiti antifascisti si erano riorganizzati in esilio e i tentativi di uccidere il Duce furono non più a iniziativa di singoli indi33


vidui, ma in qualche modo organizzati con la partecipazione, o quantomeno lo stimolo, di forze politiche antifasciste o di singoli esponenti dei partiti. Non tutti i Partiti antifascisti furono però favorevoli ad attentati alla vita di Mussolini. In particolare, i comunisti furono sempre molto scettici sulla possibilità di abbattere il fascismo colpendo il suo capo. E comunque, si confrontarono con misure e pene repressive più severe, tra cui la pena di morte ormai prevista dal Codice Rocco. Primo periodo Il 3 gennaio 1925 Benito Mussolini pronunciò al Parlamento il famoso discorso in cui si assunse la piena responsabilità politica, morale e penale dell’assassinio di Giacomo Matteotti e fece capire chiaramente che si avviava all’instaurazione di un regime. Gli attimi cambiano la Storia e la Storia era stata cambiata sia dalla decisione di Vittorio Emanuele III di non costringere il Primo Ministro alle dimissioni in seguito alle sue chiare responsabilità nell’uccisione di Matteotti, sia dall’inerzia politica dell’opposizione parlamentare al governo. Da quel giorno di gennaio fu chiaro che il governo fascista sarebbe durato in carica non per breve tempo e una sorta di sgomento piombò sugli italiani e in particolare sulle forze politiche parlamentari ed extraparlamentari antifasciste. A quella data, l’opposizione, oltre che essere sorpresa, era anche disorganizzata e non aveva le idee chiare su quale linea dovesse essere perseguita per combattere il fascismo ormai al governo. Per la verità, in quell’inizio di 1925 non era ancora organizzato neanche il fascismo, che non era ancora capace di controllare tutto e tutti, come sarebbe avvenuto di lì a qualche tempo. La disorganizzazione dell’antifascismo e la non completa organizzazione del fascismo, ma anche il senso di smarrimento politico e psicologico di alcuni oppositori, lasciarono aperto il campo a tentativi individuali di risolvere la situazione sopprimendo colui che si andava caratterizzando come un despota eversore della demo34


crazia parlamentare. Quei tentativi si sarebbero rivelati come disperati, disorganizzati, anche sgangherati, spesso dalla genesi e dallo svolgimento poco chiari, ma comunque avrebbero denotato anche un notevole coraggio personale da parte di chi li pose in atto. Come se gli attentatori volessero invertire il corso degli eventi giocando il tutto per tutto in un attimo, o in una serie di attimi, uguali e contrari a quegli attimi decisivi che avevano portato il Paese ormai a un passo da una dittatura di un partito e di un solo uomo. Il primo attentato fu ideato il 4 novembre 1925 dal deputato socialista unitario Tito Zaniboni e dal generale Luigi Capello, comandante della II Armata nella Grande Guerra. Zaniboni avrebbe dovuto far fuoco con un fucile di precisione da una finestra dell’albergo Dragoni, situato di fronte al balcone di Palazzo Chigi da cui si sarebbe dovuto affacciare il Duce per celebrare l’anniversario della vittoria. Le forze di polizia, guidate dal Generale Giuseppe Dosi e che stavano già seguendo Zaniboni in seguito a notizie di qualche spia, fecero irruzione nella stanza e sventarono la minaccia. Contro Zaniboni e Capello operò retroattivamente, con una autentica mostruosità giuridica, il Tribunale Speciale per la difesa dello Stato. Come si è visto,

il Tribunale fu istituito con legge del 25.11.1926, più di un anno dopo

l’attentato, come organo speciale del regime, competente a giudicare i reati contro la sicurezza dello Stato e del regime. Come scrisse lo storico Aquarone, il Tribunale “con la sua ombra minacciosa contribuì non poco a distogliere molti oppositori del regime da un’azione concreta contro di esso”. Comunque, Zaniboni e Capello furono condannati il 12 aprile 1927 a trent’anni di carcere. Il 7 aprile 1926 Violet Gibson, una donna irlandese risultata essere una squilibrata, esplose un colpo di pistola in direzione di Mussolini, mancandolo per poco. Un improvviso scatto all’indietro della testa per fare il saluto romano salvò il Duce dalla 35


