Birra Nostra Magazine 2_20

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N. 2 | GIUGNO 2020

BIRRA NOSTRA

MAGAZINE

NOVITÀ, DEGUSTAZIONI, PRODUZIONI, ITINERARI NEL MONDO BIRRARIO

MONDO BIRRARIO KÖLN UND KÖLSCH

Andrea Camaschella

C’ERA UNA VOLTA IN AMERICA

VIAGGIO ON THE ROAD A CACCIA DI BIRRA ARTIGIANALE Matteo Malacaria

FOCUS

Alt, Keller, u.s.w. MoBI Tasting Team


Le guide

Orzo/Malto

Acqua

Lievito

Gli ingredienti della birra

Luppolo

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Editoriale

Siamo quello che BEVIAMO?

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os’è che contribuisce a creare la nostra identità di uomini e donne appassionati di birre? Di certo i nostri gusti personali ma anche il vissuto, la curiosità che ci caratterizza e che ci porta a conoscere persone, luoghi e abitudini lontane dalle nostre confrontandoci con ciò che è sconosciuto e quindi nuovo per noi. In questo secondo numero di Birra Nostra Magazine gli articoli sono tra loro collegati da un filo invisibile che ci riporta sempre al concetto di identità: che sia quella di uno stile particolare legato al suo territorio, pensiamo ad esempio alla birra antica di Düsseldorf, a materie prime e sapori unici nella loro espressione come la birra Kölsch IGP dal 1997, o ad uomini che hanno lasciato un segno nel mondo birrario affermando se stessi e la loro particolare visione, indipendentemente da quelli che potevano essere i canoni e le aspettative del settore, creando così nuovi filoni imprenditoriali e del gusto ed amplificando l’identità del concetto di birra artigianale come ha fatto Giovanni Fumagalli ideatore, socio fondatore e anima del birrificio Via Priula. Ogni volta che scegliamo cosa bere costruiamo ed affermiamo un pezzettino

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della nostra identità di consumatori consapevoli di birra; perché fossilizzarsi su un gusto e su sapori che rappresentano per i nostri sensi una sorta di comfort zone senza invece correre il rischio di scoprire gusti e caratteri diversi? Sfogliando le pagine di questo secondo numero di Birra Nostra Magazine contiamo di rendervi ancora più consapevoli delle vostre scelte raccontandovi le storie, gli ingredienti e le tecniche di lavorazione che contribuiscono a personalizzare il contenuto delle bottiglie. Un valore aggiunto notevole, che fa la differenza e che caratterizza in maniera importante l’identità di ciò che ci apprestiamo a bere.

MIRKA TOLINI Professionista della scrittura e della comunicazione collaboro da dieci anni al progetto Birra Nostra

È quindi con orgoglio che tutti noi dobbiamo affermare che non siamo ciò che beviamo con la consapevolezza che non solo il nostro essere si modifica e si trasforma a seconda degli elementi che intervengono nel nostro percorso di crescita, ma anche il nostro modo di bere e di avvicinarci ai sapori e agli stili birrai. Dobbiamo essere curiosi e andare oltre il conosciuto, solo così potremmo superare noi stessi affermando ancora di più la nostra identità. Buona lettura e buona bevuta!

BIRRA NOSTRA MAGAZINE

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BIRRA NOSTRA NOVITÀ, DEGUSTAZIONI, PRODUZIONI, ITINERARI NEL MONDO BIRRARIO

MAGAZINE

IN QUESTO NUMERO... EDITORIALE

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Siamo quello che beviamo?

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MONDO BIRRARIO Il Birraio umanista di Simonmattia Riva

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“IIch gräich nu a Seidla!” di Daniele Cogliati

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Köln und Kölsch di Andrea Camaschella

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La birra “antica” di Düsseldorf di Davide Bertinotti

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HOMEBREWING Brassare in casa una Kölsch di Davide Bertinotti

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IMPRENDITORIA BIRRARIA Guida galattica per Publican di Francesco Donato

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FOCUS

30 SEGUICI SU

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MoBI tasting sessions: Alt, Keller, u.s.w a cura del MoBI Tasting Team

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facebook.com/BirraNostraMagazine

BIRRA NOSTRA MAGAZINE

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NOME SEZIONE

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50 Birra Nostra Magazine - Bimestrale Pubblicazione registrata presso il Tribunale di Verona in data 22 novembre 2013 al n. 2001 del Registro della Stampa

L’OPINIONE Caro birraio, sveglia! di Norberto Capriata

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Direttore Responsabile Mirka Tolini

Impaginazione LIFE - LSWR Group

Comitato di Redazione Davide Bertinotti, Luca Grandi redazione@birranostra.it

Produzione Paolo Ficicchia

Hanno contribuito a questo numero Andrea Camaschella, Norberto Capriata, Daniele Cogliati, Francesco Donato, Erika Goffi, Matteo Malacaria, Simonmattia Riva

L’INTERVISTA Gritz: il birrificio interamente dedicato al gluten free a cura di Erika Goffi

Quine Srl

Iscrizione al Registro degli Operatori di Comunicazione n. 12191

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Presidente Giorgio Albonetti Amministratore delegato Marco Zani Coordinamento editoriale Chiara Scelsi chiara.scelsi@quine.it

TURISMO BIRRARIO C’era una volta in America: viaggio on the road a caccia di birra artigianale di Matteo Malacaria

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I peggiori intenditori di birra artigianale sui Social

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Archivio immagini Shutterstock ABBONAMENTI Quine srl, Via G. Spadolini, 7 20141 Milano – Italy Tel. +39 02 88184.117 Fax +39 02 70057190 www.quine.it Rosaria Maiocchi e-mail: abbonamenti@quine.it Gli abbonamenti decorrono dal primo fascicolo raggiungibile.

Birra Nostra Magazine è frutto della collaborazione tra Birra Nostra e MoBI - Movimento Birrario Italiano www.birranostra.it - www.movimentobirra.it

BIRRA ARTIGIANALE ITALIANA DI QUALITÀ

Tutto il materiale pubblicato dalla rivista (articoli e loro traduzioni, nonché immagini e illustrazioni) non può essere riprodotto da terzi senza espressa autorizzazione dell’Editore. Manoscritti, testi, foto e altri materiali inviati alla redazione, anche se non pubblicati, non verranno restituiti. Tutti i marchi sono registrati.

BIRRA & SOCIAL a cura di Ildegardo & Gambrino

Stampa Grafica Veneta S.p.a. Via Malcanton, 2 35010 Trebaseleghe (PD)

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MONDO BIRRARIO

di Simonmattia Riva

IL BIRRAIO UMANISTA

In ricordo di Giovanni Fumagalli

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uando si perde un amico viene recisa di netto una parte di noi: il passato vissuto insieme viene cristallizzato e l'immutabilità, già caratteristica peculiare del tempo trascorso, assurge ad un’ancora più netta e tragi-

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ca accezione. Nessun nuovo incontro o dialogo, infatti, potrà riannodare i fili di esperienze e discorsi interrotti o mutare colore e significato ad antichi episodi: rispolverare quotidianamente i ricordi per preservarli dalle appiccicose polveri

dell’oblio diviene così l’unica cura che possiamo avere di chi non è più al nostro fianco. In un momento storico angosciante, scandito da reclusioni forzate e sirene di ambulanze, in un’epoca in cui l’im-

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perativo del distanziamento sociale è così categorico da impedire anche la celebrazione di un funerale, tutti i birrofili bergamaschi hanno perso un amico e l’intero mondo della birra artigianale e dell'homebrewing italiano un pioniere e punto di riferimento. Giovanni Fumagalli, ideatore, socio fondatore e anima del birrificio Via Priula di San Pellegrino Terme ci ha lasciato a soli 60 anni lo scorso 19 marzo: perderlo proprio nel giorno della festa dei padri è stata un’ulteriore atroce dolore per la moglie e compagna di avventure Isabella e i loro due figli, Camilla e Francesco. Se devo pensare a una definizione stringata per far capire la personalità di Giovanni a chi non lo ha mai conosciuto direi: birraio umanista, nel senso più profondo e radicale del termine espresso dall'antica massima di Publio Terenzio Afro Homo sum, humani nihil a me alienum puto, ovvero “nulla che sia umano mi è estraneo”. Farmacista e inventore lo era per tradizione di famiglia: il nonno Ermanno Bonapace, a inizio Novecento, negli anni d'oro della stazione termale della Val Brembana dominata dalla mole del Grand Hotel in stile liberty, dietro lo stesso bancone della farmacia che poi sarà di Giovanni, aveva ideato la celeberrima Magnesia San Pellegrino e un elisir amaro chiamato Bacio, nome che il nipote darà poi alla American Pale Ale del Via Priula. Il destino gli aveva regalato anche un’esperienza come attore ne L'albero degli zoccoli: il padre Alberto era amico e consulente di Ermanno Olmi e quando il regista sentì Giovanni intonare una canzone da lui stesso inventata la volle portare nel film, in cui l’allora diciassettenne futuro birraio interpreta il figlio del padrone. Indissolubilmente legato alle propri radici orobiche eppure visceralmente cosmopolita e alieno a ogni miope e meschino localismo, spesso le sue birre avevano nomi in lingua bergamasca come la pils Loertis (lemma dialettale

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Camoz, Imperial Stout derivata dalla ricetta che permise a Giovanni la vittoria al concorso per homebrewers La Guerra dei Cloni

per il luppolo) o la Croèl, una delle ultime nate, arricchita con farina e miele di castagno di Averara e battezzata con la parola con cui i castanicoltori dell’alta valle Brembana chiamano il setaccio per la farina di castagne. All’inaugurazione dell’impianto produttivo del birrificio, avvenuta nell’a-

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gosto 2019 dopo nove anni come beerfirm, aveva invece invitato un food truck specializzato in spiedo bresciano proprio per dare un simbolico schiaffo al campanilismo. Amante tanto della passeggiate, arrampicate e sciate sulle familiari vette della valle del Brembo quanto dei viaggi con mete lontane: per trovare Isabella, la compagna di una vita, era arrivato fino a Salvador de Bahia, altro che mogli e buoi dei paesi tuoi. Tutto questo era Giovanni e l’amore per la birra, la bevanda più umana e socializzante che esista, era nato spontaneamente proprio dalla passione per i viaggi e le tradizioni gastronomiche dei luoghi visitati: le prime cotte avvenivano nel retro della farmacia e i primi assaggiatori erano i clienti più curiosi, oltre agli amici. All’homebrewing si era dedicato con le competenze chimiche che la sua formazione scientifica gli forniva supportate dalla tenacia e dalla passione che infon-

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deva in tutto ciò che intraprendeva: il successo al concorso la Guerra dei Cloni di Piozzo nel 2010 diede l’abbrivio per il progetto, già in marcia, del birrificio. Era stata Serenella Lancini, farmacista come lui e tra i fondatori del Via Priula con Mauro Zilli e Marco Orfino (in seguito uscito dalla società, come Serenella), a chiedere a Giovanni di realizzare, per il concorso, una copia della sua birra preferita: la Gonzo Imperial Stout di Flying Dog. Birra complessa, impegnativa e non certo facile da riprodurre con le ridotte efficienze degli impianti domestici, ma la passione di Serenella per le scure più forti portò decisamente fortuna all'impresa: da quella ricetta di successo nacque infatti la Camoz, una delle birre più premiate del Via Priula e dedicata a un altro grande personaggio di San Pellegrino e fraterno amico di Giovanni, Bruno Tassi, detto appunto Il Camoz, abilissimo e temerario alpinista morto in un incidente stradale nel 2007.

Era un visionario Giovanni: spesso intuiva dinamiche e tendenze prima di tutti noi che restavamo perplessi a guardarlo, magari pensando bonariamente che stesse passando un po’ il segno sull’onda del suo imbattibile entusiasmo. Alcuni esempi? Mentre molti dei primi birrai artigiani coltivavano il proprio orticello e mal tolleravano la nascita di nuovi “concorrenti”, lui continuava a dire che i microbirrifici dovevano collaborare per erodere le quote dell’industria e per questo lanciò il BeerGhem, festival inizialmente dedicato ai produttori artigianali orobici e così battezzato da Claudio Capelli della Locanda del Monaco Felice durante una riunione della Compagnia del Luppolo, lo storico gruppo in cui tutti i birrai e degustatori orobici si sono fatti le ossa. Le etichette di Via Priula, realizzate da Stefano Torriani, libraio e artista di San Pellegrino specializzato nel disegno botanico e zoologico, sono state tra le prime in Italia a mostrare un balzo in avanti sul piano estetico rispetto alle grafiche rudimentali realizzate con Word Art e Paint che andavano per la maggiore due lustri or sono. Nel 2011 il Giro d'Italia fece tappa a San Pellegrino dopo 34 anni di assenza e Giovanni si inventò per l'occasione la Rosa!, una wit con aggiunta di lamponi per donarle la stessa nota cromatica della maglia indossata dal primo in classifica della grande gara ciclistica. Il pubblico gradì subito, tanto che la Rosa! entrò nel portfolio fisso del birrificio, qualche appassionato invece storse il naso perché la percepiva “poco birra e poco acida”. Giovanni, che umilmente dichiarava non voglio certo mettermi a competere con le framboise a base lambic, la mia idea è di un aperitivo fresco e leggero un po' come il Bellini, aveva in realtà intuito con largo anticipo sui tempi il trend delle birre alla frutta e di ciò che ora Kuaska chiama gently sour e, infatti, pochi mesi dopo propose la Morosa, una dubbel con aggiunta di

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more che è sempre stata una delle sue birre che più lo inorgoglivano. Oggi le birre analcoliche, che in Paesi non certo “sobri” come Germania e Austria rappresentano il 10% del mercato, solleticano anche l’attenzione del mondo craft: Kehrwieder Kreativbräuerei di Amburgo da un paio di anni fa man bassa di medaglie nei principali concorsi mondiali nella categoria alcohol free, fino ad ora esclusivo appannaggio dell'industria, BrewDog ha aperto lo scorso 6 gennaio a Londra un pub dedicato solo a queste specialità, pochi giorni dopo Luciano Landolfi, durante il festival Birraio dell’Anno a Firenze, annunciò la prossima uscita della prima analcolica di East Side, che, quando vedrà la luce, sarà anche la prima artigianale italiana del genere. Ebbene, ricordo come fosse ieri la mia espressione basita al BeerGhem 2012, quando Giovanni mi annunciò che stava armeggiando con i mai dismessi pentoloni da homebrewer per cercare di realizzare, tramite riscaldamenti alla temperatura di evaporazione dell’alcol della birra finita, delle versioni a più basso grado alcolico di alcune sue produzioni.

Da queste sperimentazioni nacque, un paio di anni dopo, la Vetta, una golden ale molto luppolata da solo 2% ABV che arrivò sul mercato troppo presto per poter creare una tendenza che oggi sembra montante. Anche accostare la degustazione birraria al godimento del patrimonio naturale e artistico del nostro territorio potrebbe sembrare qualcosa di scontato ma è una via che ancora pochi praticano, forse a causa della sottovalutazione della birra rispetto al vino o altre bevande che ancora affligge organizzatori di eventi, promoter turistici e similari: Giovanni è stato tra i primi a capire la potenzialità di questo connubio, con le degustazioni organizzate sulla Vetta di San Pellegrino Terme e nelle miniere di Dossena. Per il BeerGhem 2020, che si sarebbe dovuto tenere ai primi di giugno, era poi in programma un tasting “nel vuoto” a bordo di una cabina sollevata tramite una gru da cui si sarebbe goduta una vista panoramica sulla Val Brembana. Da amico, però, la dote di Giovanni che più mi piaceva era la capacità di sorprendersi ed entusiasmarsi quotidianamente

Rosa! la Blanche che Giovanni realizzò per il passaggio del giro d’Italia

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per le piccole gioie della vita, in un mondo, microcosmo della birra artigianale compreso, in cui va tanto di moda mostrare sempre il sopracciglio alzato del disincanto: ai “tutto qui? Mi aspettavo di più” “Bah, tutta roba già vista” “Cosa c'è di tanto sconvolgente in questo?” che sono i mantra di molti, Giovanni opponeva i suoi “interessantissimo”, “straordinario”, “geniale” che immergevano l'interlocutore in un gorgo di positività a cui non si poteva restare refrattari. Ricordo, come episodio emblematico, la gioia reciproca di ritrovarci insieme per caso, un paio di anni fa, ad Alassio in una manifestazione dedicata allo champagne e l’entusiasmo di Giovanni, che aveva viaggiato in molti Paesi lontani, per aver scoperto in quei giorni la bellezza di Finalborgo e dei paesaggi montani dell’entroterra ligure. Ora spetta ai soci Mauro e Alberto e al birraio, a sua volta socio, Riccardo Redaelli, che ha sposato il progetto un paio di anni fa dopo una lunga esperienza nei birrifici Lodigiano, Babb e Manerba, portare avanti l’eredità e i sogni di Giovanni. Proprio di trascinatori positivi come lui avremmo tanto bisogno, soprattutto per rivedere la luce dopo questo periodo tremendo. ★

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di Daniele Cogliati

“IICH GRÄICH NU A SEIDLA!” Bamberga e la Franconia, vero paradiso birrario

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uesto articolo non è una guida di viaggio per super esperti della Franconia; essi non ne hanno bisogno e comunque esistono numerosi libri e siti web in tedesco, inglese e italiano, aggiornati e ricchi di informazioni sulle storie, le birre, i birrifici. Non è nemmeno il diario di un viaggio in particolare o un resoconto puntuale dei birrifici visitati e delle birre assaggiate in una determinata occasione. Si tratta invece

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di pagine che mettono insieme un po’ di esperienze vissute che spero incuriosiranno i lettori e li spingeranno a visitare quei luoghi magici. La prima parte dell’articolo è dedicata a Bamberga, una delle principali città del distretto dell’Alta Franconia e capitale birraria indiscussa della regione; la seconda parte racconta dei birrifici situati nelle cittadine e nei villaggi della Franconia rurale.

La Franconia (Frankenland) è davvero il paradiso per l’appassionato di birra. Ormai lo posso dire con buona dose di sicurezza. Basta un unico viaggio ad avvalorare questa affermazione, ma non ne bastano una decina per scoprire tutti i tesori nascosti di quel territorio. La Franconia è una regione con forti tradizioni culturali e linguistiche e, pur non avendo limiti spaziali ufficialmen-

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mastri maestri & birrai

La variante umana della birra Da un’idea di Luca Grandi ❱

26/29 Novembre 2020 Bologna Fiere, EXPOGUSTI, Salone delle Eccellenze Agroalimentari ed Enogastronomiche, Area Birra Nostra

BIRRA ARTIGIANALE ITALIANA DI QUALITÀ


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te definiti, occupa grossomodo la parte più settentrionale della Baviera. É costituita dai distretti dell’Alta Franconia (Oberfranken), Bassa Franconia (Unterfranken) e Media Franconia (Mittelfranken), oltre che dall’area nord-orientale della regione Heilbronn-Franconia nel Baden-Wüttemberg e Turingia meridionale e da alcune parti dell’Assia. Ci sono stato la prima volta parecchio tempo fa: all’epoca, reduce da un breve corso propedeutico all’assaggio della birra, io e alcuni amici ci eravamo incuriositi per questa zona e per la sua “capitale” Bamberga (Bamberg). Il relatore del corso aveva presentato l’argomento con un’enfasi e una dovizia di particolari che avevano immediatamente acceso il nostro interesse e ci avevano fatto venire una grande sete. Per chi pratica il turismo birrario e non è un professionista del settore, le occasioni per viaggiare a caccia di birra solitamente non sono molte: bisogna incastrare gli impegni e le scadenze della vita quotidiana con la nostra passione: le mete papabili sono molte ed è quindi abbastanza raro che si ritorni più volte nello stesso luogo. Quando, a distanza di quasi un decennio, mi sono reso conto che in media sono stato in Franconia più di una volta l’anno, ho capito che evidentemente, quella terra mi era entrata nel cuore.

