MARCO MAROZZI
Marco Marozzi è nato a Bologna, al Meloncello. Ha lavorato all›“Ansa”, “Il Giorno”, “la Repubblica”, di cui nell’Ottanta ha fondato la redazione bolognese, “Il Messaggero”, “il Resto del Carlino”, “L’Europeo”, “Amica”, “Epoca”, “Il Secolo XIX”, “il Fatto Quotidiano” e collabora con il “Corriere di Bologna” e con “Avvenire – Bo7”.
MARCO MAROZZI
BOLOGNA
Ha pubblicato Sogni coraggiosi per Mondadori e Mamma Bologna per Pendragon.
Personaggi e racconti per un tour turistico nelle anime, nelle storie, nelle grazie e nelle disgrazie di una città che affascina e ogni tanto arranca. Per capire e nel caso amare.
BOLOGNA BELLA E CAROGNA
BELLA e CAROGNA
Ha partecipato alla creazione dei musei del Genus Bononiae e ha tenuto corsi all’Università di Urbino.
Speranza e Ribellione. «Bisogna ribellarsi, nel senso di tornare al bello delle cose.» Nell’insegnamento di Alessandro Bergonzoni c’è il senso cercato da questo libro. Perché non ci si abitui a chiudere gli occhi nella propria bellezza o a brontolare soltanto del proprio imbruttire. Si cambia. “Bella carogna” è un dipinto cinico, apprezzamento e ipocrisia; bella e carogna è il racconto di Bologna fatto di intrecci, sentimenti, capacità, astuzie, coraggio, durezze, contraddizioni, realtà. Riguarda tutti. “Bologna Carogna” era l’urlo antico dei poveri. Poi lo slogan con cui, nel 1964, la città si ribellò al furto montato per rubarle lo scudetto di calcio. Uno sberleffo ai potenti di tutte le epoche. Fra storie antiche e giovani che inventano. Insistiamo.
Cover design: Alessandro Battara (Illustrificio Morskipas)
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MARCO MAROZZI
BOLOGNA BELLA e CAROGNA
MINERVA
Via Due Ponti, 2 – 40050 Argelato (BO) Tel. 051.6630557 – Fax 051.897420 info@minervaedizioni.com www.minervaedizioni.com
Indice
Introduzione Una città buonista................................................ 5 Papi, artigiani, inventori, ribelli La città del tempo .................... 9 Bartolo Nigrisoli Il chirurgo contro il delirio fascista................ 13 Liberazione L’ultimo aprile di guerra ....................................... 16 Liberazione Gli ebrei ................................................................ 19 Liberazione Le bombe amiche .................................................. 22 Donne e politica Magnifiche. Numeri due ............................... 25 Autosole Vittorio Gassman dei caselli ...................................... 28 La contestazione generale Il ’68 è Bonetti ................................ 32 I funerali di Togliatti Guttuso, il Beatle del Pci ........................ 37 Dodo D’Hambourg Striptease! E fu Gran Pavese .................... 41 Renato Zangheri Il professore di egemonia ............................. 44 Carmelo Bene La meglio gioventù............................................ 49 Letizia Gelli La donna dei monumenti partigiani .................... 52 Addio al carro di Occhetto Ecco il carrello di Berlusconi.......... 57 Fra Imperatore e Papa Capitale del mondo............................... 61 Carlo Azeglio Ciampi Bologna sposò il presidente ................... 64 Francesco Berti Lezione su uccidere e perdonare ...................... 69 Luigi Pedrazzi Il bisnonno delle sardine.................................... 73 Giuseppe Gazzoni Frascara Il presidente che sognò il Rinascimento........................................76 Fine di un’epoca Non più ombelico di tutto............................. 80 Carlo Caffarra Tradizione sofferta fra Biffi, Zuppi, il Papa....... 86 Cesare Romiti Fra i denti di Bologna ....................................... 88 Alfredo Cazzola Caterpillar....................................................... 92 Le cronache bolognesi Il giornalismo è saper sparire ................ 96 Il cinema Ultimo tango a Porretta............................................ 99 Claudio Lolli La città che fa soffrire ....................................... 103
E Dalla sbucò da un’anfora Lucio l’etrusco............................. 107 Franco Ciani e Valerio Pinotti Quando il mito uccide............. 113 Franco Pannuti Bologna costretta alla bontà .......................... 117 Negozi e costumi Kierkegaard fa belli i gioielli....................... 120 Giorgio Comaschi La sapienza di Sancio Panza...................... 124 Luciano Vandelli Il diritto e Don Chisciotte........................... 128 Paolo Fabbri Noi che interpretammo il mondo...................... 130 Paolo Prodi La Chiesa e le officine ......................................... 134 Renato, senza cognome Società carogna ................................. 137 Rino Maenza Rabbia cieca e creazione ................................... 141 Bus e sogni Le strade dei trasporti perduti.............................. 144 Osteria dell’Orsa Tagliatella di sinistra ................................... 148 Siniśa Mihajlović La forza e l’eccesso...................................... 150 Antifurto bolognese Il miracolo di Alì Babà Muriana............. 