€ 2,50
bm Editore - Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in legge 27/02/2004 n.46) art.1, comma 1, NE/UD editore-ISSN2384-8189
MIA 26 magazine ANNO 2021
SAPORI TURISMO SPORT BENESSERE
UNICO TRIMESTRALE DI LIFESTYLE E CULTURA DEL TERRITORIO DEL FRIULI VENEZIA GIULIA
Via Cavour, 17/A - 33100 Udine T. 0432 299228 - info@reginadisaba.it
Ph: Alina Brag
Corso Mazzini, 49 - 33043 Cividale del Friuli Tel. +39 0432 731076 boccoliniconfezioni@libero.it www.abbigliamentoboccolini.com
MIA MAGAZINE
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EDITORIALE
EDITORIALE MIA Magazine n.26 A cura del Direttore Editoriale
Siamo arrivati al numero autunnale della nostra rivista, il terzo ormai della nuova MIA Magazine, con un bilancio decisamente positivo! I riscontri da parte dei nostri lettori sono ottimi e abbiamo, pertanto, lavorato sodo, per consegnarvi un altro prodotto all’altezza dei precedenti. MIA Magazine è uscita ormai tre mesi fa con il suo precedente numero e, in quell’occasione, abbiamo parlato della nostra regione e di alcune sue peculiarità che potevano essere fruibili sia nella stagione estiva che in quella invernale. In questo nuovo numero, di fatto, ci troviamo a fare la stessa cosa perché una regione come la nostra, fortunatamente, consente di essere vissuta appieno in tutte quante le stagioni. Ce n’è veramente per tutti i gusti! Anche per questo numero abbiamo ricercato persone, luoghi, storie e sapori che potessero far conoscere a tutti i lettori, chiunque voi siate, quali sono tutte quelle piccole cose che messe assieme ci rendono estremamente orgogliosi della nostra terra, della nostra storia e della qualità di ciò che stiamo creando. Abbiamo notato, come tutti, che nella stagione estiva appena conclusa molte persone hanno scelto di rimanere in regione anche per le ferie e speriamo che questo possa avvenire anche nel prossimo inverno. Per scelta, si intende, non per obbligo dovuto ad eventuali restrizioni. Sì, proprio così, perché ci piace l’idea che possiamo essere turisti, e stupirci, anche in luoghi che sono così vicini a noi e che magari abbiamo sfiorato soltanto nella nostra vita. Lo stesso augurio vale per la scoperta di realtà e persone, ognuna con la propria storia, che magari incrociamo nella nostra quotidianità, non conoscendone la storia. Abbiamo voluto coinvolgere dei nuovi redattori per parlare di nuovi argomenti e siamo entrati nella casa di Giorgio Riva per un invito a pranzo davvero speciale. Abbiamo parlato di disabilità e inclusivitá, con due articoli che parlano di design funzionale e di sport, con l’intervista ad Antonio Squizzato, velista paralimpico friulano. Continuiamo, inoltre, a parlare di imprenditoria al femminile con le sue diverse sfaccettature, e di artigianato. La moda, con uno shooting nella magica atmosfera di Borgo
Garzolini di Caminetto di Buttrio, resta uno dei temi che da sempre caratterizzano MIA Magazine. Una bellissima intervista allo scrittore Fawad e Raufi, in cui si parla di abiti tradizionali friulani e afghani, diventa lo spazio ideale per delle riflessioni molto profonde su una cultura che non conosciamo e che, specialmente alla luce degli ultimi eventi, ci é molto difficile da comprendere. Siamo inoltre andati in montagna, nella zona delle Alpi Giulie, dove Jessica Zufferli ha testato e recensito una struttura ricettiva e dove Melania Lunazzi ha cercato di raccontare lo spirito di quelle montagne intervistando Nives Meroi e Romano Benet e percorrendo alcuni sentieri dell’autentica Val Resia. La parte relativa al turismo viene sviluppata anche da Sabrina Pellizon, guida naturalistica ed escursionistica, che ci porta alla scoperta del colle di Oslavia, luogo sconosciuto ai più ma di grande potenza emotiva e paesaggistica. Uno spazio viene inoltre dedicato a Marta Bevilacqua, rappresentante di una delle compagine di danza più conosciute della regione, e alla dott.ssa Mariarosaria Valente, che sta approfondendo il tema della nutrizione come supporto ai farmaci in alcune malattie neurologiche. E poi la nostra rubrica sui talenti emergenti, giovani sotto i trent’anni che hanno fatto delle scelte importanti, perché anche dai più giovani si può imparare molto! Non mancano i focus su teatro, musica, lettura, lo spazio dedicato ai lettori più piccini e, a questi argomenti, si va ora ad aggiungere l’intervento relativo alla psicologia. E così tra le pagine scorrono immagini, racconti, pensieri, idee… Siamo orgogliosi di quello che siamo riusciti a portare alla vostra attenzione, perché ė frutto di una attenta ricerca svolta da tutto il nostro team e della passione che i redattori mettono a vostra disposizione. Crediamo che MIA Magazine sia una rivista che può rappresentare la nostra regione e i suoi abitanti, anche nei luoghi dove essa non é conosciuta, diventando una vetrina interattiva, una guida o anche, semplicemente, una piacevole lettura. 7
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MIA magazine 26
Sommario
Autunno 2021
DONNA PER ESSERE AVANTI BISOGNA SAPER GUARDARE INDIETRO di Martina Corrubolo
12
LA BELLEZZA, DA SOLA, NON BASTA di Samia Laoumri
16
UOMO GUARDARE AL FUTURO SENZA TAGLIARE CON IL PASSATO di Cristian Cecchini
18
MODA LA GRANDE ABBUFFATA: MODA, CIBO E...DIVERTIMENTO! di Manlio Boccolini
20
IL CERVO E L’AQUILA GUARDANO LA STESSA LUNA di Manlio Boccolini
22
COLORI D’AUTUNNO A BORGO GARZOLINI foto Carlotta Di Franco e Massimo Crivellari Abbigliamento Atelier Apostrophe
ARTE & DESIGN UN FUTURO ACCESSIBILE E INCLUSIVO di Alessandra Spangaro
8
SHOOTING
40
26
TURISMO IL COLLE DI OSLAVIA di Sabrina Pellizon
42
RISONANZE MILLENARIE TRA NATURA E STORIA di Jessica Zufferli
46
A TAVOLA A CASA MIA
TALENTI EMERGENTI
DIVAGAZIONI E DEGUSTAZIONI di Giorgio C. Riva Foto di Matthias Parillaud
VITA E SCELTE CORAGGIOSE DI UN GIOVANE IMPRENDITORE a cura della redazione
50
78
BAMBINI #LAGIRAFFALEGGE di La Giraffa con gli Occhiali
80
FOCUS ON PSICOLOGIA - LA CREAZIONE DI UN SOGNO della dott.ssa Francesca Colacino
SPORT MARTA BEVILACQUA LA FILOSOFIA DELLA DANZA di Alessandra Spangaro
58
ANTONIO SQUIZZATO di Gloria Buccino
60
82
MUSICA - IL SOUND DI LOS ANGELES A GORIZIA di Flavio Zanuttini
83
TEATRO - L’ATLETA DEL CUORE di Aida Talliente
84
IN LIBRERIA - I CONSIGLI DEL LIBRAIO di Giovanni Tomai - Libreria Tarantola
85
CONTRIBUTI
88
MONTAGNA NIVES E ROMANO: GIÙ LE MANI DALLE GIULIE di Melania Lunazzi
64
PICCOLO VIAGGIO IN VAL RESIA di Melania Lunazzi
70
SALUTE NUTRIRSI COSCIENZIOSAMENTE INTERVISTA ALLA DOTT.SSA VALENTE di Veronica Balutto
74
9
Foto: Jessica Zufferli
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Siamo in autunno e la stagione calda volge al termine, aprendo le porte ad un ottimo periodo per lavorare sul corpo e sugli inestetismi più importanti e lungimiranti. Con Arianna ci eravamo incontrate all’inizio dell’estate e avevamo parlato del suo approccio e di come stesse lavorando costantemente al suo metodo. Ci ritroviamo ora a parlare di come il suo metodo e i suoi prodotti cosmetici vengano abbinati alle nuove tecnologie dell’estetica rigenerativa. Parliamo principalmente del viso, in questo caso. Quali sono i trattamenti viso che proponi e come li associ al tuo metodo Endlessface? Per il metodo Endlessface, da me pensato, studiato in laboratorio con attenti test clinici e dedicato appunto al trattamento del viso. Abbinate a questo metodo ci sono varie tecnologie che possiamo utilizzare, sempre sulla base di una consulenza preliminare con il cliente, per capire le sue necessità ed esigenze. L’ultima tra queste tecnologie è Biogenia®, una tecnologia brevettata in grado di riattivare gli scambi ionici a livello delle membrane cellulari. Quindi, di fatto, uso il mio prodotto cosmetico del metodo Endlessface, prodotto che conosco molto bene perchè l’ho letteralmente fatto io, e una tecnologia che emette campi elettromagnetici a bassa frequenza. Quindi che cos’è l’estetica rigenereativa e in che occasioni vi si fa ricorso? L’estetica rigenerativa è rivolta ad una clientela attenta alla salute e al benessere, che non ha problematiche di rilievo chirurgico e che vuole curare degli inestetismi come smagliature, rughe, macchie, discromie e altri segni del tempo, come anche la cellulite. L’azione combinata di un buon e adeguato prodotto cosmetico e della tecnologia Biogenia® hanno dato risultati sorprendenti! Sempre, non mi stancherò di dirlo, se utilizzate da un professionista ed esperto competente che ha fornito la giusta valutazione e risposta alla problematica specifica del cliente. Si tratta di un trattamento estetico, per cui associato ad una idea di benessere più ampia in cui il trattamento dev’essere considerato una coccola, un momento dedicato a prendersi cura di sè. 10
Quali sono i risultati che il cliente si deve aspettare e quali sono i dati della comprovata efficacia? L’estetica rigenerativa ha riscosso immediata credibilità in ambito scientifico perchè soddisfa quattro requisiti fondamentali: 1. La neo-collagenogenesi di tipo III, ovvero la rigenerazione di cellule e il recupero del 100% dell’elasticità dei tessuti trattati. 2. Certificazione dei risultati da parte dei tecnici dell’Università di Pisa e da altri studi in ambito clinico su 2043 clienti, attraverso biopsie di tessuto su persone in vita ed ecografie. 3. Stabilizzazione dei risultati. Non è infatti facile trovare soluzioni durature, sul mercato. Noi sappiamo che offriamo un risultato che migliora nell’arco dei 4/6 mesi successivi alla fine del programma e con risultati stabili fino a cinque anni. 4. Risultati e campi d’azione. Agiamo a livello cellulare ed è per questo che possiamo trattare sia viso che corpo, agendo su una vasta serie di problematiche e fenomeni legati ad infiammazioni croniche. Che cosa ti senti di consigliare quindi ai tuoi clienti che vogliono iniziare un trattamento con questo metodo? Consiglio loro di essere esigenti e di essere consapevoli che stiamo offrendo loro un trattamento duraturo e di qualità, studiato appositamente ad hoc per loro. Per il viso, soprattutto, il punto dove i segni del tempo si vedono sempre per primi, consiglio di iniziare a prevenire i segni dell’invecchiamento, contrastare i processi ossidativi della pelle e pertanto affidarsi ad un professionista preparato e di fiducia. Specialmente a fine estate la pelle del viso risulta spenta, secca, presenta spesso delle macchie e delle discromie e l’autunno è un buon momento per iniziare un percorso di cura e prevenzione. Ricordo sempre ai miei clienti che l’invecchiamento inizia dopo i venticinque anni e lo scopo non è “non invecchiare”, ma invecchiare bene e in modo sano e consapevole, rallentando alcuni processi e mantenendo la nostra pelle in salute.
Via Alcide de Gasperi 2/b 33044 - Manzano (Ud) T. 0432 751057 Via Giacomo Matteotti 30 34071 - Cormons (Go) T. 0481 62484 www.ariannabeautycenter.it 11
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PER ESSERE AVANTI BISOGNA SAPER GUARDARE INDIETRO Le imprenditrici friulane, la femminilità e la loro carriera
Ambra Tilatti e Martina Sostero, artigiana la prima e stilista la seconda, raccontano la moda in FVG al giorno d’oggi Intervista a cura di Martina Corrubolo - foto di Ilaria Taschini Photography e Ambra Tilatti Ambra Tilatti - Adelaide 1931
Il tempo che stiamo vivendo in questi due anni è strano: dilatato, lento, incostante. Si è reso necessario rallentare e, a volte, fermarsi a riflettere; per tanti di noi non è stata cosa semplice ma per qualcuno questa interiorizzazione è stata più che produttiva: una molla che ha fatto scattare qualcosa, una piccola luce che è diventata fuoco. Forse non siamo più soddisfatti di quello che siamo o facciamo, o forse non ci rappresenta più e da qui un coraggio prodigioso: niente può seppellire nuove idee, sogni o nuovi progetti e, in fondo, a rischiare di essere felici, non c’è nulla da perdere. Proprio di coraggio parlano queste due storie che voglio raccontare oggi. Abbiamo avuto il piacere di conoscere già nello scorso numero molte realtà friulane che lavorano per grandi brand del mondo della moda ma oggi incontro due realtà che la moda la dettano a gran voce anche dalla nostra regione. Ambra Tilatti e Martina Sostero, giovani neo-imprenditrici 12
Martina Sostero - Pistil
friulane, si raccontano a Mia Magazine per presentarci i loro Brand: ADELAIDE1931 e PISTIL. Il settore è l’abbigliamento: creatività e sostenibilità sono due dei valori che accomunano queste due ragazze, che producono a km0 e con tessuti di recupero. Entrambe hanno creduto nelle loro idee tanto da nutrirle giorno per giorno fino a farle diventare un progetto efficace. Due stili diversi: uno più minimale e lineare, l’altro più morbido e sofisticato. Ambra è già sul mercato dal 2020 mentre Martina ha lanciato la sua linea a settembre. Un’artigiana e una stilista, due realtà differenti che vogliono raccontare l’evoluzione della moda etica e sostenibile nella nostra regione e non solo, un’intervista doppia con due visioni complementari e a tratti molto simili. Quello che è sorprendente è che ne emerge che in un settore in continua evoluzione, il prossimo passo deve necessariamente essere all’indietro, un ritorno alle origini.
DONNA
“CREATIVITÀ E SOSTENIBILITÀ SONO DUE DEI VALORI CHE ACCOMUNANO QUESTE DUE RAGAZZE, CHE PRODUCONO A KM0 E CON TESSUTI DI RECUPERO. ENTRAMBE HANNO CREDUTO NELLE LORO IDEE TANTO DA NUTRIRLE GIORNO PER GIORNO FINO A FARLE DIVENTARE UN PROGETTO EFFICACE. DUE STILI DIVERSI: UNO PIÙ MINIMALE E LINEARE, L’ALTRO PIÙ MORBIDO E SOFISTICATO.” La moda, una passione da sempre? ADELAIDE1931: Sono cresciuta insieme a mia nonna che è una sarta, cucendo abitini per le bambole. A 16 anni avevo già chiesto come regalo l’abbonamento alla rivista Vogue. Dopo un lungo percorso che mi aveva portato più verso l’interior design ho deciso di andare a vivere in Islanda per un periodo: grazie ad un’amica ho potuto visitare il teatro nazionale di Reykjavìk, un’esperienza bellissima dove proprio nel laboratorio di sartoria ho visto queste splendide sarte in camice bianco e lì ho capito, la mia vera passione non era la Moda ma l’abbigliamento sartoriale. Pistil: Ho sempre saputo che il settore della moda era il mio, mi ha sempre fatto viaggiare con la fantasia: da bambina passavo il tempo libero ad ideare outfit diversi ogni giorno per le mie sorelle immaginarie. Anche nella mia adolescenza lo sperimentare nuovi stili era fondamentale: per me l’abito fa il monaco. Cosa cerchi in un capo di abbigliamento? Quali emozioni tocca la scelta di un prodotto? A: La prima cosa è la comodità, in secondo luogo la linea deve essere riconoscibile e unica; anche il tessuto gioca un ruolo fondamentale, infatti cerco sempre di utilizzare tessuti naturali e prodotti in Italia. P: In passato per me erano importanti i trend del momento, ora invece scelgo la comodità, la qualità e un taglio riconoscibile: il contrario del fast fashion. Sono valori in cui credo fermamente e porto avanti con il mio prodotto Pistil, non sono più schiava dell’innamoramento per un capo “alla moda” che magari metti solo una volta, ma faccio acquisti più consapevoli. Ne stanno parlando in tanti ma è una realtà: meno quantità e più qualità. Come è cambiato il settore del Fashion post pandemia? A: Sicuramente le persone sono più attente all’artigianato ed è partito un movimento “buy local”. Da quando io ho aperto a giugno 2020, ho trovato delle persone che cercavano questi valori nel mio prodotto e soprattutto desideravano il contatto umano con l’artigiano. P: Con l’avvento della pandemia si sono accelerati dei cambiamenti che erano già in atto ed erano necessari: l’utilizzo del digitale. Sia per quanto riguarda la presentazione delle collezioni, che la crescita della vendita online, in cui ho sempre creduto: è davvero una grande opportunità per far conoscere dei piccoli brand artigianali fuori dalla regione…e perché no, anche in Europa. Altro aspetto importante è che il pubblico
della moda è cambiato: dà molta più importanza all’ambiente e ai diritti dei lavoratori. Il lockdown ci ha fornito l’occasione perfetta per fermarci e riflettere. Dopo il boom del consumismo degli anni ‘80, c’è un’inversione di tendenza e quindi un rallentamento, un ritorno alle origini: stiamo andando nella direzione giusta. Quando e come hai capito che volevi un progetto tutto tuo? Come è cambiata la tua vita da quel momento? A: Una volta tornata da Reykjavík non è stato facile, ma dopo la formazione, varie esperienze di lavoro e precariato, ho deciso di mettermi in gioco: una consapevolezza raggiunta dopo un percorso, perché creare un prodotto proprio e metterlo in vendita vuol dire metterci la faccia. Il momento è stato la primavera del 2019, dove mi sono trovata un nome: ho unito “Adelaide”, che era la mia bambola cui confezionai il primo abito, e 1931, l’anno di nascita di mia nonna. Ho acquistato la mia prima macchina per cucire industriale e ho iniziato a cucire veramente per creare la mia linea: ho venduto dei pezzi a qualche amica, o amica di amica, e in quel periodo ho anche frequentato un corso di imprenditoria in Camera di Commercio. Il mio punto di vista creativo ha dovuto piegarsi ad una realtà fatta di numeri e Business Plan, ma questo è stato un risvolto importante. P: La volontà di un progetto mio c’è sempre stata e ho sempre voluto fare un mestiere nel campo della moda, negli anni ho sperimentato molte situazioni diverse e tanti corsi differenti, dal management allo styling, per cercare di capire quale fosse il mio ruolo. È stato un percorso sia di studio, sia lavorativo, ma soprattutto è stato un percorso personale, anche tortuoso e incerto a volte. Durante il lockdown mi sono fermata a pensare a quello che stavo facendo e alle esperienze passate. Mi sono resa conto che tante cose di questo settore non mi piacevano, non mi rappresentavano più. Non parlerei di disinnamoramento ma piuttosto della volontà di fare qualcosa in cui credevo, in un settore che stava cambiando. Questo mi ha portato all’idea di voler presentare un prodotto etico e sostenibile. Ho notato però che i prodotti di questo tipo che si trovavano in vendita non avevano molto fashion appeal, volevo creare qualcosa che non si trovava ancora sul mercato, quindi ho iniziato a pensare di utilizzare dei materiali di avanzo, per creare lo stile che piaceva a me, anche con qualche dettaglio come l’etichetta in cotone organico. Avevo la necessità di creare un mio mondo, di parlare un po’ di me! La mia vita è cambiata drasticamente, non ho più orari, weekend liberi, è tutto concentrato sulla realizzazione del mio progetto, non è semplice ma mi sento molto 13
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più felice e appagata. Sono molto sorpresa di aver realizzato tutto quello che avevo in testa ma questo è stato possibile prima di tutto grazie alle collaboratrici che mi circondano e mi hanno capito e, secondo, perché non sono scesa a patti. Passaggio dall’idea alla realizzazione di un progetto, quanta importanza ha la pianificazione? A: La mia pianificazione fatta per il 2020 era tutta incentrata su progetti ed eventi e quindi con l’avvento della pandemia ho dovuto cestinare tutto ma questo mi ha insegnato ad essere più elastica: ora ha senso organizzare il lavoro di settimana in settimana. P: Pianificare la produzione è ciò di cui mi occupo nella vita, è il mio mantra, è una cosa per me assolutamente necessaria. Io consiglio a tutti di fare un Business Plan: sicuramente evita un sacco di errori. Concretamente la mia idea è nata circa un anno fa ma i primi sei mesi sono stati interamente dedicati a pianificazione, ricerca e a mettere nero su bianco la mia idea. Quali sono gli obiettivi che ti sei proposta di raggiungere? A: Nel 2020, nonostante questa situazione, ho avuto delle belle soddisfazioni ed ho più che raggiunto i miei obiettivi. In futuro mi piacerebbe mantenere una realtà piccola e artigianale, dove i clienti possono trovare un contatto umano. Magari inserire qualche donna nell’organico, che mi aiuti a cucire e creare un bell’ambiente femminile. P: Il mio primo obiettivo è creare una community: trovare delle persone che si innamorino del brand e dei miei valori, magari anche fuori regione e fuori dall’Italia: vorrei creare un fashion club di persone che la pensano come me. Il secondo obiettivo è poter vivere del mio brand, che non sia un lavoro 14
ma che sia proprio la mia vita, la mia felicità. Altri obiettivi importanti sono legati al trovare dei collaboratori artigiani locali, che producano per me o insieme a me, creando accessori per completare la proposta dell’outfit, ma sempre rimanendo in FVG o in Veneto. Qual è il target di clientela a cui ti rivolgi? A: Il target della donna Adelaide è trasversale: va dai trenta ai settant’anni, è una donna interessata di sicuro all’ambiente, alla cultura e all’arte e al design o ai viaggi. È sicuramente affascinata dal Giappone o dal Nord Europa. Amo vedere lo stesso modello indossato da clienti di età e personalità differenti! P: Si tratta di una donna dai venticinque anni in su, che conosce sè stessa, con l’interesse per la moda ma che, a questa, antepone sempre la propria personalità. È una donna che vuole comunicare qualcosa ma senza urlarlo, elegante e sofisticata ma allo stesso tempo semplice. È sicuramente consapevole e sensibile al problema ambientale, una persona attenta alla ricerca e ai valori del brand. Quali sono I valori che vuoi comunicare col tuo prodotto? A: Ecosostenibilità e artigianalità, unicità. I tessuti che utilizzo li recupero dalle giacenze e dagli esuberi dei grandi magazzini del territorio. Sicuramente il valore della piccola bottega di ricerca artigianale mi rappresenta, in particolare la volontà di mantenere una realtà piccola, di non vendere il mio prodotto ai negozi e di mantenere il rapporto con la clientela, cui tengo moltissimo P: In primis l’artigianalità, intesa come importanza rivolta alla qualità del prodotto e alla ricerca dei materiali che sono stati utilizzati: solo materie prime naturali e non trattate chimica-
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mente, come cotone, lana e seta. Un altro aspetto importante è la produzione consapevole: i materiali sono d’avanzo, in esubero, comprati dagli stockisti che li rivendono. In particolare, uno di questi rivenditori di Treviso, ha creato una certificazione per i tessuti che provengono da aziende che hanno degli standard qualitativi sostenibili nella produzione. Ultimo valore, che siano prodotti locali: sia la produzione che la progettazione vengono realizzate all’interno del territorio regionale. C’è una figura femminile, in particolare, alla quale ti ispiri? A: Io mi ispiro a un sacco di donne contemporanee, che ho anche il piacere di conoscere grazie ad Adelaide: donne reali, indipendenti e forti. Se parliamo invece di icone del passato sicuramente Elsa Schiaparelli, la sua storia mi ha guidato nel capire il mio ruolo di artigiana e designer ma anche imprenditrice. P: Non ho una persona in particolare ad ispirarmi, ma se proprio devo dire un nome, è una stylist, Grace Coddington: gli editoriali che ha realizzato sono molto fiabeschi, mi fanno sognare! Ci sono due realtà ben distinte che coesistono e mi guidano: una è quella inarrivabile, artistica e onirica della moda, l’altra è quella dello streetstyle (che adoro!) dove le persone qualsiasi che camminano per strada dettano le nuove tendenze. Due mondi molto vicini che però non si toccano mai, la realtà e il sogno. Quali sono le esperienze che hanno segnato il tuo percorso di neo imprenditrice? A: Adelaide è la mia più grande esperienza ogni giorno: nuova e unica. Ideare una collezione e scegliere il tessuto, fare il cartamodello, tagliarlo, cucirlo e venderlo: tutto fatto da me. Allo
stesso tempo Adelaide mi ha fatto crescere tanto e superare certi miei limiti, come per esempio il parlare in pubblico: in certe situazioni in virtù della mia idea, sono disposta a tutto, anche a lavorare su me stessa. P: Essere l’unica proprietaria e l’unica responsabile del mio brand è stato molto sfidante. Io attraverso Pistil racconto la mia storia e il mio conoscermi ogni giorno di più: questa è sicuramente l’esperienza più significativa. Dei momenti speciali sono stati sicuramente anche quando ho condiviso le mie idee con i collaboratori giusti, vedendo la nostra creatività che si mescolava, generando idee nuove: è grazie a questi momenti preziosi di partecipazione che sono riuscita a realizzare tutto quello che avevo nella testa. Qual è il consiglio che ti senti di dare all’altra? A: Consiglio un rapporto molto aperto di comunicazione diretta e biunivoca con i suoi collaboratori: lo scambio di idee e la comunicazione sono il motore della buona riuscita di un progetto. P: Mi sento di dirle la stessa cosa che ripeto a me stessa ogni giorno: “Non si può piacere a tutti!”. Sicuramente l’idea che abbiamo non può colpire tutti nella stessa maniera, non possono credere tutti negli stessi mantra però sono sicura che la passione che ci mettiamo, un giorno, verrà sicuramente ripagata. Un’altra cosa che mi sento di dirle è di non mollare davanti alle prime difficoltà: le esperienze negative che mi hanno toccato nella vita, da un certo punto di vista mi hanno aiutata a realizzare sia mentalmente che concretamente delle cose positive ma bisogna avere il carattere e la consapevolezza per comprenderlo. 15
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LA BELLEZZA, DA SOLA, NON BASTA @lucreziamangilli
Intervista alla modella friulana Lucrezia Mangilli, quando la bellezza nasconde molto di più Intervista a cura di Samia Laoumri - foto di Beppe Buttinoni
Occhi di ghiaccio, pelle diafana e bellezza travolgente. Ma oltre la sua bellezza c’è molto di più da raccontare, ecco chi è Lucrezia Mangilli, modella friulana di origini nobili che ha fatto parlare molto di sè negli ultimi anni anche grazie alla sua somiglianza con Chiara Ferragni. Come ti descrivono e come ti piacerebbe essere descritta? Molto spesso si tende a ragionare per stereotipi o a giudicare in base alle apparenze, viene facile quindi concludere che oltre 16
a un capello biondo e un bel viso non ci sia altro. Purtroppo sono stata vittima anche io di tali pregiudizi, tanto che, per dimostrare quanto profondo sia il mare al di là delle prime onde superficiali, spesso devo faticare il doppio. È semplice basarsi su un profilo Instagram, dove per mia scelta preferisco postare solo foto inerenti il mio lavoro e non svelare molto della mia intimità, facendo pensare che io sia una persona leggera e a tratti frivola. Questa apparenza la trovo anche un’arma di difesa, in modo tale che io possa mostrare la vera me stessa solo a chi lo merita.