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Bamberga: la città dei sette colli e dei tre fiumi “Iich gräich nu a Seidla!” in dialetto francone significa pressappoco “Portami un altro mezzo litro!”. È una frase che sentirete spesso viaggiando da quelle parti: il mezzo litro, tradizionalmente servito in un boccale di coccio detto Steinkrug, è infatti la misura standard per il consumo di birra, che a Bamberga supera abbondantemente la media nazionale tedesca attestandosi oltre i 280 litri a testa annui. Se a inizio XIX secolo il numero di birrifici cittadini oltrepassava la sessantina, oggi ne sono rimasti attivi dodici. Nove sono i produttori tradizionali (Spezial, Schlenkerla, Keesmann, Mahr, Fässla, Greifenklau, Kaiserdom, Klosterbräu, Ambräusianum), cui bisogna aggiungere il maltificio Weyermann che, al proprio interno, possiede un impianto pilota su cui produce una serie di birre a marchio omonimo, la Gasthaus zum Sternla, Hopfengarten e Kronprinz (quest’ultimo di proprietà di Kaiserdom, come del resto anche Klosterbräu). Un bel numero, comunque, per una popolazione di circa 75.000 abitanti! Bamberga è una città edificata su sette colli (Domberg, Michaelsberg, Kaulberg/ Obere Pfarre, Stefansberg, Jakobsberg, Altenburg e Abtsberg), percorsa da tre fiumi (il Regnitz, il canale che collega il Meno al Danubio e un terzo fiume... che

trasporta birra), vivace, universitaria, artisticamente rilevante e risparmiata in buona parte dalle devastazioni della seconda guerra mondiale. Il centro storico conserva, intatti, molti edifici e monumenti di assoluto valore, tanto da essere iscritto nel patrimonio UNESCO. Già citata in documenti del 769 col nome di Castrum Babenberg, ha un’antichissima tradizione birraria: pare che l’Abbazia di San Michele sul Michalesberg detenesse il diritto di produrre birra fin dal 1154. La prima volta che sono entrato da Schlenkerla, è questo il nomignolo della taverna che serve le birre della Brauerei Heller-Turm, sono rimasto colpito da due cose: l’atmosfera insolita e la quantità di persone stipate nel meraviglioso edificio che ospita la taverna del birrificio. Era il 31 dicembre, faceva molto freddo e c’era coda fino all’esterno del palazzo. Una volta dentro, superata la doppia porta d’ingresso, si apre un corridoio che sulla sinistra mostra una specie di finestra senza vetri con la scritta Schänke. La fila di persone terminava proprio di fronte ad essa. La gente si fermava lì, pagava e in cambio riceveva da una mano misteriosa un bicchiere biconico pieno di una birra tra il color ramato e il marrone. Quella birra era la famosa Aecht Schlenkerla Rauchbier Märzen, emblema dello stile, servita rigorosamente a caduta da una grande botte di legno. L’avevo già assaggiata altre volte in Italia quella birra, quasi sempre in bottiglia però. Che emozione vedere finalmente il rituale, con il cambio della botte, il rubinetto infisso a colpi di mazza e infine la mescita. Dopo la lunga attesa, ormai con l’acquolina in bocca, ho finalmente ricevuto il bicchiere… ma il vetro bagnato mi è scivolato sui guanti e tutto è finito per terra. Un bel battesimo, non c’è che dire. Col senno di poi, probabilmente, il piccolo incidente mi ha fatto affezionare ancora di più a quel luogo. Schlenkerla rappresenta, nell’immaginario collettivo degli appassionati, “La Birra” di Bamberga: la quintessenza

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ze e soprattutto si beve senza sosta, se c’è posto, seduti, altrimenti in piedi nei corridoi, nel cortiletto interno o, d’estate, nel piccolo Biergarten im Dominikanerhof. Ebbene, se si parte da Schlenkerla, si osserva il volto affascinante e ricco di storia della tradizione birraria di Bamberga, si apprezza il servizio a caduta (almeno per alcuni tipi di birra), si assaggiano l’emblema di uno stile birrario e le sue declinazioni stagionali (tutte più o meno affumicate, dalla Helles Lagerbier alla Rauchweizen, dalla Urbock invernale alla sontuosa Eiche Doppelbock natalizia, fino alla Fastenbier quaresimale e al Kräusen estivo o alla Hansla, che riprende la pratica antica di produrre birre a bassissima gradazione alcolica), ma si vede anche il lato più noto e turistico della medaglia, con l’affollamento e i ritmi a volte frenetici che ne conseguono. dello stile Rauchbier, con profonde note che ricordano il fumo di camino spento, la scamorza affumicata o lo speck, ingentilite dal servizio a caduta dalla botte.

Conviene davvero partire da Schlenkerla nel vostro primo tour della città. La posizione centralissima, in un edificio che ospitava una congregazione di Domenicani nel cuore di Bamberga, proprio sotto al Duomo Imperiale intitolato ai santi Pietro e Giorgio favorisce questo approccio: la taverna è una tappa di passaggio quasi obbligata e la logistica degli itinerari turistici gioca a suo favore. In realtà il nome Schlenkerla è un appellativo attribuito nella seconda metà del XIX secolo alla locanda del birrificio di proprietà della famiglia HellerGraser/Trum, che si trova ora sul colle Stephansberg (il nomignolo Schlenkerla pare fosse il soprannome del birraio Andreas Graser, il quale zoppicava su una gamba: schlenkerln, zoppicare in francone). All’interno delle numerose sale e salette, sempre affollate di indigeni e turisti, si mangiano saporite pietan-

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Brauerei Spezial: mangiare e bere come a casa Un’altra realtà cittadina meno turistica, ma altrettanto nota e imperdibile, è la Brauerei Spezial, dal 1898 di proprietà della famiglia Merz, ma fondata nel lontano 1536: splendido esempio di piccolo birrificio familiare che produce birre meravigliose e le accompagna a cibi succulenti in una piccola e affollatissima locanda. L’atmosfera è per certi versi simile a Schlenkerla, ma qui la presenza di stranieri è più bassa (grazie forse alla posizione decentrata) e a causa delle dimensioni ristrette della taverna si ha un senso di maggior raccoglimento. Non mancano le note folkloristiche: prestate attenzione alle cameriere, poiché da Spezial non incontrerete studentesse alle prime armi, ma signore dal piglio decisamente energico, a tratti quasi rude, che sono anche protagoniste di alcuni fumetti locali dell’illustratore Marc Buchner. Di pochissime parole e sempre indaffarate a trasportare piatti e boccali stracolmi, difficilmente vi daranno retta se chiedete loro dove potete sedervi con malsicuro accento tedesco. Etichettati

come turisti, vi diranno di cercarvi un posto libero o di andare via e tornare in un altro momento. Anche questo fa parte del fascino genuino del posto. Qui sarete colpiti dalle birre in stile Lager, Märzen e Bock (quest’ultima è la specialità invernale), il cui malto è affumicato direttamente in birrificio con legno di faggio stagionato, pratica antica e ormai desueta, poiché i birrifici di solito acquistano il malto già affumicato in maltificio. Tuttavia, ho sempre pensato che la vera perla di Spezial fosse la Ungespundet (letteralmente “non tappata”, cioè una birra che in tempi passati veniva maturata in botti non completamente chiuse con conseguente fuga di abbondante CO2 e servizio con carbonazione naturalmente ridotta), dorata, leggermente velata, con un intenso aroma caratterizzato sì da malti e luppoli, ma anche dall’azione del lievito. Pur non essendo servita a caduta, questa birra è di valore assoluto e risulta difficile non ordinarne un secondo boccale. Se giunti ad un certo punto della giornata riuscirete a resistere al canto di questa bionda sirena francone, potreste decidere di dirigervi verso Wunderburg, sobborgo nella zona sud-est di Bamberga.

Wunderburg: un sobborgo da degustare Lì, a poche decine di metri l’uno dall’altro, si trovano due birrifici: Brauerei Mahr e Brauerei Keesmann. La zona è davvero molto tranquilla e si respira un’aria rilassata, ben diversa dai viottoli affollati del centro storico cittadino. Keesmann, birrificio familiare attivo dal 1867, si fa notare soprattutto per un gioiellino che nulla ha a che vedere con le birre affumicate. La Herren Pils è infatti una Pilsner purosangue, teutonica in tutto e per tutto, che si presenta limpidissima nel bicchiere, con una compatta schiuma bianca: ammalia con un bouquet che pone in primo piano la fragranza erbacea dei luppoli nobili tedeschi, con note floreali e sentori di malto chiaro, miele e camomilla sullo sfondo.

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Sul lato opposto della strada, a pochi passi, si trova il cancello bianco con l’arco recante l’insegna Mahr’s Bräu. Di proprietà della famiglia Michel dal 1895, il birrificio affonda le proprie radici nel XVII secolo. D’estate ci si accomoda volentieri sotto gli alberi del delizioso Biergarten esterno, mentre d’inverno si cerca un rifugio sicuro all’interno della Wirtshaus. Nelle sale di legno, manco a dirlo sempre affollate, con cimeli storici alle pareti, lampadari con corna di cervo, si mangiano piatti di sostanza al caldo di una stufa di maiolica: per ordinare da bere basta pronunciare la formula magica “A’U”. Anche qui, come da Spezial, la reginetta del ballo non è una Rauchbier, ma la Ungespundet della casa: per i clienti fissi semplicemente “U”. Dorata, alcuni anni fa era servita a caduta da botti di legno poste sul bancone di mescita, mentre in tempi più recenti all’interno delle botti, sempre di grande impatto ma ormai

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solo decorative, è stato incorporato un impianto di spillatura. Il servizio a caduta, oltre a essere storicamente corretto, rispetta maggiormente le caratteristiche di questa tipologia di birra, donando sensazioni boccali morbide e agevolando la bevuta in modo determinante. La normale spillatura lascia invece la birra finale leggermente sovracarbonata rispetto a ciò che dovrebbe essere, ma la U rimane comunque una birra iconica, più maltata rispetto alla versione di Spezial, dorata con riflessi ambrati, con note di luppolo decisamente in secondo piano e ancora spunti fruttati dati dal lievito. Il birrificio Mahr è forse quello che tra i nomi storici cittadini si è più ammodernato, sia nel marketing sia nelle tipologie di birra prodotte, impostando anche collaborazioni con birrifici esteri (ricordo una Nero Chocolate Stout prodotta alcuni anni fa col Birrificio Lambrate). Notevolissima infatti è la Pils, interpretazione contemporanea

dello stile, tanto che in etichetta compare bene in evidenza la scritta Kalt gehopf, cioè luppolata a freddo (in pratica con dry hopping), tecnica non certo tradizionale a quelle latitudini. Paglierina, con un taglio amaro abbastanza secco e mediamente persistente e aromi di panificato bianco a supportare una

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luppolatura fresca in bella evidenza, erbacea e citrica, è una birra che strizza l’occhio ai bevitori abituati a certe Pils che vengono dal mondo craft (in Italia da questo punto di vista siamo abituati molto bene). Altra realtà legata al passato ma con un piede verso il futuro è la Brauhaus zum Sternla, situata al numero 46 di Lange Strasse, che vanta essere la più antica locanda di Bamberga, attiva dal 1380 e rinominata “zum Stern” nel 1857. Il progetto è ora nelle mani di Uwe Steinmetz, che gestisce la Gasthaus zum Sternla dal 1999 e nel 2019 ha deciso di installarvi un piccolo impianto e trasformarla in un brewpub. Accanto a una cucina assolutamente locale da gustare in un’atmosfera raccolta e calda, a oggi la lista delle birre si compone di Export e Märzen, entrambe interpretazioni corrette, ben caratterizzate, piacevoli e al tempo stesso poco impegnative da bere. Bamberga, insomma, rappresenta una roccaforte della tradizione e della cultura birraria tedesca, rifugio sicuro per l’appassionato e il beerhunter in cerca di un luogo che, in una cornice di grande bellezza, racchiuda alta qualità, sufficiente varietà e prezzi modici: una serie di fattori che difficilmente si presentano tutti insieme. Eppure, proprio in questa stupenda cittadina adagiata sui colli

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franconi la magia si compie ed ecco che si manifesta a noi un riflesso di paradiso birrario. Riflesso ammaliante, senza dubbio. Ma per varcare le porte del paradiso vero e proprio bisogna seguire le strade che portano fuori da Bamberga, verso uno dei tanti villaggi e le centinaia di birrifici che costellano la Franconia.

Birrifici rurali: un’atmosfera unica e sospesa nel tempo Con oltre 250 birrifici attivi, centinaia tra locande, Biergärten e Bierkellern, ricorrenze e festività birrarie sparse lungo tutto l’arco dell’anno, la Franconia è una meta che non ha eguali per l’appassionato beerhunter. Dimenticatevi il chiasso e le frotte di turisti che affollano i viottoli del centro storico di Bamberga, quindi. Lungo le strade che portano fuori dalla città incontrerete pochi stranieri e conoscerete luoghi di antica e radicata tradizione brassicola: qui la birra è davvero una componente quotidiana della vita delle comunità locali. Brauerei Heckel di Waischenfeld, piccolo comune nel circondario di Bayreuth, capoluogo dell’Alta Franconia, è un esempio emblematico di un birrificio contadino francone. La produzione avviene all’incirca una volta al mese su un impianto alimentato a legna e prevede l’utilizzo della tradizionale vasca

aperta per il raffreddamento del mosto bollente. L’unica birra della casa si chiama Vollbier (o meglio, verrebbe da dire, non si chiama: non ha cioè un nome di fantasia, ma viene identificata semplicemente con la tipologia o lo stile, come consuetudine da quelle parti). Si tratta di una bevuta per certi versi rustica ma estremamente piacevole, servita a caduta nella minuscola locanda del birrificio, anch’essa a conduzione familiare. La birra si presenta di color oro antico, con sentori di pane e cereali, luppolo e fiori di campo; la carbonazione natu-

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ralmente contenuta e il taglio amaro le donano una bevibilità assoluta. Si entra qui in una dimensione altra rispetto al mondo della birra cui siamo abituati; una dimensione che profuma di casa, di mobili vecchi, di senso di comunità, di abitudini protratte nel tempo: basta osservare i clienti della locanda, che sembrano conoscersi tutti da una vita (e probabilmente si conoscono davvero) e hanno ciascuno il proprio boccale personale e il proprio posto a sedere preferito, che magari arrivano con contenitori improbabili per portarsi a casa la birra d’asporto, che giocano a carte, fiutano tabacco o parlano del più e del meno mangiando un boccone rigorosamente portato da casa poiché, come accade in talune locande, non esiste una cucina. La birra è una componente talmente radicata in questo ecosistema da diventarne parte integrante e fondamentale: quei signori bevono birra con la naturalezza con cui in Italia ci si incontra per un caffè o per un calice di vino al circolo del paese. Paese che vai... naturalmente. È in occasioni come questa che si può apprezzare la valenza culturale della birra in paesi di antica tradizione brassicola.

Brauerei Zehendner: aria di casa dal 1939 Altro luogo del cuore è la Brauerei Zehendner di Burgebrach-Mönchsambach, la quale produce l’omonima Mönchsambacher Bier. Entrando nel cortile del birrificio si può intravedere l’impianto di acciaio attraverso le vetrate, si può osservare il vapore che fuoriesce dall’edificio e dalle trebbie fumanti e annusare il profumo di mosto che si spande nell’aria. Una produzione familiare dal 1939, quantitativamente più ampia rispetto a quella di Heckel (circa 6000 hl/anno) e anche tipologicamente più varia, pur restando saldamente all’interno dei canoni bavaresi, con Lagerbier, Export, Hefeweizen, Mai-, Weizen- e Weihnachtsbock. Diverso anche l’approccio gastronomico: nella casetta rossa e gialla che ospita la locanda si mangia cibo genuino, casereccio, spaziando dal tipico piatto freddo francone di salumi (fränkische Brotzeit) alle specialità come la trota affumicata. L’aria che si respira è invece sempre la stessa: aria di casa, di convivialità, di abitudinarietà ritratta sui volti dei tanti clienti fissi. Eccoci alle birre, tutte notevolissi-

me, in particolare se servite a caduta da una piccola botticella che spesso incontrerete appena entrati, vicino alle scale. Capolavoro assoluto è la Lagerbier, una Kellerbier (“birra di cantina” non filtrata, chiamata così perché in passato tali prodotti erano maturati al freddo in cantine sotterranee) dorata, che profuma di Franconia, con note mielate ed erbacee di fieno ed erba tagliata, un bilanciamento che tende all’amaro senza eccessi e una bevibilità ai massimi livelli. Avrete capito che quest’ultima caratteristica è fondamentale in questi contesti così particolari: la maggior parte delle birre franconi “di base” (fatte salve cioè le produzioni stagionali e speciali, come ad esempio le birre invernali e le birre dedicate a particolari festività, come il Natale, la Pasqua, la Quaresima etc.) è prodotta proprio per poter essere consumata in modo continuativo, durante lunghe sessioni, senza fretta. Lagerbier, Kellerbier, Landbier, Ungespundet, pur essendo declinate in modo abbastanza vario da ciascun birrificio, non devono mai affaticare troppo il palato e gli esempi migliori sono quindi birre sobrie, senza fronzoli, ma estremamente gustose e assolutamente piacevoli. Per le bevute più impegnative bisogna guardare alle birre più alcoliche in stile Bock – e varianti – o alle specialità affumicate.

Birra per tutte le stagioni Uno dei grandi pregi della Franconia, è che si offre al turista birrario in tutte le stagioni. Se d’inverno le giornate corte e le temperature rigide invitano a trascorrere molte ore nelle locande sparse nei villaggi, magari sorseggiando una Landbier (“birra del territorio”, “birra contadina”, una denominazione generica che ricomprende una pluralità di interpretazioni, chiare e scure, ma sempre a bassa fermentazione), con i primi caldi e il bel tempo rifioriscono Biergärten e Bierkellern e si preferisce quindi bere all’aria aperta, scaldati dal sole di maggio o riparati dall’afa agostana sotto gli alberi della foresta francone.

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Anche in questo settore la Franconia vanta un primato: il Kellerwald è infatti il Biergarten più grande del mondo per numero di birrifici e si trova a Forchheim, splendida cittadina nel cuore della Svizzera Francone (Fränkische Schweiz). Lì, su una collina coperta di castagni e ippocastani, sono assiepate 23 Felsenkellern, cantine scavate nella collina che per oltre 400 anni sono servite ai birrifici per maturare le loro birre al freddo e ora, con panche, tavoli e piccole casette con cucina, servono invece ad accogliere indigeni e turisti affamati e assetati. Caotica durante l’Annafest di fine luglio, con migliaia e migliaia di persone sulla strada che risale la collina, l’atmosfera è invece piacevolmente rilassata durante un normale giorno dei mesi estivi. Atmosfera è un termine che, avrete notato, ritorna più volte in queste pagine. Durante i miei viaggi in Franconia, oltre alle birre è proprio l’atmosfera a essermi rimasta impressa. Nei Bierkellern si è partecipi, una volta di più, di un mondo birrario culturalmente radicato, che ha i suoi ritmi e i suoi protagonisti. Esistono realtà più raccolte e altre più vivaci, ma un tratto comune è il piacere di stare insieme e consumare ottima

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birra immersi nella natura. Che si tratti della Kellerbier del birrificio Griess di Geisfeld, da gustare freschissima sotto agli alberi in una calda giornata estiva, per apprezzarne a pieno il profilo in equilibrio tra cereale, camomilla ed erbaceo da luppoli, con un taglio amaro che invoglia irrimediabilmente a chiederne un secondo boccale, o piuttosto della dunkles Lagerbier della BrauereiGastwirtschaft Kathi-Bräu di Heckenhof, bruna, con note tostate che si spingono ai limiti del cioccolatoso, pur mantenendo grande agilità nel sorso, quello che è importante è rilassarsi, rallentare i ritmi e godersi il momento. L’immagine rurale del birrificio KathiBräu, che da lontano si confonde quasi con il panorama boschivo, mi aveva davvero emozionato la prima volta che ci sono passato. Esso è il crocevia di numerosi itinerari di biking, hiking e trekking birrario nella zona di Aufseß (ebbene sì, in Franconia esistono guide, siti e agenzie dedicate all’escursionismo birrario, che è attività assai praticata nei mesi caldi), nonché meta di raduni di motociclisti e camperisti nei week-end, così che non è inusuale incontrare anziane signore che sorseggiano un bricco di caf-

fè con una fetta di torta sedute accanto a rudi motociclisti e a snelli viaggiatori in abbigliamento sportivo, con zaini e racchette, che si rifocillano con Gulasch e birra per recuperare le energie. Altra meta caldamente consigliata è la Brauerei Knoblach di Litzendorf-Schammelsdorf, nella cui mitologica locanda è facilissimo entrare e difficile uscire data la bontà delle birre prodotte. Il canovaccio francone viene rispettato: in lista troverete ungespundetes Lagerbier, Urlager, Räuschla affumicata, Hefeweizen, dunkles Landbier, Bockbier e altre specialità stagionali, come la deliziosa Festbier natalizia, rotonda, con accenni tostati che ricordano la frutta secca, il caramello, il cioccolato al latte ed è davvero un buon modo per coccolarsi durante una fredda serata invernale. Cucina casalinga e sostanziosa e clientela sempre allegra e propensa alla chiacchiera rendono la sosta in questo luogo un’esperienza davvero piacevole. Qui il futuro sembra prospettarsi felice, poiché una nuova generazione sta prendendo in mano la produzione e grazie al lavoro meritorio di alcuni importatori, il marchio Knoblach si intravede anche in alcuni locali altamente specializzati alle nostre latitudini.

