l'Unità Laburista - La Guerra Mondiale strisciante - Numero 29 del 12 Gennaio 2020

Page 1

Numero 29 del 12 gennaio 2020

La Guerra Mondiale strisciante


Sommario

Libia, l’Italia affonda tra veline e veleni - pag. 3 di Umberto DE GIOVANNANGELI

Immaginate - pag. 9 di Antonella GOLINELLI

Reggio Calabria, la più grande rivolta urbana del dopoguerra - pag. 15 di Giovan Giuseppe MENNELLA

È la gig economy, bellezza! - pag. 22 di Antonella BUCCINI

Diseguali. I diritti da riconquistare - pag. 24 AVALLONE

2

di Aldo


Esteri

Libia, l’Italia affonda tra veline e veleni Umberto DE GIOVANNANGELI

Un vertice per mascherare un fiasco diplomatico. E per dare l’impressione che l’Italia non è fuori dalla partita libica. Impresa alquanto ardua, visto che i player che davvero contano in quella partita stanno ovunque, tranne che a Roma, e a Bruxelles. Comunque, Conte ci prova e nel pomeriggio di giovedì, come anticipato da indiscrezioni governative, incontra a Palazzo Chigi per parlare di Libia Luigi Di Maio, il ministro degli Esteri. A Palazzo Chigi sono anche arrivati Enzo Amendola, ministro dei Rapporti con l'Europa, e il capo delegazione del Pd nel governo Dario Franceschini. "Incontrerò il presidente Conte per fare il punto sulle crisi internazionali e in particolare sulla Libia. Poi vi aggiorneremo", ha detto Di Maio arrivando a Palazzo Chigi. In Libia la priorità è "il cessate il fuoco" ha spiegato Amendo3


la, ricordando che domani sull'argomento "ci sarà un vertice europeo". Abbiamo oltre seimila militari italiani impegnati in tante missioni internazionali e guardiamo con attenzione alle loro condizioni sicurezza, che sono state tutte elevate. In Libia abbiamo un nostro contingente a Misurata che sta facendo un lavoro dentro l'ospedale militare che è gestito dagli italiani. Anche lì il lavoro si svolge in condizioni di sicurezza. Seguiamo con attenzione giorno per giorno, ora per ora, ciò che si determina in quella regione, che e' attraversata da un conflitto importante e che deve vedere da parte nostra massima attenzione per la sicurezza dei nostri soldati", dice a Sky TG24 il ministro della Difesa Lorenzo Guerini. Sul fronte iracheno "siamo impegnati in un'attività di allentamento della tensione. L'Italia ha tenuto questa posizione con tutti gli interlocutori ed è stato uno dei temi oggetto del mio confronto con il ministro della Difesa iracheno, al quale ho chiesto lea sua valutazione in ordine alla situazione in Iraq e ho detto che il nostro impegno passa attraverso la priorità della sicurezza dei nostri militari e dei nostri contingenti", ha spiegato Guerini. Quali garanzie possa dare il ministro di un governo, quello di Baghdad, che fa acqua da tutte le parti, resta un mistero. Così come non può non scattare l’allarme rosso sulla sorte dei 300 soldati italiani dislocati a Misurata, visto che Haftar ha deciso di lanciare nuovi attacchi contro le forze del governo di Tripoli il giorno dopo avere incontrato a Roma il premier italiano. Il leader della “Libya National Army” non tiene conto neppure della richiesta di tregua che Russia e Turchia hanno fatto nel vertice di Istanbul. Oppure, visto che Putin ed Erdogan chiedono che il cessare-il-fuoco scatti a partire da domenica 12, Haftar sta provando a dare gli assalti finali prima della possibile sospensione. Nella notte e all’alba droni al servizio del generale hanno bombardato l’aeroporto di Tripoli, quello cittadino di Mitiga, non facendo gravi danni ma continuando a 4


costringere le autorità della capitale a tenere chiuso lo scalo. Un altro attacco viene rivendicato contro l’aeroporto di Misurata. "I caccia delle forze armate conducono sei raid aerei contro postazioni di gruppi di milizie all'Accademia aerea di Misurata", scrive la pagina Facebook "Divisione informazione di guerra" che informa sulle operazioni della “Libyan National Army”, la milizia di cui Haftar è comandante. Ma anche in questo caso di tratterebbe di un falso: i raid sarebbero meno di 6, e le bombe sarebbero cadute molto lontano dal perimetro dell’aeroporto Il vertice a Palazzo Chigi arriva dopo che Matteo Renzi ha lanciato un duro attacco al governo sulla gestione della crisi libica. "La cosa è inquietante soprattutto per il ruolo strategico che il Mediterraneo ha sempre avuto e sempre avrà nella politica italiana. Non solo per l'immigrazione, non solo per il petrolio, non solo per il business: l’Italia spettatrice e non protagonista nel Mediterraneo è una sconfitta per tutti. La politica estera di un paese si fa con il lavoro quotidiano, durissimo, non con una photo opportunity". ha scritto l'ex premier nella sua enews. Secondo Renzi, "è la politica internazionale a caratterizzare i primi passi di questo nuovo anno. Le tensioni tra Stati uniti e Iran sono molto preoccupanti ma personalmente sono molto più preoccupato per l'atteggiamento turco nel Mediterraneo e in Libia. Nel progressivo disimpegno americano e nel clamoroso silenzio europeo, i soggetti che stanno giocando un ruolo decisivo nell'area sono sempre più Russia e Turchia”. Quanto alle ragioni della figuraccia rimediata ieri, continua il gioco del cerino: mentre alla Farnesina risulta che Sarraj si sia indispettito perché non avvertito della visita di Haftar, a Palazzo Chigi si spiega il caso con il timore del premier libico di incrociare l’avversario. C’è poi chi ipotizza un “errore di protocollo” che avrebbe compiuto il governo italiano e che avrebbe infastidito Sarraj: cioè quello di ricevere prima Haftar, e solo in seguito il leader riconosciuto dall’Onu, cioè Sarraj. 5