DONNA
“È SEMPLICE BASARSI SU UN PROFILO INSTAGRAM, DOVE PER MIA SCELTA
PREFERISCO POSTARE SOLO FOTO INERENTI IL MIO LAVORO E NON SVELARE MOLTO DELLA MIA INTIMITÀ, FACENDO PENSARE CHE IO SIA UNA PERSONA LEGGERA E A TRATTI FRIVOLA. QUESTA APPARENZA LA TROVO ANCHE UN’ARMA DI DIFESA, IN MODO TALE CHE IO POSSA MOSTRARE LA VERA ME STESSA SOLO A CHI LO MERITA.” Sono una ragazza solare, dinamica, intraprendente e molto testarda, che non si accontenta mai e ama la vita in tutte le sue sfaccettature, belle o brutte che siano. Meglio vivere una vita breve ma intensa che lunga e insipida, perché alla fine noi siamo il nostro unico limite. Ho sempre amato la lettura perché ritengo che sia la vera palestra quotidiana in grado di allenare al meglio l’unico organo fondamentale: il cervello. Un involucro, seppure bellissimo, senza quello, non può nulla. Spesso do l’idea di essere algida quanto i miei colori, ma anche questa è una maschera che preferisco usare cosicché non mi possano più ferire, dato che in passato è capitato. Difficilmente mi fido e stringo legami, ma quando decido che farai parte della mia vita sarà per sempre. Oltre la bellezza c’è di più. Nel periodo della pubertà ero parecchio alta e molto magra, infatti non mi sentivo affatto bella. Mi ero concentrata solo sulla scuola e sullo studio, testarda, fino a che non raggiungevo i massimi risultati, motivo per cui ho anche scelto il liceo classico. Ho iniziato a piacermi un po’ per gioco, quando mi hanno proposto la mia prima sfilata e la gente ha iniziato a guardarmi in modo diverso, allora anche io mi sono vista con occhi differenti, più sicura di me e meno goffa. Eh sì, perché una volta non ero così tosta e spigliata , anzi ero timida e impacciata. Devo ammettere che il mondo della moda e dello spettacolo hanno fatto un gran lavoro su di me e tutte queste esperienze hanno contribuito al cambiamento del mio carattere. Bellezza, età e consapevolezza. Effetto domino? Una cosa esclude l’altra? Nel tuo caso, quali tra queste sono maturate prima delle altre? Sicuramente le esperienze che ho avuto negli ultimi due anni mi hanno aiutata a acquisire maggiore consapevolezza delle mie potenzialità e dei miei limiti. Aver partecipato a due programmi televisivi e aver avuto l’onore di collaborare con un personaggio del calibro di Chiara Ferragni, in soli due anni, sicuramente ha aumentato in me molto la sicurezza e l’autostima. Ormai nessuna critica, se non costruttiva, può scalfirmi e intaccare la mia persona, questo perché soprattutto ultimamente mi sono riscoperta forte e decisa. Penso che età e consapevolezza vadano a braccetto, la bellezza è un plus, non superfluo nel mondo dello spettacolo, ma che non può funzionare se non accompagnato dalla testa. Nel mio caso mi sono accorta della “ bellezza “ con l’età e ho la consapevolezza di accettarmi così come sono, non volendo perseguire modelli di perfezione e finzione che molto spesso la società di oggi impone.
Dalla moda al piccolo schermo. Cosa vuoi raccontare di positivo di questi due settori? Qualche aneddoto? Ho iniziato la mia carriera di modella all’età di 16 anni un po’ per gioco: ho partecipato a una sfilata locale per mettermi alla prova non pensando mi sarebbe mai piaciuto. Da lì è stata una reazione a catena tra sfilate e shooting. In tutta onestà all’inizio guardavo con molto distacco e disinteresse il mondo televisivo, tanto che quando ho ricevuto la telefonata della redazione per partecipare alla trasmissione “Ciao Darwin”, inizialmente, ho rifiutato. Temevo anche la sfilata in intimo, dato che quando accetti di partecipare non sai esattamente cosa ti faranno fare. Spronata anche dalla mia famiglia a provare nuove esperienze e a non precludermi nulla, alla fine ho cambiato idea. Da lì ho compreso quanto mi piaccia stare al centro di un palco e quanto io non tema le telecamere, tanto che in futuro il mio sogno sarebbe condurre un programma televisivo. Durante la trasmissione è stata notata anche la mia somiglianza con Chiara Ferragni, cosa di cui vado molto fiera anche perché la stimo a 360 gradi. Ammetto anche che, con mia sorpresa, mi sono ricreduta sul mondo dei reality, avendone recentemente fatto parte. Infatti, per quanto tosta sia stata la mia esperienza a Love Island, ad oggi posso dire che sia servita ancora di più a temprarmi e fortificare il mio carattere. Non ho sentito mai la pressione delle telecamere h 24 , anzi mi sono lasciata andare senza usare filtri o strategie, a volte esponendomi anche parecchio. Quando ci si espone e si dimostra carattere e personalità, viene facile ricevere le critiche altrui, ma posso confermare che nella vita anche quelle servono, per temprarsi, se distruttive o per migliorarsi, se costruttive. Ci piace sempre concludere le nostre interviste con un consiglio da lasciare ai nostri lettori. In questo caso inerente al mondo dello spettacolo. Se dovessi dare un consiglio a chi ambisce al mondo dello spettacolo, in primis si deve lavorare molto sul proprio carattere e sulla propria sicurezza e determinazione, senza carattere non si va da nessuna parte. Inutile concentrasi solo sull’aspetto fisico senza coltivare la mente e gli studi. Per questo io perseguo anche i miei studi universitari, in quanto la preparazione fa la differenza anche in questo ambito. Come in ogni cosa ci vuole anche un pizzico di fortuna, anche se ritengo che alla fine siamo noi a metterci nelle condizioni per essere fortunati e che volere sia potere, quindi non scoraggiarsi di fronte ai primi no, ma insistere finché non si arriva all’obiettivo. 17
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GUARDARE AL FUTURO SENZA TAGLIARE CON IL PASSATO @leaderleadercam
Dall’antica tradizione maniaghese per gli strumenti da taglio, nasce un’azienda specializzata in forbici per acconciatori Intervista a cura di Cristian Cecchini - foto di archivio azienda Leader
Manualità, competenza, passione sono qualità indispensabili per poter svolgere al meglio qualsiasi mestiere ma, senza gli strumenti giusti, sarà difficile per un artigiano realizzare i propri progetti. Per un barbiere gli alleati indispensabili sono pettine e forbici, sin dall’antichità. In particolare, la forbice è un attrezzo che ha avuto un’evoluzione importante, nei materiali, nel peso, ergonomia e tipologie di lame, al fine di soddisfare ogni necessità di taglio. Restando in Friuli non possiamo non pensare a Maniago, polo storico per la produzione di attrezzi taglienti, soprattutto coltelli ma anche forbici, bisturi e altri strumenti da taglio. Si può iniziare a parlare delle abilità dei fabbri maniaghesi intorno al 1500, non per la disponibilità di materie prime, bensì per i canali d’irrigazione che i fabbri dell’epoca sfruttavano tramite i mulini per ricavare l’energia utile alla produzione degli utensili. Essendo inoltre il territorio povero di materie prime, e non potendo quindi ambire alla ‘quantità’ del prodotto, i fabbri Maniaghesi si sono allora concentrati da subito sulla ‘qualità’ dei loro manufatti. Per restare nel mio ambito (l’autore è barbiere ndr.), parleremo con Chiara Ferraioli, responsabile Marketing della LEADER, azienda che ha puntato tutto sulla realizzazione di forbici per acconciatori. 18
Iniziamo da com’è nata l’azienda. LEADER nasce nel secondo dopoguerra a Maniago, Città dei Coltelli. Il luogo naturalmente non è casuale: oltre seicento anni di storia nella lavorazione degli acciai e nella produzione artigianale di lame e coltelli è sicuramente il punto di partenza ideale per una tradizione ed una qualità come quelle della nostra azienda e dei nostri prodotti. LEADER è un’azienda che ancora oggi continua il proprio percorso basato sui valori di artigianato, qualità e servizio. Crediamo fermamente che la tradizione artigianale di Maniago debba essere tutelata e promossa in Italia e nel mondo. Come mai avete di deciso di investire sul mercato delle forbici da parrucchiere invece che sui coltelli, come da tradizione a Maniago? Nei suoi primi anni di attività LEADER, in effetti, produceva articoli da taglio di natura generica e forbici da sarto. A partire dagli anni ’70 la produzione si è indirizzata e specializzata, incentrandosi esclusivamente sulle forbici da parrucchiere. A Maniago nessuno produceva questo genere di articolo e tuttora in Europa sono davvero pochissimi i produttori di forbici. LEADER si è fin da subito guadagnata il suo posto nel settore. La realizzazione di un articolo professionale così specifico richiede un know-how ed un’esperienza particolari, ma non solo. Le materie prime utilizzate devono essere di alta qualità e se-
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lezionate con cura. Questo ha sicuramente rappresentato una sfida per LEADER, che direi è poi divenuta una storia di successo! Immagino non produciate la stessa forbice degli anni ’70, che evoluzione c’è stata? La forbice da parrucchiere si è evoluta moltissimo negli ultimi cinquanta anni. Con l’avvento dell’acconciatura moderna, della nascita delle grandi scuole stilistiche e con la diffusione delle più disparate tecniche di taglio, naturalmente anche i produttori di forbici hanno dovuto aggiornarsi e stare al passo. Se inizialmente il parrucchiere si “accontentava” di uno strumento “che tagliasse”, sempre più, nel tempo, ha iniziato ad avere esigenze specifiche, che potessero allinearsi con le proprie affinità stilistiche. Ed ecco che si è iniziato a dare particolare peso agli acciai, al tipo di affilatura, alla forma della lama, alle diverse dentature e così via. Aspetto non meno importante, l’ergonomia: il parrucchiere maneggia la sua forbice per diverse ore al giorno, almeno cinque giorni a settimana. È quindi necessario che l’impugnatura sia il più naturale possibile e che aiuti a prevenire l’insorgere di malattie professionali, come la sindrome del tunnel carpale. In questo senso LEADER si è molto impegnata nella ricerca di prodotti che rispondessero a questa esigenza di benessere per i propri clienti. Nella fase di progettazione vi confrontate con i professionisti che poi andranno a utilizzare i vostri prodotti? In LEADER siamo convinti che la collaborazione e l’apertura siano fondamentali, soprattutto in questo momento storico, in cui siamo stati costretti a chiuderci e ad isolarci. Proprio per questo motivo stiamo costruendo una rete di comunicazione con professionisti e acconciatori della zona, ma non solo. Nel periodo di lockdown, prima, e di zona rossa poi, abbiamo cercato di avvicinarci ai professionisti del settore e supportarci mutuamente. Durante il lockdown abbiamo anche dato inizio ad una campagna social, alla quale molti acconciatori e stilisti un po’ da tutto il mondo hanno aderito inviandoci delle loro foto con le nostre forbici, con l’hashtag #amoitaliano. Più di recente abbiamo realizzato delle presentazioni dei nostri prodotti in diretta Facebook, con la collaborazione di un’Acca
demia di barberia siciliana. Per finire, ad aprile, abbiamo invitato nella nostra sala taglio presso la nostra sede, alcuni barbieri e parrucchieri della zona e abbiamo realizzato una serie di video che stiamo postando proprio in questi giorni sui nostri social. Per noi è molto importante ricevere il costante feedback dei professionisti, perché è grazie al dialogo con loro che possiamo costantemente migliorarci e rendere più performanti le nostre forbici. Il messaggio è: “Siete tutti i benvenuti in LEADER! Saremo lieti di accogliervi nel nostro stabilimento, darvi tutte le informazioni sulla produzione e manutenzione delle forbici e vi inviteremo a provarle in loco. …E magari assieme a voi creeremo anche dei nuovi modelli!”. 19
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LA GRANDE ABBUFFATA: MODA, CIBO E...DIVERTIMENTO! @manliob31166
Il titolo del film del 1973, del regista Marco Ferreri, ci introduce nel rapporto tra cibo e moda. Con un finale a sorpresa… Testo di Manlio Boccolini
Settembre è il mese che apre le porte alla stagione autunnale, la moda cambia volto con un’abbuffata di novità e nuove tendenze, più o meno interessanti, esposte nei negozi e nelle vetrine. La parola “abbuffata” ci ricorda il cibo. Il rapporto tra moda e cibo non è una novità assoluta, ma ultimamente è stato ripreso nelle sfilate da alcuni designers di oltre oceano. Gli americani, infatti, lo hanno riportato in passerella. L’artista Andy Warhol (1928/1987) fece diventare un baratto20
lo di zuppa un’icona dell’arte moderna. Lo stesso Warhol nel 1966 disegnò il “Souper Dress”, un vestito dalla linea trapezio in fantasia all-over dell’economica zuppa. Nel 1937 il visionario Salvador Dalì e la geniale designer Elsa Schiaparelli realizzarono un indumento come un’opera d’arte surrealista: l’abito Aragosta (foto), che fu acquistato da Wallis Simpson, moglie di Edoardo VIII, per le sue cene eleganti. A seguire negli anni ’40 l’attrice e ballerina Carmen Miranda
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(1909/1955) fece sfoggio di enormi copricapi di frutta, ripresi direttamente dalle tavole di ricchi banchetti che a loro volta furono ripresi, molti anni dopo, nelle collezioni di Dolce&Gabbana, mescolati ai dolci di marzapane, trasportati dai classici carretti siciliani. Tornando agli anni ’70, anche Ken Scott (designer americano 1919/1991) disegnò magnifici abiti con stampe di verdure colorate che sostituirono i suoi fiori con lattuga e piselli. Però il rapporto tra moda e cibo, a prima vista, potrebbe sembrare forzato. Il corpo e il cibo appaiono “nemici” naturali, abiti e immagine possono creare grandi contrasti e sappiamo che la moda è stata spesso accusata di proporre stereotipi anoressici e modelli estetici a senso unico. Oggi noi pensiamo che questo rapporto, invece, possa aiutare a rompere questi schemi legati al passato, attraverso il nuovo messaggio che su molte passerelle, riviste patinate e immagini fotografiche, trova sempre più spazio e considerazione: l’accettazione delle forme e dell’estetica per come si è e non per come ci viene imposto dal marketing.
mese riposa nel Pantheon di Parigi, come prima e unica donna omaggiata per il suo impegno durante la seconda guerra mondiale. Josephine ballava sulle scene parigine con un gonnellino di banane che poco lasciava all’immaginazione dei suoi ammiratori. Artisti, designers, personaggi di varie epoche hanno esplorato il rapporto tra moda e cibo, ma il denominatore comune resta comunque l’estetica. Gli chef stellati ci hanno incantato con le loro creazioni nei piatti dei migliori ristoranti del mondo, accontentando oltre che il palato anche la vista, e lo stesso hanno fatto gli stilisti con la ricerca estetica dei tagli degli abiti. Gli esempi più recenti sono quelli di Jeremy Scott che per Moschino ha disegnato una collezione ispirata al mondo degli hamburger di Mc Donald’s o l’ultimissima e molto enfatizzata collezione di Kerby Jean-Raymond, designer del suo brand “Pyer Moss” che, ispirata alla volontà di riscatto sociale e politico degli afroamericani, ha creato vestiti dedicati al contributo della gente di colore allo sviluppo dell’America (come l’inventore del burro di arachidi o del cono gelato) con creazioni che sono molto legate a quei cibi (foto).
La riproposizione di collezioni ispirate al cibo si lega a doppio filo a una nuova visione estetica del corpo. Questo nuovo rilancio, guarda caso, trova una sponda anche nell’arte moderna attraverso il maestro Maurizio Cattelan che, poco tempo fa, ha pensato di prendere una banana e di attaccarla sul muro con un pezzo di nastro adesivo riportando il cibo alla ribalta dell’arte (foto). La banana è il simbolo fallico per eccellenza e, spostata dal banco di frutta, si trasforma in simbolo erotico già negli anni ’20 grazie a Josephine Baker, la famosa ballerina francese morta nel 1975 che da qualche
Nel rapporto tra gli elementi della moda e del cibo, che abbiamo cercato di spiegare, resta solo un aspetto da approfondire: i tessuti commestibili. Esistono e sono anche divertenti, ma per il momento fanno parte di una nicchia molto ristretta nel loro utilizzo. Come molte altre novità tecnologiche innovative sono usati e reperibili su siti dedicati al divertimento per adulti o nei sexy shop. Perciò, concludendo, vi pongo una domanda: è l’estetica la base che unisce cibo e moda o l’erotismo che entrambe possono evocare? A voi la risposta …e buona abbuffata! 21
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IL CERVO E L’AQUILA GUARDANO LA STESSA LUNA @manliob31166
L’Afghanistan e il Friuli sono due terre lontane ma legate da popoli con storie antiche raccontate anche attraverso i loro abiti tipici Testo di Manlio Boccolini
Oggi con un click sul computer possiamo illuderci di sapere cosa accade in paesi lontanissimi, un click che non costa fatica e ti porta in giro per il mondo, ma ascoltare il racconto direttamente da una voce che proviene da quei paesi lontani è tutta un’altra cosa. L’Afghanistan è un paese lontanissimo dal Friuli che oggi ci appare vicino grazie a tutte le informazioni che i mezzi di comunicazione ci hanno messo davanti agli occhi. La nostra conoscenza si ferma a un paese grigio, in guerra da sempre e dove gli abiti sono diventati degli “schermi” protettivi dagli sguardi esterni e che limitano anche la visione di chi li indossa.
vita. Un abito che racchiude tutte le culture diverse presenti in Afghanistan. Ogni colore ha un significato, per esempio: il verde rappresenta la speranza, il nero la miseria e la tristezza, il blu significa resistenza. Se una donna usa il giallo significa che ha “rotto” con il fidanzato perché il giallo esprime l’autunno, un periodo triste. Ogni etnia, e in Afghanistan ce ne sono diverse, cuce il proprio abito con la forma che desidera per valorizzare questi colori. L’abito può essere più stretto e lungo sulla figura o più corto e ampio per arricchire il fondo colorato e da questo particolare si capisce la provenienza etnica della donna che lo indossa.