153 Marino Golinelli e Ivo Galletti Le Due Torri.......................... 156 Philippe Daverio Strichetto e Fioretto..................................... 161 I professori del sonno E Dante dormì in piedi........................ 165 Lea Sighinolfi e Karin Zanella La mondina e il disperato dell’elemosina................................. 168 Stefanini e Cimbri Il padrone e l’operaio................................. 172 Papalla, Tinny, Caschetto & C. I potenti della tv.................... 176 Franco Farinelli Il geografo perfetto e la politica .................... 180 Poveri e piccoli aiuti Il grande freddo...................................... 183 Portici vs Torri Gli archi oltraggiati della democrazia ............. 185 Bologna Donna Le brave ragazze............................................ 189 Bologna Business School Il conte Max.................................... 197 Cibo & Business Piccoli ragazzi crescono............................... 200 Casini, Galletti, Ragonesi Gli eterni Dc.................................. 204 Il design Castelli non anonimi................................................ 209 Sardine Resurrezione continua................................................ 212 Lo Stato Sociale Il nuovo, nonostante..................................... 216 Bologna’s Influencers Vacchi e Sal ........................................... 221
Introduzione UNA CITTÀ BUONISTA
Bologna è una città buonista che gronda bonomia da tutti gli artigli. Cominciamo da Edmondo Berselli, con Quel gran pezzo dell’Emilia ha fatto in tempo a raccontare i fulgori della terra rossa e a sentirne, con la testa e il cuore, il mutare. La furbizia è diventata astuzia. Bologna, capitale ormai involontaria e non riconosciuta, si pasce in una maionese di antiche virtù, nuove capacità e inettitudini. Succede a tutti. L’importante è non chiudere gli occhi alla propria bellezza o brontolare soltanto sul proprio imbruttire. Si cambia. Bologna bella e carogna cerca di narrare come e cosa si è guadagnato e perso. Attraverso fatti e persone. Prendendosi la responsabilità di quel che si dipinge, propone e ripropone. Cronaca più cronaca per tirarne fuori un racconto morale. Contro l’oblio, il silenzio, la prosopopea inconcludente, l’incapacità di concepire la bellezza e costruirla. Alcuni personaggi appaiono più volte, nel tempo e nei luoghi; tantissimi mai. Qualcosa vorrà dire. “Bologna carogna” era la scritta ribelle che i poveri del contado nel XIX secolo scrivevano di notte sui muri della città. Urlo di rivolta, nel 1964 riapparve come titolo di un libro scritto da Renzo Renzi, uno degli intellettuali più ric5
chi di talento e poveri di presenzialismo nella Bologna della seconda parte del secolo passato. Scrittore, critico cinematografico, prigioniero dei tedeschi in un campo di concentramento, capace di difendere le sue idee sull’arte – scriveva solo di quel che sceglieva lui – e la vita. Finì un mese nel carcere militare di Peschiera per una sceneggiatura. Bologna carogna di Renzi è uno sberleffo dotto e furioso. Un ghigno in faccia ai poteri. Scommessa pericolosa, visto cosa si intende solitamente per carogna. Rivolta anche linguistica. Il racconto dell’epopea dell’ultimo scudetto del Bologna, lo “scandalo del doping”, la penalizzazione del Bologna in testa alla classifica, la discesa in piazza dei tifosi, la determinazione e la civiltà dei comportamenti, la riabilitazione, la morte del presidente Renato Dall’Ara, la vittoria nello spareggio a Roma contro l’Inter. Cronache della lotta contro la Lega lombarda era il sottotitolo del libro. La copertina era di Pirro Cuniberti, pittore, grafico dal tratto raffinato che pure riuscì a tramutare due grumi di colore, il rosso e il blu, in uno scudo, un pugno. A quante letture si aprisse Bologna carogna lo mostra la sua traduzione in francese, La révolte bolonaise de 1964: massification de la culture du football et politisation du supportérisme dans l’Italie des années 1960, curata da Fabien Archambault per “Parlement[s], Revue d’histoire politique”, 2019/1 (n. 29). Il football come cultura di massa e la politicizzazione del tifo. Nel 2004 il libro di Renzi era stato ripubblicato, nei quarant’anni della vittoria. Come vincere uno scudetto è diventato il sottotitolo. La prefazione è di Antonio Roversi, sociologo, il primo in Italia a occuparsi di calcio con strumenti scientifici, figlio di Roberto, il poeta e libraio amico di Pier 6
Paolo Pasolini, “il monaco pazzo” di Leonardo Sciascia, di Vittorio Sereni, unico nella letteratura italiana per il suo «tempo dei monti furenti», coraggioso nei suoi pochi sì e i molti no, anche con Lucio Dalla a cui aveva dato i versi di Automobili. La vita dei libri è il loro rimandare ad altri libri. Passati e futuri. Tutti gli autori citati non ci sono più. Hanno lasciato, insegnato qualcosa a chi è venuto dopo di loro. Per una vita bella, almeno giusta, capaci di essere durissimi, mai carogne concilianti, spesso inascoltati. “Pivatelli insistisci!” si urlava allo stadio.