Cambiano le versioni, ma resta la sostanza: quella di una figuraccia planetaria. Dovevamo acquisire punti, abbiamo irritato Mosca, riaperto un conflitto con la Francia, disinteressato Washington, perso punti, a Tripoli, a vantaggio di Ankara. Insomma, un capolavoro diplomatico. In negativo. "Conte incontra Haftar e viene ignorato da al-Sarraj, una follia". Così il leader della Lega Matteo Salvini rispondendo alle domande dei giornalisti a Reggio Emilia. Bersaglio preferito di Salvini resta Conte, liquidato così: “E’ un pericoloso incapace, bidonato come un dilettante”. L’opposizione va giù duro. “Il governo delle 4 sinistre non ha una politica estera: è molto grave. Le loro iniziative velleitarie sulla Libia sottolineano ancora di più la nostra impotenza in dossier importanti per la nostra economia e per la nostra sicurezza". Lo scrive il leader di Fi, Silvio Berlusconi, su twitter annunciando una intervista al Tg5 di questa sera. "L'Italia e l'Europa sono completamente fuori dalla partita libica e mediorientale. Bisogna tornare ad essere protagonisti come Europa e come Italia ma per farlo bisogna operare una serie di scelte, innanzitutto occorre trovare una unità all'interno della Ue. Se Italia e Francia, invece di giocare una partita molto particolare in Libia legata ai pozzi di petrolio, avessero trovato una coesione, oggi non ci troveremmo turchi e russi a decidere i destini della Libia. Probabilmente avremmo l'Europa", rilancia Antonio Tajani, vicepresidente di Forza Italia e presidente della Commissione Affari Costituzionali del Parlamento Europeo. "Questo lo dico da tempo, lo dissi anche dopo la mia visita in Libia un anno fa, quando ero presidente del Parlamento europeo, raccogliendo le richieste dei libici che dissero che se noi europei avessimo continuato a litigare avremmo perso qualsiasi possibilità di contare - ha aggiunto -. E così è stato. Ho lanciato tanti appelli perché l'Italia e la Francia rinunciassero ai loro egoismi trovando una posizione unitaria. Non sono stati capa6


ci di farlo. L'Europa è stata completamente assente, anche il lavoro di Borrell ha lasciato molto a desiderare. Non abbiamo visto un Alto rappresentante alla guida di un'Europa che vuole essere protagonista. Per esserlo dovrebbe avere una politica estera unica e uno strumento militare europeo". "Riconosciamo l'importanza dell'incontro a Palazzo Chigi tra Conte e Haftar, che ringraziamo per la decisione di venire a Roma, ma ciò che è successo dopo con Serraj ha dell'assurdo. Per mancanza di esperienza e di capacità, il premier è inciampato in un macroscopico e goffo incidente diplomatico, a quanto pare creato da una mancata osservanza del protocollo, gettando alle ortiche la possibilità di svolgere un ruolo importante nella crisi libica. E' stato uno spettacolo assolutamente degradante". Così intervenendo in Aula il deputato di Cambiamo! Giorgio Silli, componente della Commissione Difesa e del Comitato di Schengen. "Il governo venga a riferire in Aula rispetto alla posizione dell'Italia nel complicatissimo quadro internazionale. Ci piacerebbe sentire anche la posizione del PD che nelle ultime ore è stato il grande assente nel dibattito pubblico a riguardo", ha concluso. Domanda retorica: ma perché in Libia dovrebbero prenderci sul serio? Altro che garanzie che l’uomo forte della Cirenaica ha chiesto a Roma!. Haftar ha fatto presente a Conte che le forze del generale, supportate dai droni degli Emirati, hanno deciso di puntare decisamente su Misurata, dopo Sirte, e a Misurata sono di stanza 300 militari e operatori italiani a difesa dell’ospedale da campo impiantato dall’Italia. Quando si scatenerà l’inferno a Misurata, anche i nostri militari potrebbero essere in pericolo. Non ha più fortuna la missione, parallela a quella di Conte, portata avanti dal ministro degli Esteri Luigi Di Maio, al Cairo, sempre giovedì, per una riunione con Francia, Egitto, Cipro e Grecia. Il responsabile della Farnesina, a sentire il suo 7