morte, lasciandolo solo con una lieve ferita al naso. Essendo la donna una cittadina dell’Irlanda britannica, il governo britannico, per salvaguardare i buoni rapporti con il fascismo, inviò le sue scuse. Dal canto loro, anche le autorità italiane volevano mantenere buoni rapporti con lo Stato d’oltremanica e quindi la Gibson fu assolta in istruttoria per totale infermità mentale e rispedita in patria, dove fu internata in manicomio. L’11 settembre 1926 l’anarchico Gino Lucetti lanciò una bomba contro l’automobile del Primo Ministro. La bomba rimbalzò contro lo sportello della vettura ed esplose in strada ferendo otto persone. Lucetti fu immediatamente immobilizzato da un passante e poi dalla polizia. Dalla perquisizione effettuata fu trovato in possesso di una pistola caricata a proiettili dum dum. Anche lui fu giudicato retroattivamente dal Tribunale speciale e condannato a trenta anni di carcere con sentenza del giugno 1927. La sorte di Lucetti fu particolarmente tragica ma anche curiosa. Dopo la caduta del fascismo e l’armistizio fu liberato dagli Alleati dal carcere di Ponza e il 17 settembre del 1943 si trovava a passeggiare sul lungomare di Ischia, dove aveva preso alloggio, quando fu colpito in pieno, unica vittima, da un bombardamento di aerei tedeschi, quasi che i compari di Mussolini avessero voluto punire proprio chi aveva osato attentare alla vita dell’alleato. A Gino Lucetti fu intitolata una brigata partigiana anarchica che combatté nel carrarese, di cui era originario. Una canzone partigiana dell’epoca cantò “il battaglion Lucetti son libertari e nulla più, fedeli a Pietro Gori noi scenderemo giù”. Di Lucetti parla anche Maurizio Maggiani nel libro “Il coraggio del Pettirosso”. La sera del 31 ottobre 1926, durante la commemorazione a Bologna dell’anniversario della Marcia su Roma, il quindicenne Anteo Zamboni sparò, senza successo, un colpo di pistola verso il Capo del Governo, sfiorandolo. Bloccato dal tenente del 56° Fanteria Carlo Alberto Pasolini, fu ucciso con numerose coltel36


late dalle camicie nere presenti. Secondo alcune ricostruzioni, l’attentato sarebbe stato il risultato di una cospirazione maturata all’interno degli ambienti fascisti contrari alla normalizzazione inaugurata da Mussolini contro gli eccessi rivoluzionari delle formazioni squadriste. Secondo questa ricostruzione, il colpo di pistola non sarebbe stato sparato da Anteo Zamboni, vittima casuale. Le indagini poliziesche si svolsero in principio negli ambienti squadristi bolognesi e ipotizzarono un coinvolgimento di ras fascisti locali, come Roberto Farinacci e Leandro Arpinati, ma non portarono ad alcun risultato concreto. Si concluse, quindi, che l’attentato doveva essere opera di un elemento isolato. Una successiva indagine promossa dal Ministero dell’Interno e svolta dal Tribunale Speciale non chiarì il caso. Il procedimento del Tribunale Speciale, istituito un mese dopo l’attentato, proprio sull’onda emotiva dei continui attentati a Mussolini, condannò il 7 settembre 1928 il padre e la zia dell’attentatore, sempre con la solita irregolarità giuridica della competenza retroattiva, per avere influenzato il giovane nelle sue scelte. I familiari di Zamboni si rivolsero al gerarca di Bologna Leandro Arpinati per far cancellare le condanne, vista l’assoluta estraneità dei due ai fatti. Arpinati si rivolse al Presidente del Tribunale Speciale Guido Cristini che gli confidò che erano chiaramente innocenti ma che era stato costretto a condannarli su pressione di Mussolini. Quando Arpinati riferì la cosa a Mussolini, quest’ultimo si infuriò e, dopo aver graziato i due condannati, costrinse Cristini alle dimissioni. Un altro attentato, questa volta non contro Mussolini ma contro il Re, fu quello che avvenne nel 1928 a Milano, alla Fiera campionaria, quando scoppiò una bomba che uccise molti cittadini innocenti. L’attentato fu probabilmente una provocazione fascista, o anche una faida interna tra bande rivali di fascisti. Tuttavia, se ne trasse partito per incolpare gli antifascisti e stabilizzare il regime suscitando lo sdegno dell’opinione pubblica contro gli oppositori di sinistra. Quell’attentato è interessan37