Per raccontare più profondamente l’Afghanistan, il suo paese, abbiamo incontrato Fawad e Raufi professore di Storia e Letteratura, laureato a Kabul e profugo, suo malgrado. È approdato in Friuli nel 2016 dove ha trovato una nuova famiglia e un nuovo futuro. Fawad è anche scrittore e poeta, recentemente ha pubblicato il suo secondo libro: “Ultimi Respiri a Kabul”, un romanzo autobiografico con un condensato delle sue esperienze di viaggio e della realtà del suo paese.
Ho notato che gli abiti friulani e afghani hanno delle caratteristiche comuni. Il corpetto superiore, il velo e la gonna lunga appaiono simili. Quali sono altre caratteristiche principali dei vostri abiti tradizionali? Un abito tradizionale viene composto da una parte principale, a diretto contatto con il corpo, e da una parte secondaria composta dal velo e dai guanti che vengono usati in base alla situazione. L’abito principale deve coprire delle parti precise della figura: la schiena, la pancia, le gambe e le braccia fino al gomito sia per le donne che per gli uomini. Il fatto che gli abiti femminili vengano cuciti solo dalle donne riguarda l’aspetto dei ruoli. Esistono molti sarti maschili ma tutto è filtrato dalle donne per quanto riguarda le misure e la scelta del modello. Anche i colori sono importanti per differenziare i ruoli maschile e femminile. Agli uomini non è consentito indossare il giallo, il verde e il rosso. Altra differenza sono i volumi, gli abiti femminili sono molto ampi e voluminosi mentre per gli uomini le forme sono più simili a quelle dell’occidente e più stretti, sono sempre formati da due parti: la camicia lunga (perahan) e i pantaloni (tunban) chiamato appunto Perahan tunban. Nelle stagioni di passaggio si usa indossare anche il gilet fatto dalle donne con bottoni particolari. (Il gilet lo ritroviamo anche nell’abito tradizionale maschile friulano n.d.r.) Le donne non portano il gilet ma indossano un soprabito, che portano sopra gli abiti eleganti, ai piedi calzano sandali molto particolari fatti solo in Afghanistan. I sandali eleganti sono senza tacco ma esistono anche con tacchi alti da usare in abbinamento alla borsa e alla cintura.
Nel consigliarvi di leggere il libro, vi anticipo che la nostra conversazione si svilupperà su un aspetto differente dalla narrazione che siamo abituati ad ascoltare sull’Afghanistan; parleremo di bellezza e valori legati agli abiti tipici afghani cercando affinità e punti di contatto che i nostri popoli sicuramente hanno. La moda viene ritenuta futile, leggera e non degna di rappresentare fenomeni storici importanti. Questo giudizio è profondamente sbagliato, la moda racconta storie perché nasce dalla vita stessa, dalla quale attinge costantemente per evolvere e rinnovarsi, perciò conoscere la sua storia ci aiuta a capire anche il presente. Per questi motivi Fawad ci aiuterà a vedere il suo paese attraverso gli abiti e i colori della cultura persiana. L’analisi dei costumi tipici ci aiuterà a comprendere meglio le storie umane che, in fondo, non sono così diverse. Fawad, qual è il tuo primo ricordo di un abito tradizionale afghano? Quando veniamo alla vita, il primo abito che un bambino vede è il Gand Afgan. Gand significa “misto” di tutti i colori della 22
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Le tue descrizioni sono utili a farci capire la cultura del tuo paese, l’uso delle scarpe e delle borse ci porta agli accessori e penso che non manchino i gioielli… I gioielli sono fondamentali nella cultura afghana. Le donne normalmente non lavorano e non hanno somme di denaro da tenere in banca, perciò, i loro tesori sono i gioielli d’oro. Bracciali, collane e anelli vengono indossati sugli abiti per esporli e portarli con sé ovunque. Sono così importanti che le donne adattano le forme e i tagli dell’abito al gioiello. Una collana importante farà cucire un abito con scollo a V ampio e lo spazio della pelle sarà coperto dal gioiello. Anche la lunghezza delle maniche si accorcerà per scoprire il braccio dove i bracciali d’oro copriranno quella parte di pelle. Le donne con i soldi dei mariti, figli o nipoti comprano oro per la famiglia. I gioielli saranno la dote che le nonne e le mamme lasceranno alle figlie e alle nipoti della famiglia.
vestiti, le ragazze portavano jeans e camicette manica corta, andando in giro senza velo o fazzoletto che copriva la testa. Il cambiamento dall’esterno ha portato la società a pensare diversamente ma, nelle occasioni importanti come matrimoni o lutti, i vestiti hanno mantenuto il loro ruolo tradizionale. Al matrimonio non si può partecipare in nero, bisogna portare colore e gioia con gli abiti tradizionali. Le donne che insegnano a scuola non portano gli abiti importanti di cui abbiamo parlato ma si vestono in base al ruolo che ricoprono. Il velo che prende vari nomi, hijab, chador, niqab o burka, adesso è stato imposto dal nuovo governo. Il burka di colore azzurro, che impedisce alle donne di vedere l’azzurro del cielo, non so da chi sia stato inventato o quando, ma ora sembra tornare a Kabul e le donne soffrono di questo, ci si abitua, molte lo indossano perché vedono altre farlo. Dagli anni ’60 le donne afghane portavano il velo per coprire i capelli…
Quali similitudini e quali differenze trovi tra gli abiti friulani e afghani e come si vive l’imposizione del cambio dei costumi nella società? L’abito è parte essenziale della nostra vita e rappresenta la personalità di una persona, si è sempre modificato attraverso la cultura, il tempo e gli usi e costumi che vengono dall’estero. In questi ultimi vent’anni abbiamo modificato molto i nostri
Il velo è un elemento che è presente anche negli abiti friulani… Si, certo, ma qui da voi non limita la libertà. Possiamo anche raccontare che il burka non è solo azzurro, ogni etnia dell’Afghanistan ha colori diversi. Nel nord Turkmeno è bianco o verde, nel sud verso il Pakistan nero oppure blu. A Kabul, nelle provincie centrali, si porta azzurro… 23
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I vestiti comunicano anche lo stato d’animo, un paese sempre in guerra si veste senza colori. Quando torneranno i colori a Kabul? Coprire il viso era vietato all’università anche per ragioni di sicurezza. In questi ultimi vent’anni le donne hanno modificato i vestiti importando i modi occidentali, gli abiti lunghi sono stati accorciati dalle caviglie alle ginocchia, le gonne intere sono state cucite al centro come gonna-pantalone o aperte al centro, il fazzoletto lungo è stato accorciato e fermato ai capelli in modo da avere le mani libere. Il contatto con gli occidentali ha modificato la cultura e di conseguenza gli abiti. Vent’anni di cambiamento sono presenti fino a oggi. Una società che si apre modifica subito il modo di vestirsi, anche in tv le giornaliste hanno comunicato questo cambiamento attraverso il loro abbigliamento. Pensa che nel 2020 c’è stata la prima sfilata di moda nelle vie di Kabul. Esattamente il 3 febbraio hanno sfilato 25 ragazzi e 5 ragazze per presentare la bellezza degli abiti tradizionali afghani. Usciti dalle sale dei ristoranti sono scesi nelle vie portando i colori tradizionali all’aperto. Questo era l’inizio di una nuova vita. Vent’anni rappresentano una generazione e perciò penso che tornare indietro sia difficile. La moda era diventata un lavoro, c’erano speranza e idee nuove. Oggi siamo di fronte a una grande incognita, non sappiamo cosa accadrà. 24
Nell’augurio che questi semi di modernità possano continuare a crescere, secondo te quanto tempo ci vorrà perché il tuo paese possa evolversi verso queste libertà? Il tempo in Afghanistan è sempre stato qualcosa di anomalo, quasi sconosciuto, anni di speranza venivano buttati in un secondo. Come oggi, vent’anni di novità cambiati in pochi giorni. La situazione attuale sta richiudendo la speranza, anche se spero e mi auguro che il nuovo governo capisca che non si può tornare indietro, che non si può tornare a vent’anni fa ma si accetti qualche novità. Si stanno rendendo conto anche loro che non tutto potrà essere cancellato. Le donne che si stanno attivando, a rischio della loro vita, dicono: “Dovete cambiare anche voi, non solo noi…”. Ci vorranno molti anni ma è necessario che i colori ritornino in Afghanistan perché il colore rappresenta la vita. Non può restare solo il colore nero, deve tornare il verde della speranza. La nostra bandiera è fatta di nero, rosso e verde perché il nero attraverso il sacrificio del sangue si trasformi nel verde del futuro. Anche negli abiti non potrà rimanere solo il nero perché la gente nel tempo reagirà. Il nero non può comandare per sempre.
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NOTE BIOGRAFICHE Fawad e Raufi è nato nel 1991 a Kabul in Afghanistan, dove si è laureato e faceva l’insegnante. Durante l’adolescenza si innamora dei libri e inizia a scrivere poesie, romanzi e racconti di vita vissuta. Dal 2016 vive in Italia, dove è arrivato dalla Germania dopo un viaggio terribile e disumano come migrante attraverso tanti paesi. Lasciare l’Afghanistan ha messo a repentaglio la sua vita, è stato in carcere senza accuse in due paesi. La prima notta che trascorre in Italia dorme a Cividale del Friuli, poi viene accolto da una famiglia di Pordenone. Oggi vive e lavora a Cividale del Friuli dove ha trovato la pace e il futuro che nel suo paese gli erano negati da un guerra infinita. 25
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Colori d’autunno a BORGO GARZOLINI
Foto copertina Massimo Crivellari Foto Carlotta Di Franco Abbigliamento Atelier Apostrophe, Udine Bijoux Regina di Saba, Udine Make-up Alessia Livotti per Bobo Parrucchieri, Udine Prodotti make-up Profumeria Elisir, Udine Hairstyle Birasku Miranda per Bobo Parrucchieri, Udine Modella Martina Sebellin Location Borgo Garzolini, Caminetto di Buttrio
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Borgo Garzolini. Un luogo magico e fermo nel tempo. Ogni pietra, ogni albero, ogni finestra, balcone, porta, ogni angolo ci parla della sua storia che si snoda nell’arco di cinque lunghi secoli. L’antica Villa Sbrojavacca Garzolini, con il suo corpo principale, la chiesetta seicentesca annessa, il parco e il grande brolo, ha mantenuto fino ad oggi il suo fascino e la sua bellezza. Una signorile villa di campagna, questa che ci ospita, che come molte delle antiche dimore disseminate in tutta la nostra regione, ha visto passare nei suoi saloni gli avvenimenti più importanti della storia moderna e contemporanea. Siamo a Caminetto di Buttrio e qui, nel XVI secolo, la nobile famiglia Sbrojavacca fece costruire questa villa come residenza estiva e come centro direzionale delle proprie attività rurali. Nel 1881 la contessa Maria di Sbrojavacca, rimasta vedova del marito, il conte Giusto Garzolini (di famiglia nobile proveniente con tutta probabilità dalla Carnia), lasciò in eredità l’intero complesso della villa alla “Casa di Carità”, fondata da Giuseppe Filippo Renati a Udine. L’edificio principale divenne lo spazio ideale per la villeggiatura della sezione femminile di questo noto istituto di carità. Come avvenne per molte dimore storiche della nostra regione, soprattutto quelle situate a ridosso del confine orientale e quindi del fronte, nel 1915 la villa Sbrojavacca Garzolini venne trasformata in ospedale da campo, il n.070, per la precisione. Negli anni Venti, nel brolo della villa, vennero piantati molti alberi esotici, alcuni dei quali tuttora presenti, ed un vigneto, ad oggi ancora produttivo. Con il tempo molti dei terreni annessi vennero alienati e la villa venne usata, in parte, per la sagra paesana, cosa che ha consentito una regolare manutanzione di alcune aree. Successivamente la villa è stata acquistata da un privato che ha effettuato un resturo di tipo conservativo che ha permesso di mantenere l’originalità del luogo. Ampie sale e saloni si susseguono, pareti affrescate, una scalinata monulmentale in pietra, grandi vetrate attraversate dalla luce che dipinge gli spazi di toni pastello. Villa Sbrojavacca Garzolini, testimone di tanti secoli, immobile e attenta, fiera portatrice dei segni che il tempo ha lasciato sulle sue strutture, è capace di offrire mutevoli servigi ai suoi abitanti e ospiti. Attualmente Borgo Garzolini ospita matrimoni ed eventi nel suo secolare giardino interno e affascina chi ha la capicità di guardarla e percorrerne gli spazi. 28
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Le Soffitte. Cappotto e stivale in pelle Compagnia Italiana, e pantalone in broccato oro Nome Comune (Atelier Apostrophe). 29
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Il Salone della Musica. Abito in viscosa MilvaMi, cappotto in lana Blukay, stivale in pelle Compagnia Italiana (Atelier Apostrophe). Cerchietto verde plissettato con nodo in strass (Regina di Saba).
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Abito chemisier in viscosa Atelier Boldetti, stivale in pelle Compagnia Italiana (Atelier Apostrophe). Orecchino croce con zirconi brown, in argento placcato oro rosa (Regina di Saba). 32
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Sala delle Dame. Abito in viscosa e lana MilvaMi, stivale in pelle Compagnia Italiana (Atelier Apostrophe). Collane con pietre di agata, onice e lava con passetto in argento (Regina di Saba).
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La Sala delle Dame. Abito in lana merino MilvaMi, stivale in pelle Compagnia Italiana (Atelier Apostrophe). Spilla libellula in tessuto e cristalli, collana multifilo cristalli e perle di fiume e passetto in argento effetto sabbiato (Regina di Saba).
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La Sala Celeste. Completo casacca e pantalone in viscosa Nome Comune, cappottino in lana e cashmere Compagnia Italiana, stivali in pelle Compagnia italiana (Atelier Apostrophe). Orecchino pietra blu taglio laser in argento placcato oro rosa (Regina di Saba).
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La Sala delle Carte Geografiche. Completo maglione e pantalone in cashmere e stivale in pelle Compagnia Italiana (Atelier Apostrophe). Orecchini maxi in tessuto Ayala Bar (Regina di Saba).
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Il Parco. Completo casacca e pantalone in viscosa MilvaMi, cappotto in Montone (Atelier Apostrophe). Collana a 3 fili perle grigie sfaccettate (Regina di Saba).
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Le Scalinate. Abito in jersey di cotone Nome Comune, stivale in pelle Compagnia Italiana (Atelier Apostrophe). Collane catena varie misure effetto martellato (Regina di Saba). 38
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Le Sale Bianche. Completo cappotto doppio petto e pantalone morbido in velluto Compagnia Italiana, camicia in pura seta Boldetti, stivale in pelle Compagnia Italiana (Atelier Apostrophe). Collana e bracciale a dischi zigrinati (Regina di Saba).
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WILLEASY: UN FUTURO ACCESSIBILE E INCLUSIVO @willeasysrl
Come semplificare la vita di tutti i giorni, senza dimenticare l’estetica Intervista a cura di Alessandra Spangaro - foto di Cristina Modonutti
“Willeasy Start Up innovativa di vocazione sociale” è un esempio di come si possa facilitare la vita di ogni giorno, in particolar modo a chi ha disabilità o necessità particolari. Ne parliamo con William del Negro, fondatore del progetto, che ha già ricevuto riconoscimenti dalla stampa nazionale e di recente ha partecipato come relatore anche al Fuorisalone 2021. Come nasce e di cosa si occupa Willeasy? Willeasy nasce da una mia necessità, sono una persona di bassa statura e con disabilità motoria, ho sempre viaggiato e di frequente mi è capitato di trovarmi davanti a delle difficoltà “strutturali”. Ho iniziato a riflettere sul fatto che chissà quante altre persone come me, con determinati bisogni, si trovavano ogni giorno a far fronte a queste problematiche. E non intendo solo persone con disabilità ma penso anche famiglie con bambini piccoli, proprietari di animali, persone con intolleranze alimentari… ho fatto una ricerca e ho scoperto che non ero l’unico a ritenere che questa mancanza di informazioni limitasse molto gli utenti finali, così è nato Willeasy La vocazione sociale dunque è quella di creare un portale che sia in grado di dare più informazioni ed indicazioni possibili sull’accessibilità e l’usabilità delle strutture, dagli alberghi ai 40
tabacchini, dal negozio di scarpe alle mille altre attività commerciali. Willeasy io lo definisco un ecosistema che permette alle persone con esigenze specifiche di trovare gli eventi e le strutture più adeguate per le loro necessità, come ristoranti, hotel e musei o altri punti di interesse per la vita di ogni giorno. Un esempio di come opera Willeasy sul territorio? I Virtual Tour. Proponiamo a hotel e musei di creare dei tour virtuali a 360°, che iniziano già dall’esterno dell’edificio. In questo modo chi vuole recarsi fisicamente alla galleria d’arte o all’albergo, può controllare se ci sono rampe e riesce ad accedere, può vedere gli spazi interni e capire come e se si può muovere tra le varie stanze. Inoltre, quello utilizzato è un sistema che riconosce i movimenti del volto tramite webcam e il virtual tour può essere fatto anche da persone totalmente impossibilitate ad utilizzare le mani. Quanto è importante che si sviluppi una maggiore sensibilità a questi argomenti? L’anno scorso abbiamo attivato un primo progetto di mappatura dei parcheggi per disabili con 60 studenti delle scuole superiori del FVG e abbiamo anche partecipato a degli incontri nelle scuole primarie. Abbiamo fatto delle dimostrazioni pra-
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tiche ai bambini di cosa voglia dire muoversi in sedia a rotelle ad esempio, non riuscire ad entrare a scuola se non aiutati da qualcun’altro, trovare barriere che sbarrano il percorso. I genitori ogni volta ci raccontano che nei giorni successivi i bambini sono sempre molto attenti e commentano tutto: “Qui non dovrebbe esserci questo buco o in sedia a rotelle non si passa, qui una mamma con il passeggino non riesce a entrare…”. Spero che queste nuove generazioni facciano tesoro di quello che hanno imparato e costruiscano un futuro più inclusivo per tutti. E parlando di inclusività, siete stati anche ospiti anche al Fuorisalone 2021 per parare di design. Ho partecipato con un intervento al Fuorisalone dell’Architetto Simone Micheli, l’Architetto aveva invitato diverse aziende tra cui Concepts by Braida srl, un’azienda di Manzano (UD), che si occupa di sviluppare e produrre sedute su commessa e per hotel, ristoranti e navi da crociera, con principi di ecosostenibilità e responsabilità sociale. A sua volta Lorenzo Braida, CEO dell’azienda, ha chiesto la partecipazione di Willeasy per dedicare uno spazio al nostro progetto e in accordo con Micheli, ho avuto l’opportunità di parlare in quell’occasione di design e pensiero inclusivo.
Secondo me il ruolo dei progettisti non si può limitare all’estetica, ma deve andare oltre e ragionare sulla funzionalità di quanto realizzano, creando e arredando negozi, locali e alberghi che, oltre che belli, siano anche inclusivi. Spesso infatti capita che le stanze dedicate alle persone con disabilità siano decisamente poco estetiche, tanto da sembrare camere di un ospedale. Perché invece non pensare ad un arredamento funzionale, che possa essere bello da vedere e allo stesso tempo accessibile a tutti? Bisognerebbe progettare strutture dove gli hotel non hanno più bisogno di avere camere specifiche per disabili, ma invece propongono camere che possono essere occupate da chiunque, con delle funzionalità che però possono aiutare persone con necessità particolari. Un esempio: esistono maniglioni dei bagni che non sembrano maniglioni, progettati con strisce led sul retro, l’impressione è che si tratti di illuminazione e quindi sono anche esteticamente belli da vedere. Una vacanza è pur sempre una vacanza ed è bello potersi godere la bellezza di una struttura ricettiva. È importante dunque che ci sia un’attenzione ed una cura maggiore a questi dettagli, che per molti fanno la differenza. 41
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IL COLLE DI OSLAVIA ecoturismofvg.weebly.com
Un percorso panoramico tra storia, paesaggi di confine e sfumature di “orange wines” Testo di Sabrina Pellizon - foto di Stefano Benetti Pensare al Collio Goriziano solamente come ad una regione vitivinicola di grandi bianchi, è un grossissimo errore. Lo sanno bene anche i viticoltori di Oslavia, un piccolo paesino collinare di confine alle porte di Gorizia, dove sette aziende agricole hanno da poco portato a termine un bellissimo progetto di valorizzazione del loro territorio, tracciando un itinerario di 7 chilometri, che inviata camminatori ed enoturisti ad attraversare il paese, per ammirarne i panorami e per scoprire la storia e il futuro di questo fazzoletto di Collio, spesso escluso dai percorsi di visita classici. Si tratta del Percorso delle Panchine Arancioni di Oslavia. Ideatrice è stata l’Associazione APRO (Associazione Produttori Ribolla di Oslavia), che negli ultimi anni ha provveduto all’installazione di sette panchine arancioni, nei luoghi più panoramici e nascosti del borgo, circondate dai vigneti di proprietà delle sette aziende aderenti. Il percorso è la risposta genuina dei viticoltori ad un bisogno di esperienze turistiche autentiche. È il loro modo per far sì che da una semplice “seduta”, si possa sviluppare un racconto di ciò che essi rappresentato e della loro storia, invitando tutti noi a farne parte. “Siediti e sconfina con lo sguardo”: questo è il filo conduttore dell’itinerario, percorribile a piedi seguendo il bollino arancione, collocato lungo il tragitto, su pali e muretti, ad indicare la via da seguire. Attraversando sterrati tra i vigneti e tranquille strade di paese, le panchine panoramiche vi si svelano una ad una, invitandovi ad una pausa, stando con i piedi in Italia e con gli occhi in Slovenia, ammirando un paesaggio omogeneo nella sua bellezza e nella sua tradizione culturale, che il confine politico ed amministrativo non riesce ad interrompere. Da un lato dell’altura, il Collio e il Brda diventano una cosa sola e dall’altro, Gorizia e Nova Gorizia sembrano ritornare un’unica città, un’anima sola, che ha da poco vinto la candidatura a Capitale della Cultura Europea 2025. Ad ogni panchina corrisponde una tabella informativa con un QR-code, che vi permette di scoprire in quale vigneto vi trovate esattamente e cosa vedete davanti a voi. Se vi chiedete il perché della scelta del colore arancione per le panchine, la risposta è semplice: per onorare la caratteristica di quel vino, che è diventato il fiore all’occhiello della tradi42
zione vitivinicola oslaviana: la Ribolla, nella su versione “orange”, ovvero macerata. Il vitigno è sempre lo stesso, quello autoctono, storico, coltivato qui già dal 1200 ma la vinificazione è totalmente diversa. È un ritorno all’antica arte di fare vinificare, una tecnica caduta in disuso ma che i produttori di Oslavia hanno voluto recuperare, dando così al vino diverse sfumature di arancione, a seconda del tempo di maturazione sulle bucce. Questi vini, chiamati appunto “orange wine”, richiedono un metodo produttivo più lungo, più difficile e rischioso ma anche più consapevole, rispettoso ed artigianale.