staff, si batte per "smussare la dura posizione degli altri Paesi nei confronti di turchi e Sarraj", pronti ad un duro confronto militare contro Haftar. Roma, che chiedeva un documento più morbido forse proprio per non sembrare troppo schierata al fianco del generale, non viene ascoltata. L'Italia, quindi, decide di non firmare la dichiarazione conclusiva della riunione egiziana, considerandola troppo sbilanciata. Di Maio spiega che "non dobbiamo spaccare l'Unione europea", che potrà tentare di parlare con una voce sola al Consiglio dei ministri Ue di venerdì. L'auspicio è che si possa portare avanti il cosiddetto processo di Berlino, che punta ad organizzare una conferenza di pacificazione della Libia. Ma, come ammette lo stesso Di Maio, "non serve solo una conferenza ma anche -e soprattutto. un risultato concreto". Risultato che, al momento, resta ancora un miraggio lontano.I n Libia "ci sono interferenze da parte di Stati esterni" e per questo "dobbiamo trovare una soluzione con l'Ue in modo da fare adottare un embargo sulle armi", rilancia Di Maio da Algeri. La Libia, ha aggiunto, "è un problema di sicurezza nazionale che affrontiamo con tutte le nostre forze. Spingeremo perché si individui il prima possibile una data per la conferenza di Berlino. Dobbiamo mettere tutti gli interlocutori intorno a un tavolo e trovare una soluzione". Tradotto: non esiste neanche una data, quanto agli interlocutori da mettere intorno a un tavolo, chiedere a Putin, Erdogan, al-Sisi e, se non è impegnato in un’altra eliminazione eccellente, a Trump.

8


Politica

Immaginate Antonella GOLINELLI

Immaginate un ampio open space, immaginate lunghe teorie di postazioni di lavoro, immaginate persone di ogni provenienza che lavorano fianco a fianco. Immaginate di volere porgere le proprie congratulazioni alla giovane collega di origine africana che ha ricevuto prima di Natale una altissima onorificenza, Cavaliere dell'Impero Britannico per meriti nell'innovazione tecnologica. Immaginate di parlare con leggerezza coi colleghi degli aggiornamenti della lista MAC (missed after christmas). Immaginate che in quel momento, in quel preciso momento, entri un alto dirigente 9


dell'azienda e annunci che il collega Tal dei Tali era sull'aereo schiantatosi da poche ore a Teheran. Il gelo. In quel momento scende il gelo. Il collega in questione, compagno di banco dell'amante inglese, era andato in Iran per sposarsi. In aereo con lui c'era anche la moglie. Tornavano in Inghilterra per riprendere il lavoro. E sono stati abbattuti. Almeno cosi pare. Certo risulta difficile pensare ad una tale coincidenza. In concomitanza di bombardamenti e allarmi di guerra che un aereo nuovo, o almeno di recente costruzione, revisionato da pochi giorni, arrivi ad 8,000 piedi di altitudine e scompaia. La stampa americana riporta la notizia sia stato abbattuto da uno o due missili. Il bel Trudeau da lo stesso annuncio. Pensate che su quell'aereo, che viene usato per andare a Kiev e partire per le destinazioni, c'erano 63 canadesi, in gran parte studenti. Vedete, emigrazione significa anche questo. Significa prendere su se stessi per andare a farsi una vita, a lavorare con un contratto, in un'altra parte del mondo e trovarsi invischiati in un conflitto, essere vittima di un abbattimento accidentale, almeno pare, nella confusione del momento convulso. Andare a casa a sposarsi coi parenti e restare uccisi in viaggio. Emigrazione significa un posto vuoto, un compagno di banco, che non rientrerà mai piÚ. Una guerra lontana, o un simulacro di guerra, che produce danni ovunque. Anche in posti impensati. Si sono creati tanti di quei legami, tante di quelle relazioni internazionali, è proprio il caso di dirlo, che di riflesso quando accade qualcosa da qualsiasi parte del mondo da Fruges penso a Tizio, Caio e Sempronio. Il pensiero corre 10


a conoscenti e colleghi dell'amante inglese. Immaginate lui cosa può provare. Maledetti.