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Papi, artigiani, inventori, ribelli LA CITTÀ DEL TEMPO
Giuseppe Fini, il mastro artigiano che rifece camminare l’orologio di palazzo d’Accursio. Auro Montanari, uno dei più grandi collezionisti ed esperti di orologi da polso: come John Goldberg ha scritto in inglese libri-culto nel mondo, è riferimento di grandi marche produttrici e case d’aste, «One of the world’s most important (and elusive) watch collectors», lo riverisce “Roob Report”, rivista internazionale di tutti i lussi, “an autority”. In Santo Stefano, fra la piazza e i negozi della via, scivola la storia ultima di Bologna città del tempo. Fra piccole botteghe e immense nicchie, uno scorrere continuo di lancette. Di Montanari, raffinato signore giramondo, “Robb Report” ha fatto persino l’entusiasta traduzione in inglese di nome e cognome: Auro per Gold, Oro, Montanari per Highlanders. Gold Highlanders. Lui passeggia per i portici, se ne sta nell’ombra, “shadow” per la ricca rivista, e sorride lontano. «Scelsi uno pseudonimo un poco per difendere la mia vita quotidiana, un poco per divertimento. Sono figlio di commercianti d’arte, scelsi gli orologi da polso perché sono gli unici oggetti da collezione portatili. L’ora la leggi ormai sullo smartphone.» È il Lord of the Time. Giuseppe Fini, andatosene nel 2019 a 86 anni, era il maestro artigiano con il camice, le mani, la saggezza e gli 9
occhi da mago degli ingranaggi. Nel 1979, l’economo del Comune lo chiamò per “mettere a posto” l’orologio montato nel 1773 da Rinaldo Gandolfi sulla quattrocentesca torre di piazza Maggiore: si fermava, rimaneva indietro. «Ho rifatto tutti i pezzi. – raccontava – Ho tribolato per il tornio della ruota, ci sono due pesi, da 97 chili e 3 quintali. Ho messo un collegamento elettrico che dà la carica quattro volte al giorno, un orologio al quarzo per trasmettere il suo segnale a quello del palazzo, un meccanismo per la lubrificazione e una stufa perché il freddo fa male agli ingranaggi.» Da allora la sua famiglia cura l’Orologio della Città. Un assessore chiese di spegnere il rintocco dalle nove di sera alle sette di mattina perché i clienti degli alberghi si lamentavano. Piccoli fiori di una storia grande. Bologna è la città del tempo. Le sue ore sono diventate semi, linguaggi, leggi, segni, svolte che hanno scandito la storia. Ha la più antica università del mondo. Dal 1088. A consacrarne la nascita, 800 anni dopo, fu uno dei suoi professori, Giosuè Carducci, il primo Nobel italiano per la Letteratura. La data è stata accettata universalmente. Bologna è stata la prima a salutare una donna che saliva in cattedra: nel 1239, Bettisia Gozzadini, maestra di quel diritto al mondo. Per prima ha liberato i servi della gleba: era il 1257. Nel 1530 un papa, Clemente VII, qui ha incoronato Carlo V, l’imperatore sui cui domini non tramontava mai il sole. E nel 1898, Guglielmo Marconi ha lanciato il linguaggio oltre i confini del tempo e dello spazio: ecco il telegrafo senza fili, la radio. Grandi avventure e grandi drammi. Voci dei tempi. Urla. L’orologio della stazione ferroviaria è fermo alle 10:25 del 2 10
agosto 1980, quando una bomba uccise 85 persone, 200 ne ferì. La strage più orrenda d’Italia. San Francesco e San Petronio, il patrono d’Italia e quello di Bologna, si celebrano lo stesso giorno, il 4 ottobre. Fu un papa a conservare quella comunanza. Gregorio XIII, pontefice bolognese, rinnovò il calendario e fu la Riforma Gregoriana: nell’anno 1582 cancellò, dopo oltre quindici secoli, il calendario giuliano di Giulio Cesare. Ad attuare la rivoluzione si erse il bolognese Ugo Boncompagni, di famiglia borghese, dottore in Giurisprudenza e poi per otto anni docente all’università, sacerdote a quarant’anni, con un figlio nella vita precedente. Da papa, con il suo calendario volle creare una voce che unisse e indicasse le strade. Recuperò il ritardo dei giorni ufficiali sul corso del sole, conciliò date e fenomeni astronomici, conoscenze scientifiche e liturgie unificanti per la cristianità frantumata dalla Riforma protestante, anno civile e anno tropico, il giorno di San Francesco e il giorno di San Petronio. Fece partire il suo calendario il 4 ottobre 1582: stabilì che in quell’anno a quel giorno, un giovedì, seguisse venerdì 15 ottobre. Recuperò dieci giorni, salvò i santi. Quasi cinque secoli dopo un altro bolognese, molto meno potente e tanto diverso, divenne anche lui signore del tempo. Quirico Filopanti, nato a Budrio con il nome vero di Giuseppe Barilli, nel 1858 fu il primo a proporre al mondo i fusi orari. Laureato in Matematica, divenne professore di Meccanica e Idraulica all’università, perse la cattedra perché rifiutò il giuramento al re. Fu garibaldino, repubblicano, segretario dell’Assemblea che a Roma, nel 1849, aveva dichiarato decaduto il potere dei papi e proclamato la Repubblica. Aveva pensato di suddividere idealmente la 11
Terra in corrispondenza dei meridiani in 24 zone, a ognuna delle quali avrebbe dovuto corrispondere un orario. Fino ad allora si usava l’ora solare locale (media o vera), che produceva un orario leggermente differente persino da città a città. Filopanti-Barilli non trovò aiuto né negli Stati nazionali né nelle istituzioni economiche. L’introduzione dei fusi viene attribuita a Sandford Fleming, che l’applicò alle ferrovie canadesi di cui era ingegnere capo. Filopanti morì in povertà nel 1894. Lo ricorda un viale. Gli è stato dedicato un asteroide, 21687 Filopanti. Benvenuti a Bologna.