te perché presenta stupefacenti analogie con l’attentato del 12 dicembre 1969 alla Banca Nazionale dell’Agricoltura, a Piazza Fontana a Milano. Per Piazza Fontana è stato accertato storicamente, ma non giudiziariamente per le coperture e i depistaggi di organi dello Stato, che la bomba fu piazzata e fatta esplodere da gruppi neofascisti per far ricadere la colpa sugli anarchici e i movimenti di sinistra, in modo da favorire la nascita di un governo di destra in funzione antipopolare e anticomunista. Nel 1943 anche il governo Badoglio aveva ricordato al Paese l’asserito coinvolgimento degli antifascisti nell’attentato del 1928 alla Fiera di Milano per usarlo contri i Partiti democratici che si stavano riorganizzando. Secondo periodo Dopo la stabilizzazione del regime, con la pervasività del controllo preventivo dell’OVRA di Arturo Bocchini e l’istituzione del Tribunale Speciale, divenne impossibile arrivare ad attentare da vicino alla vita di Mussolini. Il Tribunale Speciale era costituito da giudici militari, il Presidente era un ufficiale del regio Esercito e cinque giudici tutti ufficiali della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, una sorta di Esercito del Partito Fascista reso organo dello Stato, e procedeva su denuncia della Polizia politica, l’OVRA, con poche garanzie giuridiche per gli imputati Tuttavia, non cessarono i complotti e i tentativi di avvicinarsi al Duce per eliminarlo. Ma i soggetti che furono catturati e condannati, anche spietatamente, lo furono sulla base della mera intenzione, del mero disegno di colpire il Capo del Governo. Inoltre, dal primo luglio 1931, data di entrata in vigore del Codice Rocco, era possibile la condanna a morte, giacché il Codice aveva reintrodotto nell’ordinamento la pena di morte. Per questa ragione, in precedenza Zaniboni, Capello, Violet Gibson. Lucetti erano stati condannati solo a pene detentive. Michele Schirru era un antifascista sardo che emigrò giovanissimo prima in continente e poi all’estero. Aderì al socialismo e negli Stati Uniti, dove si era trasferito 38


prendendone anche la cittadinanza, fu attivo nel movimento anarchico che difese le idee e le figure di Sacco e Vanzetti. Ritornato in Europa con l’intenzione di uccidere Mussolini, a Parigi entrò in contatto con gli antifascisti della Concentrazione democratica e in particolare con Emilio Lussu che lo incoraggiò. Arrivò a Roma il 12 gennaio 1931 e per tre settimane si appostò lungo il tragitto di Mussolini da Villa Torlonia a Palazzo Venezia, senza però avere mai la possibilità di incrociarlo né tantomeno di colpirlo. Probabilmente era già seguito da qualche tempo dalla polizia politica che aveva infiltrato di spie il suo ambiente e fu arrestato il 3 febbraio. Portato davanti al Tribunale speciale, fu condannato a morte il 28 maggio, per la semplice intenzione di attentare alla vita di Mussolini, contro le stesse disposizioni di legge. Fu fucilato il giorno dopo, 29 maggio, a Forte Braschi. Domenico Bovone e Angelo Pellegrino Sbardellotto furono processati e condannati a morte insieme, in un unico processo, dal Tribunale speciale, come esponenti della Concentrazione democratica di Parigi, anche se i loro casi furono dissimili. Domenico Bovone era un anarchico, nella cui casa il 5 settembre 1931 avvenne un’esplosione che ne uccise la madre e portò la polizia a rinvenire altro materiale esplosivo, sia nella casa che in un mulino di sua proprietà a Rivarolo Ligure. Le autorità di polizia ritennero che Bovone fosse implicato in attività terroristiche, che lui stesso ammise, essendo stati anche ritrovati dispositivi a orologeria. Furono anche ritrovati documenti che lo collegavano al fuoruscitismo antifascista e sorse il sospetto che gli esplosivi fossero destinati a un attentato contro Mussolini. Portato davanti al Tribunale speciale, fu condannato a morte per appartenenza a organizzazione antifascista repubblicana e complotto contro il Duce. Angelo Pellegrino Sbardellotto emigrò giovanissimo e nel 1928 rifiutò di tornare in Italia per svolgere il servizio militare. Aderì all’anarchismo e fu posto sotto controllo come pericoloso sovversivo dalla polizia politica del regime che ormai aveva 39