11


Storia e Politica

Reggio Calabria, la più grande rivolta urbana del dopoguerra Giovan Giuseppe MENNELLA

La Costituzione italiana, entrata in vigore il primo gennaio 1948, previde all’articolo 22, l’istituzione delle Regioni come massima espressione delle autonomie locali. Tuttavia, per la loro effettiva instaurazione con legge ordinaria, fu necessario attendere molti anni. La mancata attuazione con leggi ordinarie riguardò anche molti altri istituti costituzionali, tanto che si parlò, per i primi due decenni della Repubblica, d’inadempienza della Costituzione. Le ragioni furono molte, dalla difficile situazione internazionale con la Guerra fredda in pieno sviluppo, alla relativa debolezza elettorale della sinistra che era stata la principale fautrice degli istituti costituzionali più avanzati, all’intenzione dei partiti centristi al governo di 12


non lasciare troppi spazi al Partito Comunista nelle amministrazioni locali, soprattutto in quelle delle cosiddette regioni rosse, Emilia-Romagna e Toscana e, in parte, Umbria. Tuttavia, dopo il 1968 la situazione politica interna e internazionale divenne più favorevole a una maggiore adempienza a quanto previsto dalla Costituzione, soprattutto all’articolo 22 sull’istituzione delle Regioni. Le sinistre si erano rafforzate nell’opinione pubblica e nelle urne, la situazione internazionale era più tranquilla, essendo ormai alle spalle il periodo più duro della Guerra fredda, i cittadini reclamavano maggiori diritti e maggiore partecipazione alla vita pubblica. In tale situazione, il Parlamento approvò la legge che prevedeva dal 1970 l’istituzione delle Amministrazioni regionali. La riforma fu anche l’occasione per far affluire maggiori risorse economiche in periferia, soprattutto nel Sud. Per quanto riguarda la Calabria, i cittadini e i politici di Reggio Calabria erano convinti che il capoluogo regionale dovesse essere situato nella loro città, come previsto da accordi politici risalenti fino al 1948. Invece, per iniziativa politica dei due uomini di partito più influenti della Calabria, Giacomo Mancini del PSI e Riccardo Misasi della DC, fu deciso che il capoluogo della Regione dovesse essere Catanzaro. A Reggio Calabria la decisione fu appresa con costernazione e sgomento e subito cominciarono le proteste e le manifestazioni popolari. Il 5 luglio il Sindaco Pietro Battaglia, esponente politico della Democrazia Cristiana, tenne un infuocato comizio, alla presenza di migliaia di persone e con la partecipazione dei politici della maggioranza di centrosinistra da cui era formata la Giunta comunale. Tuttavia, era evidente la contraddizione insita in quella giunta cittadina, in quanto espressione di una maggioranza di centrosinistra alla quale appartenevano, a livello nazionale e locale, sia Mancini che Misasi, le stesse persone che avevano deciso per il capo13


luogo a Catanzaro. Conseguenza di questa contraddizione fu la grande e spontanea sollevazione dei cittadini contro i partiti istituzionali, in primis quelli della maggioranza di centrosinistra. Il 13 luglio si svolse a Catanzaro la prima riunione del Consiglio Regionale, ma senza la presenza dei consiglieri regionali eletti a Reggio, salvo quelli del Partito Socialista e del Partito Comunista. Il giorno successivo, 14 luglio, anniversario della presa della Bastiglia e dell’inizio della Rivoluzione in Francia, si svolse a Reggio una grande manifestazione di protesta, all’insegna di un forte campanilismo contro Catanzaro, poiché gli abitanti della città dello stretto si sentivano defraudati non solo del primato regionale come fattore di prestigio, ma soprattutto dell’arrivo delle sperate risorse economiche che sarebbero affluite con la designazione di Reggio a capoluogo regionale. Le polemiche e le proteste erano iniziate fin dall’anno precedente, come le discussioni e le manovre politiche sulla designazione del capoluogo regionale. E fin dal marzo del 1969 era nato il primo comitato popolare di pressione e di agitazione. Il sindaco DC Battaglia prese subito posizione a favore del comitato perché capì che la protesta si andava caratterizzando come trasversale, contro tutti i partiti e, quindi, opporvisi poteva significare alienare al sistema partitico in città l’appoggio della popolazione. Nel prosieguo della vicenda però Battaglia uscì di scena, in quanto non aderì alla fase della rivolta dura ma fu ugualmente abbandonato dalla DC. In quel periodo il PCI era in difficoltà nel Sud perché era abituato a lavorare politicamente più a favore delle masse contadine, o al massimo per l’unione politica tra campagna e città. Era meno preparato a gestire interessi e aspirazioni delle fasce di popolazione che, durante tutti gli anni ’50 e ’60, avevano abbandonato le campagne e si erano trasferite nelle città. Queste ultime avevano visto accrescere di molto 14