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Bartolo Nigrisoli IL CHIRURGO CONTRO IL DELIRIO FASCISTA
Bartolo Nigrisoli è l’unico professore dell’università di Bologna che nel 1931 non giurò fedeltà al fascismo. Fu cacciato dalla cattedra. Come undici colleghi su 1295 in Italia. Esempio per quelli che sono venuti e verranno, contro tutti i pericoli, le vigliaccherie, le carognate. Non amava le celebrazioni. Nessuno lo ha ricordato per i 70 anni dalla morte, quando pur molto si parlava (a proposito e non) di fascismo, figurati i 160 dalla nascita. L’ultima a onorarlo è stata l’Associazione Nazionale Partigiani. È stato uno dei maestri della Chirurgia, ha fondato una clinica famosa che porta il suo nome. A lui è dedicato il piazzale dell’ospedale Maggiore. Imola gli ha intitolato una strada. Dal collegio all’università aveva fatto di testa sua. «Negligentissimo», si racconta. Nel 1925, insieme ad altri sette bolognesi, aveva firmato il Manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce, dopo aver rifiutato, l’anno prima, la nomina mussoliniana a senatore. «Non ne voglio sapere, prima perché non ho meriti, poi perché ho idee diverse in tutto da quelle dominanti», rispose al sacerdote mandatogli come ambasciatore, «giacché aveva grande entratura nelle cose pubbliche, specie in quelle tra chiesa e fascismo». Il 1925, dopo l’omicidio di Giacomo Matteotti, è l’anno delle leggi speciali con cui Mussolini abolì il Parlamento, i par13
titi, i sindacati, insediò il Tribunale speciale per gli oppositori. «Quello per il fascismo – raccontava Nigrisoli – fu un vero delirio collettivo: si videro delle vere aberrazioni della mente ed esaltazioni tali di un errato e falso patriottismo, inconcepibile in uomini di senno e sulla cui assoluta buonafede sembrava non doversi dubitare. Quando penso alla mancanza assoluta di dignità dimostrata da molti di codesti uomini, che non avevano alcun bisogno di prostrarsi così bassamente, e che avrebbero forse salvato la patria se, invece di applaudire servilmente al regime fascista, fossero rimasti decorosamente fermi in disparte, io mi vergogno di essere italiano.» Diagnosi clinica. Aveva partecipato per 42 mesi alla Grande Guerra. Rifiutò la medaglia al valor militare, accettò solo quella per il lavoro nella Croce Rossa. Era parente di Olindo Guerrini, amico di altri poeti, fin da ragazzo di “Giovannino” Pascoli, di padri del socialismo, da Andrea Costa a Camillo Prampolini a Nullo Baldini. I suoi maestri all’università di Bologna furono Augusto Murri e Pietro Loreta. La storia della Medicina mondiale. Gli altri emiliani a dire, nel 1931, “no” al giuramento fascista sono il modenese Lionello Venturi, storico dell’arte, e Mario Carrara di Guastalla, laurea a Bologna, uno dei padri della Medicina legale: tutti e due docenti a Torino. Nigrisoli fu costretto a lasciare la direzione della Clinica Chirurgica. Si dedicò alla sua clinica a porta San Vitale. Il rettore fascista Alessandro Ghigi aveva cercato di difenderlo: «Il professore non è un fascista ma è uno degli uomini più popolari dell’Emilia, non solo per la sua valentìa di chirurgo, ma anche per la sua grande generosità e per la sua modestia». Enzo Biagi, invitato dall’Associazione Nazionale 14
Partigiani, lo ricordò così: «Tra quelli che dissero no, un grande chirurgo romagnolo, Nigrisoli, il cui nome tornò molti anni dopo nelle cronache, ahimè, giudiziarie, perché ebbe per protagonista di una vicenda amorosa un suo nipote, anche lui medico. Nigrisoli, si direbbe oggi, era un laico, e diceva: “Se guariscono è merito del Signore e se muoiono è colpa del professore”. Quando decise di non consentire alle richieste del fascismo, e venne costretto a lasciare la cattedra e l’ospedale, decine di malati lo scongiurarono di operarli: lavorò giorno e notte». Nel ’43, cercato dai fascisti, si nascose e operò a Villa Bellombra, ai piedi dei colli. Nel maggio del 1945, nell’Italia liberata, rifiutò l’incarico di Direttore emerito della Clinica Chirurgica dell’università di Bologna. «E che? E con tutte le rovine che avete d’intorno, con tutte le miserie che affliggono questo disgraziato Paese avete tempo da perdere in queste insulsaggini?»
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Liberazione L’ULTIMO APRILE DI GUERRA
Liberazione. Il 21 aprile 1945 per Bologna fu la storica Liberazione dai tedeschi, dal nazismo, dai fascisti, dal fascismo. Da uomini e orrori. Fu anche la quotidiana liberazione dai bombardamenti alleati, dalla paura, dalla fame, dalle miserie, dalle vergogne. Fu esplosione di sentimenti. Liberazione è onore ai 2064 partigiani assassinati. Sono le donne che cominciano a deporre fiori e foto in piazza Nettuno, i semi da cui poi sorgerà il sacrario. È la fine delle bombe lanciate dagli aerei americani e inglesi, puntavano alla stazione ferroviaria, alle centrali tedesche, uccisero anche 2481 bolognesi. È lo scoprire che si può finalmente tornare ad amare guardando al futuro. Sono i baci per strada a sconosciuti in divisa o scesi dalle montagne, è la chocolate chiesta agli americani, è lo stupore di vedere quanto gli altri, anche in guerra, fossero tanto messi meglio di noi. È l’addio a Pippo, l’aeroplanino monoposto che seminava morte e a cui Pupi Avati dedicò un film. Le ragazze bolognesi cominciarono a innamorarsi ballando Glenn Miller e scoprendo che era pure lui morto in guerra, swing, boogie woogie, Moonlight Serenade, In the Mood. Feste nei palazzi dove erano i comandi tedeschi e nei primi baladur rossi. Venne il jazz, nelle cantine degli studenti. Il 21 aprile è il ritorno alla vita. Nello stesso mitico giorno della fondazione di Roma. 16