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“OSLAVIA DOVETTE RICOSTRUIRE PIAN PIANO ANCHE LA SUA IDENTITÀ, RIPRENDENDOSI LA SUA STORIA E RICUCENDO GLI STRAPPI. OGGI È UN PICCOLO MONDO RIFONDATO E RINATO, PARTENDO DALL’UNICA COSA CHE LA GUERRA NON HA POTUTO SOTTRARLE: LA SUA AMATA “PONCA”, QUELLA TERRA FERTILE COSÌ PREZIOSA.” Ma lasciamo da parte il vino e ritorniamo al Percorso delle Panchine Arancioni, immergiamoci lentamente nelle caratteristiche storiche e paesaggistiche del colle di Oslavia. Si parte dal monumento simbolo del paese, il suo Sacrario Monumentale, comunemente noto come Ossario. Realizzato nel 1938, ospita circa 58.000 soldati, italiani e austroungarici, morti durante gli scontri avvenuti durante il primo conflitto mondiale. Consiglio vivamente la visita, che inviata a riflettere sull’orrore dei tragici eventi che qui si sono consumati. Oslavia è stata teatro delle prime sei battaglie dell’Isonzo, che hanno annichilito la collina, cancellando un intero piccolo mondo, tanto da far parlare di sé come “il colle morto”, dalla giornalista viennese Alice Schalek, prima donna corrispondente di guerra che così scrisse: “Quella di Oslavia è un’esperienza sconcertante. Da due anni siamo ormai abituati a vedere uccidere uomini, ma l’uccisone di un monte è una cosa mostruosa che supera ogni sopportazione.” Un’idea ben precisa ci viene data anche dalla descrizione di un tenente italiano, che così racconta ciò che i suoi occhi vedono sul colle: “[…] una località ridotta a ruderi, fucili e mitragliatici abbandonati, resti umani sparsi, munizioni, viveri, grovigli di filo spinato, bombe inesplose e trincee rese irriconoscibili dalle granate. Quel suolo che era già stato fertile di viti e di frutteti, emanava un nauseabondo odore di carne da sfacelo. Oslavia era tutto un cimitero di ignoti e anche i feriti dovevano spesso giacere abbandonati in attesa della morte”. Lasciandoci alle spalle il Sacrario, cominciamo a camminare seguendo il bollino arancione: un curatissimo paesaggio vitato puntellato di ciliegi selvatici, susini, fichi e querce secolari ci rimanda al periodo austro-ungarico, quando qui la produzione di frutta era molto attiva, essendo la parte più meridionale dell’Impero. Poi, quando queste terre diventarono Italia, Oslavia si trovò senza più un mercato verso cui esportare e vendere le sue primizie e si scelse quindi di puntare tutto sulla vite. Per le vie del paese si notano gli antichi pozzi in pietra, mentre le case conservano ancora i pergolati ricoperti dalla vite e la caratteristica struttura ad “elle” per protegge le stanze dalla vento di Bora, proveniente dal monte Sabotino. Uno dei punti più panoramici del percorso si trova presso l’obelisco, dove al posto delle vigne, fino al 1928 c’era il cimitero di guerra. L’obelisco sorge sul luogo della precedente chiesa, andata completamente distrutta dai combattimenti e mai ri44
scostruita. Ora quindi Oslavia non ha né chiesa, né campanile e nemmeno una piazza. Dopo il conflitto, di fatto, qui non restò più nulla. Abitanti, case, coltivazioni, boschi: tutto venne cancellato, raso al suolo, facendo perdere alla collina la sua famigliare fisionomia e ogni punto di riferimento naturale e antropico che le era proprio. Il paese dovette quindi ricominciare tutto da capo, ricostruendo rustici, poderi, vigneti, anche accorpando le proprietà con quelle dei vicini. Il tutto ovviamente trovandosi assoggettato ad un nuovo mondo, quello del Regno d’Italia, che portò Oslavia ad un secondo trauma: l’italianizzazione forzata. Ma non solo. Oslavia dovette ricostruire pian piano anche la sua identità, riprendendosi la sua storia e ricucendo gli strappi. Oggi è un piccolo mondo rifondato e rinato, partendo dall’unica cosa che la guerra non ha potuto sottrarle: la sua amata “ponca”, quella terra fertile così preziosa. La coltivazione della vite ripartì proprio da una piantina di Ribolla, che riuscì a vegetare e spuntare da quel terreno martoriato. Anche la tradizione enologica dovette essere ricostituita pian piano e per molti anni le vigne furono poche, piantando solo quello che serviva per sopravvivere. Vero è però, che lo stesso terreno che oggi è la ricchezza di questo paesino, in periodo di guerra, contribuì alla sua rovina, perché proprio la sua friabile consistenza si rivelò adattissima a scavare trincee e cunicoli tra i dossi. Ed è proprio durante i lavori nelle vigne, che a molti agricoltori è successo, e succede ancora, di trovare resti di armi, elmetti, proiettili, borracce, facendo riaffiorare un tristissimo capitolo di storia vissuta: pensate soltanto al fatto che nella sola sesta Battaglia dell’Isonzo, in meno di due settimane, le armate italiane scaricarono su Oslavia mezzo milione di colpi di artiglieria e trentacinquemila colpi di bombarda. Oggi, sedersi su queste panchine, vuol dire pensare a tutto questo e non necessariamente con un calice di Ribolla in mano. Perché la volontà di questo progetto esula dall’aspetto commerciale legato al mondo del vino, anzi, è esattamente il contrario. Se i produttori, mentre lavorano nelle vigne, vi vedranno camminare per il paese mentre osservate, fotografate e sconfinate con lo sguardo seduti su una delle loro panchine, avranno la conferma che il loro obiettivo è stato raggiunto: far vivere e scoprire le tante storie racchiuse nel loro amatissimo paesino.
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RISONANZE MILLENARIE TRA NATURA E STORIA @hotelilcervotarvisio
Intrecci di culture antiche e recente storia nella zona del Canal del Ferro - Val Canale, un viaggio di due giorni immersi nella bellezza Testo e foto di Jessica Zufferli
L’estate è ormai conclusa, eppure in Friuli Venezia Giulia è sempre possibile concedersi un tuffo rinfrescante. Questa volta il bagno l’ho fatto nella natura, nello specifico nella Foresta millenaria che circonda Tarvisio, nuotando tra sentieri e vallate, rimanendo poi ad osservare il mondo riflesso nei laghi smeraldini delle Prealpi Giulie. Tarvisio, posta a 754 metri sul livello del mare, è conosciuta come uno dei più importanti poli sciistici e località montane della Regione. Una meta ambita da chi ama praticare attività all’aria aperta grazie al suo ricchissimo ventaglio di proposte: numerosi sentieri su cui fare trekking, andare a cavallo o in 46
mountain bike, per raggiungere radure che ospitano rifugi e malghe. Scalatori e alpinisti possono trovare anche vette maestose da scalare per vivere fino in fondo la montagna e i luoghi dove nasce la musica. In questa zona si ode infatti un suono pulito e di qualità, come quello emesso dagli strumenti musicali costruiti con il legno proveniente dagli abeti rossi della Valcanale. Sono chiamati per questo “Alberi di Risonanza” e il legname delle foreste del tarvisiano ha una qualità così elevata da essere acclamato come un’eccellenza mondiale. Per secoli questa area ha costituito il confine naturale tra il mondo latino, germanico e slavo. E il luogo simbolo dell’in-
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contro di queste culture è posto ad una altitudine di 1789m: il Monte Santo di Lussari. Il suo santuario è da sempre, infatti, meta favorita dei pellegrinaggi dei tre popoli, che si ritrovano qui in fratellanza e comunione per pregare insieme. La leggenda narra di un pastore, il quale dopo aver perso di vista le sue pecore, le trovò sul monte inginocchiate attorno ad un cespuglio di pino mugo. Al centro del cespuglio si trovava una Madonnina con Bambino, che il pastore raccolse e portò al parroco di Camporosso. Il fatto si ripetè nelle due giornate consecutive, finché il parroco decise di informare il Patriarca di Aquileia della curiosa vicenda, il quale ordinò, nel 1360, la costruzione di una chiesetta, laddove era stata trovata la statuetta. La chiesetta non coincide con quella attuale, che risale invece al 1500-1600. Attorno a questa si raccolgono strette case caratteristiche dell’alto Friuli, intonacate di bianco e affacciate sui vicoli, le quali fanno strada al santuario. Alcune sono negozi in cui acquistare tipici souvenir, altre locande in cui gustare piatti tipici, mentre altre ancora sono rifugi, in cui è possibile ancora pernottare. Il Monte Santo Lussari è raggiungibile in dieci minuti attraverso la cabinovia, la quale fa parte dell’impianto sciistico, ma rimane aperta tutto l’anno. Sempre che non si voglia procedere a piedi, in quel caso la risalita è possibile seguendo il famoso e impegnativo Sentiero del Pellegrino, oppure seguendo la strada forestale da Valbruna. Una volta in cima, si può godere di un panorama mozzafiato a 360 gradi sulla conca del tarvisiano. Il borgo gode della stessa bellezza disarmante e cambia completamente veste a seconda della stagione, senza stancare mai. Rimasta affascinata da questo suggestivo scenario, mi sono promessa di partecipare almeno una volta ad un famoso evento proposto dal 1974 ogni primo giorno dell’anno: la speciale fiaccolata che si snoda lungo la pista da sci più lunga dell’impianto, chiamata “Di Prampero”. Qui più di 200 sciatori nel tardo pomeriggio partono dalla cima del monte Lussari e scendono fino al campo sportivo di Camporosso con la fiaccola accesa, attesi da un estasiato pubblico. Uno spettacolo sbalorditivo, reso ancora più speciale dal grande falò e dai fuochi d’artificio che lo accompagnano. Ad attendermi a quote più basse, il personale dell’hotel a quattro stelle “Il Cervo”, che si è occupato con estrema cura e precisione del mio soggiorno nel comune più orientale e più esteso della vecchia provincia di Udine. Fin dalla notizia del mio arrivo, mi hanno saputo proporre diverse attività, grazie anche alla “+ Card Holiday”: una speciale 47
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chip card nominativa che permette di ottenere accessi gratuiti alle cabinovie, nonché ulteriori sconti in tutte le strutture convenzionate. L’ho trovata in un kit di benvenuto in una delle confortevoli stanze dell’hotel, le quali si affacciano con la propria terrazza direttamente sul bosco di Tarvisio. Un panorama di certo molto ammirato anche dal piano inferiore, dove si trova la SPA interna dell’hotel, con idromassaggio, due saune, bagno turco e la spettacolare piscina coperta panoramica. Immersi visivamente nella natura e coccolati in tutti i sensi da elementi naturali, qui ci si può lasciare trasportare dall’acqua e dalla pace, un benessere che fa scordare la frenesia e la monotonia di tutti i giorni. L’area wellness dispone anche di un’area relax per il benessere di mente e corpo, ottimale dopo lunghe giornate di lavoro, ma anche dopo una lunga giornata dedicata allo sport. In inverno, L’Hotel Il Cervo, diventa a questo proposito un punto strategico dove alloggiare, in quanto molto vicino alle piste da sci, mentre nei mesi più caldi, in quanto membro del network Bikeaways e del club Bike Expericence FVG, la struttura accoglie numerosi appassionati di mountain bike e di bici su strada. Le montagne del Friuli Venezia Giulia, infatti, si prestano come terreno ideale per questo genere di sport: il territorio vanta un’ampia scelta di percorsi per sportivi di ogni livello, dall’amatoriale all’esperto, adatti anche alle famiglie. Inoltre, offrendo un deposito sicuro e attrezzi per la riparazione, l’hotel è divenuto un vero e proprio punto di riferimento per gli sportivi su due ruote, compresi i motociclisti. 48
Il territorio di Tarvisio e, più in generale, dell’intera Val Canale, oltre che essere un punto di grande interesse naturalistico e sportivo, è ricco di testimonianze storiche. I villaggi della vallata si sono sviluppati in particolare grazie alle industrie metallurgiche e ai traffici commerciali, ma proprio in questa zona si sviluppò anche l’industria estrattiva, già attiva a partire dall’epoca romana. A Cave del Predil, o a Raibl, se si vuole conservare il suo nome austriaco originario, a 900 metri sul livello del mare, si trova infatti una delle più importanti miniere europee di piombo e zinco, scoperta in epoca romana e attiva dal diciottesimo secolo fino al 1990. Divenuta un ecomuseo, oggi fa parte del Parco Internazionale Geominerario di Raibl, un vero e proprio monumento alla memoria del lavoro operaio, oltre che interessante meta turistica e didattica. La vecchia miniera era costituita da un reticolo di 120 km di gallerie, disposte su 19 livelli, che scendevano fino a 520 m di profondità. Ad oggi, per ragioni di sicurezza, è possibile visitare solo alcuni degli spazi al suo interno, capaci ugualmente di restituire il racconto di questa valle e delle sue montagne. Queste ultime conservano in profondità il ricordo di vecchie vicende che hanno caratterizzato lo sviluppo della miniera e dei suoi confini, ritrovandosi ad appartenere ora fisicamente per metà all’Italia e per metà alla Slovenia. Non potevo trattenere oltre la curiosità dallo scoprire una delle zone meno note del territorio friulano e nazionale, ricche non
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solo di materiali, ma anche di ricordi e tradizioni radicate nella roccia. La visita guidata alla scoperta della miniera si è trasformata presto in un viaggio nel cuore della terra, compiuto per metà a bordo di un trenino a trazione elettrica. Un percorso che si è snodato lungo le gallerie che un tempo venivano utilizzate per portare alla luce il materiale estratto dalle miniere, ma anche, in momenti più ostili, per il trasporto di truppe e materiale bellico. Si stima infatti che durante la Grande Guerra, dal tunnel transitarono circa 446.890 austriaci e 240.000 tonnellate di viveri, munizioni e altro materiale necessario per le battaglie, tra le quali si ricorda in particolare quella di Caporetto. All’interno della montagna, tutt’ora si avverte il peso della storia, conservata nei suoi 6 gradi costanti. La guida ci ha aperto gli occhi su un passato che sembra lontano secoli, ma che appartiene invece alle generazioni dei nostri genitori e nonni. Un’esperienza incredibile alla scoperta di tecniche di estrazione, che lascia un misto di suggestione e di compassione per le fatiche di migliaia di minatori che hanno lavorato per secoli dentro le sue viscere. Una visita adatta sicuramente anche ai più piccoli, che riescono a comprendere le attività attraverso rappresentazioni visive delle attività passate, che procede poi con la Mostra della tradizione mineraria e il Museo storico militare “Alpi Giulie”. Un’ulteriore passeggiata nella storia, che si compie in questo caso attraverso documenti e testimonianze raccolte da studiosi, ex minatori, cittadini e appassionati, relativi alla storia dell’intero sito minerario, che ha segnato la vita di questa località e dei suoi abitanti. Di ritorno dalla visita, ho potuto cenare comodamente in hotel, il quale propone, nei suoi due ristoranti, piatti tipici dei tre confini, ma anche specialità mediterranee e internazionali. Il primo ristorante, che coincide con la grande sala colazioni dell’hotel, gode di una vista panoramica e di un accesso diretto alla terrazza, dalla quale ho potuto godermi un po’ di aria fresca. La taverna “Cantina di Epicuro” gode invece di un ingresso autonomo e di un caratteristico angolo caminetto, che rende l’atmosfera più calda ed esclusiva. L’Hotel Il Cervo si è rivelato, come l’ambiente che lo circonda, un luogo silenzioso e piacevole in cui riposare e rinascere. Lo stesso animale di cui la struttura porta il nome, che accompagna in vestito d’oro gli ospiti all’interno dell’hotel, è legato alla simbologia della rinascita: il cervo è infatti simbolo della vita che si rinnova proprio per le sue corna, che cadono in inverno per riformarsi poi primavera. 49
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A tavola a casa MIA in Autunno
Divagazioni e degustazioni cucinando con Giorgio C. Riva Oggi, 30 settembre... Ospite Pierluigi Zamò Commento al vino di Federico Magni Scatti di Matthias Parillaud 50
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Oggi, 30 settembre...mi son svegliato e…ho deciso, pollo come in Istria, in tecia coi peperoni. Lá lo mangiano col riso bollito. Io lo propongo con un quasi pilaf. Chiamo Pierluigi Zamò: “Vieni a pranzo e porta una magnum di Friulano 2019 - Vigne 50 anni”. Viene. Of course. È troppo amico e troppo bravo. Arriverà alle 13, puntuale come un orologio svizzero, sorridente, con la magnum, e non solo con quella.
Bene. In sua attesa, al lavoro. Sotto gli occhi e l’obiettivo di Matthias Parillaud, che mi segue con i suoi scatti per Voi. Il pollo, collo nudo, tirato su lasciandolo razzolare e a granaglie, un chiloeotto circa, pronto per la pentola, me lo ha fornito ieri, già a pezzi, una decina invece dei tradizionali 8, come gli ho richiesto io, l’amico Quagliaro di Ciconicco. Senza un 51
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fornitore di fiducia, serio, non si può ben cucinare nè si può godere di una buona cucina. Prendo una delle pentole in ghisa smaltate (non posso farne a meno) Staub e una teglia da forno “forata”. Raccolgo in terrazza la maggiorana. Un bel po’! L’adoro, e col pollo e coi peperoni sta d’incanto. Riunisco gli altri ingredienti. Il mio evo da cucina preferito, fior di sale, un ottimo pepe di Épices Roellinger da macinare al momento, vino, un buon pinot bianco - 2018 - del Collio, di 52
Roncús, 2 bicchieri, un bicchiere d’acqua, burro di Bretagna Bordier, il mio preferito (provatelo anche solo con un pezzettino di pane qualunque e sarete con me tutta la vita). E poi, peperoni gialli e rossi, 4 pomodori, una cipolla bianca, quest’ultima anche per il riso ad accompagnare e i “suoi” chiodi di garofano. Lavo e metto i peperoni, anche 4, 2 per colore, sulla griglia. Lavo la maggiorana che ho raccolto, l’asciugo bene, ne stacco le foglioline. Lavo i pomodori.
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Metto a stufare in acqua 1/2 cipolla affettata finissima. L’altra metà la tengo per il riso, appunto. Tolgo dal frigo il pollo a pezzi messo ieri sera a marinare (vino bianco, evo, pepe, salvia, rosmarino, cipolla bianca, aglio -di Sulmona- in camicia, leggermente schiacciato). Scolo bene i pezzi. Li infarino leggermente, salando e pepando, li spennello di evo. Li metto quindi sulla teglia e poi in forno a 220°. Spello poi i pomodori. Li taglio a pezzettoni cavandone i semi.