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Un territorio ricco di storia locale ma dall’equilibrio fragile Per un birrificio che porta avanti la tradizione e la cultura brassicola francone, molti altri hanno invece cessato l’attività negli ultimi decenni. Non bisogna infatti dimenticare che questo paradiso birrario è in realtà un universo fragile e bisognoso di protezione, valorizzazione e fruizione rispettosa. Non bisogna dare per scontata la sopravvivenza di tutte le centinaia di piccoli produttori indipendenti e anche se negli ultimissimi anni ci sono segnali di attenzione e probabilmente anche un lieve ricambio generazionale tra i produttori e la clientela, la storia anche recente parla di numeri in costante calo. Verrebbe da dire: approfittiamone, finché ne abbiamo la possibilità! Quando scompare un birrificio di questo tipo, infatti, scompare un pezzo di storia locale, magari minuscolo, ma pur sempre in qualche modo significativo. Alcuni anni fa ho visitato la locanda Zum Välta della Brauerei Fößel-Mazour di Appendorf. L’anziano proprietario e birraio Herr Edmund Fößel ci accolse nella sua fattoria con un boccale di Välta-Bier servita a caduta: una birra rustica, come il luogo in cui era prodotta. Dopo averci mostrato orgogliosamente la propria collezione di motorini e mezzi agricoli, condotti nel minuscolo e colorato Bier-

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garten (in pratica il giardino di casa), reidratati con una seconda dose di birra, l’arzillo signore ci ha svelato quello che per lui era il pezzo pregiato: una collezione di strumenti musicali notevole (a detta sua la più grande collezione privata della Franconia) conservata in una sala della locanda. La Gasthaus era infatti solita ospitare serate musicali e il birraio era l’anima dell’orchestrina che

si esibiva d’abitudine in quel luogo. Ebbene, solamente al termine di tutto ciò, il padrone di casa ci accompagnò nella casetta bianca dall’altra parte della strada, aprendo letteralmente le porte su un modo di fare la birra vecchio di un secolo, con caldaie alimentate a legna, vasche di raffreddamento aperte nel sottotetto, maturatori posti in buie cantine scavate nella roccia. Nessun imbottigliamento, solo confezionamento in piccoli barilotti che venivano poi conservati al freddo e trasportati all’interno del locale di mescita. Ebbene, quella realtà oggi non esiste più: nessuno ha raccolto l’eredità del signor Edmund. La Franconia è quindi un paradiso per il turista birrario, che non deve però trasformarsi in un paradiso perduto. Le centinaia di piccole realtà che costituiscono il suo tessuto culturale e birrario vanno preservate con attenzione. Se si ha l’accortezza di accostarsi ad esse con rispetto e curiosità, la Franconia birraria è davvero una regione che sa regalare emozioni uniche.★

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di Andrea Camaschella

Köln und Kölsch C

hiunque mastichi un po’ di birra ha sentito parlare di Kölsch o Koelsch se faticate a trovare sulla tastiera la umlaut in tedesco, dieresi in italiano insomma la o con i due puntini sopra. Dal 1997 le Kölsch sono IGP dunque nessuna birra prodotta al di fuori del territorio di Colonia, può utilizzarne il nome a fini commerciali. É un caso piuttosto raro, nel mondo brassicolo: il Lambic non è protetto o meglio lo è in quanto specialità tradizionale garantita ma senza alcun legame col territorio in cui è nato.

Un prodotto da raccontare Potrebbe sorgere il dubbio che si tratti solamente di una manovra commerciale, di marketing moderno: che storia avranno mai queste birre? Perché le birre di Plzeň in Boemia non sono protette al di fuori della Repubblica Ceca e queste invece sì? Premesso che le Pils avrebbero dovuto essere protette tanto quanto, a Colonia hanno tutti i diritti di erigere un baluardo protettivo sulle loro birre. Normalmente ci si ferma alla considerazione che sono un’eccezione del panorama germanico in quanto sono birre ad alta fermentazione. Si lascia anche spesso sottintendere che si tratti di una risposta alle Pils e alle Helles. Nulla di più errato: qui c’è la storia, c’è l’unicità del prodotto e c’è il fascino di raggiungere la città renana e berla lì, in loco, dove si produce. É anche una tipologia di birra che ha ispirato molti birrifici italiani, soprattutto agli albori della rivoluzione artigianale.

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credit Willy Horsch

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Insomma, la Kölsch è una birra che merita di essere studiata e raccontata, magari all’ombra del duomo di Colonia, con uno stange (il classico bicchiere in uso per queste birre di forma cilindrica, con diametro stretto e una capienza da 20cl) pieno di birra!

Da colonia romana a città industriale Colonia è una metropoli che conta circa un milione di abitanti, si estende sulla riva sinistra del Reno e si trova in Nordrhein-Westfalen (Renania settentrionale Westfalia) nella zona a nord ovest della Germania. Dall’alto è difficile distinguere l’agglomerato urbano di Colonia da quelli di Düsseldorf, a nord e Bonn, appena più a sud. Oggi è una importante città industriale e, come nel passato, commerciale e ospita anche la seconda più antica università della Germania, fondata nel 1388. Il nome in tedesco è Köln ma quello in Italiano tradisce le sue origini: il primo nucleo fortificato di quella che sarà una colonia romana fu fondato da Agrippa nel 38 a.C. Il legame con l’Italia non si ferma qui, la città - o meglio il suo nome - è piuttosto noto nel mondo anche grazie all’acqua di Colonia che fu creata da Giovanni Paolo Feminis, di origini italiane, trasferitosi a Colonia sul finire del XVII secolo da Santa Maria Maggiore, in Val Vigezzo (VB). La storia di Colonia che ci interessa non è però quella legata alle conquiste della Repubblica Romana né del suo Impero e neppure, benché di alcol ce ne sia, a quella del mondo dei profumi e della cosmesi. A noi interessa vedere come la storia della città sia intrecciata con la storia della sua birra, la Kölsch. Questo nome risale però al 1918, quando fu usato da Breuerei Sünner - produttore ancora in attività - per una birra, chiara, limpida e lievemente luppolata, che producevano già da una decina di anni. La birra è invece apparsa in quell’area ancor prima dell’avvento dei Romani ed

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credits Raimond Spekking

è intimamente legata alla città e al suo sviluppo: Tacito (vissuto tra il I e il II secolo dopo Cristo) scrive della popolazione degli Ubi, stanziati sulla riva destra del Reno, produttori di una bevanda a base di orzo e frumento fermentati, già prima della conquista romana. A partire dal 38 a.C. gli Ubi furono spostati sulla riva sinistra dove, nel 50 d.C., i Romani fondarono la Colonia Claudia Ara Augusta Agrippinensium, l’odierna Colonia. Col passare dei secoli, la scomparsa dei Romani, l’avvento di altre dominazioni, la produzione di birra passò saldamente nelle mani dei monaci che, partendo dalla ricetta degli Ubi e aggiungendo del miele, crearono il Meth, la prima birra ufficialmente “censita” della città. Durante il Regno di Ottone II, attorno all’anno Mille, si trovano dei documenti relativi alla produzione di birre e verso la fine del XIV secolo da uno scritto - successivo ai fatti - attribuito a Hermann

von Goch (vissuto nel XIV secolo, canonico, fu persona molto influente a Colonia) si evince che la birra era prodotta con il gruit di un monastero locale, composto da ginepro, alloro e chiodi di garofano. Dunque, la birra si è secolarizzata, viene cioè prodotta da artigiani laici in piccoli laboratori all’interno delle mura della città. Questo periodo è anche legato a una grande crescita di Colonia che grazie alla posizione geografica diviene un fiorente centro di commercio. La città è governata da un Arcivescovo e i birrifici pagano una tassa sul malto e sul gruit, contribuendo - loro malgrado suppongo - allo sviluppo e alla crescita dell’importanza di Colonia. Nel frattempo, Petrus von Mailand (Pietro da Milano), canonizzato nel 1256, assurge a patrono dei birrai che gli intitolano la loro prima Gilda, una corporazione artigiana anche se agli albori è più una fratellanza.

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Paeffgen-historisch

Uno sviluppo scandito dalla birra In questa fase è proprio la birra a dettare i passi della storia di Colonia: l’indipendenza della città e dei suoi cittadini dalla sovranità dell’arcivescovo e dei monasteri si può leggere dalla scelta, avvenuta nel 1258, con cui ottengono attraverso un grande arbitrato di condividere la tassa sulla birra. É evidente, in questo, la forza della Gilda dei birrai e l’importanza - economica e sociale - della birra e dei birrifici e a sottolineare la loro crescente influenza il loro principale esponente divenne membro del Consiglio cittadino. Grazie a questo, la Gilda impone, attraverso il Consiglio, rigide leggi che regolano la produzione di birra e il prezzo di vendita: è l’epoca, in tutta Europa, in cui le Gilde impongono - o ci provano - il monopolio nei rispettivi ambiti. Il controllo della chiesa piano piano scompare, sostituito da quello dei nobili affiancati da mercanti e artigiani. La birra si può vendere anche all’esterno della città e questo ne accresce il prestigio e il potere economico - della birra e della città - mentre le tasse sulla birra entrano esclusivamente nelle casse della città.

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Il luppolo, coltivato al di fuori delle aree controllate da Colonia e non tassato, per tutto il XIV secolo non può essere utilizzato nella produzione: ai birrai è fatto obbligo di utilizzare il gruit da acquistare presso la Gruthaus. Nel 1396 la Gilda dei birrai prende ufficialmente il nome dal suo protettore e diventa Sankt Petrus von Mailand Bruderschaft (fratellanza di San Pietro da Milano), conosciuta anche come Cölner Brauer-Corporation. Nel 1412 si emana una legge, una sorta di Reinheitsgebot ante litteram, che introdusse il luppolo (coltivato in Westfalia) tra gli ingredienti possibili ma ne regolava l’acquisto così come del malto, permettendone alcuni e vietandone altri. Il Consiglio cittadino creò anche nuove figure professionali, addette a controllare che i birrifici si attenessero alle rigide regole. Da un lato l’editto aiutava ovviamente la città col gettito fiscale dall’altro però proteggeva il lavoro dei birrifici che pare accettarono di buon grado le imposizioni. Nel XVI secolo la chiusura della Gruthaus sancisce la fine dell’era del gruit e l’avvento definitivo del luppolo nelle birre di Colonia. Abolita la tassa sulla vendita del

gruit e il controllo della sua composizione, viene creata la Malzbüchel, deputata ad essere l’unico fornitore di malti per i birrifici della zona sotto l’influenza di Colonia. Durante il XVII secolo una legge inizia a fare riferimento alla tipologia di fermentazione. Questo benché sia ancora poco chiaro come, oltre cento anni prima degli studi di Pasteur, fosse possibile distinguere tra alta e bassa fermentazione: molto probabilmente si fece riferimento alla posizione fisica dove avveniva la parte più evidente della fermentazione tumultuosa e dove si depositasse alla fine della fermentazione stessa la maggior parte del lievito (che appunto non era ancora conosciuto intimamente ma oramai era grosso modo riconosciuto). Ad ogni modo viene vietata, in città, la bassa fermentazione, in netta contrapposizione con quanto stava avvenendo nei territori circostanti, dove si stavano imponendo le basse fermentazioni.

Il declino con la Rivoluzione industriale Dopo secoli di crescita e prestigio, con l’avvento del XVIII secolo e in particolare della rivoluzione industriale per Co-

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lonia, tagliata fuori dalle principali rotte commerciali, inizia un periodo di declino. Anche i birrifici non se la passano molto bene. Durante le guerre napoleoniche gli invasori francesi spazzano via le corporazioni e le fratellanze e anche la gilda dei birrai chiude i battenti. Molti birrifici andarono in difficoltà, senza più protezioni, rimanendo gravemente indietro rispetto alle piccole industrie che nascevano in quegli anni e/o a quelle che seppero cavalcare la rivoluzione industriale e sfruttare le grandi novità tecnologiche che man mano si rendevano disponibili. Il XIX secolo va a fasi alterne per la città e di conseguenza per i birrifici. Agli inizi del secolo Colonia è in crescita, torna a occupare una posizione economica di rilievo e i birrifici crescono di numero: 109 nel 1839 e quando la città supera i 100.000 abitanti, attorno alla metà del secolo, i birrifici attivi sono 234. Nella seconda metà del secolo le cose vanno meno bene: la sede storica della corporazione dei birrai è venduta all’asta,

molti birrifici subiscono difficoltà economiche, alcuni però si trasformano in ristoranti e osterie riuscendo a continuare l’attività. Nel 1876 i birrifici censiti sono scesi a 110 e l’emorragia non si ferma: a scomparire sono imprese che hanno anche 400 e più anni di attività. Nel 1895 i birrifici rimasti sono 67 e la curva a scendere non accenna a rallentare. Il XX secolo non si apre dunque sotto i migliori auspici, oltre a tutti i problemi già elencati la maggior parte dei birrifici locali sopravvissuti, una cinquantina abbondante, oramai liberi dalle leggi di un tempo, si mise a produrre le stesse birre a bassa fermentazione, come Pils e Dortmunder Exportbier, che li stavano soffocando nel loro stesso mercato. La birra locale però sopravvive e i pochi birrifici che ancora la producono notano un notevole apprezzamento da parte del mercato cittadino. Con la I guerra mondiale e soprattutto la grave crisi economica che attanaglia la

Germania nel dopoguerra lo scenario è ancora più triste e fatale per le gasthaus dei birrifici, il cui periodo di fascino e splendore sfiorisce inesorabilmente. Eppure, secondo alcune fonti, tra cui Eric Warner (Kölsch: History, Brewing Techniques, Recipes), nel 1918, proprio nell’immediato dopoguerra, il birrificio Sünner potrebbe essere stato il primo a usare per la loro birra chiara, di alta fermentazione e basso grado alcolico (e prodotta sin dal 1906), il nome di Kölsch e decretare dunque la nascita di uno stile.

credits calflier001

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La Germania intera è però in grave difficoltà e la ripresa economica sfocia repentinamente e drammaticamente nella II guerra mondiale. Hans Sion racconta al meglio la storia di Colonia e delle Kölsch nel tragico periodo della guerra: i bombardamenti alleati

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iniziarono sulla città nel 1942 e in uno di questi Sion fu colpito gravemente e messo in condizione di non produrre più. Poteva essere un colpo durissimo e definitivo per Sion in assoluto e per le Kölsch più in generale ma a Colonia la fratellanza tra i birrai era sopravvissuta ai secoli bui e all’epoca napoleonica: l’amicizia personale che legava Hans Sion a Joseph Früh, il proprietario di Cölner Hofbräu Früh, fondata agli inizi del ‘900, permise a Sion di sopravvivere producendo alcuni lotti della sua birra dal suo amico che ancora non aveva subito danni - quanto meno non gravi - dai bombardamenti. Nonostante i difficoltosi approvvigionamenti di materie prime, controllati, in tempo di guerra, direttamente da Berlino la produzione di Kölsch continua fino al 29 giugno del 1943 quando Colonia subì un bombardamento devastante che la rase praticamente al suolo. La fine della guerra e la ricostruzione vedono i birrifici, come quasi tutte le aziende produttive, segnare il passo. Sion è uno dei pochi a ricominciare le attività nel 1951, mentre la città era ancora in buona parte da ricostruire. La distruzione e la mancanza di fondi furono per la maggior parte dei birrifici la pietra tombale. Alcuni, provati psicologicamente oltre che finanziariamente, non ci provarono nemmeno a ricominciare da zero, oltretutto mentre il mercato si saturava di lager industriali. La Kölsch in quegli anni è una birra scura, detta Wiess, non filtrata e rappresenta una delle referenze dei birrifici che producono per lo più birre a bassa fermentazione.

La Kölsch-Konvention Ancora una volta però lo spirito della città e quello dei birrai camminano insieme. Negli anni ‘60 la voglia di rinascita della città coincide con la necessità di cambiare la loro birra, di renderla nuovamente unica. I birrai, riuniti in un’associazione, decidono che la nuova birra deve differenziarsi dal panorama di birre che spopolano in Germania. Pur con qualche

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difficoltà iniziale, si decidono per intraprendere un cammino comune che inizia a delineare la Kölsch come la conosciamo oggi. La nuova birra, ad alta fermentazione, chiara e filtrata, viene proposta anche in bottiglia, così da poter essere venduta anche al di fuori delle gasthaus e veicolare l’immagine di Colonia al di fuori della città e delle zone limitrofe. Nel 1963 il Tribunale di Colonia sentenzia che la Kölsch non rappresentava soltanto una tipologia di birra ma anche la regione d’origine. Negli anni ’80 il tribunale regionale superiore riprende il pronunciamento del tribunale cittadino e conferma che Kölsch è denominazione geografica di origine protetta. Il processo è praticamente completo e in città si producono soltanto Kölsch, così il 6 marzo 1986, alla presenza del borgomastro - il sindaco - di Colonia i 24 rappresentanti dei birrifici cittadini firmano, nella cornice dell’hotel Excelsior, la Kölsch-Konvention. Le principali regole sono: «« Le Kölsch devono essere prodotte secondo quanto stabilito dall’Editto sulla Purezza del 1516 «« Le Kölsch possono essere prodotte solo dai birrifici di Colonia e da alcuni birrifici della zona circostante. Le Kölsch possono essere bevute esclusivamente nello stange (il bicchiere descritto sopra) Viene creato un comitato atto a controllare che le regole della Kölsch-Konvention siano rispettate e si decide che un tribunale arbitrale deciderà su eventuali controversie comminando multe (fino a 125.000€) e pene per chi non dovesse aver rispettato gli impegni presi. Il Ministero di Grazia e Giustizia della Repubblica Federale Tedesca è l’ente di verifica preposto. L’Unione Europea nel 1997 (con modifiche successive, l’ultima nel 2007, in conseguenza degli aggiornamenti ai regolamenti comunitari sul tema) ha rico-

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nosciuto che le Kölsch siano protette e si possano fregiare del marchio IGP. I parametri produttivi ovviamente fanno diretto riferimento a quelli della KölschKonvention (si veda l’articolo Homebrewing Kölsch in questo numero per i dettagli): in generale si tratta di una vollbier (una birra leggera), non si parla di specifici malti o luppoli - e a dirla tutta il birrificio Mühlen Kölsch usa anche una piccola percentuale di malto di frumento - bensì di profumi, gusti e sapori. Queste piccole licenze, questi piccoli margini di manovra fanno sì che a Colonia non si trovino due Kölsch identiche, ogni birrificio riesce a dare una, seppur minima, personalizzazione. La Kölsch si beve ovunque a Colonia, ma il luogo deputato è la Brauhaus, il locale collegato direttamente al birrificio, luogo di incontro per i cittadini di ogni ceto sociale, oltre che per turisti e avventori occasionali di ogni genere. La birra sgorga da fusti a caduta di grandi dimensioni e viene servita attorno ai 7°C ovviamente nello stange. Di norma non si ordina, arriva direttamente grazie al cameriere (köbes) che gira tra i tavoli con il tipico vassoio (il kranz, con il manico e i posti assegnati per i bicchieri) ricoprendo, all’interno delle Brauhaus, un importante ruolo sociale: in pratica è il direttore d’orchestra. A far parte del direttivo, il Kölner Brauerei Verband E.V sono oggi questi 16 birrifici: «« Privatbrauerei Bischoff che lega le proprie origini a un monastero del XIV secolo «« Dom (Dom-Brauerei) fondato nel 1894 «« Früh (Cölner Hofbräu P. Josef Früh) fondato nel 1904 «« Gaffel (Privatbrauerei Gaffel Becker & Co) fondato nel 1908 «« Privatbrauerei Ganser, dal 1869 «« Gilden Kölsch Brauerei fondato nel 1863 «« Küppers Kölsch Brauerei propone la sua Kölsch dal 1964 ma è una filiale del birrificio Wicküler-Brauerei (1845 a Elberfeld)

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Päffgen_Brauhaus,_credits © Raimond Spekking

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«« Mühlen Kölsch (Brauerei zur Malzmühle Schwartz) sin dal 1858 «« Brauerei Päffgen dal 1883 «« Peters Kölsch dal 1847 «« Privat-Brauerei Heinrich Reissdorf fondato nel 1894, oggi è il primo produttore per quantità (oltre 600.000 hl all’anno) «« Richmodis-Bräu, oggi di proprietà di Gaffel, affonda le proprie radici alla seconda metà del XIII secolo «« Brauhaus Sion lega le sue radici al 1318 «« Privatbrauerei Sester dal 1805 «« Sünner dal 1830 «« Zunft Kölsch (marchio di proprietà di Erzquell Brauerei Bielstein, Haas & Co) Oggi è il gruppo Radeberger a farla da leone controllando, attraverso una sua sussidiaria, la Haus Kölscher Brautradition, ben 7 dei marchi tradizionali sul mercato (alcuni storici): Gilden Kölsch, Küppers Kölsch, Kurfürsten Kölsch, Sester Kölsch, Sion Kölsch, Peters Kölsch, Dom Kölsch. La Kölsch è un avamposto della città, un modo per conoscerla, se ci si trova là, o farla conoscere al di fuori delle mura. Il municipio di Colonia ha creato un percorso tra i birrifici, facilmente percorri-