Liberazione è anche il pensiero a chi è stato ammazzato, a combattimenti finiti. Il sindacalista cattolico Giuseppe Fanin, i preti, le lapidi in alcune parrocchie completano quelle partigiane in tante strade. Gente come Lionello Matteucci, non fascista ma proprietario di terre, suo figlio Nicola fu fra i fondatori del Mulino, liberale durissimo, prima tesi in Italia su Gramsci. E Leandro Arpinati, il federale che non aveva aderito alla Repubblica di Salò, aveva protetto prigionieri alleati fuggiti e partigiani: fu ucciso il 22 aprile 1945, da una «volante rossa». Sono i partigiani che nel Dopoguerra sono scappati nei Paesi comunisti, costruendo anche là un’epopea di maschia solidarietà e illusioni perdute. Liberazione sono le truppe polacche del generale Anders, che alle 6 del mattino del 21 aprile entrano per prime in città. «La vostra libertà è la nostra libertà.» Il primo sindaco, Giuseppe Dozza, fondatore del Pci, li onorò con una lapide a porta Mazzini. Odiavano i russi che li avevano massacrati in accordo con Hitler nel ’39. Furono fatti aspettare a San Lazzaro prima di farli marciare su Bologna nelle bande partigiane comuniste. Un cimitero bianco li ricorda. In patria li attendeva Stalin, l’Europa tradita nella spartizione di Yalta. Una folla immensa si radunò in piazza, le campane suonarono a stormo. Spuntano bandiere italiane. Partigiani portano prigionieri tedeschi disfatti. I fascisti sono scomparsi. «Mia madre in guerra calò venti chili», scrisse Aldo Ferrari in un libro splendido, I giorni di Bologna: Kaputt, nel 1980, quando la stazione era di nuovo massacrata da una bomba. Luca Goldoni racconta: «Le alunne del ginnasio che si ravvivavano le labbra sfregandovi contro il bordo 17
rosso dei quaderni», mentre i ragazzi «fumavano foglie di vite seccate, avvolte nella carta leggera dei foglietti del calendario». Gianni Leoni sfila attraverso i luoghi dove la vita pur continuava, dai caffè concerto, bombe permettendo, a «quelle case» dove «si pregano i Signori di voler usufruire dell’orinatoio sito all’interno della casa e non lordare la pubblica via». Eroismo, erotismo, sopravvivenza. Le donne che facevano le staffette come Irma Bandiera, massacrata mentre attendeva un bambino. Quelle che si arrabattavano tutti i giorni a portare in tavola qualcosa e, come scrisse Franca Varignana, «a non far crescere i figli nell’odio». La «voglia di pane» narrata da Ciro Soglia, che fu capo dei partigiani e di una «Unità» altrettanto eroica. Liberazione è tanti, tanti onori. E molti oneri dimenticati.
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Liberazione GLI EBREI
Liberazione è anche ritrovare il proprio nome. «Il 21 aprile 1945, dopo due anni, potemmo tornare a chiamarci Jacchia. Avevo 19 anni. Ho ancora nel cassetto i documenti falsi con sopra scritto Rossini. Mio padre lo catturarono con questo cognome. E non abbiamo mai saputo dov’è il suo corpo.» La signora Adriana Olivo è morta nel 2019. Era figlia di Mario Jacchia, Medaglia d’oro, capo partigiano. Avvocato. Ebreo. Portare il suo cognome era doppiamente pericoloso. Persino per la moglie e le due figlie, cattoliche. Come era irrilevante che gli Jacchia fossero da sempre liberi pensatori. Atei. «Con le leggi razziali, nel ’38 tolsero a mio padre molti diritti come avvocato. Il brevetto da pilota. Noi ragazze tememmo di non potere più andare a scuola. Ci volevano cinque ottavi di sangue ariano. Non andammo più in villeggiatura. Dovemmo licenziare la cameriera. Io avevo 12 anni… i miei genitori stettero ben peggio.» Prima dei nazisti, i fascisti avevano già preparato il campo. Nel ’38 dovettero lasciare la cattedra all’università undici docenti: Tullio Ascarelli, Alberto Mario Camis, Gustavo Del Vecchio, Emanuele Foà, Guido Horn D’Arturo, Beppo Levi, Rodolfo Mondolfo, Maurizio Pincherle, Beniamino Segre, 19
Giulio Supino, Edoardo Volterra. Studenti furono allontanati dalle scuole. Nella biblioteca universitaria i libri scritti da ebrei dovevano portare sulla copertina la dicitura in rosso «Lib.Sg.», «libro sgradito». Via de’ Giudei divenne via delle Due Torri. Quando, il 7 novembre 1943, i tedeschi fecero la prima retata, si trovarono già pronta la lista. Il questore, Saverio Polito, proclamò che «il popolo appoggia con tutte le sue forze» le nuove disposizioni, in realtà i bolognesi non si comportarono da infami, non denunciarono: coprirono, aiutarono. Soltanto tre locali esposero il cartello che vietava l’accesso agli ebrei, ben poche furono le scritte antisemite sui muri. Quando, nel maggio 1942, venne decretata la precettazione per il lavoro coatto per tutti gli ebrei, il medico provinciale Francesco Addari fece «il possibile per dichiarare un numero assai esiguo come adatti». Reazione della Comunità israelita, compatta nel tentativo disperato di solidarietà. Erano 864 gli ebrei a Bologna l’8 settembre 1943. In 84 non sopravvissero alle persecuzioni. Non ce la fecero Leone Alberto Orvieto, rabbino dal 1899, e la moglie Margherita Cantoni. La strada del tempio oggi è intestata a Mario Finzi: era un giovane magistrato, «musicista bolognese» lo dipinse Primo Levi, con la Delasem fece funzionare una macchina di assistenza finché fu catturato e deportato in Germania: morì ad Auschwitz. Altri scelsero la lotta armata. Franco Cesana era il più giovane partigiano d’Italia. Aveva 13 anni quando cadde in combattimento: a sette lo avevano espulso da scuola, aveva continuato le elementari nelle aule improvvisate nella sinagoga. Aveva seguito il fratello maggiore nelle brigate di Giustizia e Libertà. Ora anche lui è una scuola 20
elementare in via Guardassoni. È la foto di un bimbo nel sacrario di piazza Nettuno. L’avvocato Jacchia era già stato ferito nel Ventennio, suo padre Eugenio aggredito. Lo studio in via d’Azeglio devastato. Liberi pensatori per scelta, ebrei per nascita. Eroi nella Prima guerra mondiale, fascisti con Leandro Arpinati, un’illusione durata poco. L’antifascismo sempre più marcato, coraggioso. Giustizia e Libertà. Poi l’intellettuale, orgoglioso di essere stato ufficiale alpino, riprese le armi: il Partito d’Azione, divenne uno dei luogotenenti di Ferruccio Parri. «I tedeschi lo vennero a cercare il 3 novembre ’43. – raccontava la signora Adriana – Bartolo Nigrisoli lo nascose la prima notte. Anche noi donne quel giorno lasciammo Bologna.» Valeria, la sorella più grande, fu staffetta a Montefiorino. Mario lo catturarono il 3 agosto ’44 a Parma, si attardò per distruggere documenti. Torturato. Scomparso. La Liberazione arrivò a Maranello, il 21 aprile. «Poche ore dopo a Bologna. Un fratello di mio padre in divisa da ufficiale medico arrivò con la Brigata ebraica. Mi chiesero se volevo andare in Israele. No, voglio casa mia, a Bologna. Avevo lasciato il Galvani alla prima liceo, avevo perso due anni. Feci la Maturità grazie a una legge di aprile. Non sapevo niente.» «Tu la storia l’hai vissuta», le disse il professor Giorgio Bonfiglioli. Un signore che fece politica nel Pri, visse con lo stipendio di insegnate, fu consigliere in Comune. Lo fecero presidente dell’Istituto della Resistenza dal 1982 fino alla morte, dieci anni dopo. Unico onore. Liberazione è anche una vita così.