Li salo. Tolgo i peperoni dalla griglia e li metto in una terrina, che copro per favorire lo stacco della pelle. Dopo un po’ li spello e li taglio a striscioline. Un po’ di sale. È ormai autunno e i peperoni sono un ingrediente solare, un prolungamento dell’estate che ci è ancora nel cuore. Digeribili, se privati della pelle, sfatiamo una diceria. Nel frattempo, giunti a mattino inoltrato, per ovviare al languorino che mi prende quando cucino (e non solo a questo 53
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punto della giornata), con Matthias ci facciamo una bottiglia bella fresca di Pinot grigio -2013- di Toros con qualche fetta di soppressa -stagionata in “mio” camarin segreto- di Stefano Calligaris di Sottoselva, preceduta da un piattino a testa di ceci bolliti e harissa ben speziata, da tutti apprezzata, della cui mia versione sono orgogliosissimo. È tempo di mettere in pentola, piazzandoli ben bene in un solo “strato”, i tocchi di pollo, la mezza cipolla stufata, i pomodori a pezzi, le foglie di maggio54
rana, almeno 3 o 4 pizziconi, 1/2 cucchiai di evo profumato d’aglio (di cui ho sempre in frigo un vasetto pronto), una macinata di pepe, i 2 bicchieri di vino e il bicchiere d’acqua. Tappo la Staub bella colma con il suo coperchio e la metto in forno a 160 gradi. Il tempo di cottura dipende da tanti fattori. Dopo un’ora, comunque, togliete dal forno e scoperchiate. Innanzitutto per aggiustare di sale. Poi per verificare la densità e il punto di cottura. Azzardo che il sugo sarà ancora troppo liquido
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e che ci vorrà una mezz’oretta in più nel forno prima di poter aggiungere i peperoni. Ogni forno è una storia a sé. E quindi se questa mezz’oretta a 180/190 gradi dovrà essere a pentola scoperchiata o meno lo valuterete voi. Non temete, la vostra valutazione sarà corretta se vi sarete cimentati con la realizzazione di questo pollo sentendovelo già in bocca solo leggendomi. Il consiglio è infatti di provare una ricetta quando la sua lettura è già quasi una degustazione. Solo così avrete i necessari amore
e fantasia per una sua felice, per voi e commensali, riuscita. Quando il pollo pare pronto, aggiungo i peperoni, metto il coperchio, abbasso il forno a 100 gradi e lascio lì sino a quando non sarò pronto, anche con il riso, ad andare in tavola. Ho parlato di un quasi pilaf. Preparo infatti il riso in una risiera elettrica in cui metto, oltre il Kamâlis o il Basmati, acqua, sale, mezza cipolla con 2/3 chiodi di garofano e un pezzetto di buon burro. 55
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Poco prima della perfetta cottura del riso arriva Pierluigi. Ficchiamo in ghiaccio la magnum di Friulano 2019, vigne di 50 anni, COF, firmato in etichetta dal nostro, e ciò la dice lunga, e andiamo in tavola, in terrazza, distanziati e ancora al sole. Siamo in quattro e viene tutto spazzolato... I complimenti si sprecano. Anche per il vino. C’è piaciuto. Concordiamo anche che è complesso eppur di facile beva. Un vino decisamente gastrono56
mico a suo agio con carni bianche anche in cotture elaborate. Scelta azzeccata, quindi, per la tecia di oggi. Chiedo a Pierluigi di usare per questa sua bella bottiglia il “vocabolario” del vino. Si schermisce. Mi toglie dall’impasse mio nipote, Federico -Magni, importatore di vini e sommelier-, arrivato per caso e a cui ho subito allungato un bicchiere “bellezza cristallina, beva seducente e
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aromaticità millimetrica. Bosso, melissa, maggiorana e un tocco di miele di tiglio. Si allarga su note di biscotto e pera Abate senza mai perdere equilibrio e precisione. Ritorni sapidi asciugano un palato perfettamente corrispondente con lunghi echi finali di fieno maggese”. P.S. Se vi siete già procurati i pezzi di buon pollo per la ricetta ma non avete abbastanza tempo e volete gustarli comunque
al meglio, metteteli in pentola con dei gambi di prezzemolo -legati per poi toglierli agevolmente- direttamente, dopo averli “lavati” con un po’ di vino bianco, averli unti di evo, salati e pepati. Li coprirete di maggiorana, salvia, timo appena raccolti, a piacere. Verserete nella Staub un bicchiere abbondante di vino, che avrete prima fatto bollire per eliminare l’alcol, e un bicchiere e mezzo d’acqua, ancora evo, sale e pepe quanto basta. 57
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MARTA BEVILACQUA LA FILOSOFIA DELLA DANZA @marta.bevilacqua
Un corpo impegnato a danzare è un corpo impegnato a conoscersi e a comunicare con gli altri Intervista a cura di Alessandra Spangaro - foto di Alessandro Rizzi Lo Studio ha un arredamento curato e minimale: soffitti alti, un grande tappeto a coprire quasi tutto il pavimento, quadri alle pareti e alcune sedie che ricreano una piccola platea. Ad accogliermi c’è Marta Bevilacqua, movimenti eleganti e voce pacata, abito bianco e un sorriso gentile, una perfetta Cicerone contemporanea pronta a svelarmi le possibilità che si nascondono tra i movimenti dell’arte della danza. Mi trovo nella sede della compagnia Arearea, di cui Marta non solo è Presidente ma anche coreografa e una delle anime del gruppo dal 1998, mi fa accomodare mentre guardo i manifesti di vecchi spettacoli appesi al muro. Hai sempre voluto fare della danza la tua professione? Era una possibilità ma non sapevo che questa sarebbe stata la mia strada. Ho studiato filosofia all’Università e si sarebbero potute aprire altre porte, ma con il tempo ho capito che il mio futuro non prevedeva che stessi ferma, seduta in un ufficio… (ride) proprio non fa per me. Ho iniziato a danzare per passione e sono entrata a far parte di Arearea quando ero ancora molto giovane, Roberto Cocconi (danzatore, coreografo e co-direttore artistico della compagnia) ha subito insistito perché facessi un’esperienza formativa all’estero e così a 18 anni sono andata a studiare per due mesi in Francia. Immaginati come tutto poteva apparire agli occhi di un’adolescente, in anni in cui non c’erano ancora i cellulari: ci sono stati intoppi che avrebbero potuto cambiare il mio percorso, ad esempio non trovavo una casa, eppure ho vissuto questa esperienza con entusiasmo e da quel momento per me si è aperto un mondo nuovo che ha gettato le basi per il mio futuro: la danza. Un futuro e una professione in cui però ci sono uno studio e una ricerca continua. Arearea si porta dietro un bagaglio di esperienze che arrivano da persone, da artisti e professionisti di ambiti differenti. Amo, amiamo, mescolare le forme d’arte e per me è importantissimo ascoltare e imparare da bravi maestri, qualsiasi cosa abbiano da insegnare. Questo ovviamente ci porta a instaurare collaborazioni che ci spingono a metterci in gioco, percorrendo nuove strade. Ad esempio il progetto “Museo in danza” ci ha permesso di visitare gallerie d’arte ed esposizioni del FVG con delle guide, per poi essere a nostra volta noi danzatori a raccontare le opere 58
al pubblico, accompagnandolo in un percorso itinerante com’è accaduto al Revoltella di Trieste o in Casa Cavazzini a Udine. Da dove nasce la scelta dei luoghi per gli spettacoli? Dalla quotidianità: camminiamo per strada, visitiamo una città, magari siamo in vacanza e ci sono delle strade, delle vie, delle aree verdi, che guardiamo e ce le immaginiamo come scenario per un evento. Proponiamo da anni progetti che portano la danza in luoghi non convenzionali, negli ultimi tempi questa è diventata una necessità scaturita dalla pandemia, ma è da sempre un elemento essenziale del nostro lavoro: le coreografie degli spettacoli urbani ad esempio sono pensate per i borghi e le piazze com’è accaduto a Venzone, Palmanova, Valvasone e ancora ai giardini Ricasoli a Udine, a Cividale del Friuli, a Gorizia sul confine con Nova Gorica... A me piacerebbe moltissimo poter danzare all’Odeon di Udine,
SPORT - INTERVISTA
nella nostra città ci sono diversi cinema dismessi che sarebbe bello riaprire perché sono spazi storici e culturali importanti. Oltre alla produzione di spettacoli segui anche altri progetti? Sono partiti da poco i corsi a Lo Studio sia per danzatori professionisti che per amatoriali, si va dai 2 anni agli adulti. Speriamo di poter riprendere presto anche con i laboratori per gli istituti dell’infanzia, mi piace portare la danza nelle scuole e mi interessa sdoganare i pregiudizi sul maschile. Danzare purtroppo viene visto ancora come “una cosa da ragazze” e vorrei che si superasse questo clichè. Nel frattempo insegno anche all’Accademia D’Arte Drammatica Nico Pepe, dove lavoro con ragazzi in una fascia d’età ricca di urgenze, stanno crescendo e crescere è faticoso. Per questo è importante avere un luogo dove farlo e mi piace pensare di poterne creare uno per gli allievi dell’Accademia, essere d’aiuto:
per gli attori la danza è un momento importante per entrare in contatto con l’astratto, oltre al fatto che a vent’anni c’è una necessità imperante di trovare il modo di esprimersi e l’arte in questo viene sempre in soccorso. Collaboro con l’Accademia Ca’ Foscari di Venezia, dove sono tutor nel Master in Comunicazioni e Linguaggi non Verbali e sono docente all’Accademia delle Diversità di Bolzano, dove insegno a persone con delle disabilità. Qui il tipo di lavoro è ancora una volta differente, perché nasce da esigenze diverse e significa stravolgere tutta una serie di preconcetti, è un’esperienza molto intensa. C’è un progetto che non hai ancora attuato ma a cui aspiri? C’è e ci sto lavorando…(ride)…ma per scaramanzia non te lo dico! 59
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ANTONIO SQUIZZATO @antoniosquizzatoatleta
Intervista a cura di Gloria Buccino foto dall’archivio di Antonio Squizzato Antonio Squizzato, velista friulano appena rientrato dalla Para World Sailing Championship che si è tenuta dal 25 al 29 settembre 2021 a Warnemunde in Germania, in cui ha gareggiato nella categoria 2.4mrR, con un secondo posto nella classifica paralimpica e un quarto posto nella classifica generale (ndr. paralimpici e normodotati), già vincitore di sei titoli italiani, un oro e due bronzi europei, un argento mondiale e con tre partecipazioni alle Paralimpiadi alle spalle, ci ha concesso un’intervista nella quale racconta la sua passione per il mondo della vela, come uomo prima che come atleta. Antonio, raccontaci un po’ chi sei. Mi chiamo Antonio Squizzato, ho 47 anni, sono nato in provincia di Udine, esattamente a Pocenia. Ho sposato una bellissima ragazza sarda di cui sono follemente innamorato e che mi ha dato l’altro amore della mia vita, mia figlia, che ha 5 anni. Che altro dire, lavoro come impiegato, sono lunatico, a volte estroverso, innamorato della vita sempre, anche se a volte non lo dimostro, e testardo. Ah, ecco, sono fortunato: ho avuto un incidente con un trattore all’età di 3 anni, ho perso una gamba ma mi è rimasto tutto il resto, compresa la vita. Alcune doti le ho ereditate dalla mia famiglia, sono agricoltori, da loro ho imparato cose come il sacrificio, la tenacia, a sopportare e a fare del tuo meglio, il rispetto, il fatto che per avere, devi dare, e tanto altro. Ho vissuto fuori regione per qualche anno, sono spesso in giro per il mondo ma sono tornato dove ho le radici, in Friuli. Quando hai iniziato ad approcciare la vela e come hai capito che era quello che faceva per te? Il mio approccio alla vela l’ho vissuto grazie ad un amico che ora non c’è più, il Gil, abitava a Codroipo ed era uno sportivo a 360° e frequentava da sempre Lignano. Sai, cresci in un paese piccolo, fai tutto come fosse normale, poi ad un certo punto di rendi conto che hai dei limiti, o meglio, che devi fare alcune cose in modo diverso e magari hai timore a fare delle cose nuove, anche di farti male. Lui mi ha convinto a provare, sono salito su una deriva con lui d’estate a Lignano dalla spiaggia di Sabbiadoro ed ho iniziato a capire alcuni rudimenti, ad essere affascinato da questo sport. Ma la vera differenza la fanno le emozioni: se chiudo gli occhi riesco a ricordare ancora cosa ho provato la prima volta che, con l’acqua a mezzo busto, il caldo, il sale, ho spinto la deriva e ci sono salito sopra, ho preso timone e scotte in mano ed ho iniziato a navigare, con il vento, io da solo… mi sembrava di essere arrivato chissà dove e quando mi sono girato avevo appena superato le boe ed è arrivata anche la paura di non riuscire a tornare a riva… bè, emozioni. 60
Questo fa muovere le persone, quello che provano. Ed è questo che mi ha fatto andare avanti in questo sport che, come tutti gli sport praticati ad alto livello richiede sacrifici e fatiche enormi. Ed insieme alla gioia è arrivata anche la consapevolezza che potevo farlo, che era una cosa mia. Come sei entrato nel mondo delle regate e dell’agonismo? Ho iniziato a fare qualche regata nel nord Adriatico con una barca, il 2.4mr, nato per lo studio in galleria del vento delle barche di Coppa America degli anni 80. È una barca che ti permette di stare seduto ed avere il timone e tutte le manovre a portata di mano, quindi adatta anche a chi ha una disabilità e, circa 20 anni dopo, quando era già diffusa nel mondo come classe, è stata adottata per il debutto della vela come sport paralimpico. In realtà in quelle regate mi sono avvicinato senza velleità di risultato anche se lo spirito agonistico è emerso subito come anche l’amaro di arrivare in fondo classifica. Ho quindi iniziato a prepararmi al mio meglio assieme al Gil, ottenendo qualche buona performance nel tempo. Il grosso cambiamento è venuto dopo che il fato ha voluto che
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un equipaggio di Jesolo, che aveva classificato una barca in equipaggio da tre per le paralimpiadi di Pechino, ha dovuto cambiare il prodiere a sei mesi dall’evento ed in quella occasione contava più la prestanza fisica che i miei rudimenti di vela ed ecco che… da qualche regata della domenica mi sono trovato a prendere schiaffi alle regate internazionali. Ho fatto quell’esperienza e mi sono rimboccato le maniche salendo su barche diverse, facendo cose diverse, studiando quanto potevo ed iniziando un percorso con i tecnici federali.
Posso anche dirti che possiamo provarci, che tante montagne le possiamo affrontare un pezzo alla volta, che dobbiamo stare attenti a che limiti ci poniamo NOI, che dobbiamo essere sempre ORGOGLIOSI di quello che siamo e di quello che otteniamo. Se riuscissi a portare questo messaggio….sarebbe tanta roba, credo! C’è un messaggio che vorrei riuscire a trasmettere a mia figlia: che possiamo fare sempre del nostro meglio con quello che abbiamo e che non è un dovere, è una opportunità!
Cosa significa per te essere un atleta paralimpico? Quale messaggio porta con sè questa dicitura e che ruolo sociale pensi che abbia questa figura? Essere un atleta paralimpico all’interno della società, che messaggio porta…posso dirti cosa ha portato a me vedere degli atleti paralimpici: vedere ragazzi che hanno difficoltà a fare quello che si dà per scontato, alzarsi dal letto, andare in bagno, muoversi, a volte mangiare, salire in barca e tirare magari le scotte con i denti, combattere con 25 kn di vento ma non mollare, e poi magari sentirli dire “WOW la vita è una figata”, bè è un messaggio forte.
In varie interviste hai detto che continuerai ad andare a vela fino a che questa sarà per te una gioia, pura passione...ecco, cosa provi quando sei in barca? E’ difficile descriverlo, usiamo spesso parole come passione, metterci il cuore ma, proviamo a pensarci, cosa significano veramente? Cosa è una passione per cui sei disposto a fare sacrifici, a farli fare alla tua famiglia, a mettere davanti questa cosa alla tua vita sociale, al lavoro, all’aspetto economico, ecc..? Sono le emozioni, proprio quello che provo la mattina svegliandomi e pensando alla vela, quando mi avvicino ad un evento, quando arrivo davanti ad un avversario che non riu61
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“C’È UN MESSAGGIO CHE VORREI RIUSCIRE A TRASMETTERE A MIA FIGLIA: CHE POSSIAMO FARE SEMPRE DEL NOSTRO MEGLIO CON QUELLO CHE ABBIAMO E CHE NON È UN DOVERE, È UNA OPPORTUNITÀ!” scivo a battere magari dopo un anno di preparazione, quando riesco in una cosa che non mi veniva, e poi l’adrenalina della regata, quando vado vicino ad una vittoria o quando vinco. Non so se riesco a descrivere quello che provo senza essere banale ma penso che sia uno dei momenti in cui mi sento vivo, forte, innamorato, in cui tutto è amplificato. Quando ho vinto l’europeo open nel 2019 in Austria ho tagliato la linea di arrivo ed ero felice, si è avvicinato il tecnico federale per appendere la bandiera italiana alle sartie ed ho sfilato con il tricolore fino al porto… oggi se ci ripenso mi emoziono. Quando poi sono andato a cambiarmi ed ho telefonato a mia moglie ho iniziato a piangere e non riuscivo più a parlare, bè lo faccio per questo, per le emozioni che mi dà. Fai parte della Società Canottieri Garda Salò e spesso ti alleni sul lago. Preferisci allenarti lì o in mare? Quali sono le caratteristiche e le differenze di questi due ambienti? Mare o lago sono due cose diverse, bisogna conoscere e saper andare in tutte le condizioni. Abbiamo, in Italia, dei laghi bellissimi, il lago di Garda è una palestra eccezionale per le regolarità delle termiche, il lago di Santa Croce offre delle situazioni di allenamento buone, il tipo di onda che hai, l’influenza della morfologia, bisogna allenarsi anche sui laghi… Ma l’odore del mare, il sapore del salso sulle labbra, i suoi colori, le condizioni delle termiche, l’orizzonte così lontano, a me il mare emoziona e lo amo sopra e sotto. Ho fatto delle immersioni stupende davanti alle nostre coste. Durante la pandemia mi ha ospitato per gli allenamenti con la barca Laser la Società Nautica Pietas Julia a Sistiana, condizioni uniche anche queste con in genere termiche leggere e a volte bora da non riuscire a gestire la barca. Sono felice di aver iniziato una collaborazione con il network Marine del Friuli Venezia Giulia, l’FVG Marinas. Abbiamo diverse idee per organizzare degli eventi lungo tutta la costa da Trieste a Lignano e non vedo l’ora. Che tipo di impegno e preparazione atletica prevede questo sport? La preparazione deve essere completa, non solo fisica; comunque io lavoro, quindi devo mettere la sveglia la mattina alle 5.30. L’allenamento prevede un percorso stabilito con il 62
preparatore atletico del mio circolo, la Canottieri Garda Salò. Cambia a seconda che si sia vicino o lontano da un evento ma comunque prevede un rinforzo delle parti impegnate nelle manovre in barca, abituandole a fare il movimento nel modo più corretto possibile ma anche un lavoro sui muscoli antagonisti e sulle parti che compensano, per prevenire infortuni. Integro con un allenamento aerobico, con il nuoto e lo stretching. Certo, con la pandemia sono cambiate tante cose privilegiando la preparazione a casa, soprattutto a corpo libero. Il tutto va accompagnato dalle indicazioni del nutrizionista. Poi bisogna prepararsi sul regolamento, rivedere regate e allenamenti per studiare gli aspetti della tattica e della strategia e,
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non certo ultimo, bisogna allenare la testa!! Bisogna fare un lavoro mentale con attenzione alla respirazione, sui gesti atletici, sui gesti tecnici, sull’approccio agli eventi ecc. Un professionista riempie la giornata senza andare in barca, io rubo a spizzichi e bocconi, magari mentre guido per andare al lavoro, in pausa pranzo, ecc... Quale è la tua percezione di inclusività legata all’ambiente sportivo? Inclusività penso sia tutto quello che ci siamo detti fino ad ora. Sono Antonio, sono un velista. Al mondiale del 2019 dove sono arrivato quarto a 4 punti dal podio con una squalifica tecnica costata 12 punti, eravamo quasi 100 barche e, disabili, saremo stati 15, non lo so, non li ho contati e a nessuno interessava sapere se nella barca davanti o in quella dietro c’era un disabile o un normodotato, era un avversario da battere e basta. Un atleta. È questa l’integrazione? Io penso di si. Ci perdiamo a volte sulle definizioni: disabile, portatore di handicap, handicappato…. Ma se parlassimo di persone e basta? Se ci fosse alla base il rispetto per le persone servirebbero tutte queste leggi per tutelare alcuni? Io, quando me lo chiedono, parlo volentieri ai ragazzi nelle scuole e faccio vedere la protesi che porto e racconto che vado in barca. Questo per far capire che sono semplicemente una persona, che non deve essere una carozzina o una protesi a mettere una
distanza tra le persone e che anche se ho una protesi posso provarci e magari ci riesco. Perchè spingere un bambino a praticare uno sport? Qua ti devi prendere qualche giorno per ascoltare tutte le motivazioni! Scherzo, ma l’elenco è lungo! Posso dirti che sento spesso parlare delle nuove generazioni, della depressione in aumento tra i ragazzi, di mancanza di impegno e molto altro ma ti posso dire che nell’ambiente dello sport che frequento ho avuto modo di conoscere ragazzi meravigliosi, di cui i genitori devono sicuramente essere fieri. Ragazzi che fanno chilometri per andare ad allenarsi e magari capita la giornata di piatta o di troppo vento, si abituano a doversi accontentare in alcuni momenti, a desiderare in altri, si abituano a fare sacrifici allenandosi quattro o cinque volte alla settimana e studiando alla sera, a dover guadagnare con fatica il risultato in classifica ma la soddisfazione della conquista, del guadagno, di vedersi migliorare, di un risultato ottenuto con le proprie forze... quanto vale, quanto motiva, quanto valore aggiunto ha, quanto ti dà per affrontare poi le situazioni della vita? Poi nella vela sei all’aperto, sull’acqua con un mezzo e devi controllare un elemento, il vento, magari in barca da solo, devi decidere dove andare, come approcciare…. Credo che per un bimbo sia una occasione unica, fantastica. Grazie Antonio e...buon vento!
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NIVES E ROMANO: GIÙ LE MANI DALLE GIULIE @mellun71
Una doppia intervista sul futuro delle nostre montagne Testo a cura di Melania Lunazzi - foto di Alex d’Emilia e di Luca Della Savia
Sono la cordata - e la coppia - più alta del mondo, Nives Meroi e Romano Benet, scalatori dei quattordici Ottomila, fieri portavoce di un approccio by fair means alla montagna, paziente, costante, ostinato, pulito. E vivono la loro quotidianità, in tutte le stagioni, ai piedi delle Alpi Giulie, montagne di confine tra tre popoli. Qui Romano è nato, in una casa nella frazione di Fusine. Qui Nives è arrivata da bambina, assieme ai suoi genitori, dalla Lombardia. E qui si è formata la loro coscienza di montanari, la loro visione così speciale della vita, in un luogo dove l’orizzonte è delimitato dai boschi e da barriere imponenti di roccia. Barriere che però non hanno mai costituito un limite. Tutt’altro, le Giulie sono state un affaccio sul mondo, l’inizio di tutto, il trampolino di lancio per un grande sogno diventato 64
realtà, in un viaggio avventuroso e senza confini durato, nella fase della scalata agli Ottomila, ben ventisette anni. Entrambi sono stati folgorati dalla bellezza delle montagne di casa. Fin da piccoli le hanno avvicinate come amiche, con naturalezza e senso di gratitudine, mai sopito nel tempo, per quanto di buono esse offrono, se accostate con rispetto e attenzione, alla natura umana. Una natura che ha sempre bisogno di essere risvegliata nell’originaria impronta più selvaggia e animale, troppo presto repressa o dimenticata. E le Giulie li han portati, per strade diverse, all’incontro reciproco fino alla scelta di condividere un’unica strada insieme. Gli abbiamo chiesto di raccontarcele e di raccontarci, attraverso la loro prospettiva di residenti, come vedono il futuro della montagna.
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Vista del Mangart dal Lago Superiore di Fusine Come pensi alle Alpi Giulie quando ne sei lontano/ lontana?
persona cara. Anche quando si va sugli Ottomila rimangono dentro, sono una parte di me, di noi. In una parola, sono casa.
Romano: Le Giulie per me sono importanti, mi ci trovo bene da sempre. Da lontano sono un luogo sicuro dove tornare, anche se in Himalaya è quasi come se fossi nelle Giulie. Seppure con molte differenze, in entrambe non c’è gente, non c’è affollamento. Le Giulie in più hanno su di me un forte impatto emotivo: ne ho bisogno, sempre. Le Dolomiti ad esempio sono bellissime, ma troppo tracciate da percorsi facili, troppo accessibili a tutti, ovunque. Nelle Giulie non hai le sicurezze delle addomesticate Dolomiti, per questo sono meno frequentate. Io ho iniziato da bambino, esploravo pian piano i dintorni di casa. Del resto ero abituato a camminare perché per andare all’asilo dovevo fare ogni giorno quattro chilometri a piedi, accompagnato dalla nonna lungo quella che oggi è la ciclabile. Odiavo quel tragitto, ma tutti quei chilometri sono serviti a formarmi sulle attività alpinistiche successive. Infatti non ho mai percepito la fatica e non ho paura di restare solo, anche se, ovviamente, mi piace molto stare in compagnia.
Che cos’hanno di speciale rispetto ad altre montagne?