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bile a piedi seguendo l’apposita mappa. In una giornata, se non ci si distrae troppo e ci si ricorda di fermare il köbes mettendo il sottobicchiere a coprire lo stange così da ricevere il conto anziché un’altra birra, è possibile visitare tutte le Brauhaus, assaggiare tutte le Kölsch e anche soffermarsi, per pranzo e cena, nei posti che si preferiscono. Il tutto visitando la città, totalmente ricostruita dopo la II guerra mondiale, in particolare l’elegante centro storico. Questo è il vantaggio di queste birre, fresche, leggere, semplici da bere e il tranello per cui alcuni le definiscono delle birre noiose, banali. Il vero problema è che noi italiani siamo viziati da birre che, nate sotto il segno delle Kölsch almeno come idea di stile

di partenza, se ne sono discostate largamente nell’esecuzione, personale e di carattere, dei birrai. Tra i più fulgidi esempi la prima, compianta (oggi è a bassa fermentazione, un’altra birra) Montestella del birrificio Lambrate, la Rodersch del Bi-Du, nata a Rodero, dove si trovava il birrificio originale, la Hauria di Croce di Malto, la Pecan del torinese San Paolo. Birre che, in molti casi, hanno segnato - e segnano tuttora - tappe miliari nella rivoluzione artigianale italiana, che hanno come base di partenza una Kölsch ma di cui hanno mantenuto sicuramente la freschezza e la semplicità della bevuta, la fermentazione (alta, spesso con lievito Kölsch, a temperature però piuttosto basse) ma che si sono distanziati per la luppolatura, per il corpo, insomma per il gusto dei birrai stessi; basta poco per allontanarsi da una vera Kölsch. Molti altri birrifici si sono avvicinati, con fortune alterne, a questo stile e qualcuno è anche caduto - ignoranza o supponenza, in entrambi i casi senza giustificazione - sul nome della birra attirandosi le ire dei birrai di Colonia e con la Bild che titolava più o meno “Gli italiani ci rubano la Kölsch?”. E, visto che i numeri lo permetterebbero, questo credo sia il motivo per cui non si è mai visto un evento celebrativo delle Kölsch italiane.★

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MONDO BIRRARIO

di Davide Bertinotti

LA BIRRA “ANTICA”

DI DÜSSELDORF

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l mondo birrario contemporaneo è caratterizzato da un costante incremento del numero di produttori, da nuove etichette lanciate mensilmente da birrifici che fanno a gara per inserire nelle proprie ricette nuovi luppoli sperimentali, spezie rare importate dagli an-

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tipodi o improbabili legumi dimenticati. Ma esistono ancora luoghi che al beer hunter appaiono immutati da lustri: in alcuni locali birrari, un ipotetico viaggiatore nel tempo non riuscirebbe a intuire in quale anno è capitato, se non adocchiando i telefoni cellulari sui banconi

dei bar o per le mode nel vestiario degli avventori. Uno di questi luoghi è sicuramente la città di Düsseldorf, tradizionalmente associata allo stile birrario “Alt”, termine traducibile in italiano come “vecchio”, “antico”. Diversamente dalla Kölsch

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della vicina Colonia, Altbier non è una denominazione protetta e quindi non può essere ricondotta esclusivamente a prodotti brassati a Düsseldorf, ma la maggior parte della produzione e del consumo di questo stile birrario continua ad avvenire nella regione della Renania settentrionale, a testimonianza di una tradizione che ancora oggi resiste, nonostante le mode che si susseguono nei boccali in altre parti del mondo. Altbier è, tecnicamente, come la Kölsch, una birra ad alta fermentazione, fermentata a temperature vicine ai 20 gradi e poi maturata a lungo al freddo, similmente alle lager bavaresi. La caratterizzazione più importante dello stile è derivata dal cospicuo uso di malti Vienna e Monaco che, talvolta in associazione a malti caramello e torrefatti, sono responsabili del colore ramato scuro della birra. A differenza della Dunkel, altro stile tedesco caratterizzato dall’uso del malto Monaco, il livello di amaro è abbastanza elevato e l’attenuazione medio alta; questi connotati, uniti a una carbonazione moderata e a un grado alcolico inferiore al 5%, permettono di ottenere un prodotto molto beverino e raramente l’avventore riesce a fermarsi al primo bicchiere.

Convento di Gerresheim: il primo birrificio ufficiale di Düsseldorf La prima testimonianza storica di un birrificio a Düsseldorf risale al 873, anno in cui l’arcivescovo di Colonia concede diritti di birrificazione al convento di Gerresheim, oggi sobborgo orientale della città. Da allora si riportano, nel corso dei secoli, da 50 a 100 birrifici costantemente attivi nei confini cittadini almeno sino alla seconda guerra mondiale: dopo il conflitto ne rimangono solo 18. Oggi, dopo ulteriori chiusure e fusioni, a Düsseldorf si possono bere Altbier prodotte da tre grossi gruppi multinazionali come AB InBev (Diebels Alt), DABRadeberger (Hansa Alt e Schlösser Alt) e Oettinger-Carlsberg (Hannen Alt) ma

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anche quelle realizzate da una manciata di brewpub e medio-piccoli birrifici cittadini: negli ultimi anni alcuni sono spariti, ma altri nuovi ne sono nati. Tralasciando i prodotti “industriali” citati che probabilmente offrono al bevitore limitate emozioni, a Düsseldorf il beer hunter può sbizzarrirsi nel bere le Alt locali in diverse modalità: queste possono essere reperite in bottiglia, anche nella grande distribuzione, o alla spina in numerosi bar e birrerie; l’opzione più interessante è tuttavia quella di visitare i “locali ufficiali” dei diversi birrifici, spesso posizionati nel medesimo stabile degli impianti produttivi, in cui il servizio è realizzato con mescita da botticelle e botti, di varie dimensioni, a caduta. A parte l’estetica e il fascino retrò del rivestimento in legno delle botti, questo tipo di servizio dovrebbe assicurare una più coinvolgente esperienza degustativa, grazie a una carbonazione del prodotto più delicata e – almeno teoricamente – una eccellente freschezza della birra, vista la vicinanza agli impianti produttivi. Il visitatore più attento potrebbe notare che le botti, trasportate dalla cantina del locale per mezzo di carrelli a due ruote e posizionati sopra il

bancone di mescita a forza di braccia da parte dei camerieri o talvolta per mezzo di paranchi, sono spesso di dimensione variabile: le botticelle più piccole, da 20 litri, sono utilizzate negli orari di apertura mattutina e nei giorni feriali, mentre in serata e nei fine settimana queste fanno spazio a contenitori più capienti, da 30 e 50 litri. La logica è naturalmente quella di evitare la permanenza sul bancone di prodotto che possa scaldarsi eccessivamente o perdere carbonazione se non addirittura ossidarsi; l’eventualità è in effetti solitamente remota, visto il consumo pro capite e soprattutto considerato il fatto che la Altbier servita è normalmente l’unica tipologia di birra disponibile. A queste condizioni, è impensabile non esaurire la botte in un paio d’ore. Per noi consumatori ormai avvezzi a locali birrari con 20-30 spine tra le quali scegliere, pensare a birrerie che servano solamente un’unica tipologia di birra sembra in effetti molto strano, ma anche considerando il retaggio culturale di aree che da secoli considerano la birra alla stregua di un alimento (pane liquido), tutto ciò esprime una propria coerente logica.

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Tradizionalmente il servizio della Alt è effettuato con il classico bicchiere da 0,25 cl che assicura una birra sempre fresca e alla temperatura corretta. Come nella vicina Colonia, nelle birrerie di Düsseldorf i camerieri passano con re-

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golarità tra i tavoli con un vassoio carico di bicchieri pieni e li sostituiscono, dopo un rapido cenno d’intesa col cliente, a quelli vuoti, segnando sul sottobicchiere una tacca in matita per ogni “rabbocco” effettuato. Capita che, dopo qualche tacca sul sottobicchiere, i köbes (nome dialettale dei camerieri locali) sostituiscano il bicchiere vuoto senza più chiedere esplicitamente: a questo punto, si può segnalare la volontà di smettere di bere semplicemente non terminando la birra o appoggiando il sottobicchiere sul bicchiere vuoto. In alcuni locali, tuttavia, il rapido susseguirsi di bicchieri al bancone non è sempre gestito nel migliore dei modi e talvolta il lavaggio è compresso in un semplice risciacquo manuale in lavandini con sapone e acqua dalla dubbia pulizia. Il degustatore più attento che torna più volte nel medesimo locale nota sicuramente che può esserci una minima variabilità nel prodotto tra le diverse botti oggetto di servizio: in queste condizioni

la variabilità può essere (purtroppo) evidente anche tra bicchieri in mescita dalla stessa botte; i clienti abituali non sembrano tuttavia preoccuparsi più di tanto di queste discutibili pratiche! La regola dell’unica tipologia di birra disponibile non è in realtà sempre assoluta: occasionalmente, una o due volte l’anno, i birrifici realizzano una versione “muscolare” della Altbier, chiamata Sticke (“segreto”, “pettegolezzo” in dialetto locale). La Sticke è più maltosa della versione base, più tostata, amara e luppolata, con un grado alcolico attorno ai 6,5; un produttore (Uerige) si spinge addirittura sino agli 8,5° Alc con una birra che può essere interpretata come l’equivalente della doppelbock in versione Alt.

Alt non solo in Germania E in Italia? Per chi non ha la possibilità di effettuare un viaggio a Düsseldorf, lo stile birrario Alt può essere trovato anche da noi, presso alcuni microbirrifici. Cer-

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tamente, la Altbier è geograficamente localizzata in Germania e difficilmente reperibile al di fuori della Renania settentrionale e anche tra i nostri birrifici lo stile non è tra i più popolari. Tuttavia, è possibile assaggiare diverse interpretazioni di ottima qualità, anche se molte di queste sono brassate stagionalmente (se non addirittura one-shot). Probabilmente la prima produzione nostrana è quella del birrificio torinese Grado Plato che nei primi anni 2000 ha creato la Sticher, 6,5° Alc, il cui nome è una crasi di sticke e Chieri, la cittadina dove è nato il birrificio. La Sticher è a tutt’oggi prodotta, così come un’altra Alt torinese: Jatobà, 5,5° Alc, del birrificio San Paolo; di concezione più re-

Schumacher

Oststrasse 123, Düsseldorf - www.schumacher-alt.de Il produttore cittadino più antico, attivo dal 1838. Oltre all’indirizzo indicato, sede del birrificio, nella centrale Bolkerstrasse gestisce un altro ampio e popolare locale. Produce, oltre alla Alt base e a una propria versione di Sticke, una Alt “moderna” con luppolatura americana, denominata 1838er.

Uerige

Bergerstrasse 1, Düsseldorf - www.uerige.de La birreria è un dedalo di ambienti piccoli e grandi, di grande fascino, sempre popolato di avventori locali ma anche molti turisti. Uerige, considerato dai beer hunter il birrificio di punta dello stile, oltre alla Alt e alla Sticke produce una Doppelsticke da 8,5°Alc.

Füchschen

Ratingerstrasse 28, Düsseldorf - www.fuechschen.de Qualche centinaio di metri a nord del centro, Füchschen produce

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cente è invece la Alterelvo del biellese Elvo, di 4,8° Alc, interpretazione godevole ma forse troppo “pulita” rispetto alle ruvidezze delle originali Alt di Düsseldorf. Apparentemente, per numero di Altbier prodotte, il Piemonte sembra essere la nostrana Renania, ma birre ottimamente ispirate dallo stile Alt si trovano anche al di fuori di questa regione: è il caso della Sticke Alt, 6,5° Alc, del friulano Foglie D’Erba, della Mahlzeit, 5,5 °Alc, del marchigiano MC77 e de La Carretta, 5,2° Alc. del siciliano Rock Brewery. Tra le birre citate, forse è proprio quest’ultima, quella realizzata dal birrificio più lontano da Düsseldorf, la produzione stilisticamente più vicina alle originali tedesche. ★

probabilmente la Altbier più “rustica” tra quelle cittadine. Qui la minor “pulizia” gustativa non è sinonimo di difetto, ma di carattere. In menù ha anche una propria pils e una weizen.

Schlüssel Bolkerstrasse 43-47, Düsseldorf www.zum-schluessel.de L’ampio e caratteristico stabile su due piani è frequentato da turisti e locali che in serata affollano anche la strada antistante. Rispetto ad altre Alt, Schlüssel è quella che esprime tratti evidenti di luppolo in aroma, “modernizzando” a modo proprio lo stile.

Frankenheim Wielandstrasse 14-16, Düsseldorf - www.frankenheim.de Il maggiore tra i produttori qui citati (o il più piccolo degli “industriali”?) non produce più in Düsseldorf da un decennio ma a Werstein, dopo che una consistente quota azionaria è stata acquisita dal gruppo Wersteiner.

Alter Bahnhof Belsenplatz 2, Düsseldorf - www.brauhaus-alterbahnhof.de

Brewpub posizionato a un paio di chilometri a ovest del centro cittadino, creato nel 2011. Produce nella sala cottura, posizionata in bella vista all’ingresso del locale, solamente un’unica referenza denominata Gulasch Alt.

Kürzer Kurze Strasse 18-20, Düsseldorf - www.brauerei-kuerzer.de Aperto nel 2010 in pieno centro, questo brewpub si stacca dalla tradizione attirando clientela giovane in un ambiente post-industriale. Anche il servizio è innovativo: la Alt viene riversata automaticamente dalla cantina in un contenitore trasparente sul bancone e da qui nei bicchieri.

Johann Albrecht Niederkasselerstrasse 102, Düsseldorf - www.brauhaus-joh-albrecht.de Brewpub facente parte di una catena di cinque locali con sedi sparse tra il nord e il sud della Germania, realizza con regolarità una Alt ma anche una Helles e una Dunkel, con diverse oneshot a rotazione.

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HOMEBREWING

di Davide Bertinotti

BRASSARE IN CASA

UNA KÖLSCH

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li stili birrari non sono certo originati da ricette scolpite nel granito ma affondano le proprie radici nella storia, nell’economia di una regione e nei costanti sviluppi tecnologici. Grazie al miglioramento delle tecniche inoltre e anche in virtù dei mu-

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tamenti dei gusti dei consumatori, gli stili cambiano nel tempo, evolvono, si trasformano. Talvolta però si conservano punti fermi, che non hanno la possibilità di evolvere o modificarsi. Se consideriamo lo stile birrario di Colonia, Kölsch, il birraio che

vuole interpretare fedelmente lo stile ha davanti a sé dei paletti obbligati che deve rispettare fedelmente; altrimenti il risultato sarebbe altra cosa, magari ottima, ma altra cosa. Questi paletti sono tratteggiati in un documento redatto nel 1986 e sottoscritto da 24 pro-

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duttori birrari della città di Colonia: la Kölsch Konvention. Questo contratto ha ratificato il lungo processo identitario di denominazione di origine della birra di Colonia, in atto forse da secoli. Tale processo è poi culminato nel 1997 con l’istituzione del marchio IGP a livello europeo che ha dettagliato con maggiore precisione lo stile: oggi solo i produttori che rispettano le caratteristiche del marchio, in primis avere sede produttiva nell’area metropolitana di Colonia o nelle vicine Bedburg, Bonn, Brühl, Dormagen, Frechen, Leverkusen, Monheim e Wiehl possono denominare Kölsch la propria birra. Kolsch Konvention riporta a grandi linee le caratteristiche fisiche e produttive necessarie per la denominazione: la birra deve essere una vollbier, ossia avere un grado zuccherino iniziale compreso tra 11 e 16 plato (tra 1.044 e 1.065), deve essere prodotta con un lievito ad alta fermentazione, deve poi avere un colore chiaro e brillante e non avere velature, quindi dovrebbe essere filtrata. Inoltre, l’attenuazione finale deve essere elevata e la birra avere un buon grado di amaro percepito: “ben luppolata” è la definizione presente nel documento. Infine, giusto per rimarcare la germanità del prodotto, deve aderire ai principi del Reinheitsgebot, quindi non avere altri ingredienti che acqua, malto, luppolo e lievito. Ma è il regolamento europeo IGP a mettere nero su bianco numeri precisi: il colore deve essere compreso tra i 5 e i 15 EBC, la densità deve essere ricompresa tra gli 11 e i 12,5 gradi Plato (OG 1.0441.050), gli zuccheri residui si attestano tra lo 0 e lo 0,5% in peso totale (*), il grado di amaro è compreso tra le 15 e le 30 unità (secondo la scala EBU, non molto lontana dalla IBU). La gradazione alcolica deve essere compresa tra 4,2 e 5,5% Vol. Il prodotto deve essere infine soggetto a filtrazione prima del confezionamento. Dal punto di vista degustativo, la Kölsch è una birra caratterizzata da

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equilibrio e delicatezza, dove lievi note di malto e cereale sono controbilanciate da una luppolatura da amaro che si nota più per la secchezza e l’alta attenuazione del prodotto che per il grado di amaro intrinseco. Il lievito

non si mostra, se non per un minimo fruttato (mela), appena accennato, o un leggero sulfureo, caratteristica più di birra a bassa fermentazione. Il finale del sorso deve essere secco ma equilibrato.

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Insomma, tutte le sue caratteristiche devono essere accennate, equilibrate, lievi. E il problema nel produrre una Kölsch sta tutta qui: nel non eccedere in nulla e nascondere molto. Voi, birrai che aspirate a dimostrare le vostre doti, dimenticate le bombe luppolate, le birre acide, le tostature da caffè, i mélange di frutta: è su questo stile che si misurano le reali capacità di un mastro!

Ingredienti Da dove partire per brassare una Kölsch? I freddi numeri dettagliati sopra ci possono dare una prima indicazione, ma come per ogni stile birrario, la scelta degli ingredienti riveste un’importanza fondamentale. Come per le Pils, anche le Kölsch necessitano di un’acqua tendenzialmente morbida,

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con alcalinità residua bassa che possa permettere di raggiungere in produzione (e nel prodotto finito) il corretto livello di acidità. Il corretto pH agevola infatti la coagulazione delle proteine e la loro precipitazione durante la bollitura, al fine di raggiungere colore e brillantezza desiderati. Inoltre, la giusta acqua permette di ottenere una tipologia di amaro più elegante: da un lato la precondizione è un basso livello di solfati e poi l’attenzione, nelle fasi produttive, a un ridotto passaggio di proteine e tannini dal malto al bicchiere. La scelta della tipologia di malto è compito facile: un buon malto pils tedesco è tutto ciò che serve. Qualche birraio ammette l’utilizzo di una piccola percentuale di malto di frumento (sino a un massimo del 10-20%) per aiutare il

raggiungimento della secchezza e del colore desiderati; qualcun altro suggerisce minime aggiunte (sino al 5%) di malti Vienna o Monaco per accentuale gli aromi di malto. Personalmente non sono di questo avviso: se il malto pils ha le caratteristiche proteiche e di colore necessarie, può essere tranquillamente usato per il 100% del grist, senza ulteriori aggiunte. Anche la scelta del luppolo non lascia adito a dubbi: bisogna usare obbligatoriamente varietà nobili tedesche come Perle, Spalt, Hallertau, Tettnang e quasi esclusivamente in amaro. Gli aromi di luppolo, se presenti, devono essere appena accennati, quindi bisogna assolutamente evitare luppolature da aroma negli ultimi 20 minuti di bollitura e naturalmente niente luppolo in whirlpool e dry hopping. Infine, il lievito: il risultato del suo lavoro deve essere neutro e pulito, quasi da bassa fermentazione, lasciando trasparire dal bicchiere minime note, appena accennate, di fruttato (mela, dicevamo, ma anche pera o ciliegia). Inoltre, deve assicurare una elevata attenuazione. Queste caratteristiche si ritrovano quasi esclusivamente in ceppi appositamente dedicati allo stile Kölsch, come il Wyeast 2565 e il White Labs WLP029: questi lieviti in forma liquida sono stati i riferimenti obbligati per i birrai per molti anni, ma da pochi mesi Lallemand ha presentato la sua versione in forma disidratata denominata Lalbrew Köln. Queste varietà richiedono temperature di operatività ottimale a metà strada tra quelle dei ceppi lager e ale: la finestra suggerita di lavoro è indicata tra i 12 e i 20°C, con l’indicazione di non superare comunque i 18°C per ridurre al minimo le note fruttate.

Processo La fase di ammostamento per la realizzazione di una Kölsch è abbastanza semplice: un singolo step attorno ai 63-64°C per 60 minuti può essere sufficiente, per poi salire a 72 per 10 minuti

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Il pH dell’impasto deve essere attentamente controllato: non dovrebbe salire oltre i 5,50. In caso di scostamenti, è possibile usare acido lattico per raggiungere il livello desiderato. Sarebbe ideale, inoltre, conoscere i dettagli minerali dell’acqua utilizzata: oltre alla durezza e all’alcalinità residua, è utile avere il dato della quantità di calcio. L’ammostamento dovrebbe avere a disposizione dall’acqua almeno 50 ppm di calcio per favorire i processi chimici necessari e, in particolare per lo stile, agevolare la coagulazione proteica durante la bollitura e la flocculazione del lievito a fine fermentazione. Processi necessari per giungere a una limpidezza finale adeguata della birra. In caso di deficienza di calcio nell’acqua, si può valutare di aggiungere cloruro di calcio. Da evitare invece il solfato di calcio, per non accentuare eccessivamente il carattere della luppolatura. La fermentazione da parte di birrifici tradizionali è effettuata in vasche aperte, ma ovviamente per un homebrewer questa è una soluzione difficilmente realizzabile. L’importante è in ogni caso mantenere la temperatura a livello costante e a fine fermentazione è necessario ridurla vicino allo zero per effettuare una “lagerizzazione” che dovrebbe durare circa quattro settimane: questa fase agevolerà la precipitazione di lieviti e di proteine, rendendo la birra limpida e brillante.