la loro popolazione. Nella realtà urbana quei ceti diventarono meno sensibili alla presa del partito in quanto attratti dagli impieghi nel terziario e nella pubblica amministrazione, con il conseguente pericolo di cedimento alle politiche clientelari messe in atto dai partiti di governo. Contemporaneamente, nelle aree urbane del Sud andò aumentando la forza del Movimento Sociale italiano, anche grazie all’influenza che i neofascisti riuscirono ad acquistare sul mondo studentesco, in particolare sui gruppi organizzati degli studenti universitari. Quel 14 luglio del 1970 si svolse quindi la prima convinta, massiccia manifestazione di piazza degli abitanti di Reggio Calabria contro la designazione di Catanzaro a capoluogo regionale. Al principio tutto si svolse senza incidenti, poi alcuni giovani più combattivi e decisi si staccarono dal corteo e si diressero alcuni verso la stazione ferroviaria, dove occuparono i binari, altri verso la Prefettura. Immediatamente, la polizia reagì caricando i dimostranti con estrema violenza. Molti furono picchiati duramente. Fu quell’improvvisa violenza esercitata dalla polizia che probabilmente fece degenerare la manifestazione trasformandola in aperta rivolta. Durante l’assalto della folla alla sede del Partito socialista, ci fu la prima vittima, il ferroviere Bruno Labate, un iscritto della CGIL. Il 18 luglio si celebrarono i funerali di Labate, durante i quali si registrò la solidarietà con i dimostranti del mondo cattolico, con alla testa il vescovo che officiò la funzione religiosa. A fine luglio entrò in azione quello che doveva diventare il principale animatore della rivolta dura, il sindacalista della CISNAL Ciccio Franco. Il 28 luglio il Comitato ufficiale di agitazione rifiutò di proclamare lo sciopero generale previsto per il giorno successivo. Si disse che la decisione fu influenzata da forti minacce pervenute al Comitato dalle autorità di pubblica sicurezza. In ogni caso, quell’episodio 15


fu decisivo perché Ciccio Franco, uomo deciso, senza scrupoli, populista di destra, prendesse in mano la situazione, indirizzando da quel momento la lotta verso forme più violente. Il Partito comunista e quello socialista presero le distanze dalla radicalizzazione del confronto che si andava minacciando. Come detto, i partiti di sinistra erano politicamente in difficoltà anche prima di quell’emergenza e non vollero prendere posizioni troppo decise, denotando un interesse non particolarmente vivo alla comprensione delle ragioni del malessere dei reggini. Non così i nascenti gruppi politici extraparlamentari di sinistra, che mostrarono un interesse più marcato per le motivazioni alla base dell’agitazione. Per esempio, Lotta Continua seguì con interesse la rivolta e lo stesso Adriano Sofri scese immediatamente a Reggio Calabria per studiare da vicino l’emergenza. Anche alcuni esponenti di gruppi di sinistra extraparlamentare si recarono a Reggio per partecipare alle manifestazioni, come il Movimento studentesco milanese, Servire il popolo e gli anarchici. Non si sarebbe mai più vista in Italia una rivolta spontanea non collocata nella geografia sociale della sinistra e comunque fuori da tutti gli schemi politici e partitici cui si era abituati. I dimostranti erano giovani, come lo erano stati i sessantottini, armati di pietre, decisi a battersi. Il 47% dei partecipanti agli scontri furono giovani sotto i venticinque anni, molto urbanizzati, che vedevano lo sbocco nel settore pubblico come unica possibilità lavorativa e quindi erano particolarmente preoccupati e arrabbiati all’eventualità della perdita di opportunità che avrebbe provocato la fissazione del capoluogo regionale, con tutti gli uffici e le sedi istituzionali, a Catanzaro. Partendo da questi presupposti, Adriano Sofri andò subito a Reggio perché capì che, in quella particolare realtà, i giovani si stavano mobilitando per la prima volta a destra. 16


Nell’ottobre del 1969, secondo le dichiarazioni di un pentito, Stefano Sesta, ci sarebbe stato in Aspromonte un summit tra la cosca della ‘Ndrangheta dei De Stefano e alcuni importanti esponenti della destra eversiva, Concutelli, Delle Chiaie, Junio Valerio Borghese, in cui si realizzò un patto per favorire la scelta di Reggio come capoluogo. Quindi, anche la criminalità organizzata e la destra eversiva nazionale non sarebbero state estranee alla rivolta. Tuttavia, questa ipotesi non è stata mai provata giudiziariamente. Tuttavia, i reggini che si mobilitarono per le proteste e gli scontri non furono solo tutti giovani e tutti di destra, ma ci fu una partecipazione popolare ampia. Il primo comitato di lotta, quello ufficiale, guidato dal sindaco Battaglia, scelse atteggiamenti pacifici e mantenne buoni rapporti con i partiti nazionali di Roma. Però in seguito prese il sopravvento il Comitato spontaneo guidato da Ciccio Franco. La rivolta durò, con intervalli di calma, alcuni mesi. Durante quel periodo la popolazione soffrì notevoli disagi, per quanto riguarda gli approvvigionamenti di cibo, la circolazione urbana, l’interruzione dei collegamenti tra le varie zone della città. Tuttavia, i sacrifici furono accettati di buon grado da tutti gli abitanti, anche da quelli che non parteciparono direttamente alla lotta, e non ci furono mai furti e saccheggi incontrollati. Tutta la città fu unita e comunque molti reggini testimoniarono che la rivolta non avrebbe attecchito se il 14 luglio la forza pubblica non fosse intervenuta con inaudita violenza a reprimere la manifestazione davanti alla Prefettura e alla stazione ferroviaria. Non fu accettata dalla cittadinanza la modalità violenta e poco professionale dell’azione della polizia, quasi che i reggini tutti volessero rivalersi per una questione di principio contro chi li aveva trattati malissimo senza che ve ne fosse una stretta necessità. Quello della poca professionalità delle forze dell’ordine si evidenziò come un problema serio proprio in quel periodo storico. Negli anni ’60 le forze dell’ordine non 17