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Liberazione LE BOMBE AMICHE
Liberazione è anche non dover fuggire dal proprio letto. Non stringere i denti quando senti i fischi delle bombe. Non pregare che l’esplosione riguardi qualcuno che non conosci. Liberazione è la fine della paura e dell’egoismo orrendo di chi si è salvato. È riuscire, alla fine, a festeggiare chi ti ha bombardato. Accettarlo è una delle più grandi e terribili prove di una democrazia che sarebbe nata. Sono stati oltre un centinaio i bombardamenti angloamericani su Bologna. Il primo, il 16 luglio 1943, colpì via Agucchi, di notte, morirono in dieci, prime vittime di una guerra che alla fine uccise, a Bologna, 2481 civili. L’ultimo fu il 20 aprile 1945, fra San Ruffillo, la collina, via Parisio. Un giorno prima che a Bologna arrivassero gli alleati, i liberatori. I bombardamenti iniziarono nove giorni prima del 25 luglio 1943, la caduta del fascismo. Sono continuati quando l’Italia era massacrata dai tedeschi e dai repubblichini. Il 25 settembre 1943, diciassette giorni dopo l’armistizio dell’8 settembre, vi fu la strage più grande: oltre mille morti e centinaia di feriti, in gran parte nel rifugio del Cavaticcio. In questo scadenzario di morti “inutili”, da bombe americane e inglesi, sta il senso diffuso di una città che, comunque, seppe capire con sangue e dolore da che parte stava il futuro di libertà. 22
Bologna resisteva a tutte le crudeltà. Il suo popolo si ammassava nei rifugi antiaerei e aspettava. Saranno diventati venticinque alla fine della guerra. Le gallerie si mutavano in alloggi permanenti per chi la casa non ce l’aveva più. Athos Vianelli: «Brandine, pagliericci, piccoli mobili salvati dalle macerie, suppellettili consunte dall’uso, immagini di santi contrassegnano i miseri acquartieramenti di intere famiglie». Bombardamenti e rifugi erano una mostruosa roulette. Palma Villani allora aveva vent’anni. «Mio babbo Giuseppe correva alla Casaralta con dei suoi amici. Gli altri andarono nel primo rifugio, lui in uno appena più distante. Quando uscì vide che i suoi amici erano morti tutti. Non si riprese mai più, si ammalò, andavamo per le medicine in bicicletta fino a Modena, ma in un anno morì.» Maledizione da guerra. «Noi avevamo un negozio di alimentari in via Roma, ora è via Marconi. Bombardarono la stazione e distrussero tutto. A fine guerra mi diedero 12mila lire. Ho solo pagato i debiti.» Resistere è anche questo. Storie stranissime si incrociano. Giuseppe Dozza, capo del Cnl, il pomeriggio del 21 aprile 1945 rimandò a casa Mario Agnoli, il podestà trattenuto a palazzo d’Accursio. «Je suis le maire fasciste de Bologna», si era presentato al colonnello polacco Władysław Anders, appena insediatosi in municipio. «Le première fasciste j’ai connu», lo aveva salutato il militare. Il primo fascista conosciuto, gli altri erano tutti scomparsi dalla città. Agnoli era stato fascista della prima ora, poi si era ritirato come Leandro Arpinati, il leader dissenziente a cui si richiamava, era ricomparso come commissario prefettizio con il governo Badoglio, rimasto come podestà della Rsi. Anomalo in tut23
to. Il riconoscimento del Cln lo certificò mentre la guerra civile non era ancora finita. Agnoli è il fascista che cerca di far sopravvivere, barcamenandosi, cercando un futuro anche per se stesso, una Bologna stretta fra la morsa nazista e i bombardamenti alleati. Fra la lunga agonia e la lunga liberazione. È l’organizzatore dei rifugi, dei soccorsi, degli sfollati. Tenta di ottenere il riconoscimento di una «Bologna città aperta», «bene che trascende i confini della città per divenire retaggio di tutte le genti», coprendo di lettere il feldmaresciallo Kesselring, tentando di raggiungere gli Alleati attraverso i cardinali Schuster di Milano e Nasalli Rocca a Bologna. Nell’autunno del 1944 è istituita la Sperrzone, la “zona chiusa”, all’interno dei viali di circonvallazione, non occupata dalle truppe tedesche. Diventa una città a parte, arriva a ospitare 600mila persone, tra residenti e sfollati. «I contadini – scrive il comandante della piazza di Bologna, Frido von Senger und Etterlin – avevano fatto affluire il bestiame in città. Gli animali erano sistemati un po’ dovunque, negli androni, nei cortili e persino nelle chiese in attesa di essere macellati.»