Confezionamento e servizio

ed effettuare il test iodio. Il rapporto acqua/malto prescelto dovrebbe essere abbastanza elevato, non inferiore a 4 litri per kg, sia per agevolare il lavoro degli enzimi ß-amilasi, maggiormente attivi in un impasto “liquido”, che per ridurre la quantità di acqua al successivo sparge al fine di limitare l’estrazione proteica e tanninica dalle trebbie.

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Come per molti stili a bassa fermentazione che subiscono lunghe fasi di maturazione a freddo, anche per le Kölsch appare un inutile spreco di tempo e risorse effettuare al momento del confezionamento un imbottigliamento con aggiunta di zuccheri e una fase di rifermentazione: la “pulizia” gustativa faticosamente ottenuta verrebbe vanificata con la riattivazione del lievito in bottiglia. Se l’homebrewer non ha altra scelta, allora meglio usare un lievito

neutro selezionato per questa attività, come il Fermentis F2. Meglio sarebbe, avendo a disposizione la corretta attrezzatura, effettuare l’ultima fase della fermentazione in pressione o più semplicemente infustare e carbonare forzatamente la birra con CO2 al termine della lagerizzazione, avendo come obiettivo finale circa 2,32,5 volumi di anidride carbonica. La mescita dovrà naturalmente essere fatta nel tradizionale Kölschglas dalla capacità di 20 cl. a una temperatura di servizio attorno ai 5-6 °C. Vietato limitarsi al primo bicchiere! (*) Estratto apparente. L’estratto reale corrisponde a 1,98-2,66 Plato ossia a una FG 1.007-1.011 ★

RICETTA per 23 litri

Malto Pilsner – Germania 5000 g Luppolo – Perle 30 g, 7% AA, 60 min Lievito Wyeast Kölsch 2565 OG 1048 - FG 1010 IBU 22 - SRM 4 Alc. 5 % Procedimento: ammostamento 60 min. a 63°C, 10 min. a 72 °C o sino a conversione. Fermentazione 7 giorni a 16 °C poi scendere lentamente a 1-2°C, lagerizzazione per 28 giorni. Infustamento e carbonazione forzata a 0,7 bar (10 psi) a 2°C per 2-3 giorni.

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IMPRENDITORIA BIRRARIA

di Francesco Donato

GUIDA GALATTICA

PER PUBLICAN D

iciamolo pure, è affascinante entrare in un locale e trovare scaffali stracolmi di svariate etichette di birra o un invitante bancone con decine e decine di colonne di spine. Da giovane appassionato quale ero, lo confesso, ho attraversato anch’io la fase nella quale giudicavo i locali in base all’imponenza dell’offerta birraria. Banchi lunghi come vialoni alberati o scaffali da fare invidia a un supermarket costituivano la base per far scattare gli occhi a cuoricino e per lanciarmi nelle nuove “conquiste” da bere. Insomma, che fosse bottiglia o spina, più si offriva in termini numerici più si era meritevoli di venerazione da parte mia. “Wow, 24 birre alla spina, ci devo assolutamente andare appena sono da quelle parti!” – “Cavolo che beershop fornitissimo, vale proprio la pena” o, d’altra parte, anche “Solo 6 vie alla spina? Che pxxxe!”. Ma con il tempo ho imparato, anche sulla mia pelle nel momento in cui ho dovuto gestire l’offerta birraria di vari locali, che non sempre questa regola funziona e soprattutto che non è garanzia di un gran bel posto per bere sempre bene. Dove bere bene è inteso con birre sempre “a posto” in termini di qualità e freschezza del prodotto servito. E qui entriamo nel vivo del tema trattato: Quando è giusto metter su un impianto alla spina con quasi 20 vie? Riusciremo sempre a garantire al nostro cliente una birra alla spina dignitosamente “fresca” (ovvero che non sia attaccata alle nostre spine da settimane!)

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o un prodotto sugli scaffali e nei frigoriferi che non sia sempre rincorso dalla data di scadenza? Il tema diventa ancora più interessante se lo guardiamo da entrambi i punti di vista, quello del cliente e quello del publican/gestore. Quali sono le variabili che dovrebbe considerare un publican/gestore prima di operare la scelta del numero di spine da montare o dei frigoriferi di cui dotare il locale? Innanzi tutto, verrebbe da pensare in primis alla posizione. Ovvero, il luogo dove si trova fisicamente il locale. Se apro a Milano o in un piccolo centro di montagna cambierà certamente qualcosa. In ambito birrario però, la storia italiana insegna che è una considerazione che comunque va presa con le dovute attenzioni. Di fatto, alcuni tra i locali più importanti che hanno costruito la scena birraria italiana, sia per interesse che per importanza dell’offerta (qualitativa ma anche quantitativa) sono sorti non in grossi centri abitati come Milano, Bologna, Firenze o Napoli, ma in luoghi di provincia. Nembro (BG), Atripalda (AV), Buonconvento (SI), solo per citarne alcuni. Ma ad ogni modo, è ovvio che il bacino d’utenza che offre la grande città è una base di tutto rispetto e fornisce altri spunti di analisi. Un grosso bacino d’utenza occasionale da educare può far arrivare prima il nostro “messaggio culturale” e iniziare a farci lavorare con i numeri giusti. Di contro, in un posto di provincia la nostra clientela di partenza sarà costituita probabilmente da una piccola base locale di curiosi e da una grossa (e assolutamente decisiva!) fetta di appassionati che si sposterà da centri limitrofi, grosse città comprese. Nel secondo caso lo “start up birrario” potrà essere più o meno lento, ma giocherà tanto la capacità e l’intraprendenza del publican.

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Se la sua aura fidelizzante e il suo carisma nel coinvolgere il cliente con passione e competenza saranno forti, ci metterà poco a far diventare il suo locale un riferimento per un’area molto estesa. Quindi la posizione rappresenta certamente un fattore importante nel dimensionamento dell’offerta birraria, ma non senza una guida di un certo spessore dietro al bancone o una mente appassionata a portare avanti il locale. Un publican competente, dotato di una buona dialettica e incline al dialogo e al confronto con il cliente è la vera arma vincente per rendere la posizione quasi ininfluente nella scelta del dimensionamento birrario. Vi è da dire comunque che, anche in città con una grossissima concentrazione di abitanti, purtroppo può capitare di imbattersi in locali che, nonostante i vantaggi concessi dalla migliore posizione, siano guidati senza il dovuto “trasporto” e amore per la birra artigianale. Tante spine, scarsa manutenzione, poca competenza, rotazione lentissima o concentrata sulle solite poche vie dedicate alle luppolate. Pescare una birra a posto diventa un terno al lotto. Locali senz’anima che lavorano solo per il posizionamento. E veniamo al secondo fattore. Cibo sì o cibo no? Anche questa scelta a mio parere può essere influenzata a grandi linee dalla territorialità. Territorio inteso stavolta non solo come posizionamento del locale, ma analizzato in ambito più esteso. Si entra nel campo delle abitudini locali, spesso di un’area vasta come un’intera regione o di tipicità che possono addirittura trasformarsi in un traino per il nostro locale ad impronta birraria. Uscire per mangiare e di conseguenza bere qualcosa, uscire per bere e ordinare cibo per stuzzicare. Una frase che sposta tanto!

In alcune zone del Sud Italia è il cibo a far da padrone. Il fine settimana ad esempio è imperativo uscire per mangiare fuori casa. Il cibo accompagna buona parte delle bevute e, al netto della fetta di appassionati che possono frequentare il nostro locale, statisticamente chi viene solo per bere rappresenta in alcune aree nient’altro che una piccola minoranza. Statisticamente questa “regola” non scritta ha fatto sì che, negli anni, anche locali riconosciuti come veri e propri punti di riferimento in Puglia, Sicilia, Calabria, abbiano dovuto riadattare la loro offerta allargando sempre di più al food. Per farla breve, aprire oggi un beershop puro in alcune zone richiede molto coraggio e ci sottopone a grandi rischi d’impresa, così come dar spazio ad un’offerta esclusivamente birraria a prescindere dalla sua ampiezza. La scena romana ha dimostrato di fare storia a sé per i temi trattati. Beershop puri continuano a spuntare (anche se molti di essi hanno dovuto forgiarsi inserendo spine e snack) e anche locali dove si “beve solamente” continuano a dire la loro. Basti pensare ad un riferimento nazionale come il Ma Che siete Venuti a fa? a Trastevere dove, nonostante la stretta vicinanza con il Bir &

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IMPRENDITORIA BIRRARIA

Food (dove si mangia), l’offerta è ristretta alla birra. Questa mentalità è pressappoco riscontrabile in molte aree del Nord Italia, dove la statistica ci consegna una scena dove i locali senza cibo sono ben amalgamati e perfettamente in linea con le abitudini locali. Anche i Beershop sono spesso concepiti con intelligenza vicino a locali dove si serve cibo, creando interessanti sinergie. L’esempio in tal senso più lampante che mi viene in mente è il Bere Buona Birra a Milano. Il cibo comunque può rappresentare un ottimo cavallo di troia per attirare dentro al locale clienti occasionali, magari attratti e fidelizzati proprio da piatti di qualità. Se già abbiamo un locale e, dopo esserci appassionati alla birra di qualità, abbiamo deciso di servire solo birre artigianali è comunque consigliabile mettere in conto che la nostra offerta food possa qualitativamente camminare di pari passo con le birre proposte. I palati degli appassionati birrari sono delle vere e proprie calamite nei confronti di tutto ciò che concerne il cibo di

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qualità. Insomma, se bevo bene sicuramente vorrò mangiare anche bene. Vi è inoltre da dire che anche chi, pur non essendo un abituale bevitore di birra, sia dotato di una particolare sensibilità al cibo di qualità (che sia un buon salume o un buon formaggio) non potrà che apprezzare se affianchiamo al suo piatto una buona birra. Quindi se la nostra forma mentis in cucina è votata a mantenere standard qualitativi alti, sarà più agevole proseguire in questo percorso. Che si tratti di una pizzeria che lavori con competenza in ambito di lievitazione, una hamburgheria che ad esempio selezioni personalmente le carni, un ristopub che serva piatti non banali con materia prima locale, o un ristobar che proponga taglieri con prodotti selezionati, si è già sulla strada giusta per affiancare qualità sul bere. E se non abbiamo ancora un locale? Insomma, se il mondo della birra artigianale ci ha appassionato al punto tale dal volerlo trasformare in una vera e propria professione, la scelta di servire o meno cibo diventa quasi da subito una discriminante. A prescindere da tutti gli aspetti fiscali in ambito somministrazione per spiegare i quali servirebbe un’intera copia di questa rivista, scegliere da subito se servire o meno cibo ci dà un’immediata collocazione nel mercato territoriale e ci permette di costruire la nostra identità di locale. Aspetto fiscale a parte, la scelta condizionerà anche gli investimenti (attrezzature, ecc.) e soprattutto i costi (affitti per locale più ampio, personale in cucina, ecc.). La formula più performante al momento, a mio parere, è quella del locale dotato di una cucina piccola, offerta food limitata a poche pietanze di assoluta qualità, pochi posti in sala con consequenziale scarsa incidenza del costo del lavoro. Ma su come si possa giocare la partita in ambito food cost, gestione dei costi

e della materia prima, produttività, ne parleremo magari ampiamente in un altro articolo. Quindi: Abbiamo deciso di aprire un locale birrario o di rinnovare l’offerta del nostro locale esistente inserendo birre di qualità. L’analisi del mercato è una delle prime cose che mi sento di consigliare! Ho conosciuto molti appassionati birrari che hanno aperto localini o beershop spinti esclusivamente dalla passione (cosa che comunque non deve mancare mai!) senza guardare dietro l’angolo della saracinesca che stavano per alzare, senza mai capire a chi rivolgersi, ma soprattutto senza mai programmare. Non servono studi di settore, mettersi per strada e contare quante persone passano nelle ore di punta o guardare dentro il bidone del vetro del tuo potenziale competitor più vicino. Anche se probabilmente qualcuno lo fa. L’ossessione per i numeri è qualcosa che se svilupperete da soli più in là, vi consentirà di fare un ottimo lavoro anche sul fronte gestionale. Nello specifico bastano azioni e pensieri semplici. Quanti locali esistono nella zona in cui sto aprendo? Quanti offrono birre artigianali? Si può anche mangiare? Cosa? E poi. La sera la zona è frequentata? Che tipologia di persone c’è in giro? Che azioni dovrò compiere per portare la gente nel mio localino? Focalizzandoci sulla birra: i locali intorno cosa offrono? Spine o bottiglie? Che birrifici offrono? Molto spesso si dovrà ragionare con la testa del potenziale cliente. Cosa vorrei trovare all’interno di un locale nuovo in zona? Quanta possibilità ho di diversificare la mia offerta birraria e soprattutto l’ambiente rispetto agli altri? La vostra intraprendenza potrà fare la differenza. Pensare di creare un ambiente accogliente focalizzato sul benessere del vostro cliente-tipo è già un ottimo biglietto da visita, ancora prima di determinare il dimensionamento birrario.

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IMPRENDITORIA BIRRARIA

Il cliente verrà a bere da voi perché avete birre di qualità, trattate come si deve, ma anche perché siete riusciti a stabilire empatia con lui. L’ambiente del locale è qualcosa che molto spesso qualche publican sottovaluta. E per ambiente non intendo solo tavoli, sedie, banchi, ma quell’aura quasi magica, quella che si instaura quando si attraversa quella porta, si getta uno sguardo alla birra che sgorga dallo spillatore dentro alla pinta e subito sai che vuoi sederti a quel banco e bere. Sai già che starai bene, e che sarai come nella tua seconda casa, anche se è la prima volta che entri lì dentro, e anche se sei a chilometri da casa tua. Se siete stati appassionati clienti prima che futuri publican, sapete bene di cosa si sta parlando. Ho conosciuto publican che sottovalutavano questo aspetto, pensando che la diversificazione, a volte anche maniacale, dell’offerta fosse la carta vincente da giocare. Chiedere esclusive a distributori o direttamente ai birrifici servirà a ben poco se non si lavora sull’aspetto emozionale e sull’identità. Prodotti di nicchia o esclusivi possono essere pedine sicuramente vincenti, ma solo se avete un buon terreno di gioco e abilità nello sfruttarle. Utilizzerete solo spine o anche bottiglie in frigo? La spina ha un fascino tutto suo, non lo possiamo negare, ma anche la bottiglia ha certamente il suo appeal in un locale birrario. Molte birre danno il meglio se servite alla spina; altre, invece, in bottiglia hanno quella marcia in più. Mi viene inoltre da pensare a tutte quelle birre tra l’altro prodotte esclusivamente in bottiglia come Orval o Rochefort, che sarebbe quasi un peccato non poter bere in un pub non dotato di un piccolo frigo per le bottiglie. Quindi a prescindere dal numero di spine, un piccolo frigo con birre da shelf life piuttosto lunga o comunque con i clas-

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sici già nominati introvabili alla spina, sarebbe sempre consigliabile. Sono prodotti che hanno sempre mercato e che non avrete fretta di vendere. Inoltre, la bottiglia ha dalla sua il fattore asporto. Cosa non da poco se siete un beershop, ma anche se vendete cibo da asporto, ad esempio. La partita si gioca sul piano dell’equilibrio in relazione ai numeri che svilupperà la vostra attività. I più intraprendenti calcolano già sulla base del break even point la quantità del prodotto birra che potrà essere servita: un tipo di analisi ci può fornire un dato numerico il più delle volte abbastanza coerente. L’idea di partire con una situazione gestibile nella fase di start up è più raccomandabile. Un numero di spine adeguato alle nostre reali possibilità di garantire una rotazione abbastanza veloce dei fusti e un’offerta in bottiglia non esagerata. Se i volumi di crescita della nostra attività lo consentiranno, potremmo implementare il bancone con altre vie alla spina o un altro frigo. In fase iniziale meglio poche vie a garantire la certa freschezza del prodotto,

piuttosto che un’offerta smisurata che potrebbe generare malcontento del cliente. Quando? Nel momento in cui le nostre ottime birre iniziano a soggiornare per più tempo del dovuto attaccate al nostro impianto. Inoltre, non dimentichiamo mai l’occhio e la percezione. Meglio vedere un impianto a sei vie che lavora a regime piuttosto che “solo” sei vie montate su un immenso impianto a venti vie. Un addetto al settore o un appassionato tra i più sgamati magari vi apprezzerà, dirà “bravo, ne mette solo 6 per garantire freschezza”, ma per il neofita o comunque per la grossa fetta di clienti occasionali non sarà un bel vedere. Potreste essere considerati un locale con poca offerta rispetto alle aspettative generate dalla vista, o comunque un locale che lavora poco e non può permettersi di attaccare altre birre. Non perdete il prossimo numero! Ci dedicheremo ad approfondiremo l’argomento dimensionamento, tirando in ballo stili birrari, tipologie di locale e cibi serviti. ★

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FOCUS ALT, KELLER, U.S.W.

A cura del MoBI Tasting Team

MoBI TASTING SESSIONS:

Alt, Keller, u.s.w. Birre italiane e straniere, artigianali e (semi)industriali degustate e giudicate dal “MOBI Tasting Team”

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ell’immaginario collettivo, la birra tedesca è spesso rappresentata come un maß (boccale da litro) di una Helles bavarese, la chiara, poco amara, limpida e brillante birra di Monaco. Ma la Germania, o meglio, la tradizione tedesca, è delineata da diversi e interessanti stili birrari anche lontani dai dettami del Reinheitsgebot,

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sia a bassa che ad alta fermentazione; da note luppolate e maltate; da produzioni chiare o ramate, talvolta nere come la notte; da acidità spiccate o da affumicature importanti. Molti birrifici italiani interpretano al meglio queste tradizioni: leggiamo i commenti del nostro MoBI Tasting Team! Alt, Keller, u.s.w. (etc. in tedesco).

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membri del MoBI Tasting Team sono rinomati degustatori, giurati a concorsi BJCP, appassionati, talvolta anche birrai. Puoi trovare altre degustazioni e recensioni sul blog del sito MoBI. Inquadra il QRCode e segui il link!

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FOCUS ALT, KELLER, U.S.W.

Eva K Busa dei Briganti

Cangrande Birra Mastino

Franco War

Stile: Keller Pils

Stile: Helles

Stile: (Keller) Pils

Alc. 4,3%

Alc: 4,8%

Alc. 4,8%

Lotto: L20016

Lotto: lt 0609-19A4

Lotto: L1220

Scadenza: 07/2020

Scadenza: 15/01/2021

Scadenza: 03/2021

Lattina 44cl

Bottiglia 33cl

Bottiglia 33cl

La Keller della Busa dei Briganti si presenta dorata, velata, con schiuma bianca a grana medio fine, di discreta persistenza. Al naso evidenzia dapprima le note dei malti con sentori di cereale, panificato, miele, piano piano si fanno avanti anche i luppoli, con profumi floreali ed erbacei. Profumi lievi, delicati e solo andando in profondità si intuiscono dei sentori sulfurei, tipici della bassa fermentazione e ancor più dello stile di appartenenza, e una lievissima ossidazione. All’assaggio entra dolce e digrada verso l’amaro passando per una nota sapida appena percepibile. Il finale è secco e leggermente astringente. Il corpo è esile e la frizzantezza esuberante e da regolare - giustamente - con il servizio. Il retrolfattivo combina l’amaro con l’erbaceo per poi tornare su cereale e panificato. La Eva K rappresenta l’esordio di Busa dei Briganti nel mondo delle basse fermentazioni con un occhio sul mondo mitteleuropeo in generale e l’altro alla Franconia in particolare. Il bilanciamento, tra i profumi, i sapori e ogni altro elemento della birra, è la chiave di volta della birraia, Eva Pagani. Una birra dalla bevuta facile e veloce, con un passaggio in bocca corto e deciso che stimola il sorso successivo.