erano ancora professionalmente preparate a fronteggiare i manifestanti di piazza e tendevano a esagerare nella repressione. Quando nelle strade comparvero le barricate, fu necessario l’intervento dell’esercito per rimuoverle. Gli scontri si susseguirono, a singhiozzo, per tutta l’estate del 1970, con intervalli di calma apparente, tanto che i telegiornali della televisione pubblica posero l’accento sui periodi di calma, parlando degli scontri sempre al passato. La violenza si intensificò il 14 settembre, dopo un altro sciopero generale. Furono appiccati anche incendi e si registrò la seconda vittima, l’autista del trasporto urbano Angelo Campanella. La folla tentò di incendiare la Prefettura e fu ricondotta alla calma solo dall’accorato intervento dell’Arcivescovo. Un aspetto curioso della vicenda fu che, nel periodo più caldo della rivolta, i due quartieri popolari di Sbarre e Santa Caterina si proclamarono repubbliche indipendenti, impedendo sempre alla polizia di penetrarvi. La fase violenta della rivolta durò da luglio a ottobre e nel periodo si registrarono 26 feriti, 5 morti, innumerevoli scontri, 300 persone arrestate e 450 denunciate. Il Governo nazionale apparve sempre lontano, come disinteressato, reagendo solo con la repressione del braccio armato della polizia e dell’esercito. Finalmente, nell’ottobre del 1970, il Presidente del Consiglio Emilio Colombo pronunciò un discorso di carattere conciliante, promettendo contestualmente posti di lavoro per il meridione e per l’area di Reggio in particolare, il cosiddetto “pacchetto Colombo”. Il fronte dei rivoltosi si spaccò perché il comitato di lotta più moderato accettò sostanzialmente la proposta e le offerte di lavoro del premier. Il pacchetto previde che il capoluogo di regione rimanesse a Catanzaro, ma che a Reggio fosse assegnata la sede del Consiglio regionale. Furono previsti 30.000 posti di lavoro a livello nazionale, di cui 15.000 per la Calabria, la maggior parte per Reggio. I posti di lavoro dovevano riguardare i settori della chimica, della siderur18


gia, del turismo, dei servizi. In particolare Reggio fu designata come sede del V Centro siderurgico nazionale, che però non vide mai la luce per via della grave crisi che attraversò il settore produttivo dell’acciaio. Il 23 febbraio del 1971 reparti dell’esercito entrarono in città con mezzi cingolati per sgomberare le barricate e sedare gli ultimi scontri. Nel maggio del 1972 si svolsero le elezioni politiche e a Reggio Calabria il Movimento sociale italiano ottenne il 36% dei voti. Il capo della rivolta dura Ciccio Franco fu eletto senatore nella lista neofascista, ottenendo il premio alla sua capacità di improvvisarsi forte capo populista. In quel 1972, il 22ottobre, i sindacati nazionali tennero a Reggio una grande manifestazione sindacale e politica, a sostegno delle richieste della città e in funzione antifascista, cui parteciparono moltissimi militanti di base della sinistra provenienti da altre regioni. Le Organizzazioni sindacali CGIL, CISL e UIL si erano da poco unite e scelsero Reggio per favorire uno scatto della politica a favore del Sud. Ma i reggini accolsero la manifestazione con malcelata freddezza, ai confini dell’ostilità, quasi che assistessero a una tardiva calata coloniale da Roma, particolarmente sgradita. La cantautrice folk Giovanna Marini compose una famosa canzone sul lungo viaggio dei militanti dei sindacati e dei partiti di sinistra per giungere in Calabria da varie parti d’Italia. In effetti, anche l’offerta del pacchetto Colombo era arrivata tardi, quasi fuori tempo massimo. Avrebbe potuto avere un successo politico se fosse stata decisa prima, ma ormai l’insoddisfazione dei reggini e le violenze consumate, da una parte e dall’altra, avevano scavato un solco tra le parti. Inoltre, la repentina disillusione sul V centro siderurgico inasprì la situazione, mostrando i difetti e le crepe del modello di sviluppo italiano, soprattutto per quanto riguarda la peculiare situazione economico-sociale del Mezzogiorno. 19