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Donne e politica MAGNIFICHE. NUMERI DUE
È un primato di Bologna. Un rimpianto. Un avviso alle altre donne. Gli uomini? Ci nascondiamo dietro le quote rosa e simili ipocrisie. Siamo bravissimi nell’elogiarle e farne dei numeri due, forse più brave dei numeri uno. Siamo carogne consapevoli. Non credo ci guadagni nessuno. Fine del pensierino edificante, cominciamo con la festa. No, non delle donne. Di Bologna. Mirella Bartolotti è stata la prima donna assessore in Italia, nel 1957. Credo adesso si dica assessora. È morta a 84 anni. Suo marito era Roberto Finzi, storico importante come lei, per tutta la vita ha ragionato sul suo essere ebreo, uomo, di sinistra: una pacificazione maschile, politica, intellettuale non l’ha mai trovata, Lo sconcerto del maschio si intitola uno dei suoi ultimi libri. Era riuscito a sopravvivere all’insegnamento sessuale della madre: «Tu, quando ti sei tirato su i pantaloni, sei a posto; sono loro che non te la debbono dare». Piccolo mondo antico? Persino nel ricordare il centenario di Nilde Iotti qualcuno accennò – con gergo corretto – che la sua carriera politica migliorò dopo la morte di Palmiro Togliatti. Mirella Bartolotti fu nominata assessora da Giuseppe Dozza. «Un po’ di futuro a Palazzo d’Accursio», scrisse “Noi Donne”. «I bolognesi, dopo aver superato la prima impressione di perplessità, – si rallegrava la rivista dell’Udi, l’Unio25
ne delle Donne Comuniste – hanno accettato il nuovo singolare assessorato comunale, quello ai problemi femminili, convinti che sia un’iniziativa felice e vantaggiosa non solo per le donne, ma per tutta la città.» “Singolare”, “non solo”, “ma”. Il rapporto fra conquista femminile e concessione maschile è ancora spinoso. Adesso ti scannerebbero, giustamente, e metterebbero la maiuscola su Problemi e forse Donne. Il primo voto femminile in Italia era stato quello del ’46: molti uomini, a sinistra, temevano favorisse la monarchia, come nel ’48 la Dc. Ma non si poteva dire troppo. Nell’assessorato bolognese appena inventato, primo in Italia, alle competenze sulle donne erano aggiunte assistenza e beneficenza. Visione maschile, la professoressa Bartolotti mise subito in chiaro cosa aveva in testa, «scarsa scolarizzazione e difficoltà di entrata nel mondo del lavoro». Guai di «tutti i cittadini», ma le donne ne erano più colpite. Dozza le aveva affidato «i problemi che complicano la vita delle donne». «Studiare e analizzare.» Lei come “dama di San Vincenzo” rossa era un caratterino. Sono passati 65 anni… Allora partiti e sindacati avevano la sezione femminile, riconoscimento ma con gerarchia subordinata acclusa. Alle elezioni del ’56 la ragazza di 26 anni aveva preso 123.090 voti. Era nata ad Alfonsine, la mamma era maestra, la nonna faceva la mondina, aveva voluto che le quattro figlie studiassero. Mirella si laurea, lo storico Delio Cantimori, maestro di Zangheri, maestro di Roberto Finzi, la vorrebbe come assistente. Lei ha altre idee. Nel Pci diventa segretaria del Circolo di Cultura, fondato nel 1953, risposta dei comunisti e delle coop rosse all’associazione La Consulta, creata un anno prima da intellettuali laici come Mario Cagli, 26
nei locali in via Rizzoli, con bar, giornali stranieri, mostre e dibattiti. Succedeva, i muri erano netti. In quel consiglio comunale di sessanta eletti c’erano sette donne. Magnifiche, scusate il western. Angiola Sbaiz era nella Dc, fu il primo presidente al femminile dell’Ordine degli avvocati. Tutto il consiglio era super, da Giuseppe Dossetti a Renato Zangheri, da Achille Ardigò ad Athos Bellettini. Professori che facevano anche politica. Da ogni barricata realizzarono molto per Bologna. Sono passati 65 anni. Le origini del fascismo della professoressa Bartolotti, passata dopo dieci anni di assessore all’insegnamento, è stato tradotto in un bel po’ di lingue. Come i libri sull’economia agraria e l’antisemitismo del marito. Nel ’64 un’altra donna – una per volta – si innalza come assessore. Bella anche lei, degli uomini non si dice, chissà se si può. Adriana Lodi è stata operaia e dirigente dei braccianti. Con Guido Fanti, succeduto a Dozza, aprirà nel ’69 i primi asili nido comunali, crea l’assistenza domiciliare per anziani e non autosufficienti. «Importante tassello di un modello di welfare» dirà Flavia Franzoni quando alla “mamma dei nidi” danno la laurea honoris causa. «Nella consapevolezza, fin da allora, che il nido non è solo un servizio finalizzato alla conciliazione dei tempi di vita e di lavoro delle mamme (oggi diremmo dei genitori), ma anche un servizio educativo.» Adriana Lodi ha continuato in Parlamento. Il Comune l’ha premiata con il Nettuno d’Oro. Sesta donna in 46 edizioni. A Bologna, la sinistra ha candidato una donna a sindaco una sola volta, Silvia Bartolini, portandola all’unica sconfitta. Da Sergio Cofferati, al femminile sono solo “le vice”. Mai rimaste al secondo mandato. Come in Regione, con Vasco Errani e Stefano Bonaccini. La destra ha candidato in tutti e due i posti Lucia Borgonzoni. Ha sempre perso. 27
Autosole VITTORIO GASSMAN DEI CASELLI