Giallo paglierino, limpida, sormontata da un bel cappello di schiuma bianca a grana finissima. I profumi danzano, leggiadri, tra malto e luppolo. Floreale, nuance erbacee, cereale, miele (millefiori e di acacia) creano un bouquet delicato, pulito, elegante. Il territorio è quello della semplicità, della freschezza e all’assaggio non tradisce. I malti guidano la bevuta sul sapore dolce, i luppoli ne correggono leggermente la traiettoria verso un finale amaro, il lievito concorre con la sensazione di secchezza. Il corpo esile e “croccante” al tempo stesso è perfetto per accelerare la bevuta senza far mancare nulla, la tenue frizzantezza mette in risalto sapori e profumi e il retrolfatto riapre sui profumi iniziali per permanere piacevolmente sul miele. Totalmente priva di difetti se bevuta nel range corretto di temperature In Germania sarebbe ricercatissima tra le Helles Naturtrub, perché Cangrande ne è un ottimo esempio. Sarebbe una birra da fusto eppure si esibisce benissimo anche in bottiglia benché in questo caso è la misura a difettare: sotto al mezzo litro equivale all’assaggio per capire se ordinarla o meno: si passa più tempo ad aprire e versare che a bere!

Giallo paglierino tendente al dorato, limpida, trasparente, sormontata da una schiuma bianca di buona persistenza e a grana fine. I profumi sono puliti, intriganti, di notevole intensità - lo stile - e spaziano dal malto al luppolo con sentori erbacei, floreali, fruttati, di pane bianco a fine cottura e di miele e una suggestione di spezie, ben amalgamati tra di loro a creare un bouquet che invoglia al sorso. Al sorso non tradisce e anzi rilancia svelando il suo carattere. I sapori sono ben integrati, dolce e amaro con una punta di sapidità, il corpo è snello, il finale secco, asciutto al punto giusto, raccorda la nota amara con i profumi erbacei e li ingentilisce con il fruttato e il miele che torna in un guizzo che ricorda il corbezzolo (più sull’amaro). A metà strada tra Boemia e Germania del Nord, la Franco è poco Keller ma decisamente Pils, colpisce soprattutto per la pulizia tecnica e la freschezza che ci si aspetterebbe in fusto e qui si trova in bottiglia. É un’elegante e personale interpretazione del birrificio War e del suo birraio per una bevuta (appagante dopo vari sorsi) rapida e chirurgica.

84/100 AC

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92/100 AC

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FOCUS ALT, KELLER, U.S.W.

Schumi Lieviteria

Mukka e Via Mukkeller/Altavia

Glu Glu MC-77

Stile: Altbier

Stile: Altbier

Stile: Kölsch

Alc. 4.9%

Alc. 5.4%

Alc. 5%

Alla spina

A caduta da botticella

Aspetto: colore ramato limpido con venature ambrate. Schiuma cremosa, consistente, colore beige. Olfatto: la struttura di base è maltata, con una vena di caramello che scorre lungo un impianto di crosta di pane. Intensità media, apprezzabile per l’autenticità delle note individuate. C’è poco da aggiungere a parte la sfumatura fruttata che accenna alle ciliegie e un filo di frutta secca che innesca un dejavu, in cui si intravede la birra di cui porta il nome. Gusto: stavolta è il biscotto a dominare la scena, piacevole e anche leggermente croccante. Corpo medio/pieno che corrisponde a un ingresso abbondante, alleggerito dalla carbonazione, che conduce verso un seguito più snello e un finale decisamente più secco del previsto, in cui spiccano i panificati morbidamente tostati e soprattutto la nocciola. Il retrolfatto richiama in causa il fruttato, stavolta arricchito da note di susine.

Aspetto: colore ramato d’aspetto velato, sormontato da un cappello di schiuma, cremosa nell’aspetto e nel colore, persistente. Olfatto: i profumi brillano per la loro freschezza e riflettono una selezione rigorosa delle materie prime e un iter produttivo atto alla valorizzazione del loro potenziale olfattivo. Dominano i panificati di cromatura leggermente caramellata, imperniati sulla crosta di pane, con un carattere che ricorda il lievito ancora in attività. Ma la vera essenza si rinviene nella nota di frutta secca, che eleva la nocciola allo status di frutto fresco e forse ancora acerbo, appena colto. Una sfumatura di susine è il lascito del lievito ad alta fermentazione. Gusto: corpo medio/ pieno e tracotante fragranza, tale da rendere la birra paragonabile a una pagnotta. Crosta di pane, toast, biscotto, frutta secca rappresentano il carattere principale di una birra che viene arricchita da sfumature sottili di frutti rossi. In bocca il luppolo è più presente che al naso. Assieme al delicato apporto erbaceo e vagamente speziato regala un finale e un retrogusto amari, ripulente e piacevole.

Giudizio complessivo Un birrificio giovane che vuole omaggiare i grandi classici e accetta la sfida della fermentazione ibrida. Una sfida che, con consapevolezza e umiltà, supera a testa alta. Giovane, sì, ma con la testa sulle spalle.

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Aspetto: dorato chiaro, limpido, sormontato da un buon cappello di schiuma bianca destinato ad assopirsi neanche troppo tardi. Olfatto: l’essenza di questa birra si rinviene nelle sfumature di panificati chiari quali pane, brioche e frollino, dalla consistenza fragrante. Se l’aroma non fosse già sufficientemente invitante ci pensano le golose sfumature di miele millefiori a convincere ad affondare le labbra nel bicchiere. Fruttato minimo ma distinguibile nelle delicate note di mela. Il luppolo, nel ruolo di attore non protagonista, arricchisce il portfolio con sfumature floreali (gelsomino, fiori di campo) e vagamente speziate (pepe bianco). Gusto: corpo medio/leggero, carbonazione media che contribuisce a incrementarne la consistenza. Sensazione tattile morbida, piacevole, che accentua le golose dolcezze dei malti chiari summenzionate. Gusto in armonia col naso. Eppure, a metà corsa il luppolo si risveglia e contribuisce al taglio secco e ripulente, persistente nel retrogusto. Nessun lievito è stato maltrattato per produrre questa birra e nessuna traccia sulfurea è stata individuata.

Giudizio complessivo Bevuta prodigiosa, in cui si gode delle rotondità a tutto malto ma si apprezza l’apporto equilibrante dei luppoli. Menzione d’onore alla vena nutty, che eleva la bevuta alle interpretazioni più autentiche dello stile.

Giudizio complessivo Semmai ce ne fosse stato bisogno, la bevuta conferma la bontà della produzione firmata MC-77, vincitore del titolo di Birraio dell’anno 2019. Una birra essenziale, che senza voli pindarici conduce il bevitore in un regno fatto di poca forma, tanta sostanza e tantissimo piacere.

90/100 MM

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FOCUS ALT, KELLER, U.S.W.

Carro Keller Carrobiolo

Just kids Foglie d’Erba

Fastenbier - HellerBräu Trum

Stile: Keller pils

Stile: Keller pils

Stile: Rauchbier

Alc. 5,4%

Alc. 4,8%

Alc. 5.9%

Lotto: I1992 - Scad. 31/12/2020

Lotto: 67 - 2020 - Scad. 01/10/2020

Scad. 09/2020

Bottiglia 33 cl

Bottiglia 75cl

Bottiglia da 50 cl

La Keller di Carrobiolo è sempre stata birra da bere solo nel locale del birrificio, ma la fase di emergenza sanitaria del 2020 ha cambiato tante abitudini e così questa birra è stata imbottigliata per la prima volta. Nel bicchiere è chiara e limpida, una keller un po’ atipica, più vicina a birre come la Landbier di Witzgall che per me rappresenta il paragone più calzante. All’olfatto emergono gli attesi aromi di panificato e una nota di miele a cui si affianca un deciso sentore erbaceo con note balsamiche che ci fa subito pensare a una luppolatura decisa anche se nei canoni dell’equilibrio e dell’eleganza. All’inizio della bevuta ritroviamo la crosta di pane con il miele che emerge più evidente che al naso; il tutto accompagnato da una delicata ma decisa nota erbacea che finisce in un bell’amaro “ripulente” che agevola la bevuta. Il finale è molto lungo con un amaro persistente ma mai fuori posto e un retrolfatto in cui malto e luppolo tornano a riproporsi perfettamente bilanciati. In sintesi una keller un po’ fuori dai canoni, anche per il tipo di luppolatura, ma di sicuro un’ottima birra che fa perfettamente il suo mestiere: farsi bere in pochi secondi lasciando un segno deciso e la voglia di un altro bicchiere.

Secondo lotto imbottigliato in isobarico per questa Keller pils che nacque come collaborazione con Birra Perugia in occasione di un compleanno del birrificio Foglie d’erba. Questa birra è di colore dorato, limpida, con una schiuma bella ma poco persistente. L’olfatto ci porta, come atteso, verso la crosta di pane, ma anche verso una nota mielata contornata da aromi erbacei e floreali, testimoni di una luppolatura elegante ma non timida. In bocca non tutte le attese vengono rispettate; la parte maltata è evidente più con la nota di miele che con quella di panificato e in generale la birra si presenta un po’ più dolce di quello che ci aspetteremmo, mancando anche un po’ di secchezza in chiusura. Niente di irreparabile e la bevuta è comunque piacevole, ma indubbiamente delude un po’, soprattutto nel confronto con il lotto precedente, il primo in assoluto imbottigliato in isobarico, che avevo avuto modo di assaggiare qualche settimana prima e mostrava una birra sicuramente più riuscita, molto vicina all’eccellenza. Siamo di fronte quindi a una ricetta che sicuramente c’è e che ha bisogno solo di qualche minimo aggiustamento per trovare definitivamente solidità e continuità.

Birra quaresimale non filtrata e non pastorizzata si presenta di un bellissimo colore a cavallo tra ambrato e ramato. Leggermente velata, è sormontata da un ampio cappello di schiuma beige, soffice e compatta, a grana fine e ottimamente persistente. L’aroma è prevalentemente affumicato, con sentori afferenti al mondo del malto in secondo piano (pane tostato, crosta di pane) e una lontanissima reminiscenza erbacea di luppolo. Come per quasi tutte le birre prodotte da Schlenkerla, il malto d’orzo viene affumicato direttamente dal birrificio impiegando legno di faggio stagionato: questa suggestiva lavorazione viene svolta in proprio solamente da due birrifici in tutta la città di Bamberg. L’evoluzione gustativa è lineare: imbocco morbido e dolce, sviluppo intenso che mette in evidenza le note di panificato tostato, finale lungo e avvolgente, amaro, col fumo a farla da padrone. Corpo medio che lascia tuttavia una sensazione di pienezza sul palato, carbonazione medio-elevata, leggerissima sensazione alcolica riscaldante. Pane (affumicato) liquido in tutto e per tutto, ideale per affrontare la quaresima (o la quarantena).

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L’OPINIONE

di Norberto Capriata

CARO BIRRAIO,

SVEGLIA!

Un suggerimento per i microbirrifici interessati a migliorare

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iccolo avvertimento: partirò dal presupposto, romantico ma probabilmente errato, che il successo professionale di un microbirrificio sia direttamente proporzionale alla qualità delle sue birre. L’aspetto economico, invece, meriterà qualche riflessione un po’ più approfondita su cui torneremo.

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Qual è, nel 2020, il valore qualitativo medio delle birre artigianali italiane? Rispetto a qualche anno fa oggi il movimento è senz’altro più maturo e il livello dei microbirrifici italiani si è sicuramente alzato, parallelamente alla crescita del fenomeno craft nel nostro paese e nel mondo.

Schifezze abominevoli se ne scovano sempre più raramente e, mediamente, chi apre qualcosa la birra la sa anche abbastanza fare. Non mi vorrei addentrare in una stima della numerosità reale dei microbirrifici attualmente presenti sul territorio, la cifra cambia parecchio a seconda che si considerino o meno le

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L’OPINIONE

beer-firm e non le escluderei dal ragionamento. Diciamo 1500, beerfirm compresi, tanto per fare cifra tonda: la precisione, in questo caso, non è importante. Però ... quanti saranno, in percentuale, i produttori che veramente si stagliano ben oltre la soglia di una “aurea mediocrità”? Quanti, intendo, gli autori di birre davvero imprescindibili per le quali valga effettivamente la pena di muovere il sedere e recarsi al beershop o al pub di turno per spenderci allegramente i non pochi danari necessari, senza dubbi di sorta? Esagero e dico 150: il 10% rispetto alla stima iniziale. Come ho detto, sto esagerando. 150 nomi al di sopra di ogni sospetto esisteranno pure, ma sono abbastanza convinto che pochi di noi siano in grado di indicarmene tanti, tranne forse qualche ultras della categoria che probabilmente li includerebbe tutti. Attenzione, non mi riferisco a birrifici in grado di brassare roba potabile, quelli andavano bene dieci anni fa, ora la concorrenza - locale ed internazionale - è cresciuta esponenzialmente e per legittimare la propria esistenza sul mercato ci vuole di più. Attualmente quindi ci sarebbe un 10% circa dei nostri addetti ai lavori che se la cava bene: questa la tesi. Sempre più o meno gli stessi... nomi relativamente nuovi, in grande ascesa, non è che se ne vedano poi tanti: Mutnik, Altotevere, Bonavena, Della Fonte... pochini e ancora piuttosto distaccati dai grandi.

ad avere birre davvero buone e relativamente costanti? A mio parere una cosa, in particolare: la capacità di migliorar(l)e. E qua ho l’impressione che in molti si fermino. A volte per puro disinteresse, immagino, ma più spesso, ritengo, per una molto più prosaica inabilità sensoriale. Molti bravi birrai non sono degustatori altrettanto bravi e quei (pochi) che lo sono mostrano talvolta dei comprensibili limiti nel giudicare il proprio stesso lavoro e quindi ad ottimizzarlo. Eppure di degustatori più che decenti ormai in giro ce ne sono parecchi e molti di loro sarebbero sicuramente ben disposti a collaborare attivamente con i microbirrifici, anche solo - temo - per un tozzo di pane (raffermo). Pur con le ovvie differenze tra i due prodotti, mi sembra interessante far notare

come, nel mondo del vino, la figura del Sommelier sia molto considerata, per non parlare del ruolo dell’enologo e credo che ben pochi produttori considerino l’assaggio come parte trascurabile della loro attività. Nella birra, invece, questo aspetto pare interessare a pochi. In generale, l’atteggiamento dei birrifici verso i degustatori fluttua tra la totale indifferenza e il malcelato fastidio, con punte di arroganza e di aggressività qualora qualcuno dei suddetti si permetta addirittura, in casi del tutto eccezionali, qualche velata critica. Perché? Personalmente direi che: ❱❱ il 30% dei produttori non ha mai nemmeno preso in questione l’esigenza di migliorare il prodotto, più preoccupati da questioni ben più fondamentali

Allora, ci si potrebbe chiedere, cosa manca all’altro 90%, e ai novizi, per fare il salto di qualità? in teoria molte cose: tecnica, preparazione, professionalità, visione, approccio, passione, creatività. Ma in pratica? Una volta che l’impianto ce l’hai, o te lo forniscono e che il mestiere l’hai imparato e non è che ci voglia Leonardo Da Vinci, cosa servirebbe per puntare, se non all’eccellenza, almeno

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tipo la grafica artistica dell’etichetta sulle bottiglie, o la scelta di un nome “geniale”; un altro 30% crede di fare già la birra migliore del mondo; il 15% lavora su margini di guadagno talmente risicati che rischia di capottare al minimo intoppo e il lusso di un consulente esterno non lo ritiene nemmeno considerabile; un altro 15% si rende conto del problema ma non si fida di nessun altro tranne sé stesso infine il 7% chiederebbe pure supporto a un degustatore, ma pensa che esista solo Kuaska!

Dal mio personale conteggio rimane escluso un 3% a rappresentare quei pochi birrifici illuminati che probabilmente si avvarrebbero, o già si avvalgono, di un taster; credo sia una stima per eccesso: tra i degustatori che conosco solo pochissimi, quattro al massimo cinque, svolgono FORSE (c’è un’omertà che non vi dico, nemmeno si trattasse di collaborare con la Sacra Corona Unita) un ruolo di questo tipo per qualche produttore. Eppure non ditemi che un microbirrificio di media qualità non avrebbe tutto da guadagnare nel farsi dare qualche suggerimento da gente tipo XXX (i nomi che avrei in mente preferisco ometterli, sempre in considerazione della “riservatezza” alla quale accennavo). C’è pure da dire che la categoria dei degustatori, oltre ad essere piuttosto

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eterogenea - ossia di affidabilità ovviamente variabile - fa spesso del suo meglio per rendersi invisibile agli occhi dei PRO, oppure tende a dimostrarsi talora un po’ troppo dedita all’esaltazione del prodotto artigianale a prescindere, piuttosto che ad una disanima critica un po’ più super partes. Anzi, ed è questo a mio parere il problema principale, è proprio il riferirsi ad una fantomatica categoria di degustatori (di birre) ad avere ancora - purtroppo - poco senso. Sparpagliati come siamo (mi ci metto anch’io) tra N associazioni diverse, grandi, medie, piccole e piccolissime, tutte più interessate a differenziarsi o in molti casi a barcamenarsi, piuttosto che a fare gioco di squadra, per provare a conferire una dignità ed un’utilità pratica ad un ruolo e a delle professionalità che ormai da tempo lo meriterebbero. Ma questo è un parere personale che non inficia la ormai evidente disponibilità di ottimi taster italiani, né la loro indubbia utilità potenziale in un microbirrificio; semplicemente risulta un po’ più difficile scovarli.

Ma torniamo brevemente al quesito iniziale: fare buona birra, paga?

Ha senso, per un microbirrificio italiano del 2020, investire sulla qualità della propria birra? In termini “pratici”, intendo. Davvero, migliorare la propria produzione, da un punto di vista organolettico, rappresenta uno step utile verso un corrispondente riscontro in termini commerciali? Io direi di sì: fortunatamente, in un paese di buongustai come il nostro, la meritocrazia qualitativa esiste ancora. Non dico che il risultato sia garantito, puntare sulla sola qualità può non bastare. Un po’ di spirito imprenditoriale ci vuole, un pizzico di professionalità in quello che si fa, del resto non viviamo nel mondo dei sogni! Ma un prodotto valido è pur sempre una solida base sulla quale costruire e se non ce l’hai diventa tutto più difficile. Soprattutto ora. Qualche anno fa era un po’ diverso. Ad inizio millennio i pochi piccoli produttori che iniziavano ad affacciarsi sul mercato nazionale, sulla scia della novità e della scarsità di concorrenza, po-

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tevano riuscire abbastanza facilmente a piazzare birre anche non impeccabili. Adesso c’è sicuramente più interesse, ma l’offerta è aumentata esponenzialmente, oltre le più rosee aspettative, e bisogna competere. Perciò, o sei un genio del marketing in grado di scovare valangate di clienti indipendentemente dalla qualità del tuo prodotto (e pochi lo sono: non è un tipo di professionalità facile da improvvisare ed è piuttosto oneroso costruirla da zero) oppure ti conviene - innanzitutto - provare a fare delle buone birre - e poi lavorare per promozionarle, affinché il mondo se ne accorga. Ribaltare questa logica (prima la promozione, poi - eventualmente - la qualità), in genere non funziona. E comunque, se nella vita hai deciso di fare questo mestiere, non conviene provare a farlo bene, anche solo per soddisfazione personale? Stabilito quindi, che investire sulla qualità della propria birra sia effettivamente utile e accettando il presupposto che la collaborazione con un (bravo) taster rappresenti un possibile viatico per poter ottenere dei risultati in tal senso, resta da spendere qualche parola su come un rapporto di questo genere dovrebbe configurarsi, al fine di poter funzionare in maniera virtuosa. La mia opinione è che l’apporto del degustatore non possa prefigurarsi come una prestazione professionale occasionale, della quale il birrificio possa avvalersi una-tantum, a scatola chiusa, ma che vada piuttosto impostato come un percorso di affiancamento sul mediolungo periodo, orientato ad una crescita comune verso obiettivi condivisi fin dal principio e via-via reindirizzati, man mano che le due parti acquisiscono una sempre maggiore conscenza l’una dell’altra. Una jam session più che un assolo, volendo usare un gergo da musicofilo, durante la quale i due interpreti, virtuosi in modi diversi, possano influenzarsi a vicenda, avvalendosi del talento altrui

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per valorizzare ulteriormente il proprio e giungere ad un risultato complessivo maggiore dei singoli contributi. Un lavoro lungo e impegnativo, insomma, decisamente meno banale - e a buon mercato - della tipica consulenza on-demand alle quali siamo (poco) abituati, che vede il taster di turno, spesso a casa sua, assaggiare le 3-4 birre, speditegli chissà come, un singolo lotto, e compilare una scheda gustativa-olfattiva, magari anche ben fatta, ma a ben guardare abbastanza velleitaria, buona al limite per copiare due note sull’etichetta o sulla brochure di presentazione. No, per ottenere dei risultati utili il rapporto tra birrificio e taster deve essere continuativo, assiduo, simbiotico, esagerando un po’ oserei direi quasi morboso. Un lavoro impegnativo per entrambe le parti, è vero, ma in questo modo i risultati, ci scommetterei, non tarderebbero ad arrivare, sia in termini di miglioramento evidente del prodotto che di crescita professionale del produttore.

E giunti all’obiettivo, vuoi mettere la soddisfazione?

Insomma, caro birraio, sveglia!