Qualcuno disse che quelle del pacchetto furono comunque misure economiche e investimenti sbagliati, però, se il Governo avesse elargito in tempo utile alcune provvidenze economico-sociali e non solo repressione, la situazione non sarebbe degenerata e i neofascisti non avrebbero acquisito tutto quel credito morale ed elettorale in città e nella provincia. Anche le sinistre politiche nazionali si dimostrarono in ritardo sui tempi e la loro azione fu inefficace e sbagliata. La manifestazione unitaria a sostegno della città e delle richieste della popolazione reggina fu decisa tardi, anche se si poteva trovare una giustificazione del ritardo nell’ancora troppo recente unificazione sindacale. L’iniziativa fu soprattutto della CGIL che però si era tenuta essa stessa per troppo tempo lontana da Reggio. Le iniziative unitarie dei Sindacato ebbero un buon successo in tutto il Mezzogiorno, ma non a Reggio Calabria, per la situazione sociale inasprita dalla rivolta. Il popolo reggino, 150.00 abitanti, fu unito nel malcontento, nell’umiliazione, nella rivolta, e i portavoce più seguiti furono i fascisti, per via della lontananza dei partiti nazionali e della sinistra. Il paradosso fu che la più grande rivolta urbana dell’Italia repubblicana si accese sotto la guida politica della destra. Certo, non tutti i reggini erano di destra, ma chi ebbe l’abilità di porsi come guida politica fu la destra, e il personaggio più rilevante fu Ciccio Franco, che assunse la statura di capopopolo capace di scendere violentemente in piazza e di farsi seguire dalla folla. Infine, la sentenza del giudice Guido Salvini sull’eversione nera negli anni ’70 sottolineò che era fortemente sospetta, ma rimaneva avvolta nel mistero, la morte in un incidente automobilistico presso Ferentino di una militante anarchica tedesca, Annalise Borth, e di altri suoi quattro amici. Secondo alcune controinchieste degli anarchici, i cinque stavano portando delle prove al giornale Umanità Nova sul coinvolgimento dei fascisti nel deragliamento nel luglio 1970 del treno Freccia del 20


Sud a Palmi Calabro, con sei morti. Sempre secondo le controinchieste anarchiche, mai suffragate da prove in giudizio, i due camionisti responsabili dell’incidente sarebbero stati dipendenti di una ditta facente capo al principe nero Junio Valerio Borghese.

21


Cinema e Politica

È la gig economy, bellezza! Antonella BUCCINI

“Qui non lavori per noi, lavori con noi” è ciò che dice, con compiaciuta gravità, il titolare di una ditta di consegne per le multinazionali a Rick, uno degli splendidi personaggi del film Sorry, we missed you di Ken Loach. E Rick gli crede. Gli crede rincorrendo il sogno di un lavoro autonomo e l’affrancazione dai debiti. Deve acquistare il furgone e per questo vende l’auto che Abby, la moglie, usa per svolgere il suo lavoro di badante a cottimo per anziani non autosufficienti. Rick entra dunque nel tunnel. Sfruttato e senza tutele attraversa l’inferno delle sue giornate senza orari, controllato da una scatola nera che segna pause e percorsi, costretto a orinare in una bottiglietta per stringere i tempi. La moglie Abby corre da una parte all’altra della città con i mezzi pubblici per arrivare in orario dai suoi assistiti e 22


tratta ognuno “come se fosse mia madre”. Anche ad Abby nessuno sconto né le pagano il lavoro extra che svolge con generosa compassione. Seb, il figlio adolescente, tra incursioni con la sua gang di writers sui muri della città, non risparmia provocazioni alla famiglia alle quali assiste angosciata Liza, l’altra figlia 11enne. La dolorosa rinuncia alla dignità e al controllo sulla propria vita trascina inevitabilmente tutta la famiglia, seppure unita, su un crinale di insostenibile disperazione che Rick cerca di negare fino alla fine nel penoso tentativo di non infrangere il suo sogno. Un pugno nello stomaco, è questa la prima e comune impressione alla fine del film. Scevro da ogni retorica il regista sembra intenzionato a scrollarci per il bavero come a provocare uno scatto rappresentando senza riserve la liturgia del mercato, dei consumi, dello sfruttamento e ci offre allora una chiave di lettura della disperazione che toglie il fiato e del perché possa tradursi in rabbia e insofferenza senza più distinguo nell’ affannosa ricerca di una forma di riscatto. Alla fine se i più fortunati sono i consumatori dei loro beni feticci mentre gli altri restano stritolati dal neo schiavismo tecnologico, tutti siamo agnelli sacrificali sull’altare del dio liberismo, ognuno sulla scena nella sua parte.

23


Politica

Diseguali. I diritti da riconquistare Aldo AVALLONE

In una recente intervista al Corriere della Sera, Roberto Speranza ha riportato al centro del dibattito politico il tema dei diritti sul lavoro. «L’idea che comprimere i diritti dei lavoratori aiuti il Paese a crescere è sbagliata» – ha affermato chiaramen24