Nives: Da lontano vivo le Giulie come un luogo dove tornare: c’è con “loro” un legame affettivo e c’è il piacere di muoversi in un ambiente familiare rispetto a quello himalayano. Quando sono lontana provo sicuramente una sorta di senso di nostalgia, che non è mai assenza ma, al contrario, presenza: le hai sempre con te, anche quando non ci sono, come con una
Romano: Direi la severità. A vederle da sotto fanno impressione: le pareti nord sono scure, tetre, non danno l’idea di pareti solari, ispirano repulsione. Il Mangart di Coritenza, che è la mia montagna di casa, ha spesso una luce bluastra. Però quando ci sei immerso, tra quelle rocce, le Giulie ti lasciano passare e ci stai bene. Per qualcuno rimangono sempre impegnative. Non c’è dubbio che per scalarle ci vuole il senso della ricerca della via: devi metterti sempre nei panni dei primi salitori. Io, oramai, sono integrato con le pareti nord, ci ho vissuto tutta la vita, all’ombra di quel versante. Nives: Cos’hanno e cosa, con tutto il cuore, spero riescano ancora ad avere in futuro! Sicuramente un lato selvaggio, inteso nel senso di naturale. Che è poi quello che chi si avvicina alla montagna cerca - credo - per risvegliare un briciolo di memoria della propria appartenenza al regno “animale”. Un aspetto relativamente integro, non modificato dall’uomo. Ed è quanto si spera, io spero, continuino a mantenere, anche se i presupposti sembra che non ci siano. Purtroppo la mentalità attuale è quella di trasformare sempre più la montagna in un banalissimo parco giochi, pensando che questa sia la strada per incrementare il turismo. 65
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Sella del Mangart C’è un luogo, un punto, un itinerario che prediligi in particolare modo? Romano: Sotto la parete dell’Alpe Vecchia, ad una quota di circa 1400 metri, c’è un passaggio, un punto dal quale nel giro di pochi secondi, mentre sali, si apre la parete all’improvviso, uscendo dal bosco fitto. Se ci vai verso sera poi, la luce illumina le rocce e le rende più dolci, più accoglienti. Io ci vado in qualsiasi stagione, almeno una volta alla settimana. Bisogna salire in senso antiorario lungo il sentiero 613 dall’Alpe Tamer verso l’Alpe Vecchia. È sempre una sorpresa arrivare lì: vieni quasi investito dalla parete. Situazioni simili ad esempio nelle Alpi Carniche non le trovi, perché c’è sempre una fascia intermedia di malghe o prateria e hai tempo di abituarti alla parete avvicinandola pian piano. Nives: Anche per me è l’Alpe Vecchia (Romano mi ha copiato! ride scherzosamente). Il sentiero sale in mezzo al bosco e poi la vista si apre con l’effetto delle quinte di un teatro. Sembra che il Mangart di Coritenza ti caschi addosso da quanto incombe. Di colpo le fronde degli alberi scivolano via e ti viene sbattuta in faccia la parete. Dove porteresti una persona che viene per la prima volta nelle Giulie? Romano: Nelle Giulie slovene a Cima Sleme partendo da Passo Vršič: è un percorso di circa un’ora di cammino con un sentiero comodo che porta a questa cima ed è proprio nel centro delle Giulie: da lì le vedi tutte e in autunno è un itinerario magico, per chi ama il cosidetto foliage, parola oggi troppo di moda (ride). Non a caso il panorama è stampato su diverse cartoline della Slovenia. Nives: Fin tanto che non sarà uno scempio, qui ai laghi di Fusine. Intorno al lago ci sono diversi sentieri che offrono varie prospettive sia sul lago, che verso i boschi e le pareti. Percorsi semplici, che permettono di osservare lo scenario che c’è intorno e di subirne la misteriosa fascinazione. Direi comunque che un pregio delle Giulie è quello di avere diversi percorsi di fondovalle che offrono un terreno adatto 66
Vista della Sella del Mangart anche a chi non è necessariamente tecnicamente preparato. È ottima anche la zona di Valbruna così come il versante a ridosso delle Alpi Carniche: là ci sono molti boschi e meno rocce ma in compenso panorami che possono addirittura ricordare il Canada. Il più grande insegnamento che ti ha dato la montagna. Romano: Penso che le montagne, se le rispetti, non siano né buone né cattive, come a volte si sente dire. Se le rispetti ti senti accolto e protetto. La montagna ti dà strumenti per fronteggiare le difficoltà. Ti mette alla prova e ti ridimensiona le difficoltà della vita reale. La vita rustica fatta tra queste montagne da bambino mi ha allenato ad affrontare tutte le difficoltà della vita. Nives: La pazienza, sicuramente. Per arrivare in cima devi fare un passo davanti l’altro ed è così, molto semplicemente, che la montagna ti mostra come impegnarti con costanza, determinazione, volontà. Quello che la montagna insegna è in qualche modo l’allenamento all’umiltà. E poi c’è un’altra cosa importante. La montagna ti insegna anche ad accettare i fallimenti, a considerarli semplicemente come tappe di un percorso, senza vederli in maniera assoluta e definitiva. Quando fai trascorrere un po’ di tempo e guardi indietro, ti rendi conto che i fallimenti sono tappe del tuo stesso cammino. Ora una domanda provocatoria, ma neanche tanto. Secondo te i montanari salveranno il mondo? Romano: Ma esistono ancora i montanari (sorride ironico)? Purtroppo qui, nel tarvisiano, c’è la tendenza a monetizzare tutto. Si stanno distruggendo paradisi naturali per costruire parcheggi e incassare pedaggi. Qui si pensa, ad esempio, alle auto ma purtroppo non si pensa ai ciclisti, al turismo su due ruote. Quindi a volte sono gli stessi “montanari” a immaginare che la montagna debba diventare un parco divertimenti: io non mi trovo d’accordo. Penso invece che dovremmo essere consapevoli che qui nelle
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Panoramica delle vette verso est dalla Sella del Mangart
Dettaglio della parete rocciosa del Mangart 67
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Giulie abbiamo una foresta millenaria da custodire e puntare a valorizzare un tipo di turismo più contemplativo. E al tempo stesso investire sulla messa in sicurezza di sentieri e ferrate. Quest’anno ad esempio non si è speso nemmeno un centesimo per fare manutenzione sulle ferrate, eppure per gli impianti di risalita i soldi si trovano sempre. In questo bisognerebbe guardare alle Dolomiti, dove i sentieri e le ferrate sono sempre in perfetta manutenzione. Oppure guardiamo ai parchi americani: come mai riescono a rendere milioni di dollari senza che vengano realizzati parcheggi e infrastrutture invasive? Nives: Sì, se i montanari per primi si rendono conto di che cosa sono e cosa vogliono. Potrebbero salvarla, perché le montagne sono state sempre, in special modo le Giulie, luoghi di confine e proprio per questo luoghi aperti all’incontro e al confronto, al dialogo e alla condivisione culturale. Le montagne non sono mai state dei muri invalicabili, ma dei punti di incontro tra le varie vallate, tra diverse lingue e culture, e in questo senso la gente di qua è sempre stata aperta all’altro. Le montagne attraverso i valichi hanno permesso alla gente di andare al di qua e al di là degli stessi. Quello che non serve, a mio parere, alla montagna è l’apertura totale e incondizionata verso i modelli importati dalla città. Si pensa, a torto, a mio avviso, che per attirare il turismo cittadino si debba proporre ciò che il cittadino trova in città. Io credo invece che ci si debba sforzare di capire cosa offrire al cittadino che non sia una brutta copia di quello che trova a casa sua. Il turismo serve alla montagna perché se i residenti non hanno la possibilità di continuare a vivere in montagna per mancanza di risorse sono costretti a spostarsi. E l’abbandono della montagna comporta, lo sappiamo bene, una serie di problemi che dalle terre alte arrivano fino in città. In Slovenia, e quindi anche nelle Giulie slovene, c’è una cultura turistica diversa, pur essendoci grande afflusso il territorio viene preservato e vissuto in maniera naturale. Nelle Dolomiti sappiamo bene che c’è un eccesso di frequentazione, rumore e inquinamento sui passi troppo frequentati da automobili e motociclette: se pensiamo che questo sia il modello da seguire andiamo avanti così. Ma con che conseguenze sulle selvagge Giulie? 68
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PICCOLO VIAGGIO IN VAL RESIA @mellun71
Tra tradizioni, fierezza, paesaggi incantati e panorami multicolore, in una delle valli più integre del FVG Testo a cura di Melania Lunazzi - foto di Daniele Buttolo, Marco Di Lenardo, Gabriele Pascutti
Panoramica della valle Raccolgo qualche foglia caduta e rimango in ascolto del Torrente Resia, che dà il nome alla valle e scorre verso Resiutta per poi gettarsi nel Fiume Fella a mischiarsi, limpido, al Tagliamento: un’acqua preziosa, tutta la vallata ne è ricca, anche nel ramo che sale a Sella Carnizza e scende verso Uccea. Sono partita a piedi da Stolvizza per seguire in discesa il Ta Lipa Pot, il facile sentiero ad anello che consente di esplorare una parte del fondovalle resiano, uno degli itinerari pensati per accogliere gli amanti delle passeggiate nello scenario naturale di questa valle appartata e, in qualche modo, nascosta. La Val Resia è una delle porte d’accesso alle Alpi Giulie: è da qui che i pionieri friulani dell’alpinismo a metà Ottocento hanno intrapreso le prime salite verso il Monte Canin, che con i suoi bastioni occidentali chiude e domina la vallata, lunga quasi venti chilometri nella sua estensione Ovest - Est. Un accesso sicuramente non semplice, quello al Canin da questo versante. Allora come oggi è da affrontare solo se si ha una certa esperienza, da Malga Coot e da Casera Canin in su accontentandosi, se si è neofiti, di guardare i ripidi pendii dal basso, come ho fatto io oggi, attraversando i boschi del fondovalle che cominciano a trascolorare con tutto il loro fascino. La bellezza, anche a fondovalle, non manca e non è un caso che in resiano Ta Lipa Pot significhi proprio “il bel sentiero”. Questo anello di dieci chilometri è adatto a tutti - ha anche una variante breve -, è facilmente individuabile, ben tracciato 70
e si può percorrere a piedi in quasi tutte le stagioni dell’anno, offrendo il giusto equilibrio tra ambiente naturale e antropizzazione. E poi il dislivello in salita è trascurabile, solo centocinquanta metri, e si fa senza fatica. Supero il Torrente Resia e gli stavoli della località Tu - w Loo, passo attraverso qualche campo adatto alla coltivazione per risalire di nuovo a Stolvizza, una delle cinque frazioni della valle. Qui le case conservano in gran parte ancora l’architettura originaria: la base rocciosa su cui poggiano le ha salvate dalla violenza del terremoto del 1976, che non ha risparmiato invece le abitazioni delle altre frazioni, rase al suolo e ricostruite con materiali e forme diversi. Mi fermo davanti al monumento all’arrotino, una grande lastra in bronzo che riproduce un arrotino al lavoro in sella alla bicicletta dotata di mola. Per decenni questo è stato il mestiere di molti resiani, che pedalavano per centinaia di chilometri affilando forbici, coltelli e altri strumenti della quotidianità. Dietro la bella chiesa del paese il Museo dell’arrotino li raccoglie e documenta l’attività di questi artigiani con belle immagini e documenti ed è uno dei segni distintivi dei resiani assieme ai balli, al carnevale, alla lingua e al pregiato e raro aglio. Di fronte al momunento, al Bar All’arrivo, ci sono diversi avventori e già dall’esterno si percepisce un’atmosfera cordiale, quella spontanea di una comunità coesa, saldamente ancorata alla propria terra e identità, ma pronta ad accogliere il visitatore con gioia.
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Una parte del sentiero Ta Lipa Pot
L’Assessore Gabriele Pascutti e Gigino Di Biasio Rispondo al saluto di chi mi vede passare e, ora che ho fatto il pieno di endorfine e aria pulita, mi affretto per scendere a Prato di Resia, dove ho appuntamento all’Osteria alla Speranza con l’assessore alla cultura Gabriele Pascutti, giovane architetto impegnato sul territorio. “Stolvizza è uno dei nostri centri che, grazie alla presenza dei due musei (l’altro è il Museo della Gente della Val Resia, ndr) e anche alla cura dei sentieri, ha un po’ di fermento turistico. L’amministrazione ha sempre investito negli anni sulla cura e manutenzione dei sentieri, in valle ce ne sono diversi da percorrere, ciascuno con un tema (si trovano descritti sul sito www.ecomuseovalresia.it). Mi sento di dire che come i nostri,
Stavoli Gnivizza nella montagna friulana, ce ne è davvero pochi, così gestiti da una amministrazione. E’ un lavoro di squadra tra il Parco Naturale delle Prealpi Giulie, il comune e alcune associazioni, che periodicamente sfalciano i tracciati per 51 chilometri”. Mentre mi parla dischiude la mappa di un settore della valle su cui è riportato, oltre al Ta Lipa Pot anche un secondo anello, più basso e più grande: “Vedi? Questo sarà il Ta Stara Pot - letteralmente “il vecchio sentiero” - il nuovo progetto sentieristico che, visto il successo del primo anello ricalcherà dal prossimo anno tracciati già esistenti per collegare le località di San Giorgio, Gniva, Oseacco e Prato di Resia: verrà segnalato e accuratamente mantenuto con lo sfalcio.” 71
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Faggeta Barman
Un altro sentiero di fondovalle che omaggia il turismo lento dunque e permette di stare immersi nella natura, anche in autunno inoltrato. Sarà invece un omaggio ad Ardito Desio, il famoso geologo ed esploratore che ha coordinato la conquista italiana del K2 in Karakorum, il sentiero - più impegnativo che risale da Coritis le meravigliose faggete del Parco Naturale delle Prealpi Giulie fino a Casera Canin (il 642) perché Desio lo ha percorso più volte per preparare la sua tesi di laurea sul periodo glaciale della Val Resia. Ancora pochi sanno che quel sentiero è stato percorso il 14 marzo 1956 anche da uno dei più grandi alpinisti della storia, Walter Bonatti - che fece parte due anni prima della stessa spedizione del K2 assieme ad un altro friulano, Cirillo Floreanini - per dare inizio alla sua straordinaria traversata delle Alpi con gli sci. Nel 2016 la traversata di Bonatti è stata ricordata, qui in valle, con ospiti alcuni forti sciatori della regione. Ora accanto a noi si è seduto anche “Gigi”, Gigino Di Biasio. È lui il proprietario della trattoria Alla Speranza, che qui in valle è un punto di riferimento e ritrovo per i valligiani, oltre che una locanda molto apprezzata dai visitatori. Gigi vorrebbe che la sua valle fosse più viva, più organizzata per il turismo, ma riconosce la qualità delle iniziative fatte fin qua: “Fino al 2000 il trend di abbandono dei campi era costante dagli anni Cinquanta. Poi si è riusciti a far mettere a coltura l’aglio (il famoso strok, ndr) che ha suscitato un notevole interesse, ma andrebbe fatto di più per attirare le persone.” Gigi per quanto 72
può ci mette del suo e qui si possono gustare pietanze meravigliose: imperdibili le cjalçune, grandi e gustosi fagotti a triangolo con farina e patate ripieni di erbe e altro che mi ricordano per il loro torreggiare i magnifici cappelli resiani indossati per il Carnevale. Quel carnevale che anche nella trattoria di Gigi viene messo in evidenza con la conservazione delle ceneri del fantoccio bruciato ogni anno, così come alle pareti si trovano esposte decine e decine di fotografie di vari suonatori della Val Resia: una sorta di memoriale a disposizione di tutti. Saluto i gentili ospiti della valle e il piacevole clima della trattoria per fare ancora due passi. Mi sposto verso Sella Carnizza passando per Lischiazze, dove è presente una foresteria, che assieme a qualche bed&breakfast e casa vacanza è una delle non numerose forme di ospitalità della vallata, oltre all’unico albergo: “I posti letto sono un centinaio ufficialmente - mi spiega Patrizia Crespi, guida turistica che ha scelto di abitare in valle - ce ne vorrebbero di più, perché le richieste non mancano. Magari bisognerebbe convincere i proprietari delle tante abitazioni chiuse, residenti altrove, a metterle a disposizione come è stato fatto da altre parti in montagna, con l’albergo diffuso ad esempio”. Superata Lischiazze la strada comincia a piegarsi in diversi tornanti per raggiungere la sella che fa da spartiacque e offre uno sbocco verso la Slovenia, percorsa da diversi motociclisti in un senso e nell’altro. Anche qui si attraversa una faggeta di grande
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Faggeta Barman dall’alto
bellezza e in alto si approda ad una sorta di altipiano incastonato tra Alpi e Prealpi Giulie: non a caso era stato scelto come luogo strategico militare, sia durante la Prima Guerra Mondiale sia durante la Guerra Fredda. Oggi i pastori fanno pascolare gli animali e vi si trovano due baite con ristoro, frequentate anche dai camminatori che percorrono il Cammino Celeste verso Casera Nischiuarch e la Valle di Uccea, immersi nella ricca vegetazione che regala ombra e fresco nei mesi caldi. Sento cadere qualche goccia di pioggia e ripiego in auto, per collegarmi nel rientrare a valle ad uno dei frizzanti podcast realizzati da Virna Di Lenardo e Gianluca Da Lio, due giovanissimi con origini resiane. Bibliotecaria con laurea in comunicazione lei, attore di teatro con laurea in antropologia lui, il loro amore per la valle li ha portati durante il lockdown a ideare il progetto “Krama: Mercanti di storie” (che in resiano è la cassa che i commercianti della valle, Kramarij, si portavano sulle spalle) e un canale podcast con due rubriche: quella omonima dove raccontano dialogando aspetti della cultura e della tradizione di Friuli Venezia Giulia e Veneto e Kaku Sa di? (letteralmente: come si dice?) dove trattano aspetti dell’idioma resiano. Le trasmissioni si possono ascoltare online. I loro occhi brillano di entusiasmo, le voci allegre mi accompagnano nella sensazione di calda ospitalità, amore e magia che suscita questa vallata quando dicono all’unisono “Perché sono i luoghi che fanno le persone e le persone che fanno i luoghi!”. A presto, Val Resia e ‘buck te lonej’ (grazie, in resiano). 73
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NUTRIRSI COSCIENZIOSAMENTE Intervista alla Dott.ssa Mariarosaria Valente Testo a cura di Veronica Balutto e consulenza del Dott. Sebastian Laspina - Foto d’archivio e Unsplash
Lo Studio Laspina si avvale di collaborazioni importanti nell’ambito di vari settori. Quest’uscita è dedicata ad un personaggio di rilievo nel mondo della medicina e della nutrizione, la dottoressa Mariarosaria Valente, che fornisce ai lettori di Mia Magazine qualche prezioso consiglio per uno stile di vita sano e bilanciato. Potremmo definirla una professionista “multitasking”: Mariarosaria Valente è medico chirurgo, con specializzazione in Anestesia e Rianimazione ed in Neurologia e con numerosi interessi. Da qualche anno ha iniziato ad approfondire il mondo dell’alimentazione, al fine di utilizzare la nutrizione come supporto ai farmaci in alcune malattie neurologiche. Parliamo della sua preparazione e di come è arrivata ad abbracciare il mondo della nutrizione, sua grande passione. Ho lavorato come rianimatrice presso la terapia intensiva del Policlinico Gemelli (Università Cattolica del S.Cuore) per circa dieci anni. Sono specialista in Neurologia, ed attualmente lavoro presso la Clinica Neurologica dell’Università di Udine (Azienda Sanitaria Universitaria Friuli Centrale), in qualità di professore associato. Come filosofia di vita, credo che nutrirsi nel modo corretto 74
faccia la differenza per ciascuno di noi. Nel mio percorso personale, ho sempre cercato di controllare il peso e di non lasciarmi mai andare: la vita è una continua sfida e l’agguato di qualche kg in più è sempre alle porte, specialmente per chi, come me, ha avuto più di una gravidanza (cinque figli, NdR). Qualche anno fa rimasi molto colpita, durante un congresso scientifico, dalla possibile applicazione della dieta chetogenica in alcune patologie neurologiche, in particolare nell’epilessia farmacoresistente. La dieta chetogenica è una dieta che, a fronte di un apporto proteico normale, sfrutta a scopo energetico i grassi al posto degli zuccheri, favorendo la produzione di corpi chetonici che sono gli stessi che produciamo nel digiuno. I corpi chetonici svolgono numerose azioni, in particolare quella antinfiammatoria ma anche di attivazione metabolica e di rinnovo strutturale delle cellule. Nella pratica clinica, in collaborazione con due biologhe nutrizioniste, la stiamo attualmente proponendo nella terapia dell’emicrania e per il trattamento della fatica nella Sclerosi multipla. Va detto però che un regime dietetico chetogenico deve essere seguito per un periodo limitato e sotto stretto controllo dello specialista. A parte la dieta chetogenica e le sue possibili applicazioni te-
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rapeutiche, credo fermamente che tutti i farmaci, di cui oggi ampiamente disponiamo, vadano supportati da una corretta alimentazione e da un corretto stile di vita per funzionare al meglio. In particolare i farmaci dovrebbero essere utilizzati per combattere le malattie e non per correggere le conseguenze di uno stile di vita errato. Questo potrebbe farci cadere in un deleterio circolo vizioso. Mangiare bene per uno stile di vita sano. Quali, vista la sua esperienza, i consigli da seguire? Credo che ciascun alimento, se assunto in quantità adeguate e senza alterazioni, possa essere buono. E con questo intendo alimenti naturali, cucinati in maniera semplice e conditi quel poco che serve a non ledere le caratteristiche originali dell’alimento stesso. In generale dovremmo sempre optare per alimenti freschi, genuini e poco artefatti. Prevalentemente crudi o poco cotti. Che cosa significa avere una buona alimentazione antiinfiammatoria? Gli sbagli più comuni sono quelli legati all’associazione non corretta dei cibi: anche unire più tipi di proteine è sbagliato; nell’intestino ogni alimento segue una via di assorbimento diversa ed ogni processo addizionale lo affatica inutilmente.
Scendendo nel pratico, facciamo qualche esempio. Ci sono cibi che si possono evitare per migliorare psoriasi, dermatiti e malattie della pelle? Per favorire un benessere generale dell’organismo è buona norma mangiare a basso indice glicemico, cercando di mantenere un tenore di calma insulinica. Più che evitare completamente i carboidrati è importante ad esempio combinare bene gli alimenti, mangiare con pochissimo zucchero e poco sale. Un esempio pratico? Non mangiare da solo il riso ma abbinarlo sempre alle verdure per abbassarne l’indice glicemico. Evitare gli insaccati soprattutto perché sono alimenti processati, consumare la carne rossa con estrema moderazione e ridurre il glutine. La riduzione drastica del glutine aiuterà anche i soggetti afflitti da problemi di pelle. La dermobiotica si occupa del supporto che può essere dato alla cura delle malattie della pelle intervenendo sulla salute del microbiota intestinale attraverso anche una corretta alimentazione. Non è casuale che l’acne venga anche chiamata il diabete della pelle. Quale migliore esempio di connessione? Diamo un consiglio alle lettrici sempre in lotta con la tiroide: possiamo cercare di farla funzionare al meglio con l’alimentazione? Generalmente viene consigliato di eliminare la soia per chi sof75
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“SAREBBE IMPORTANTE CHE CIASCUNO ACQUISISSE PRINCIPI NUTRIZIONALI DA PORTARE CON SÉ COME BAGAGLIO CULTURALE FIN DA BAMBINO, PER TUTTA LA VITA. MANCA UNA CULTURA EDUCATIVA IN TAL SENSO!” fre di patologie legate alla tiroide. Il problema, a mio parere, non è la soia in sé, ma sono tutte le sostanze nocive che ingeriamo con la soia OGM tutti i giorni. I Giapponesi, ad esempio, mangiano molta soia, ma le loro coltivazioni sono più naturali ed i fitoestrogeni contenuti nei loro prodotti hanno mostrato di svolgere una funzione protettiva nei confronti di alcuni tumori. Un altro aspetto da sfatare è il mito del sale iodato. Bisogna considerare che il sale che utilizziamo è spesso processato e che il sale marino viene estratto da un mare inquinato. Il salgemma (tipo il sale dell’Himalaya od altri) è sicuramente meno artefatto. È raccomandabile comunque abituarsi a mangiare senza sale. Un consiglio alimentare per il settore maschile? Per il gonfiore addominale, che spesso affligge la popolazione maschile, un consiglio valido può essere quello di porre attenzione alla regolarità ed alla salute dell’intestino. Il gonfiore addominale spesso è indice di disbiosi. Il nostro intestino è una nicchia ecologica ed è popolato da numerosi microrganismi che ne assicurano un corretto funzionamento (eubiosi). L’equilibrio tra microrganismi amici e microrganismi patogeni è una condizione che va mantenuta con un’alimentazione corretta ed una pulizia adeguate. In caso di disbiosi persistente, è consigliabile rivolgersi ad uno specialista della nutrizione Qual è, nella sua visione, il regime alimentare più valido? Non credo che, in linea generale, ci sia un regime alimentare più valido di un altro, se non nelle specificità precedentemente accennate. Sarebbe importante che ciascuno acquisisse principi nutrizionali da portare con sé come bagaglio culturale fin da bambino, per tutta la vita. Manca una cultura educativa in tal senso! Se dovessimo trovare il giusto compromesso tra “regime dietetico” e “libertà”, nell’ottica del vivere bene ed in armonia con noi stessi, pensa sia possibile raggiungere questo equilibrio? Se si in che modo? Per il nostro modo di vivere occidentale, il fine settimana è 76
sempre il momento più pericoloso e delicato per il regime alimentare. Un consiglio molto generale è quello di essere rigorosi dal lunedì al venerdì, per poi concedersi un po’ più di libertà (una volta sola a pranzo o a cena) durante il weekend. Personalmente, la domenica sera non ceno mai: bevo soltanto una tisana. Un piccolo periodo di digiuno ripulisce ed aiuta ad affrontare la settimana con più energia. Entriamo nel suo quotidiano: come si mangia in casa Valente? I miei tre figli maschi sono completamente vegetariani per scelta etica. Sono tutti ragazzi sani e sportivi che non hanno mai risentito la privazione di carne o pesce. Io, invece, sono onnivora e mangio molto pesce, uova, legumi e formaggi poveri di lattosio, stando molto attenta alla qualità ed alla provenienza delle materie prime. Una ricetta per una colazione appetitosa e salutista? La colazione è un pasto importantissimo che deve essere sempre bilanciato tra carboidrati, proteine e grassi. È una scelta un po’ sartoriale…ognuno deve cucirsi addosso la composizione che preferisce che non necessariamente deve essere abbondante. Un esempio? Uno yogurt o del latte vegetale (non di soia né di riso) senza zuccheri con cereali privi di glutine, un po’di cioccolato fondente e un po’ di frutta oleosa, importante perché contiene proteine e sali minerali. Un frutto fresco a metà mattina. E un pranzo? Anche il pranzo deve essere bilanciato, la raccomandazione è sempre quella di mangiare un’insalata condita con olio e limone, senza aceto né sale, prima del secondo piatto. Questo permette di “foderare” lo stomaco, induce sazietà, legata anche al tempo che impieghiamo a masticarla, ed aiuta a ridurre la velocità di assorbimento dei carboidrati che eventualmente volessimo assumere poi, prima delle proteine. Decalogo consigli: buone norme di alimentazione. Si tratta di tornare a valorizzare quello che, nel Medio Evo, era per Hildegard von Bingen il principio della “Subtilitas”, ossia il ritorno all’essenza delle cose.