Ti basterebbe guardarti un po’ intorno per scovare qualche collaboratore valido e motivato che ti potrebbe aiutare a migliorare nettamente sia la tua arte sia le tue amate opere. Non mi pare una considerazione trascurabile: si tratterebbe di un cambio di prospettiva virtuoso, dal quale avrebbero un po’ tutti da guadagnare, l’intero settore della birra artigianale; a partire dal birraio, che migliorerebbe la propria produzione e la propria professionalità nonché, auspicabilmente, i propri riscontri. Il taster e le associazioni di riferimento che vedrebbero finalmente riconosciuta, concretamente, una professionalità oggettiva, maturata con impegno (anche economico) ma che attualmente pare non interessare a nessuno. E, ovviamente, anche il cliente finale, che trarrebbe beneficio da questa collaborazione, beneficiando di birre sempre migliori! ★

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L’INTERVISTA

a cura di Erika Goffi

GRITZ: IL BIRRIFICIO

interamente dedicato al gluten free

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a qualche anno a questa parte le crescenti problematiche legate al glutine ed ai suoi effetti su chi non lo tollera hanno portato anche il mondo birrario a interessarsi alla questione e a produrre birre dedicate ai celiaci.

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Due sono le strade che i birrifici possono percorrere per ottenere birre senza glutine: birrificare con cereali non contenenti glutine, alternativi al malto d’orzo (tra i più popolari ricordiamo mais, riso, sorgo, miglio e quinoa) oppure impiega-

re malto d’orzo, andando a sottrarne il quantitativo di glutine necessario, fino alla soglia di tolleranza dei celiaci. In entrambi i casi è necessario attenersi alla legge di riferimento (Regolamento CE 41/2009, entrato ufficialmente in

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L’INTERVISTA

vigore dal 1 gennaio 2012) secondo la quale tutti i prodotti commercializzati in Unione Europa con la dicitura “senza glutine” o “gluten-free” (e analoghe traduzioni) devono garantire concentrazioni di glutine inferiori al limite dei 20 ppm e possono, quindi, essere consumati con maggiore tranquillità dai celiaci. Spesso per poter soddisfare, anche se in parte, le esigenze dei consumatori, i birrifici producono una referenza senza glutine con impiego di cereali alternativi al malto d’orzo o “deglutinata”, da affiancare nella linea di birre “classiche”, prodotte cioè con malto d’orzo e/o frumento. Diventa difficile trovare invece birrifici che nel nostro Bel Paese abbiamo dedicato l’intera produzione al gluten free.

Eppure, proprio a pochi chilometri da casa mia, qualcosa sta cambiando. Ci troviamo ad Erbusco, nel cuore della Franciacorta: proprio qui dove ha sede il Consorzio del rinomato omonimo vino ma, per il piacere di tutti i nostri amici birrofili, siamo qui per parlare di birra ospiti del Birrificio Artigianale Gritz. Parte della fiorente realtà birraria artigianale bresciana il Gritz non è un microbirrificio qualsiasi, bensì l’unico produttore di birra a livello nazionale la cui intera produzione è totalmente “gluten free”. Un’intera gamma di birre disponibili tutto l’anno (una Strong Amber Ale, una Bohemian Pilsner, una Weissbier ed una India Pale Ale) alle quali si aggiunge, nel periodo natalizio, una birra di Natale. Ad accoglierci uno dei suoi fondatori, il birraio Claudio Gritti. Ciao Claudio. Sono state giornate intense quelle che hanno chiuso il 2019: ti abbiamo visto su tutte le copertine dei quotidiani locali e sui siti di settore, poiché le tue birre hanno ottenuto un importante riconoscimento. Vuoi raccontarci di cosa si tratta? Sono davvero entusiasta di come abbiamo chiuso l’anno. La soddisfazione maggiore è arrivata dal “Best Italian Beer”, un premio nato nel 2015 giunto alla sesta edizione, già patrocinato dal Ministero dell’Agricoltura, rivolto a tutti i produttori di birra con sede nello Stato Italiano, compresi Beer Firm e Brewery Rent, concorso a livello nazionale a cui ho deciso di iscrivere due miei prodotti che, con grande sorpresa e soddisfazione, si sono collocati sui gradini alti del podio.

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Vuoi presentarci le due vincitrici? Prima classificata è una Weissbier, la Weiss della Barbara, dedicata a mia madre che è anche mia socia e preziosa collaboratrice, un grande classico della cultura birraria tedesca ad alta fermentazione, tipicamente torbida, fatta con malto d’orzo e di frumento. Nel pieno rispetto della tradizionale ricetta, rimuovendo successivamente il glutine, siamo riusciti a far apprezzare alla giuria una Weissbier che non mostra alcuna differenza nel profilo organolettico rispetto ad una Weiss con glutine: credo sia proprio questo il punto di forza che ci ha consentito di accaparrarci il primo posto sul podio.

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L’INTERVISTA

L’unica differenza che si può eventualmente percepire, in seguito all’azione che vado ad adoperare sulle proteine tra cui il glutine, è la tenuta della schiuma che in questo caso diventa leggermente meno persistente del solito. La Weiss è una birra decisamente complessa da deglutinare vista la presenza sia di malto d’orzo sia di frumento, è stata quindi doppia la soddisfazione di aver realizzato una birra sì complessa, ma assolutamente apprezzata! Al secondo posto si è classificata invece la nostra birra di Natale: una birra speciale, d’ispirazione belga, realizzata con malti tostati e caramellati ed aggiunta di spezie quali cannella, noce moscata e anice stellato.

esistevano produzioni non totalmente dedicate al senza glutine, di birre per lo più chiare, a bassa fermentazione o realizzate con cereali alternativi. Capii quindi che poteva essere il momento giusto per avviare un mio personale business, ma soprattutto per ridare

ai celiaci la possibilità di scegliere diversi stili di birra. Come spesso accade, vengono creati dei falsi miti e delle leggende metropolitane nel mondo birrario. Fra questi vi è la credenza che

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È stata la tua prima partecipazione ad un concorso simile o ne avevi già fatti altri? In passato avevo già tentato il “Gluten free Beer Awards” , il primo ed unico concorso internazionale che giudica le migliori birre senza glutine organizzato dall’Associazione Non Solo Glutine, giunto lo scorso anno alla sua quinta edizione, durante il Gluten Free Expo di Rimini; in quell’occasione però non riuscii a portar a casa nessun riconoscimento.

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Da dove nasce la tua attenzione alla celiachia e come mai hai deciso di produrre birre gluten free? Personalmente non ho intolleranze al glutine e derivati ma ho tuttavia amici celiaci che dai tempi in cui producevo birra in casa, avevano avanzato il desiderio di poter tornare a bere birra, senza dover rischiare la propria salute. L’idea di lanciarmi nella produzione senza glutine, mi venne durante il corso di formazione per birrai artigiani che frequentai a Padova, al termine del quale venne richiesto di redigere una tesi. In quell’occasione mi tornarono in mente le parole dei miei amici e decisi così di controllare l’offerta delle birre “gluten free” a livello nazionale:

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L’INTERVISTA

le birre gluten free siano prive di gusto e/o corpo. Come rispondi a chi la pensa così? Dico che hanno parzialmente ragione: dipende tutto da come è fatta la birra Se vengono infatti utilizzati succedanei, quali mais e riso ad esempio, sarà inevitabile avere delle birre con un corpo leggero. Io mi sono impuntato e ho deciso di non percorrere assolutamente quella strada, restando invece fedele all’impiego di malto d’orzo, cereale da sempre utilizzato in birrificazione. Ci sono birre gluten free penalizzate dal punto di vista organolettico e poi ci sono le birre di Gritz che regalano invece il piacere di una buona bevuta! Quali materie prima scegli per la produzione delle tue birre base e speciali? Cerco sempre di privilegiare materie prime che arrivino dalla nazione di origine dello stile che realizzo: scelgo perciò malti Simpson, inglesi, per la IPA, malti tedeschi per la Weiss, proprio perché credo sia importante conferire ad ogni singola birra un carattere distintivo. La linea di produzione si compone ad oggi di 4 birre, brassate tutto l’anno: la Weiss della Barbara, la Pils della Graziella, la Ipa della Camilla, la Belga della Danda, belgian strong ale. L’unica birra speciale prodotta finora è la Birra di Natale.

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Curioso sapere che le tue birre siano dedicate ai membri femminili della tua famiglia e che, tra i soci di Gritz, ci sia proprio tua madre. In che modo ti affianca e ti sostiene in questo lavoro? Lei cura tutta la parte noiosa di amministrazione, burocratica: lei è la mente, la calcolatrice e io il braccio. È un’amante e consumatrice di birra ed è stata proprio lei a spronarmi a frequentare il corso di formazione a Padova. Se non fosse per lei forse oggi non avrei raggiunto tutti questi traguardi.

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Dopo i successi collezionati finora, cosa “fermenta” nei tanks ora? Progetti futuri? Mi piacerebbe produrre una birra scura, ma vado cauto perché vorrei capire la reale richiesta da parte dei consumatori. L’obiettivo principale è quello di farci conoscere sempre di più, attraverso i canali social e contattando direttamente i locali che mostrano un’attenzione particolare per il gluten free, selezionando soprattutto gli affiliati AIC da almeno qualche anno. Il nostro mercato è infatti rappresentato soprattutto da ristorante e pizzerie specializzate nel senza glutine.

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Il nostro incontro si conclude degustando la vincitrice “Weiss della Barbara”. Nel bicchiere la torbidezza accentuata di una classica Weissbier, lascia spazio

ad una marcata opalescenza, la birra si presenta color paglierino/dorato scarico con candida schiuma che presenta una buona aderenza ed una media persistenza. Al naso delicate note di cereale, lasciano spazio a degli esteri appena accennati e la cosa non mi dispiace affatto non essendo una grande fan delle sfumature aromatiche generalmente presenti nello stile tradizionale; emergono inoltre note leggere di chiodi di garofano e polpa di banana matura. Una buona effervescenza si coglie al primo sorso, il corpo si dimostra medio-leggero, senza mai raggiungere la “rotondità” che spesso caratterizza questo stile e talvolta rende più complessa la bevuta. Il gusto rimane delicato, con sapori che ruotano attorno ai cereali, la crosta di pane, il finale è piacevolmente secco. ★

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TURISMO BIRRARIO

di Matteo Malacaria

C’ERA UNA VOLTA IN AMERICA:

viaggio on the road a caccia di birra artigianale

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er molti gli Stati Uniti sono la culla della birra artigianale moderna. Nonostante si tratti di un prodotto importato è qui che, sotto l’impulso della sua fervida comunità di birrai casalinghi, si è fatta la “rivoluzione” artigianale, dando luogo a una tendenza che si è rapidamente propagata prima

nell’enorme Paese e successivamente nel resto del mondo. Si è partiti dalle birre stra luppolate e si è arrivati alle modaiole spremute di luppolo, passando attraverso interpretazioni originali delle Saison belghe, che forse ha senso distinguere con il nome di Farmhouse Ale, fino ad arriva-

re alle birre a fermentazione spontanea, in passato esclusiva belga. C’è poco da fare: gli Stati Uniti sono una delle capitali mondiali della birra artigianale. Sognavo di fare un viaggio on the road negli Stati, anche a caccia di birra, da chissà quanto tempo. Probabilmente dal primo momento in cui ho iniziato a

La mappa dei visitatori del birrificio. L’Italia c’è!

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TURISMO BIRRARIO

ficcare il naso nel bicchiere, affascinato dai prodotti d’importazione e alimentato dall’entusiasmo dei miei vicini di bancone. Mi reputo oltremodo fortunato di avere realizzato questo mio piccolo desiderio prima del previsto e ben al di sopra delle mie più rosee aspettative: 42 giorni, 14 stati federali e circa 35 birrifici artigianali visitati. Un’esperienza che caldamente consiglio e di cui durante la lettura di questa raccolta di mirabolanti avventure spero di riuscire a trasmettervi parte del mio entusiasmo, assieme a qualche utile consiglio che non guasta mai. Ci siamo lasciati qualche mese addietro proprio all’inizio del viaggio, con il racconto della città di Filadelfia e i suoi birrifici. Stavolta si sale a bordo della macchina che ho noleggiato e che per circa un mese mi ha scorrazzato da una costa all’altra degli Stati Uniti. Rotta verso la Pennsylvania, alla scoperta di altri due birrifici artigianali: Pennsylvania Brewing Company e Tröegs Independent Brewing. Prima però vorrei riportare un paio di constatazioni in merito alla birra artigianale negli USA. E’ veramente una delle capitali della birra artigianale mondiale? Assolutamente sì. Così come gli Stati Uniti dettano legge in molteplici settori, dall’esportazione delle derrate alimentari all’economia fino alla musica, idem con patate vale per la birra artigianale. Esattamente come i miei vicini di bancone, il prodotto che arriva da lontano ha un fascino eccezionale, talvolta esagerato, qualche volta giustificato dall’effettiva bontà del prodotto. Tutti conosciamo la delicatezza del prodotto artigianale e le conseguenze di una spedizione dall’altra parte del mondo. I lunghi viaggi stancano e penalizzano le birre più delicate e quelle generosamente luppolate – la maggioranza. Eppure, nonostante ne siano consapevoli, le teste di luppolo continuano ad andare in brodo di giuggiole quando si tratta di assaggiare l’ultima arrivata da parte del birrificio “tal dei tali”. In verità

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20 anni e non sentirli: la storia di casa Tröegs

vi dico che tra un prodotto esportato e un prodotto consumato in loco non vi è paragone. Me ne sarei accorto di persona, visitando un birrificio colossale come Stone, giusto per menzionare un birrificio rappresentativo, oggi sulle tavole e i banchi di molti italiani. Pur con le dovute misure ho dovuto rivedere molte posizioni personali in merito alla qualità di alcuni tra i più famosi birrifici americani. Per converso ci sono molti altri i quali, limitandosi ai pochi deludenti assaggi effettuati comodamente seduti da questo lato del globo, basano la loro conoscenza del prodotto internazionale. Non è così che funziona. Viaggiare è prerogativa del cacciatore birrario, un dovere morale nei confronti dei produttori ma anche una fonte di autentico divertimento. Come potrebbe essere diversamente? Viaggiate che sennò poi diventate razzisti e finite per credere che la birra italiana sia l’unica che valga la pena assaggiare. Ma bando alle ciance, andiamo a scoprire i due birrificio dei quali ho fatto menzione poc’anzi. Allacciate le cinture: si parte!

L’orgoglio di essere indipendenti: Tröegs Independent Brewing Mi trovo ancora nello Stato del Pennsylvania, poco distante – miglia americane parlando – da Filadelfia. Sono a Hershey, la città del cioccolato, a giudicare dalle insegne stradali. La conferma arriva dagli onnipresenti manifesti pubblicitari, sui quali è disegnata una barretta di cioccolato in stile fumetto che invita a visitare la più grande fabbrica di cioccolato degli Stati Uniti. Chi l’avrebbe mai detto che la fabbrica di Willy Wonka esiste davvero? Per fortuna il cioccolato non ha potere su di me e Hershey mi scivola addosso come pioggia su un impermeabile. La mia destinazione è un’altra: si chiama Tröegs. Un nome che tradisce origine nord europea, scandinava magari. E invece no: è americano a tutti gli effetti. E’ il cognome dei fratelli John e Chris Trogner. Sono loro i Tröegs della situazione, nome di fantasia che nasce dall’unione del loro cognome alla parola fiamminga kroeg (‘pub’).

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TURISMO BIRRARIO

Nella stanza delle meraviglie

Un dettaglio dell’impianto di produzione

Nati e cresciuti al centro del Pennsylvania, i due fratelli si separano per frequentare università diverse: Chris va in Colorado e John a Filadelfia. Proprio in Colorado Chris trova una fiorente attività birraria e, incuriosito da tutto quel fermento, si lascia contagiare. Inizia anche lui a produrre birra in casa. Ci vuole poco affinché anche il fratello John, incuriosito dalla cosa, lo raggiunga in Colorado. Assieme troveranno lavoro in un piccolo birrificio, ponendo le basi di quello che sarà il loro grande sogno. La primogenita fu la Tröegs Pale Ale, prima di una lunghissima sfilza di birre. Eppure, nonostante l’entusiasmo, i due fratelli devono presto affrontare la dura realtà. Il loro primo impianto di Harrisburg non era stato progettato per estendersi all’infinito e a un certo punto si trovarono con le spalle al muro. Il birrificio cresceva a vista d’occhio ma non abbastanza per soddisfare la più che crescente domanda. Appurato che quella situazione non sarebbe stata sostenibile a lungo decidono di ripensare la loro filosofia pro-

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duttiva e anche il modo di comunicarla. E iniziano a sperimentare. Nuove ricette, nuove tecniche, ingredienti insoliti: ogni birra viene dotata di personalità ed estetica grafica. La primogenita del nuovo corso è l’archetipo della rivoluzione Tröegs. Si chiama Troegenator, è una Doppelbock – ‘ator’ è il suffisso normalmente dato alle birre di questo stile – ed è considerata ancora oggi una delle migliori birre del birrificio. Dopo 15 anni giunge il momento di salutare e ringraziare Harrisburg. Ed ecco che il cioccolato torna in causa: nel 2011 il birrificio si trasferisce a Hershey proprio nella vecchia fabbrica di cioccolato. Mi sono reso conto di essere davanti a un birrificio diverso dal solito già prima di scendere dall’auto: dalla strada principale sono ben visibili i giganteschi maturatori posti all’esterno del birrificio. All’interno le dimensioni colossali non scherzano neppure. Esattamente all’ingresso, dove c’è una vera e propria reception, si trovano i giganti di legno: tre botti colossali delle dimensioni di 300 HL cadauna, le più grandi di tutti

gli Stati Uniti. La ragazza alla reception mi sorride e forse è una fortuna che mia moglie non l’abbia notato. Mi avvicino con disinvoltura e le allungo il mio biglietto da visita, annunciando il mio appuntamento con Jeff Herb, responsabile marketing. Avevo indirizzato la mia email a lui e l’aveva accolta con enorme entusiasmo. La signorina mi invita ad attendere, la mia visita era già stata annunciata. Dopo qualche minuto arriva Jeff: alto, classica camicia di flanella di colore verde e fantasia quadrettata, da vero boscaiolo; occhiali da vista, capelli ricci lunghissimi raccolti in una lunga coda. Un vero rocker, oppure un Roberto Baggio a stelle e strisce. Jeff, già autore del blog The Pour Travelers (antipodo americano di Birramoriamoci), mi ha accompagnato durante il tour del birrificio e di fronte a qualche birra della casa mi ha raccontato la sua storia. Appassionato di musica fin dai tempi del liceo e musicista in numerose band, è poi entrato nel circolo della birra artigianale. Galeotta fu la Wheat Beer della casa. L’assaggio gli ha rivoluzionato le papille gustative. E anche la vita. Jeff ha in-

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terpretato quell’illuminazione come un segno del destino: lascia il suo vecchio (noioso) lavoro nelle telecomunicazioni e invia una candidatura spontanea al birrificio. I tempi devono essere stati azzeccati visto che oggi di quello stesso birrificio Jeff ne è ambasciatore. Nell’enorme capannone trovano posto due sale cotte separate: quella da 100 barili destinata alle birre a produzione stabile ed equipaggiata di hopback – sistema per l’estrazione a caldo dei composti volatili del luppolo – e quella più piccola (15 barili), utilizzata per le birre sperimentali chiamate Scratch Beer Series. Tra i due impianti trovano posto la Barrel Room e la Tasting Room, dove è possibile assaggiare le birre al massimo della loro freschezza. Ci sono anche una cucina, un forno per sfornare pane e derivati e una macelleria, dove vengono preparati alcuni piatti da asporto o da consumare in loco. Tutto viene prodotto internamente fatta eccezione per i Bretzel, dei quali Chris è innamorato e che pretende siano solo ed esclusivamente gli originali. Grande il birrificio, grande la gamma delle birre: 17 le birre stabili, 4 le stagionali e tantissime le speciali. Perpetual IPA è tra le birre di maggiore successo ma la birra di bandiera rimane sempre e comunque la Sunshine Pilsner. Oltre alla linea Scratch ci sono la Splinter, dedicata alle maturazioni in botte, e Hop Cycle, che dà voce al luppolo.

Gli assaggi

La tap room vista da una posizione privilegiata

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Green Beer (Hopback Amber Ale), 6% ABV: si tratta di una birra “verde”, ovvero non completamente maturata e pertanto dal carattere acerbo. Quasi completamente maltata, totalmente priva di carbonazione e con una presenza alcolica esuberante che brucia il palato. Immatura, certo, ma con un potenziale interessante che si evince dall’intensa nota di pompelmo, preludio di quello che sarà il suo carattere amaro a fine maturazione.