Un’autostrada è anche una storia di amore. Di uomini, lavoro, spiritualità, carne. E di morte. È asfalto che cambia esistenze. Il mondo. L’Autostrada del Sole, caselli, tratti, nascite, crescite, inaugurazioni a partire dall’ottobre 1964, è per Bologna un percorso epocale. «Io oso formulare questo auspicio, – predicava l’ingegner Guido Lambertini – che il progresso sociale si adegui sempre e dovunque al progresso tecnico e civile, che non siano mitizzati i vantaggi materiali e non sia trasfigurato il vero significato materiale della vita.» Un inno religioso, una preghiera davanti ai piloni dei cavalcavia e alla Chiesa dell’Autostrada, prima di Firenze, dove gli automobilisti si fermavano d’obbligo, il toscano Giovanni Michelucci la progettò e il bolognese Lambertini la eresse. Stile brutalista. Amor sacro e amor profano. L’autostrada migliorò la vita di Gianni Martini, celebrato come la Freccia dei Due Mari, riusciva a frequentare signore in vacanza a Forte dei Marmi e a Riccione. Senza soluzione di continuità. Giusto scendendo dalla macchina. Brooom, al volante, una visita e di nuovo via. Vittorio Gassman dei caselli. Anni virtuosi sulle strade ordinarie da Riccione alla Versilia e viceversa. Con perno Bologna. Poi ecco l’Autosole, ridusse di molto i tempi. Fu cuccagna quando arrivò anche l’A14, ma Martini 28
non era più Lupo Ezechiele. Lo ricordano con una rotonda a San Lazzaro: agli svincoli per autostrada e tangenziale. Monumento rotante a uno che fu costruttore, imprenditore, presidente dell’Automobile Club e dell’Autodromo di Imola. Fascinoso, denti splendenti non solo negli affari. L’anello di asfalto non unì le classi, le divise per cilindrate. Modernizzazione di quel tempo. «L’Autostrada del Sole – scrisse “l’Unità” – rischia di trasformarsi in un elemento disorganizzatore di tante comunità locali, arrecando alla collettività danni forse più ingenti degli stessi benefici.» Renzo Imbeni, decenni dopo, non voleva allargare la tangenziale per la stessa visione, a chi proponeva di raddoppiare l’Autosole rispondeva con un poetico: «Cosa cambia un’ora?». Elogio delle lentezze, non però banali, di un modo di vivere alternativo. Rimane nelle lotte dei comitati sugli allargamenti, le Varianti. Nelle balbuzie degli amministratori stritolati fra le comunità che temono di essere stravolte, sommerse ancor più da auto e inquinamento, è “il nuovo che avanza”. Terribile comunque. Nel 2016, dopo 34 anni dai primi progetti, fu aperta la Variante di Valico fra Bologna e Firenze: 58 chilometri, 23 viadotti, 22 gallerie, “fornitore d’eccellenza” il Gruppo Maccaferri. Bologna con l’Autosole si innalzò al centro di tutti i collegamenti, ferroviari e stradali. Storie imprenditoriali corsero sull’asfalto. Guido Lambertini studiava di notte e di giorno faceva il fattorino in banca, si è laureato, ha fatto impresa e posto il suo nome in vari lotti del percorso, verso Firenze, Capua, Incisa. Nei piloni c’è l’anima dell’ingegnere. Giorgio Vacchi con l’Ages Strade faceva i fondi stradali sotto il piano viabile. I suoi parenti sono quelli dell’Ima. Enzo Mantovani era la fantasia: il trampolino per i salti a 29
Cortina, la cupola del Palazzo dello Sport e il sottopasso di via Rizzoli a Bologna, il campo da golf, la Lamborghini bianca con cui andava da Zanarini e sulle autostrade che aveva creato. Ma anche in Curia: è suo il seminario regionale, poi ceduto all’Istituto Rizzoli. Le vocazioni cambiano. Nel 1964 nacque il Saie, il Salone Internazionale dell’Industrializzazione Edilizia. Una svolta decisiva, una conquista potente per il decollo della Fiera di Bologna. La strada dritta è il filmato Rai dedicato ai 40 anni dell’Autosole. A presentarlo tornò in città la direttrice del settore fiction, Eleonora “Tinny” Andreatta. Figlia di Nino, padre della scuola economica di Bologna, famoso per la genialità e le distrazioni, con pipa accesa nella tasca. Dicono abbia dimenticato la moglie a una stazione di servizio dell’autostrada. Miti. La signora Giana raccontava che, di ritorno da Modena in una serata con un tempo da lupi, la loro macchina si fermò. «Finita la benzina. Nino non l’aveva fatta. Dopo un po’ si scaricò anche la batteria. Restammo al buio e al freddo, io ero vestita da primavera. Ero furiosa, lui mi diceva: “Dai, è romantico, noi due soli”. Ci salvò la polizia stradale che dopo un tempo lunghissimo ci tolse dai guai.» «L’Autosole fu un intervento mai visto dal punto di vista geologico e geotecnico. – dice Luciano Richetti, che sull’opera ha scritto un libro – Il progetto definitivo si costruiva durante il percorso.» I lavoratori cantavano: «Sono stati quei minatori/minatori di galleria/han tradito la figlia mia/l’han lasciata nel disonor». Storia di colossi che non ci sono più. La chiesa di San Giovanni Battista, voluta da Lambertini, è dedicata ai Caduti dell’Autostrada. «Almeno 160 vite, stima realizzata per difetto», conteggia la storia ufficiale. Il tratto più sanguino30
so è stato quello tra Bologna e Firenze, con i viadotti e le impalcature a cento metri di altezza: quindici morti, otto solo tra Calenzano e Barberino del Mugello. «Ad memoriam qui ceciderunt operariorum», dice una lapide. «In memoria degli operai che caddero.» Chi ricorda la preghiera dell’ingegner Lambertini, nel nuovo secolo che avanza e dove tutto è guerra?
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