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Pensando a 10 fondamenti o buone norme, le riassumerei cosi: 1) Prediligere un’alimentazione semplice. 2) Cucinare in modo elementare e leggero. 3) Mangiare cibi freschi, crudi o cotti, ma conditi al minimo per gustarne i sapori originari. 4) Mangiare con moderazione. 5) Mangiare lentamente (non mangiare mai in piedi, né camminando). 6) Bere al minimo durante i pasti. 7) Idratarsi lontano dai pasti. 8) Mangiare ogni giorno frutta e verdura crude (i vegetali sono ricchi di clorofilla che rappresenta una sferzata di energia per i
nostri organi e per il cervello). 9) Distribuire i pasti proteici durante la settimana tra pesce (tre porzioni) uova (quattro-cinque uova) legumi, carne bianca, formaggi stagionati (privi di lattosio), ridurre al minimo le carne rossa, evitare gli insaccati. 10) Condurre uno stile di vita sano ed equilibrato, controllando l’alimentazione, favorendo il movimento, curando al massimo il rispetto del ritmo sonno - veglia.
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VITA E SCELTE CORAGGIOSE DI UN GIOVANE IMPRENDITORE Vittorio Svara, determinazione e radicamento sul territorio Intervista a cura della redazione - Foto di Vittorio Svara Vittorio Svara è un giovane imprenditore, appassionato, curioso e competente. Nonostante la giovane età ha le idee molto chiare su quella che è la attuale situazione del Paese e ha potuto testare sulla sua pelle le gioie e i dolori che il lavoro in campagna sà dare. Ha fondato la sua azienda sul Carso, coinvolgendo tutta la famiglia, dalla quale ha ereditato la passione per la campagna. Lo abbiamo intervistato perchè crediamo che ci vogliano più giovani coraggiosi e lungimiranti come lui, al giorno d’oggi. Raccontaci chi sei, il tuo percorso e quali sono le tue passioni. Ho ventisei anni. Ho conseguito il diploma presso l’Istituto Tecnico Giovanni Brignoli di Gradisca d’Isonzo ed attualmente sono iscritto presso la facoltà di Fisica dell’Università degli Studi di Trieste, percorso non facile da seguire visto il lavoro che faccio ma del quale accetto la difficoltà, per passione, determinazione e sfida. Ho molte passioni, spazio dalla storia antica, in particolare storia romana, alla biologia, da varie attività all’aria aperta fino all’agricoltura. Quando hai capito di voler fare l’agricoltore e come nasce la tua azienda? Ho capito di voler lavorare in questo settore durante la frequentazione delle scuole elementari, quando già allora passavo molto tempo in campagna dalla nonna materna. La cosa che più mi affascina del mio lavoro è il senso di soddisfazione che dà il lavorare a stretto contatto con la natura e il vedere il risultato del proprio lavoro maturare sotto i propri occhi, giorno per giorno. L’azienda nasce nel 2005 su iniziativa di mia madre con l’intento di creare una realtà compatibile con il percorso di studi all’epoca scelto. Terminati gli studi superiori ho iniziato a prendere parte alla vita aziendale fino a subentrare come coadiuvante prima e titolare attivo poi. L’appezzamento di terra è composto da cinque ettari, due di questi ad uliveto con settecento piante di ulivi di ben otto varietà diverse, e altri tre ettari di bosco adiacenti. L’impianto si trova nel piccolo paese prettamente agricolo di Medeazza, comune di Duino Aurisina, nelle vicinanze del fiume Timavo e lungo i percorsi della Grande Guerra del Monte Hermada. Perchè proprio l’olio? È stato scelto di fare l’olio poichè la conformazione del terreno 78
roccioso e prevalentemente in pendenza, è inadatta ad altri tipi di colture, ma praticabile per l’ulivo. Inoltre, da informazioni assunte presso il nostro agronomo, abbiamo saputo che nei primi del Novecento, nel paese di Medeazza, c’erano già piantagioni di ulivi della varietà bianchera, che è appunto autoctona della zona, le cui coltivazioni sono state purtroppo annientate dal terribile freddo dell’inverno del 1928-1929, quando, raccontano, si era gelato anche il mare prospiciente la costa. Altro fattore che ci ha spinti nella scelta di produrre olio è il fatto che, di per sé, questo è un prodotto vitale, pieno di storia e di carisma, e ci è così sembrato di fare qualche cosa che, alla fine, fosse utile anche al territorio, all’ambiente ed alla collettività. Qual’è stata la scelta che hai voluto fare per distinguere il tuo lavoro e garantire l’unicità del prodotto? Per il mio olio ho scelto la produzione biologica, che ben si sposa con gli insegnamenti ricevuti, dando priorità alla qualità del prodotto anche a discapito della produttività, e la ferma intenzione di abbracciare la sostenibilità ambientale come uno dei punti fondanti dell’azienda. Una delle motivazioni che ha consentito e continua a favorire tale scelta è l’ubicazione del terreno su cui è stato eseguito l’impianto dell’uliveto, che si trova lontano da centri urbani ed attività agricole intensive, in un contesto rurale dove l’elevata ed incontaminata biodiversità garantisce già da sola una buona protezione contro i parassiti, tanto che, dal mio punto di vista, sarebbe stato scellerato rovinarla con metodi di coltivazione tradizionali.
TALENTI EMERGENTI
A tutto ciò va aggiunto che, casualmente, a pochi mesi dall’acquisto del terreno, l’intera zona è stata fatta rientrare nella rete del progetto europeo Natura 2000, talmente vincolante ai fini ambientali, che la sola pratica per l’ottenimento delle autorizzazioni per l’impianto degli ulivi ha richiesto anni, cosa che è stata terribilmente penalizzante e onerosa ai fini dell’avviamento dell’azienda, ma per fortuna oggi è uno dei nostri punti di forza poiché tutela le nostra decisione di praticare l’agricoltura biologica. Cosa significa essere un giovane imprenditore al giorno d’oggi, quali sono i rischi e quali sono le soddisfazioni? Essere imprenditore al giorno d’oggi è molto gravoso, gli ostacoli sono innumerevoli, ci sono momenti di scoramento dovuti sia alle difficoltà connesse al lavoro, sia alla solitudine in cui ci si trova ad operare e manca, a mio modesto avviso, sia da parte delle istituzioni che da parte degli enti territoriali, la piena percezione di quanto un giovane imprenditore sottragga alla propria vita a favore dell’impresa, affinchè questa nasca e prosperi, e diventi sì la sua fonte di lavoro e sostentamento, ma anche linfa vitale per la società. I rischi sono quelli connessi all’imprenditore e cioè il perenne timore di difficoltà economiche legate a vari fattori, ad esempio eventi atmosferici avversi imprevedibili eppur sempre possibili in agricoltura, con contraccolpi anche pesanti sul piano finanziario, problemi commerciali, problematiche di costi sempre
crescenti, una burocrazia soffocante, e via dicendo. Quello che sovrasta e compensa, almeno in parte, quanto sopra esplicitato, e che permette di continuare nell’iniziativa imprenditoriale, è unicamente la grande passione con la conseguente dedizione alla realizzazione di quelli che sono una speranza ed un desiderio, coltivati ancor dall’adolescenza ed anche l’apprezzamento dimostrato da parte della clientela, in particolare per quello che riguarda l’alta qualità e l’unicità del prodotto generato. Quali sono i tuoi progetti futuri? I progetti futuri sono strettamente dipendenti dal trend aziendale e dai risultati dei prossimi anni e, qualora questi risultassero in linea con le speranze, potrei cercare di ampliare la dimensione aziendale ed eventualmente diversificare la produzione e, perché no, evolvere l’azienda anche in altri settori. Quali sono le caratteristiche che ami del territorio carsico? Del Carso amo la diversità del territorio, la sua singolarità sia nel paesaggio che nella sua storia, il suo essere il punto di incontro tra la cultura mediterranea e quella mitteleuropea; seppur invidio l’agevolezza che offre la coltivazione in pianura, rispetto a quella del terreno carsico, prettamente roccioso, calcareo e impervio, quasi inadatto alla pratica dell’agricoltura epperò, mi sento di aggiungere, così fortemente in grado di regalare prodotti unici ed estremamente pregiati. 79
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#LAGIRAFFALEGGE @lagiraffacongliocchiali
Consigli libreschi de La Giraffa con gli Occhiali
“Ciao ragazzi come state? Sono sempre io! Raffa Gi, sta finendo l’estate, ma non disperate torneranno i colori dell’autunno con le foglie e la loro danza in musica. Ma facciamo un po’ d’ordine...come sapete, non sono una Giraffa normale, sono una Giraffa lettrice e, diciamolo pure, un po’ cantastorie! Tutto è nato un po’ per caso in una notte piovosa di Novembre. Da quel momento i libri e la musica non mi hanno più abbandonato. Ho fatto profondissime e saldissime amicizie di carta! Ora devo cercare di ricordarmi dove ho appoggiato il libro che stavo leggendo, quindi vi lascio con la Giraffa Band”. Quest’oggi vi proporremo un articolo un po’ diverso dal solito, vi vogliamo raccontare una storia. 7 settembre 1997: era il mio compleanno (Giulio), compiere 7 anni non è cosa da poco! Si avvicina la zia con un pacchetto, la prima reazione è stata questa: “Oh noooo! Un altro Libro!”, non potevo ancora sapere invece che quel testo mi avrebbe dato poteri straordinari. Dovete sapere che da piccolino non ero proprio un gran lettore, spesso erano mamma e papà a leggere per me la sera prima di addormentarmi. Quindi pensavo che quel piccoletto sarebbe rimasto a lungo sulla mensola o a prendere polvere sul comodino. Il secondo pensiero è stato: “Dai almeno è breve, darò giusto una letta, così la zia sarà contenta”. Il titolo sembrava carino: Viaggio Nella Musica [foto]. E poi è stata la prima volta che ho conosciuto Magdalena; cosa sono quelle facce stupite? Davvero non sapete chi è? 80
Fermi fermi fermi, ascoltate qua: Tanti anni fa vi era una bellissima ragazza dai lunghissimi capelli biondi, abitava da sola in un piccolissimo paesino della Toscana, si chiamava Magdalena e aveva una voce così bella che poteva far fiorire gli alberi, incantare il bosco, far brillare il sole. Di lei si diceva fosse una strega perché, soprattutto quando cantava, gli abitanti lasciavano perdere il loro lavoro e i loro affari, restando come ipnotizzati. In realtà Magdalena era buona e gentile, voleva solo cantare alla finestra. Un giorno però un potentissimo mago, travestito da pellegrino, andò a fare visita alla giovane ragazza. “Si dice che tu sia una strega e che tu abbia una gran voce; ho deciso che diventerai mia moglie!”, disse. “Impossibile, io sono libera più dell’aria, dell’acqua dei fiumi e dei laghi, mi sposerò solo per amore e quando sarò pronta!”, rispose Magdalena. D’improvviso il grande mago, deluso dalla risposta della ragazza, scoppiò in una sonora risata e iniziò a pronunciare un terribile sortilegio: “Ordino comando e voglio, con la forza del mio sdegno che i suoi fianchi diventino di legno, i suoi capelli diventino corde le sue orecchie siano sorde, la sua voce si trasformi in un suono. Chitarra ora sei e chitarra tu sarai, Più di cent’anni così resterai. Cento anni ancora e altri cento, finché un mago spezzerà l’incantamento. Un mago più forte di me… 1,..2,….3!”
BAMBINI
E fu così che Magdalena fu trasformata in una chitarra, ancora oggi i musicisti più bravi in tutto il mondo tentano di sciogliere quell’incantesimo, facendo uscire dalle corde il suo canto stupendo. Questa storia ha acceso in me la fiamma dell’amore verso la musica, verso la creatività e, da quella volta, ho sempre fatto meno capricci quando si trattava di dover leggere qualcosa. Inoltre, senza farne segreto, il libro è senza dubbio uno dei motivi per cui ho imparato a suonare la chitarra circa 10 anni più tardi, volevo riuscire a far uscire Magdalena, a rompere l’incantesimo. Anche come Giraffa Con Gli Occhiali cerchiamo di andare a caccia di musica nelle storie, presto vi spiegheremo come! Prima di tutto vi consigliamo un manualetto simpatico: La Musica di Fausto Vitaliano e Antonio Lapone, edito da Motta Junior [foto]; al suo interno scoprirete la storia della musica e dei suoi strumenti principali passo passo, è un libro pieno di informazioni e curiosità, le illustrazioni sono molto simpatiche! Alcuni degli strumenti che vengono descritti li abbiamo presentati attraverso dei video sul nostro canale Glasses Giraffe su Youtube; se siete curiosi li trovate nella playlist Viaggio tra gli Strumenti Musicali. Arriviamo ora a spiegarvi cosa intendeva Raffa Gi all’inizio: noi collettivo de La Giraffa Con Gli Occhiali ci occupiamo di promuovere alcuni albi illustrati anche grazie alla musica e alla narrazione, molto spesso durante le prove decidiamo quale sia l’accompagnamento migliore per quella determinata storia! Storia, accordi e armonia devono andare insieme, non possono sopravvivere l’una senza l’altra. Un intreccio dolce, porterà a una musica dolce, un intreccio emozionante alla scelta di voler emozionare anche il pubblico quando leggiamo la storia! Il cervello delle operazioni è Giovanni, per gli amici Jojo, è lui che sceglie cosa inserire nella storia, grazie anche ai suoi studi di musicoterapia, una disciplina che guida all’ascolto attivo e al potere della musica. Io (Giulio) scelgo la storia, deve essere un libro che “ti tira fuori i versi per poterlo cantare”, è un po’ difficile da spiegare, ma è proprio così. Infine Ale riesce ad inserire le percussioni in modo che tutto sia più danzabile e a pieno ritmo! L’aspetto più divertente però è che, spesso, tutti facciamo tutto
e ci si scambiano i ruoli, si arriva con un’idea e piano piano la si fa crescere tutti insieme! Molto spesso è l’albo a chiederci di venire musicato, lo apriamo e scopriamo nuovi possibili giochi di parole, o che il protagonista può avere una voce buffa. L’importante è mantenere sempre saldi gli elementi fondamentali della storia: prendiamo Cappuccetto Rosso, nel nostro brano “Ma il Lupo Cattivo!” dell’album “Destinazione Brema”, abbiamo qui tenuto conto di tutti gli ingredienti: La Nonna, il Lupo, Cappuccetto, il Cacciatore, il Bosco. L’idea di base, come si vede dalla copertina, era quella però di dare una impronta bella potente e rock, il testo doveva essere vivace e immediato, la canzone doveva essere velocissima e assai ritmata. Per concludere al meglio abbiamo dato anche voce a Cappuccetto nelle celebri frasi “Ma che occhi grandi che hai?”. Voi bambini, ascoltando il brano musicale, riconoscerete subito la storia e sarete in grado di raccontarla o addirittura cantarla agli amici! È proprio questo il segreto, farsi assorbire interamente dalla magia e lasciarsi andare, tutto può essere fischiettato, ma vi assicuriamo che con i libri è molto più divertente. E voi che cosa avete in mente? Quale libro vorreste trasformare in musica? C’è una storia che vi è piaciuta più di altre? Fatecelo sapere scrivendoci una mail a lagiraffacongliocchiali@gmail.com. Ci metteremo subito al lavoro! A prestoooo Giulio, Giovi, Ale e Raffa Gi 81
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Psicologia
LA CREAZIONE DI UN SOGNO @francesca.colacino della dott.ssa Francesca Colacino - foto di Matteo Guariso
Federica Pascolini, titolare dello Studio Be.Here.Now nel cuore di Cividale, mi accoglie a una lunga scrivania di legno, in un’atmosfera calma, rilassante. E mi racconta del suo viaggio di vita, di cosa l’abbia portata a costruire e realizzare quello che per lei è stato un grande sogno. “Durante e dopo la formazione in studi classici ho viaggiato molto e questo mi ha permesso di vedere da subito diverse realtà. Mi sono resa conto che in svariate culture estere vi era una profonda connessione mente-corpo, che da noi ancora non esisteva.” Ha poi frequentato lei stessa percorsi olistici vari, come cliente, fino a giungere alla consapevolezza di voler creare una nuova realtà, prendendo spunto dagli studi di avanguardia che aveva visto viaggiando tanto. “A un certo punto non mi è bastato più praticare, ma ho voluto imparare a divulgare sia la pratica fisica, che il funzionamento integrato mente-corpo”. Ed è da lì che ha iniziato a svilupparsi il suo sogno: l’idea di creare uno studio dove poter praticare diverse discipline olistiche, ma anche dove poter far ricerca, studio, approfondimento. E per farlo ha scelto di offrire varie pratiche fisiche, che spaziano dal pilates, yoga, stretching, nordic walking, tai chi, rilassamento, meditazione, autodifesa ma anche vari trattamenti 82
professionali come fisioterapia, massaggi, osteopatia, nutrizione e sostegno psicologico, per lavorare davvero su un piano mente-corpo integrato e lasciando ampio spazio a professionisti altamente qualificati nella loro disciplina. Alle discipline olistiche, Federica ha scelto dunque di affiancare una solida base scientifica, per dare ai clienti un benessere corpo-mente totale. Perché allo Studio Be.Here.Now puoi entrare per fare un corso di pilates, e capire di aver bisogno di qualche seduta di osteopatia e avere la possibilità di farlo, nello stesso ambiente sicuro. E proprio mentre la intervisto arrivano in studio persone interessate ai nuovi corsi, chiedono informazioni, incuriosite dall’ampia offerta. Quando riprendiamo, Federica mi racconta che lo Studio è nato nel 2018 e in questi pochi anni si è enormemente ampliato: “Ora comprende diversi professionisti, svariate attività, pratiche rivolte a diverse fasce d’età e vi è stato un ampliamento delle sale in cui accogliamo i nostri allievi.” Federica è una sognatrice, una creatrice instancabile. “Prendo l’energia da chi lavora con me, lavorare così è bellissimo”. E mi racconta di come cresca questo suo Studio, che sente e vive come un secondo figlio, nella calma, nella semplicità, nella chiarezza. “La semplicità è la chiave di tutto”, per fare cose importanti, come creare dal nulla uno Studio per il benessere, nel cuore di Cividale.
FOCUS ON
Musica
IL SOUND DI LOS ANGELES A GORIZIA @flavour.flavio di Flavio Zanuttini - copertina del disco di Violetnothecolor/Annaviola Faresin Don’t wash the Tigre è il primo disco da solista di Francis I. (Francesco Ivone), giovane trombettista e producer (qui anche mc) di stanza a Gorizia. Quello che colpisce da subito di questo disco Hip Hop/Nu Soul è la qualità e la cura presenti in ogni aspetto: dalla scrittura, agli arrangiamenti, alla produzione. Sembra di ascoltare il frutto di una grossa produzione di Los Angeles, invece siamo a Gorizia. I brani sono caratterizzati da una complessità della scrittura non comune in questo genere che scivola via all’ascolto con piacevolezza. Ha suonato ad agosto nella rassegna Bistroquet nel parco di Sant’Osvaldo, una serie di eventi organizzati da Hybrida che non manca mai di scovare proposte musicali in grado di espandere verso l’infinito l’orizzonte sonoro degli ascoltatori. È stata l’occasione per una breve intervista. I tuoi brani mantengono una freschezza all’ascolto nonostante non siano scontati o semplici dal punto di vista ritmico-armonico. C’è una ricerca in questa direzione? Mi ispiro a diversi producer e band (Jpegmafia, Tyler The Creator, Flume, Amon Tobin, Hiatus Kayote, Vulfpeck...) che hanno un sound caratteristico o hanno gran cura per il mixing e mastering. Per ogni brano che scrivo, mi pongo l’obbiettivo di esplorare a fondo le possibilità e le soluzioni per la composizione, così da ottenere risultati differenti. La composizione è per me un’avventura, che va affrontata con le orecchie e la mente aperti, alla ricerca di novità.
che c’è in ognuno di noi, quella non ne ha bisogno! (ma fondamentalmente era il titolo del mio primissimo brano, mi piaceva il suono della frase in parte inglese e in parte italiana). I tuoi brani, semplificando, sono caratterizzati da elettronica, tromba e voce. Come bilanci questi tre elementi nella scrittura dei tuoi pezzi? Da dove cominci a scrivere? Il bilanciamento per me è naturalmente regolato dalle necessità del brano e del suo arrangiamento. Per quanto riguarda la composizione non comincio per forza sempre con uno stesso elemento: a volte mi capita di suonare una frase che mi piace con la tromba e decido di svilupparne l’idea; altre volte lavorando al timbro di strumenti digitali come batterie elettroniche o bassi synth mi viene in mente qualche groove da cui partire; spesso invece mi pongo delle regole per la composizione, come l’utilizzo di un determinato gruppo di strumenti/timbri/fasce di frequenze, una metrica dispari o la scrittura senza metronomo, l’obbiettivo di ricreare determinati effetti o paesaggi sonori. Vivi in una città di confine, com’è la risposta alla tua musica in Slovenia? La risposta è positiva, alla gente è piaciuta subito. Mi trovo sempre bene a esibirmi per un pubblico che come me è curioso e affamato di diversità, mi è capitato pure che qualcuno sapesse già alcuni testi a memoria.