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★★★ Juvial, Dubbel, 7%: la ricetta originale è stata realizzata in occasione del matrimonio di Chris. Agli ospiti è piaciuta così tanto da convincerlo a replicarla per il birrificio. Aroma dominato dal caramello con l’abbraccio di zucchero candito e un tocco di frutti rossi (amarene). In bocca è vivacemente carbonata, con l’indice puntato verso il profilo maltato, con note di caramello e accenni di cola. Meno intensa la frutta rossa, in compenso la birra si arricchisce del tocco croccante di nocciola e biscotto. ★★★ Perpetual IPA, 7.5% ABV: l’aroma è un invito a tuffarsi nel bicchiere. Luppolatura massiccia che non pregiudica l’equilibrio. Domina il carattere agrumato, che si riflette nelle note di buccia d’arancia amara e pompelmo. In bocca è virile, addirittura aggressiva, erbacea con un tocco di pompelmo. Finale secco e retrogusto amaro persistente. I malti possono solo accompagnare. ★★★ Sunshine Pils, 4.7% ABV: profumi delicati che coniugano pane e miele da una parte ed erbaceo dall’altra. Delicato anche il sapore, che si divide equamente tra malti (ricco miele) e luppoli (nuovamente erbaceo). Sempre il luppolo caratterizza il sottile ma persistente retrogusto. Una birra deliziosa, dal profilo apparentemente semplice ma dal carattere deciso.

a bevanda. Il finale lascia una punta di sale sulle labbra e la voglia di berne ancora è tanta.

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★★★

Raspberry Bramble Gose (RBG), 4.5% ABV: inconfondibile la presenza dei mirtilli, dal carattere gelatinoso. L’immagine è quella di uno yogurt con topping di frutti di bosco. Meno edulcorata in bocca, dove l’acidità della frutta e quella lattica sono rese più vive da una leggera nota sapida, con i mirtilli che mutano consistenza da gelatina

Troegenetor, Doppelbock, 8.2% ABV: caramello e zucchero candito, con suggestioni vinose di Marsala. Basta il naso per percepirne la consistenza viscosa. Eppure in bocca si insinua agile e snella, qualche bollicina appena, di sensazione tattile vellutata. Ancora una volta caramello e biscotto. L’alcol accompagna l’intera sorsata, fa-

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Mrs. Heinz!

vorendo la chiusura secca e ripulente e invitando a berne con moderazione, dopo aver vuotato il primo bicchiere. Visitare la Troegs Brewery è stata solo la prima di una lunga serie di fortunati eventi. Quella sera io e Jeff abbiamo improvvisato un bottle sharing a casa di un amico homebrewer. Abbiamo stappato di tutto e di più, brindando all’inizio di un’amicizia. Un’amicizia di un solo giorno ma che sarebbe durata tutta la vita. Perché la vita negli Stati Uniti è così, esagerata, più di quella del Blasco.

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L’Oktoberfest che non ti aspetti: Pennsylvania Brewing Company Dalla città di Filadelfia mi sposto verso Pittsburgh. A giudicare da Google Maps le due città sono vicine. Peccato che negli Stati Uniti il concetto di vicinanza è destinato inesorabilmente a fallire. Qui le distanze si misurano in miglia anziché km e mettersi in macchina, qualunque spostamento si consideri, significa anche trascorrere ore e ore nell’abitacolo. In compenso la guida negli Stati Uniti è semplice: basta piantarsi sulla corsia di destra, spingere l’acceleratore fino alla velocità di crociera, inserire il cruise control e godersi il viaggio con una mano sullo sterzo e l’altra fuori dall’abitacolo. La strada corre dritta e inesorabile, fino all’orizzonte. Le corsie sono enormi e non si corre rischio di emozionarsi. Il mito della Mother Road, la famosa Route 66 americana, vive ormai di vecchie glorie, memoria di tempi in cui le strade avevano ben altra forma. Due cose interessanti sulla città prima di procedere alla visita del birrificio. In

Dal menù: maialino arrosto tagliato sottile su un letto di patate fracassate e verdure al vapore

città si trova il Museo della Birra, dove è possibile vivere un’esperienza ludica sulla falsariga della Rock’n’Roll Hall of

Fame. Inoltre ha qui sede il Heinz History Cente, ex fabbrica trasformata in un museo di cinque piani che raccontano

Il fiore all’occhiello della Penn Brewery: le gallerie di pietra sotterranee. Perdonate il caos!

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250 anni di storia dell’azienda Heinz. E guarda caso il birrificio si trova esattamente di fronte a una delle fabbriche dell’azienda del ketchup e dei fagioli in scatola. Arrivo alla Pennsylvania Brewing Company, per gli amici Penn Brewery, in un tiepido primo pomeriggio, in corrispondenza dell’ora di pranzo. Una grande fortuna, cosicché la visita si trasforma nell’occasione per fare una pausa pranzo pantagruelica come solo la cucina tedesca può fare. Ciò che infatti caratterizza Penn Brewery è l’identità tedesca, che si riflette nella gamma birraria, nell’arredamento bavarese e nella cucina opulenta. Non solo: proprio quel giorno il birrificio era in fermento e quella sera sarei stato ospite dell’edizione annuale del tradizionale Oktoberfest. Ciliegina sulla torta? Quella sera ho dormito all’interno dei locali dismessi del birrificio, mentre tutt’attorno la birra scorreva a fiumi. Ma andiamo per ordine.

Il nome Penn Brewery esiste dal 1986 ma è dal lontano 1848 che in questo luogo si produce birra. A quei tempi le famiglie Eberhardt e Ober emigrarono dalla Germania ad Allegheny, successivamente rinominata Pittsburgh, nel quartiere olandese, dividendo lo spazio con colossi dell’industria alimentare del calibro di Heinz. E sono gli stessi dove venne prodotta per la prima volta la Samuel Adams Boston Lager, altra birra che ha fatto la storia della birra artigianale americana. Sebbene nel tempo si siano successe diverse società, gli edifici originali sono rimasti integri, splendidi esemplari di architettura iscritti al registro nazionale degli edifici storici. Al loro interno ci sono ancora gallerie e caverne di pietra, tali e quali alle Keller tedesche, originariamente utilizzate per la maturazione a freddo tipica delle birre a bassa fermentazione – una tradizione che mette radici nella storia antecedente alla rivolu-

zione industriale e all’introduzione del raffreddamento elettrico. In origine era una sola birra, la Penn Pilsner, prodotta presso impianti esterni. Quella stessa etichetta è oggi la birra di bandiera. Nel frattempo sono arrivati un birrificio e un ristorante. La doppia apertura ha reso Penn Brewery il primo brewpub del Pennsylvania dalla buia epoca del proibizionismo. Aperto come birrificio tradizionale e improntato sulle birre a bassa fermentazione, prodotte nel rispetto dell’Editto di Purezza tedesco (Reinheitsgebot), il birrificio ha progressivamente diversificato la sua gamma includendo birre luppolate più affini coi moderni palati americani e birre con ingredienti inconsueti come cioccolato e zucca. Anche la cucina, che comprende tutti i grandi classici teutonici, gioca ad asso raccogli-tutto: ci sono wurstel e schnitzel ma anche pierogi e goulash della cucina dell’est Europa.

Tutti ai posti di combattimento in occasione dell’imminente Oktoberfest

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Nella formazione originale della Penn Brewery c’erano Tom, originario di Georgetown, e Alex, birraio. A loro si è recentemente aggiunto Nick, attuale birraio, altro pezzo di Germania trapiantato negli Stati Uniti, che avrei rivisto qualche giorno più tardi presso la Chestnut Brewery del Missouri. Bisogna invece aspettare il 2009 per l’arrivo di Corey e sua moglie Suzanne, coloro i quali mi hanno fatto da guida nel birrificio. Il brewpub si sviluppa su due ambienti diversi: internamente, in una grande sala su due piani in cui spicca il brillante colore rame dei condotti e dell’impianto, visibile oltre la parete di vetro; all’esterno, intorno all’edificio, dove si trovano il ristorante e il biergarten.

Gli assaggi Come ogni buon Oktoberfest quella sera la birra è andata via a fiumi. Per l’occasione era previsto il pratico formato tanica di plastica, modello Latte Più. Per fortuna sono riuscito a raccogliere qualche appunto di degustazione prima che il misto di stanchezza, sonno ed ebrezza prendessero il sopravvento. ★★★ Birra Oktoberfest, Märzen, 5.5% ABV: colore rame brillante e cappello di schiuma pannosa colore perla. Il profilo organolettico è un tripudio di malti, in particolare frollino, pane tostato e biscotto, con una sfumature di miele. In bocca si insinua agile e snella, scorre come il velluto e prima del commiato lascia briciole di crosta di pane, di consistenza fragrante, assieme a note di caramello, delicata frutta secca (nocciola) e leggero biscotto. Inusuali esteri fruttati, memoria di banana. ★★★ Penn Pilsner, 5% ABV: crea confusione il fatto che, nonostante il nome, la birra di bandiera sia in realtà una Vienna Lager. Giustificato allora il colore ambrato limpido. I luppoli

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tedeschi (Hallertau Perle, Hallertau Tradition) rappresentano il punto di forza. L’erbaceo è la nota di testa, mentre frollino, caramello e crosta di pane occupano il secondo posto. Il sapore è eccezionale. Inizialmente il vibrante erbaceo, poi la carezza del caramello, una combo che lascia sbalorditi. Dopodiché l’erbaceo tornerà tenacemente a conquistare il palato. ★★★ Curl of the Burl, Schwarzbier, 4.9% ABV: in ricetta ci sono malti Pilsner, Munich, Cara, Chocolate e luppoli Perle. Il colore è il classico “falso” nero, di fatto ebano, limpido ma percepibile solo in controluce. Al naso emergono timide tostature (cacao e cioccolato al latte) con accenni di sciroppo di liquirizia. In bocca si risulta morbida e cremosa, meno tostata del previsto e più ricca di note caramellate. Pasta frolla, liquirizia, cioccolato al latte arricchiscono il sorso. Sfumature di luppolo, erbacee e speziate, hanno il compito di bilanciare e ripulire, contrastando la generale dolcezza e regalando freschezza. Il cibo ha giocato un ruolo determinante per farmi calare nella festa. A pranzo uno stufato di carne di maiale con contorno di patate frantumate, a cena un gigantesco wurstel con crauti. Ma la ciliegina sulla torta è stato, come anticipavo, l’alloggio. Corey e Suzanne mi hanno presentato la possibilità di dormire all’interno dell’edificio, nella sua parte storica, inaccessibile al pubblico. Ovviamente ho accettato e quella sera ho dormito beatamente, circondato dai rumori della festa e da birra che continuava a scorrere a fiumi. Mistico! Birre di ottima fattura, magari più edulcorate delle originali della Germania. Una licenza poetica che si può concedere, a fronte del rispetto dell’eredità tedesca. L’abbondante

Il latte che vorrei

Non è un vero Oktoberfest senza wurstel e crauti

impianto maltato è reso digeribile da un livello di attenuazione da manual e il risultato sono birre leggere, facili da bere e oltremodo gustose. Dal Pennsylvania è tutto, o quasi. Dove: 800 Vinial St, Pittsburgh, PA 15212, Stati Uniti ★

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BIRRA & SOCIAL

A cura di Ildegardo & Gambrino

Terza puntata

I peggiori intenditori

DI BIRRA ARTIGIANALE

sui Social

Guida semiseria, a puntate, ai tipici personaggi birrari del cyberspazio Il bambino allargato

Probabilmente il demone ingannatore ipotizzato da Cartesio esiste veramente e deve avere pensato: “come posso annientare ogni possibilità di successo e credibilità per la birra artigianale?” ed essersi risposto “facendovi appassionare un tizio con il palato settato sui gusti di un bambino di otto anni ma con un peso di un quintale e adeguate capacità di assumere liquidi alcolici”. Incarna a suo modo la trasvalutazione dei valori teorizzata da Nietzsche: per lui una birra che ricordi una merendina del discount allo stato liquido è prelibata e beverina e si narra che un giorno abbia detto agli amici più fidati “ieri sera mi hanno spillato una strana birra chiara, leggera e amarognola, mi pare sulla lavagna ci fosse scritto

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Pails o qualcosa del genere, era un po’ troppo evanescente, difficile da mandare giù”. Si nutre solo di cibi in grado di rendere totalmente trasparente la carta oleata e ciò è fonte di cocente preoccupazione per i pub che frequenta e i birrifici produttori delle pigne che tanto ama: i primi temono infatti che non sopravviva abbastanza a lungo per finire le loro scorte di magazzino, i secondi ambiscono a tenerlo in vita almeno fino all’arrivo della multinazionale di turno con il proverbiale assegnone. Esperienza: bassa Competenza: molto bassa Fastidiosità: adiposa Stile Preferito: girella ricoperta Birrificio preferito: Unilever

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O’ birghicche

E’ un po’ l’equivalente italico del tipico Beer Geek americano al quale sembrerebbe evidentemente ispirarsi, per approccio, comportamenti e look (ma, avendone il tempo, sarebbe interessante proporre un ribaltamento di prospettiva: e se fosse stato invece il Beer Geek americano ad essersi ispirato a lui??). Per motivi ancora non del tutto chiari, questo esemplare trova il suo habitat soprattutto in Campania, tra il salernitano e il casertano, anche se permane un importante assembramento capitolino e altri piccoli stanziamenti diffusi un po’ su tutto il territorio. Il personaggio generalmente presenta le seguenti caratteristiche: informatico, cultura medio-alta, modi civili. Infradito, marsupio, borsa frigo a tracolla. Barba e capelli più o meno incolti, occhiale. In genere l’abbigliamento può far pensare a un ex grunge che dopo aver tentato ripetutamente il suicidio negli anni Novanta (sempre fallendo miseramente l’obiettivo) sia finito a svernare in California. Un look oggigiorno piuttosto di tendenza ma che, bisogna dirlo, il nostro ha adottato in tempi non sospetti, in qualche modo prevenendo l’attuale moda hipster tanto in voga oggi proprio in ambito birrario (come tutte le tendenze troppo in anticipo sul proprio tempo, questa intuizione non gli fu purtroppo mai riconosciuta, valendogli persino qualche sberleffo). Lo contraddistingue la decisione, più o meno conscia, ma portata avanti con grande saldezza e rigore, di interessarsi - e

La bella blogger (aka La Dissapora)

Il titolo è effettivamente pleonastico e ce ne scusiamo: una blogger non può che essere bella. Del resto siamo in una società adulta e ogni professionalità richiede una ben precisa specializzazione: se siete bruttine e di lavorare

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pertanto consumare - solo ed unicamente birre non disponibili sul nostro territorio. Il suo maniacale interesse è però rappresentato dalle produzioni super speciali ad edizione limitat(issim)a la cui rarità, paragonabile al Gronchi Rosa di filatelica memoria, le rende leggendarie ed inestimabili, da degustare in stato di trance mistica come fossero il Sangue di Nostro Signore. A questo scopo investe tutto il suo tempo libero, dilapidando interi tesoretti, contendendo ad altri archeologi come lui tali reperti, tra improbabili aste online nel più nascosto deep web e sentendosi come Indiana Jones ad un passo dal Sacro Graal. Quando finalmente riesce ad accaparrarsi una di queste meraviglie corre ad immortalarla su pixel mostrando fiero al mondo la sua impresa, in pose da colonialista britannico nell’Africa di fine Ottocento, troneggiante sulla sua preda esotica dopo il safari. Bisogna però sottolineare la quasi totale assenza di arroganza che caratterizza questi suoi atteggiamenti, quasi sempre motivati invece da una vera passione e caratterizzati semmai dall’orgoglio, magari esagerato e un po’ stucchevole, ma comprensibile e tutto sommato nemmeno poi così fastidioso, del collezionista ossessivo all’ultimo stadio. O’ birghicche infatti ben raramente consumerà queste birre, tanto faticosamente conquistate, in solitaria, si dimostrerà invece generosissimo nel condividere il piacere dell’esperienza gustativa con i suoi simili, dimostrandosi in questo un perfetto anfitrione, motivato dal puro

ed innocente piacere della condivisione. Con questi presupposti se anche, nell’occasione, facesse capolino un pizzico di narcisismo latente, potremmo volentieri concederglielo; quello che può infastidire è piuttosto il fatto che il nostro eroe organizzi questi mini-super-eventi a tiratura limitata quasi sempre nel bel mezzo di grandi festival birrari, tra millanta spine italiane e straniere più o meno ottime, regolarmente schifate a favore del suo frigo portatile delle meraviglie. E tu lo vedi lì, col naso nel bicchiere, in estasi, risvegliarsi ogni tanto solo per raccontare qualche divertente aneddoto sui suoi amici birrai, Kevin dell’Oklahoma o Magnus di Trondheim, e non sai se spernacchiarlo o unirti alla combriccola. Ma, ammettilo, un assaggino lo faresti volentieri...

davvero non vi passa manco per la capa mettetevi l’animo in pace e aspettate il reddito di cittadinanza. Da buona rappresentante del sesso femminile si tratta di un esemplare meno dedito al puro cazzeggio senza fini altri rispetto alla sua controparte maschile, raramentissimamente è quindi motiva-

ta da una qualche passione per il buon bere quanto dal tentativo di farne una professione remunerata. O perlomeno di ottenere “visibilità” (sigh). Più che “giornalista”, professione che ritiene avere ormai gli anni contati, la nostra si considera una sorta di “influencer” nel settore “food/beverage” online,

Esperienza: alta Competenza: media/alta Fastidiosità: media Stile Preferito: Icelandic Geyser Double Frappuccino White Ribes Bourbon Oak Aged Imperial Black koelsch Birrificio preferito: Samuel Adams: ma solo l’Utopia. Non quella “base”, la limited edition brassata in occasione del 100enario del Giorno Della Marmotta della Pennsylvania

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con un piede nel “wine & spirits” (e qua mi fermo prima di essere colto da convulsioni). In genere l’approccio con la birra di qualità avviene in modo tutt’altro che “romantico”: accade che codeste fanciulle (che suddivideremo in due categorie in base al carattere: Cat. A -> graziose e gentili, Cat. B -> provocanti e aggressive), fino al giorno prima impegnate a redigere articoli su scottanti dicotomie quali Cracco vs Oldani, Champagne vs

Il birraio ribelle

Problema: il suo birrificio (o quello per cui lavora) non è tra i più diffusi, noti e apprezzati nella comunità geek anche perché le birre che escono dalla sue grinfie si collocano ad un livello qualitativo che va dal potabile solo se sono già sbronzo all’abominevole. Rischio: le sue birre potrebbero di conseguenza essere massacrate dai recensori seriali da social appartenenti alle varie categorie sopraelencate. Soluzione: il Nostro si accoda ai mammasantissima del web birrario, sposandone appieno qualunque tesi e posizione, che si tratti di mercato della birra,

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Franciacorta, Girella classica vs Girella Ricoperta, Stiletto vs Zeppa, Leggings vs Collant, ricevano dall’editore l’imbeccata che la birra artigianale sta “tirando” parecchio. A questo punto basta un attimo e le giovani si ritroveranno novelle Cappuccetto Rosso in un bosco virtuale infestato da dozzine di lupi (spelacchiati, invero) e senza nemmeno la casa della nonna come possibile approdo. Scordatevi che nel branco vi siano veri gentlemen: i pochi che si comportano da subito con cortesia, pazienza e gentilezza con le influencer del palato, sperano semplicemente di ottenere qualcosina (o meglio: quella cosina) in cambio. Gli altri, i più, dopo una prima fase in cui ne sbertucceranno ogni minima inesattezza invitandole a occuparsi di sambuca o gazzosa, le tollereranno con una simpatia di facciata continuando, in loro assenza, a deriderne le gesta e a stigmatizzare scuotendo la testa l’ostinazione con cui alcune ragazze decidono di interessarsi di birra, una materia a loro giudizio totalmente aliena all’eterno femminino al pari del calcio o dei motori. A questo punto la nostra blogger di Cat. A se n’è già scappata da un pezzo con la

coda tra le gambe e sta probabilmente sfilando a fianco di Asia Argento. Più interessante il destino della Blogger di Cat. B. Determinata a dimostrare professionalità e ad affermare al contempo la propria personalità di femmina grintosa e seducente, nel tentativo di farsi accettare da un tale gruppo di bamboccioni spaventati e, alla lunga, sfiancanti, svilupperà ben presto una sorta di schizofrenia social potenzialmente senza uscita. Il suo carattere forte e poco incline ai dubbi esistenziali le permetterà comunque di realizzare piuttosto in fretta che sta perdendo il suo tempo e supererà agilmente questa fase emigrando verso altri lidi professionalmente più fruttuosi, non disdegnando di riapparire di tanto in tanto per ricordare inequivocabilmente, agli ex compari di chiacchiere birrarie, che possiede ancora delle tette. Esperienza: da bassa a media Competenza: da bassa a media Fastidiosità: da bassa a media Stile Preferito: nessuno in particolare Birrificio preferito: nessuno in particolare

politica o religione, e plaudendoli e reggendo loro la giacchetta quando bastonano qualcun’altro. Geniale, fino al giorno in cui i mammasantissima, non trovando nessun altro da bastonare, incroceranno il suo sguardo. Esperienza: piuttosto bassa Competenza: molto bassa Fastidiosità: acufene Stile Preferito: nessuno, non li conosce davvero Birrificio preferito: il suo, ma in pubblico non lo può dire

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