disseminato dappertutto le sue spie e suoi provocatori. Dopo aver espresso l’intenzione di rientrare in Italia per vendicare Schirru uccidendo Mussolini, ormai braccato dalla polizia, fu arrestato al terzo tentativo di avvicinare il Capo del Governo in occasione della cerimonia di traslazione delle ceneri di Anita Garibaldi al monumento ai garibaldini sul Gianicolo a Roma. Trovato in possesso di una pistola e di una bomba, fu giudicato dal Tribunale speciale. In quella sede ammise di essere venuto in Italia per uccidere Mussolini. Dopo un processo durato due giorni, fu condannato a morte. Sbardellotto e Bovone furono giudicati insieme e fucilati lo stesso giorno, il 17 giugno 1932, perché ritenuti esponenti di un complotto organizzato dalla Concentrazione democratica antifascista di Parigi, anche se Sbardellotto non aveva attuato alcun atto violento ma espresso solamente l’intenzione di uccidere. Il fatto che fossero legati, sia pure presuntivamente, ai Partiti di opposizione democratica della Concentrazione antifascista di Parigi, li diversifica da quegli attentatori che avevano agito attraverso decisioni improvvise e del tutto individuali nel periodo 19251926 immediatamente successivo al discorso del 3 gennaio. Con la fucilazione di Sbardellotto e Bovone terminò la stagione degli attentati o dei progetti di attentato alla figura del Mussolini uomo e del Mussolini dittatore dell’Italia. Ormai il gioco si era fatto ben più grande, e da allora in poi fu un gioco politico in senso più ampio, con la partecipazione dei partiti organizzati. Ma anche militare, perché fu necessaria una guerra per arrivare a una soluzione. Quella stagione era iniziata con il discorso di Mussolini del 3 gennaio 1925, nel quale, con faconda oratoria e improntitudine degna di miglior causa, si era assunta la piena responsabilità politica, morale, storica di quanto era avvenuto in Italia nei mesi precedenti e specificamente del delitto Matteotti, invitando gli oppositori a tirare fuori il palo e la corda per impiccarlo, nel caso fossero bastate poche frasi per 40


impiccare un uomo. Una vivida ricostruzione di quel discorso fu fatta da Florestano Vancini nel suo film “Il delitto Matteotti” in cui Mussolini era interpretato da Mario Adorf. Mussolini sapeva benissimo che non si era reso colpevole di sole poche frasi, ma la lista dei delitti suoi e dei suoi accoliti era già lunga, a quel 3 gennaio 1925. E lo sapevano bene Zaniboni, Gibson, Lucetti, Zamboni, Schirru, Sbardellotto, Bovone che tutto sommato lo avevano preso in parola e lo avevano condannato a morte nel loro tribunale interno, privo dei mezzi di repressione in mano agli sgherri del regime. Ci provarono e pagarono con il carcere e con la vita. Ma l’esecuzione della condanna a morte del dittatore doveva rivelarsi solo differita, sia pure di vent’anni e quattro mesi, perché portata a termine inesorabilmente dai partigiani a Giulino di Mezzegra il 28 aprile 1945. A quella data, a Matteotti e alle migliaia di socialisti, comunisti, popolari, democratici già fatti fuori dai fascisti dal 1919 al 1925, si erano ormai aggiunti Amendola, Gobetti, Carlo e Nello Rosselli e altre centinaia di migliaia di italiani, spagnoli, etiopi, greci, russi, ucraini, croati, sloveni, ebrei, sacrificati all’orgoglio e alla volontà di potenza di un uomo. Tutto sommato, piace pensare che, almeno per qualche momento di quegli oltre venti anni, anche Mussolini si sia sentito rinchiuso egli stesso nel braccio della morte. Viene in mente il film di Marco Bellocchio “Vincere” in cui si descrivono alcune malvagità del personaggio e se ne prefigura la futura giusta punizione. Viene in mente anche il romanzo di Thomas Mann “Mario e il Mago”, scritto negli anni dei primi attentati a Mussolini e che è vagamente ispirato a quella temperie storica e a quegli episodi. In Versilia, in una estate italiana, durante i primi mesi di potere del fascismo, imperversa il mago Cipolla che inganna e truffa tutti. Il cameriere Mario, indignato, lo uccide. La critica letteraria e storica ha identificato nell’uccisione dell’imbroglione un’eco degli attentati contro il dittatore. 41


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