Con questo progetto ti sei per la prima volta approcciato all’uso della voce in chiave Hip Hop con ottimi risultati, come affronti la scrittura dei testi? Quali sono le ispirazioni? Si, per me è la prima volta che approccio l’uso della voce, la vivo come una sfida con poche certezze. In altre parole l’uso della voce è una scelta condizionata dalla curiosità e dal divertimento. Spesso questo mi porta a mettere in dubbio, al di là delle mie capacità canore, la necessità di esprimermi con le parole. Alcuni testi, scritti con più semplicità e spontaneità, parlano di esperienze personali mentre altri più elaborati e finalizzati allo scopo di completare un arrangiamento, parlano di storie inventate ed hanno uno stampo “impressionista”. Perché non dobbiamo lavare la tigre?! Significa che non bisogna mai fare la “toelettatura” alla tigre 83
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Teatro
L’ATLETA DEL CUORE @aidatalliente di Aida Talliente - fotogramma dal film “Principe Costante” di Grotowski
Quando lavoro sulla formazione, per poter dare gli strumenti che riguardano il percorso attoriale, parto dal lavoro fisico cercando di formare un attore come persona e come strumento per la scena, attraverso diverse tecniche. Queste utilizzano elementi della danza contemporanea, del feldenkrais, della biomeccanica, di training che hanno radici Grotowskiane o Barbiane e di tutti quei princìpi che possono mettere in moto la materia fisica in tutte le sue direzioni, per contattare lo strumento corpo, ovvero lo strumento della nostra azione e della nostra presenza. Una parte del lavoro è dunque dedicata al corpo, una parte è dedicata al lavoro sulle sensazioni, che ha bisogno di un tempo più lungo e di più tappe. Il corpo e la parte emotiva sono elementi fondamentali per questo lavoro. Il corpo deve essere preparato perché diventa lo strumento che permette di andare a ritrovare delle sensazioni che abbiamo attraversato in momenti importanti della nostra vita soprattutto sul piano affettivo, perciò si parla di amori, di amici, di famigliari, di dolori e di tutti quei paesaggi che ci abitano dentro, che si trovano all’interno di una dimensione più intima e che si sono accumulati come forti esperienze personali all’interno di ognuno di noi. Questi elementi sono dei motori importantissimi per il lavoro di un attore. Non basta però preparare un corpo o riordinare una struttura (poiché gli attori lavorano sulle strutture); la magia e la capacità di un attore di attraversare queste strutture dipende soltanto da lui e da quanto egli riesce ad affondare questa materia, in risonanza con delle esperienze di vita personale. Quando si attraversa un personaggio, più si è capaci di trovare delle similitudini tra il personaggio e quello che è acca84
duto a noi, più si è in grado di parlare con cognizione di causa rispetto a quello che si sta recitando. Questo significa attingere in modo più consapevole alle esperienze di vita vissuta. Perciò il corpo è davvero lo strumento degli attori e va costantemente allenato, curato, nutrito perché andando in scena è sempre sotto “tritura”. Con il passare del tempo questo strumento perde in elasticità, si irrigidisce ma si va sulla scena, non per compiere delle acrobazie come farebbe un atleta di 20 anni, ma per avere una consapevolezza maggiore del proprio corpo, per abitarlo e per capire che tipo di antenna fisica siamo; per capire come le azioni fisiche possono portare delle percezioni piuttosto che altre e capire come la postura che abbiamo mette in moto delle forze piuttosto che altre o ci fa parlare in un modo piuttosto che in un altro e soprattutto ci fa comunicare in un modo piuttosto che in un altro. In scena poi, si aprono altri punti di attenzione: lo spazio, i compagni di lavoro, la cura con cui ci rapportiamo agli oggetti e la precisione delle azioni. Sulla scena più si è precisi, più si è generosi. Perciò il lavoro dell’attore è davvero un lavoro fatto di strati in cui cercare di tenere insieme molte esperienze accumulate, dal lavoro fisico, al lavoro sulle sensazioni, sull’immaginazione, sull’emozione che sale a partire dall’immaginazione e sulla consapevolezza di stare sul palco davanti ad un pubblico. Tutta questa complessità viene portata sulla scena. Perciò il corpo deve essere costantemente allenato a questa sensibilità e a questa concentrazione. Si diventa così ciò che Antonin Artaud chiamava “Attore” ovvero “l’Atleta del cuore”.
FOCUS ON
In libreria
I CONSIGLI DEL LIBRAIO @libreria_tarantola_1904 di Giovanni Tomai - Libreria Tarantola di Udine “Retromundi”, Emilio Rigatti (Bottega Errante, 2021), pp. 129 Emilio Rigatti è tante cose: insegnante e scrittore o, come ama definirsi, “scrittore di confine”. Infatti oltre a viverci i confini li porta nel suo patrimonio genetico dove coesistono tracce di croati, dalmati, serbi, ebrei e veneti. Il libro racconta le vicende che avvengono nel retrobottega di una drogheria/ferramenta di paese. Quel magazzino diventa un vero e proprio Mondo Piccolo in cui il tempo prende a scorrere in una maniera differente e le storie non solo si raccontano ma prendono vita e si intrecciano rielaborandosi per chi vuole ascoltarle. Si perché a differenza della bottega, al suo retro possono accedere solo una accuratissima selezione di personaggi: cantastorie, amici, filosofi della vita riuniti attorno ad un tavolaccio dove non manca mai una bottiglia di vino. Il Droghiere è il vero è proprio dominus della situazione, è tutt’uno con il suo luogo tanto che “nacque settant’anni fa nel retrobottega, sullo stesso tavolone dove oggi imbottiglia il vino e taglia le lastre di vetro, la tela plasticata e la rete d’ottone per le zanzariere. (...) Neanche Dio in persona avrebbe mai detto che quello, un giorno, sarebbe diventato un Droghiere, e del resto non c’era nessun indizio che lo suggerisse.” A narrare questo angolo prezioso ed esclusivo è il Professore, che ce lo dipinge come “un sommergibile che naviga sotto il pelo del tempo”. E questo Retromundi è davvero una macchina del tempo presente, un tempo che sta per finire, assediato dalle visite di personaggi come l’Agente Immobiliare. Si ride, e parecchio, in questo sommergibile-retrobottega che resiste eroicamente alle bordate di un progresso che non può entrarci e non può capirlo. Per questo il retrogusto di questo libro di Emilio Rigatti è un po’ amaro, come certi liquori che si distillano ancora in certe cantine, e certi retrobottega.
“Fricokiller”, Aa.Vv. (Morganti Editori, 2021), pp. 266 Un’idea sicuramente peculiare quella della Morganti Editori, cioè la volontà di raccogliere alcune delle migliori penne oggi scriventi in Regione chiedendogli di produrre un racconto giallo. Unico filo conduttore obbligatorio: il frico. Si, proprio il piatto tipico friulano per eccellenza è il collante di questo volume corale in cui dieci scrittrici e scrittori si misurano con il poliziesco al formaggio. La prima storia è quella di Gabriella Bucco, ambientata a cavallo delle due guerre mondiali, tra Andrèis e Barcis, alle prese con partigiani e vecchie leggende. Stefania Conte parte invece da Conegliano, passa per Duino e arriva a Trieste, inseguendo la strana vita di una donna misteriosa. Angelo Floramo trascina il lettore tra delitti e antichi riti apotropaici spostandosi tra Ragogna, Merito di Tomba e Camporosso mentre Paolo Morganti riporta in scena pro Michele Soravito e Martino da Mendrisio, i personaggi dei suoi Romanzi. Lucio Nocentini scomoda la coppia più famosa del giallo, Holmes e Watson, per un’avventura apocrifa a Palmanova. Nel castello di Ragogna è invece ambientato il racconto gotico di Fabio Piuzzi. Pierluigi Porazzi, nello stile noir che gli è proprio, racconta la dolorosa storia di un ex carcerato e di una madre distrutta dalla morte del figlio. Torna sulle scene l’amatissimo commissario Furlan, nato dalla penna di Flavio Santi, in un intricato giallo cividalese con un omicidio eccellente mentre Nicola Skert ci racconta un delitto che affonda in un tempo lontano durante la festa dei Krampus di Tarvisio. Conclude Maria Cristina Vitali che racconta di un introverso ricercatore cividalese alle prese con uno scottante documento storico. Insomma un libro davvero multidimensionale, che ci porta a scoprire il Friuli Venezia-Giulia in senso geografico ma anche storico, psicologico e culinario. Una piccolo microcosmo di racconti, alcuni divertentissimi, altri assolutamente dark in cui gli stili peculiari degli autori che già conosciamo si mescolano sapientemente ai meno noti come i giusti ingredienti di una ricetta riuscita. 85
“La differenza tra qualcosa di buono e qualcosa di grande è l’attenzione ai dettagli.” Charles R. Swindoll Sono una persona profondamente attenta ai dettagli perché per me, nella vita, hanno sempre fatto la differenza. Non a caso il mio brand We-re®️ ha un’identità precisa e ben definita. L’arancione, il colore che ci identifica e differenzia, non a caso trasmette energia, entusiasmo e dinamismo. Bè, mi rispecchia appieno. È con questa convinzione che ha preso forma questo nuovo progetto: il gel igienizzante We-re®️. Andrea Birri - CEO We-re ®
Idee folli? Non sono mai abbastanza. Così è nato We-re®️ Igienizzante. Naturalmente la storia è più lunga di così, ma sarò sintetico. Sono il fondatore di We-Re Immobiliare, un settore in cui l’interazione e l’attenzione, con e per il cliente, è fondamentale. Cerco sempre di migliorare la mia attività e il marchio per aggiungere valore, qualcosa che sia tangibile e concreto. E così che ho messo in moto tutto… Durante il periodo del Lockdown, a causa del COVID, c’è stato un vero e proprio assalto agli scaffali di gel igienizzanti e prodotti DPI. Anche la ricerca online non portava risultati, in quanto i diversi prodotti per la protezione individuale risultavano sempre “sold out”. Da qui è nata la necessità e l’idea di creare un prodotto tutto mio, riconoscibile e soprattutto DI QUALITÀ. A differenza di tutti gli altri prodotti che lasciano le mani o troppo secche o super appiccicose, volevo un prodotto dalle alte prestazioni. L’idea era chiara, volevo un gel igienizzante totalmente naturale, profumato, prodotto in Italia e che rispecchiasse la brand identity di We-re®️. Grazie all’aiuto di Simone Maion, un alchimista con i fiocchi, abbiamo realizzato la formula perfetta. Ed eccoci qua con le mani morbide come la seta e un profumo inconfondibile d’arancio. Non per fare il pignolo, ma preciso
sempre che il gel igienizzante We-re®️ è un prodotto elitario, il frutto di scelte attente e consapevoli. Tutto made in Italy. Ho iniziato a far provare il gel a diverse persone e sono rimasto davvero soddisfatto dei loro feedback. Mancava solo una cosa all’appello: la presenza online. Così in men che non si dica abbiamo avviato l’e-commerce grazie alla “Grimus agency” di Milano e… sono iniziate le vendite! Questo è tutto quello che c’è dietro quel flaconcino da 100ml arancione. Ricercatezza, attenzione ed elitarietà da portare comodamente con sé. I più curiosi possono inquadrare il QRcode e scoprire molto altro! Ah già, dal momento che non sto mai con le mani in mano sto avviando un progetto di co-branding: un’iniziativa che ha lo scopo di aumentare il valore del brand collaboratore andando a personalizzare il gel We-re®️. Chissà quale sarà la prossima mossa.
igienizzante.we-re.it igienizzante@we-re.it FB: We-re Igienizzante IG: igienizzante.we.re
Foto: Elia Falaschi
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igienizzante
MIA MAGAZINE
MARTINA CORRUBOLO
Figlia d’arte, sin da piccolissima si appassiona all’hairstyling e dopo diploma e università si dedica totalmente al mondo dei capelli. Dopo varie esperienze e accademie prestigiose, vince alcune fra le più importanti competizioni internazionali. Negli anni si è specializzata anche nel servizio Wedding Hair and make up. Lavora con passione da Bobo parrucchieri a Udine. @martindependent
CRISTIAN CECCHINI
SVEVA CASOLINO
Nata a Udine nel 1994, si laurea in cinema al DAMS di Bologna nel 2018. Da sempre appassionata di cinema, grazie alla partecipazione al percorso di formazione cinematografica Armani Laboratorio a Milano, si specializza come truccatrice cinematografica. Negli ultimi anni, lavora come truccatrice per svariati film, serie tv e pubblicità. Attualmente lavora tra il Friuli e Milano. @svecasolino
SAMIA LAOUMRI
Barbiere di terza generazione, all’età di 16 anni muove i primi passi nella barberia di famiglia, Salone Silvano, che attualmente gestisce col fratello. Docente dell’Accademia Proraso, sempre alla ricerca di nuove ispirazioni e idee per valorizzare i servizi in salone e soddisfare le esigenze del cliente. @barbercec_cristian
Conseguiti gli studi preso l’Accademia Nazionale del Cinema di Bologna, si sposta a Milano, affermandosi in poco tempo nel mondo della Moda. Abolito il cliché della make-up artist che gioca con i trucchi della madre fin da bambina, Samia intraprende un percorso ben diverso, fatto di studi e collaborazioni nel campo della medicina estetica dall’azienda COSMECEUTICS, passando per RM Project, leader nel settore Hairceutico che utilizza polveri naturali di origine alimentare che ristrutturano e colorano il capello. @samialamua
GLORIA BUCCINO
Laureata in Architettura per il Nuovo e l’Antico allo IUAV di Venezia e specializzata in Project Management per il settore delle costruzioni, ottiene il ruolo di Site Engineer in un grosso cantiere nel settore delle infrastrutture ma, dopo un workshop di architettura sociale con il team dello studio danese “Emergency Architecture and Human Rights”, in Nepal, decide di cambiare letteralmente strada e inizia a lavorare nel campo dell’editoria, della grafica, del design e dell’arredamento.
GIOVANNI TOMAI
Libraio presso la libreria Tarantola di Udine nell’ultima parte dei suoi cento e più anni di storia. Legge un po’ di tutto, soprattutto saggistica storica e locale, narrativa e libri di cucina, che applica con scarso successo. @libreria_tarantola_1904
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LA GIRAFFA CON GLI OCCHIALI
Collettivo formato da tre amici uniti dalla passione per la musica e la lettura: Giulio Freschi, maestro elementare e voce narrante; Giovanni Grisan, musicoterapeuta, chitarra e voce narrante; Alessandro Ranciaffi, cajon. Il collettivo si occupa di promozione della lettura per l’infanzia, coinvolgendo i bambini in ambienti diversi: librerie, biblioteche, associazioni culturali, book cafè e scuole. All’attività di lettura si accompagna la recensione via web di libri e albi illustrati per l’infanzia e la collaborazione con alcuni autori e illustratori. @lagiraffacongliocchiali
CONTRIBUTI
GIORGIO C. RIVA
Settantenne all’anagrafe, da quasi mezzo secolo nella nostra regione, che adora. Epicureo dalla nascita, già avvocato, giornalista pubblicista, sempre esploratore cercatore di vino e di cibo, quotidianamente in cucina durante i lockdown e successivamente. info@oltrealvino.com
JESSICA ZUFFERLI
Fotografa e Content Creator. Attraveso l’utilizzo di strumenti come siti web, blog e social network, mi occupo di progettare strategie e calendari editoriali per aziende, realtà turistiche e privati, al fine di accrescere la loro presenza online grazie alla condivisione di contenuti di qualità. Li affianco infatti nella scrittura di contenuti creativi (copywriting) e nella produzione di fotografie e video. @jessicazufferli
MANLIO BOCCOLINI
Quarta generazione di una famiglia di commercianti cividalesi, respira moda dalla nascita. Entra presto in contatto col mondo di Vogue Italia e Franca Sozzani. Con lo pseudomino di MANLIO B. viene selezionato come free contributor per varie attività della testata (Vogue Encyclo, Live on Vogue Pitti, “Love your age” di Lancome, Dream Photo Contest Illy). Un fashion lover e consulente immagine, impegnato anche in attività di scouting di nuovi talenti e brand emergenti. @manlio31166
FRANCESCA COLACINO
Psicologa e Psicoterapeuta in formazione, si occupa di Tecniche di Rilassamento e promozione del Benessere. Da sempre sente il desiderio di lavorare per il miglioramento della qualità della vita e del benessere delle persone, dunque studia e si laurea in Psicologia Clinico - Dinamica a Padova e si specializza ulteriormente frequentando due master, a Milano e a Firenze per raggiungere questo obiettivo. Crede e lavora con la consapevolezza che mente e corpo siano inscindibilmente legati e punta a favorire il recupero dello stato di calma, della sensazione di benessere e la conoscenza profonda del proprio corpo e delle proprie emozioni. @Francesca Colacino - Psicologa
SABRINA PELLIZON
SEBASTIAN LASPINA
Laureato in Medicina e Chirurgia presso l’Università degli Studi di Udine, si specializza in Dermatologia e Venereologia presso lo stesso ateneo. Ottiene il Master S.I.D e. M.A.S.T. in Dermochirurgia, presso la Clinica Dermatologica dell’Università degli Studi di Siena. Nel 2009 consegue il Dottorato di Ricerca in Scienze e Tecnologie Cliniche presso la Clinica Dermatologica dell’Università degli Studi di Udine. E’ dottore di riferimento presso la Lega Tumori per la prevenzione dei tumori della pelle di Udine. @centrolaserdott.laspina
Nata, vissuta e cresciuta nelle terre bagnate dal fiume Isonzo, muove i suoi passi come tour leader tra FVG, Veneto e Carinzia per poi diventare Guida Naturalistica/ Ambientale Escursionistica regionale in italiano, tedesco e inglese. Ama accogliere, ospitare, informare, stupire, coccolare ed accompagnare i visitatori alla scoperta della nostra regione, comunicando il valore di queste terre e mostrando ciò che di curioso ed originale riservano a chi vuole esplorarle in modo autentico. ecoturismofvg.weebly.com
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MIA MAGAZINE
FLAVIO ZANUTTINI
E’ un musicista estremamente versatile che non trova mai pace nella ricerca di un suono ed una poetica personali. Dopo una formazione jazz e classica svolta tra Italia e Germania, attualmente si dedica all’insegnamento e alla musica di ricerca. Ha pubblicato due dischi a suo nome ed è presente in più di trenta album come sideman. @flavour.flavio
MELANIA LUNAZZI
Storica dell’arte e giornalista freelance scrive di cultura, arte e montagna. Ha dedicato una mostra, diversi libri e un lavoro teatrale alla riscoperta di pionieri delle Alpi del Nord Est: Napoleone Cozzi, Belsazar Hacquet e le sorelle Grassi. Frequenta la montagna in ogni stagione e dal 2016 cura la comunicazione del Soccorso Alpino e Speleologico del FVG. @mellun71
AIDA TALLIENTE
Attrice friulana diplomata all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “S. D’Amico” di Roma. Ricercatrice di storie, autrice e interprete di numerosi spettacoli che nel corso degli anni le hanno valso diversi riconoscimenti. Collabora inoltre con musicisti, registi, compagnie del territorio e di tutta Italia. Collabora con diverse radio e case editrici regionali e nazionali come lettrice ed interprete. www.aidatalliente.it
CARLOTTA DI FRANCO
Classe 1993, nata a Genova, ha da sempre avuto la passione per la macchina fotografica e per le testate di moda più famose. Si definisce coraggiosa e dal carattere forte e determinato. Il suo grande sogno diventa realtà dal 2015 quando, con la sua macchina fotografica, comincia a lavorare come fashion photographer per diversi brand e magazine: in Italia e in diversi città fondamentali nel mondo della moda come New York, Buenos Aires, Barcellona e Londra. @dfcarlotta
JESSICA ZUFFERLI
Fotografa e Content Creator. Attraveso l’utilizzo di strumenti come siti web, blog e social network, mi occupo di progettare strategie e calendari editoriali per aziende, realtà turistiche e privati, al fine di accrescere la loro presenza online grazie alla condivisione di contenuti di qualità. Li affianco infatti nella scrittura di contenuti creativi (copywriting) e nella produzione di fotografie e video. @jessicazufferli 90
VERONICA BALUTTO
Laureata in architettura allo IUAV di Venezia, è anche giornalista per diversi settori, dall’architettura, al design, al lifestyle. Da molti anni è esperta di tematiche legate al mondo del beauty, attraverso le interviste di professionisti noti nel settore. @veronicabalutto
I NOSTRI FOTOGRAFI
MASSIMO CRIVELLARI
Fotografo professionista da oltre 20 anni, si occupa prevalentemente di architettura, interni e processi industriali. Ha all’attivo collaborazioni con riviste nazionali e internazionali e segue svariati studi di architettura in Italia e all’estero. Numerose le collaborazioni con aziende di livello internazionale per la documentazione e la realizzazione dei loro Company Profile. Oltre all’attività commerciale, ha pubblicato volumi fotografici con Magnus, LEG, Biblos ed altri. Parallelamente si occupa attivamente di ricerche fotografiche nel campo del paesaggio urbano ed antropico, con all’attivo molte mostre personali e collettive. È stato vincitore del premio Friuli Venezia Giulia Fotografia del CRAF di Spilimbergo. Attualmente sta documentando le interazioni tra l’industria dello sci e il paesaggio montano. Vive in comune di Prepotto UD. @crivefoto
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Trimestrale di lifestyle e cultura del territorio del Friuli Venezia Giulia
Anno VI° numero 26. Pubblicazione trimestrale registrata presso il Tribunale di Udine il 14 maggio 2007, n. 16 Iscrizione R.O.C. n. 34217 del 14/5/2020
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COLLABORATORI Manlio Boccolini, Martina Corrubolo, Dott. Sebastian Laspina, Cristian Cecchini, Jessica Zufferli, Gloria Buccino, Samia Laoumri, Sabrina Pellizon, Melania Lunazzi, Aida Talliente, Giovanni Tomai, Flavio Zanuttini, Sveva Casolino, La Giraffa con gli Occhiali, Francesca Colacino, Veronica Balutto, Giorgio C. Riva, Alessandra Spangaro. FOTOGRAFIE Jessica Zufferli, Massimo Crivellari, Alina Brag, Ilaria Taschini Photography, Ambra Tilatti, Beppe Buttinoni Carlotta Di Franco, Cristina Modonutti, Stefano Benetti, Matthias Parillaud, Alessandro Rizzi, Luca Della Savia, Marco Di Lenardo, Gabriele Pascutti, Daniele Buttolo, Vittorio Svara, Matteo Guariso, Annaviola Faresin, Elia Falaschi, Alex d’Emilia. Se non diversamente indicato, sono dovute alla cortesia degli autori dei testi o degli intervistati e/o delle persone degli enti di riferimento/ provenienza e/o dalla redazione.
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