te il ministro della Salute. Servirà una profonda revisione del jobs act e sarebbe necessario anche il ripristino dell’art. 18. Per far ripartite l’Italia, il tema del lavoro dovrà essere centrale nell’azione di governo e per contrastare le diseguaglianze occorrono più diritti, non certamente meno. Si tratta di una presa di posizione forte che ribalta totalmente la visione miope degli ultimi governi, anche a guida PD, che sulla questione si sono mossi sempre sulla strada di una deregulation che si è rivelata inefficace nel creare nuova occupazione stabile mentre ha peggiorato nettamente le condizioni dei lavoratori. Anche le battaglie per evitare la delocalizzazione all’estero dei centri di produzione non sono che battaglie di retroguardia; il lavoro ha perso il significato valoriale, che ha sempre avuto, di dignità e di crescita personale e collettiva per diventare solo “fatica” per la sopravvivenza. Le parole di Speranza hanno trovato una sponda importante nelle dichiarazioni del segretario generale della CGIL, Maurizio Landini, che ha auspicato per il 2020 la conquista di un nuovo Statuto dei lavoratori che riaffermi un principio fondamentale: che qualsiasi persona che lavora, con qualsiasi rapporto di lavoro, debba avere gli stessi diritti e le stesse tutele. Parole importanti che vanno nella direzione giusta ma che richiedono un necessario approfondimento che dovrà prendere in esame i profondi mutamenti che sono avvenuti, e che avverranno nei prossimi anni, nel mondo del lavoro per governare i processi e non soltanto subirli. Mi è capitato di leggere, qualche tempo fa, un interessante libro che affronta in maniera chiara ed esauriente il tema. Si tratta di “Diseguali, il lato oscuro del lavoro” di Ernesto Paolozzi, docente di Storia della Filosofia Contemporanea presso la Federico II di Napoli,

e Luigi Vicinanza, noto giornalista già direttore de

“L’Espresso” e collaboratore di numerose testate italiane. La lotta di classe non è morta, ma oggi sono i ricchi che la conducono contro i poveri e la stanno vincendo. 25


Non ricordo se le parole degli autori siano esattamente quelle che ho riportato, ma il saggio si apre con quest’allarmante appello. I diritti sociali conquistati dai lavoratori nel Novecento attraverso sacrifici e dure lotte, in questi ultimi anni hanno visto una decisa compressione. La rabbia sociale delle classi disagiate non è più indirizzata verso quelle privilegiate ma verso i più deboli. Si tratta di un ribaltamento drammatico. La società del terzo millennio è caratterizzata da una immobilità disarmante: i poveri sono sempre più poveri mentre i ricchi sempre più ricchi. E la ricchezza si accumula sempre più nelle mani di pochi. In questa povertà diffusa, che ormai ha colpito anche la classe media, l’uomo contemporaneo non trova altro che solitudine, humus perfetto per chi sfrutta il disagio a fini di consenso elettorale. Siamo di fronte a una evidente crisi di democrazia che si lega alla crisi del lavoro, come è stato finora inteso. Le nuove generazioni che si affacciano al mercato del lavoro non trovano che precarietà e l’assenza di diritti non fa altro che aumentare l’incertezza e l’ansia che provano per un futuro che, al momento, appare tinto di nero. Lo sviluppo dell’automazione e dell’intelligenza artificiale indica un percorso che porterà nel giro di qualche anno alla scomparsa di gran parte delle tradizionali figure lavorative. La prospettiva della piena occupazione, mito che aveva caratterizzato nel mondo occidentale la fine del secolo scorso appare tramontato definitivamente. La globalizzazione ha aperto nuovi mercati ma ha anche reso difficile ai singoli Stati l’imposizione fiscale nei confronti delle grandi multinazionali che ricavano enormi profitti pagando tasse irrisorie. Le soluzioni non sono semplici. Occorre ribaltare completamente l’approccio e andare in direzione opposta a quella seguita finora. Serve investire in istruzione e cultura perché, come vediamo ogni giorno, senza cultura la democrazia rappresentativa è solo un’utopia. Le fake news imperversano, la Rete non è più strumento di libertà ma mezzo di manipolazione delle coscienze. Solo la cultura potrà riportare 26


al centro della vita sociale quel discorso etico che è andato perso in nome del profitto. “Lavorare meno per lavorare tutti”, era uno degli slogan del ’68. E’ ritornato quanto mai attuale in questi anni. Illuminante, il tal senso, il famoso saggio di Jeremy Rifkin “La fine del lavoro, il declino della forza lavoro globale e l'avvento dell'era post-mercato”. Percorrere questa strada può e deve essere una delle possibili opzioni. Già nel 2017, Bill Gates, il fondatore di Microsoft, ipotizzava un’imposizione fiscale sui robot che “rubano” il lavoro agli uomini. Più recentemente anche il filosofo francese Edgar Morin si è espresso sulle stesse posizioni. Altra scelta non facile ma certamente da approfondire. Occorre trovare nuove modalità per ridistribuire la ricchezza e ciò non potrà avvenire che attraverso le scelte operate dalla politica, una politica forte, che abbia finalmente una prospettiva strategica al servizio dei cittadini e non bloccata esclusivamente sulla gestione del potere. Per questo le parole di Roberto Speranza sono importanti. Indicano una strada che dovremo iniziare a percorrere insieme se vogliamo provare a uscire dal pantano in cui siamo tutti caduti.

27


Testata online aperiodica Proprietà: Comitato per l’Unità Laburista, Strada Sesia 39 14100 Asti (AT) Direttore Responsabile: Aldo Avallone - Stampatore: www.issuu.com web: www.issuu.com/lunitalaburista - mail: lunitalaburista@gmail.com - Tel. +39.347.3612172 Palo Alto, CA (USA), 12 gennaio 2020 28


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.