Rivista Marittima - Settembre 2021

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SETTEMBRE 2021

RIVISTA

MARITTIMA MENSILE DELLA MARINA MILITARE DAL 1868

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SETTEMBRE 2021 - Anno CLIV

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La Marina e la ZEE: attualità della Legge per la difesa del mare Fabio Caffio

Il Mediterraneo risveglia l’Italia. Una ZEE per ricostruire una proiezione regionale 8

Lorenzo Vita


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Sommario PRIMO PIANO

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La Marina e la ZEE: attualità della Legge per la difesa del mare

SAGGISTICA E DOCUMENTAZIONE

74 La navigazione in Dante

Fabio Caffio

Silvestro Sannino

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STORIA E CULTURA MILITARE

Lorenzo Vita

84 Alberto Da Zara. L’eterodossia al comando

Il Mediterraneo risveglia l’Italia. Una ZEE per ricostruire una proiezione regionale

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Fabio De Ninno

Le sanzioni europee alla Turchia nella contesa turco-cipriota della ZEE

Paola Giorgia Ascani

32 La Zona Economica Esclusiva italiana Daniele Antonio Tunno

40 La pirateria marittima nel Golfo di Guinea Francesco Chiappetta

PANORAMICA TECNICO-PROFESSIONALE

52 Oceanic Exclusive Zone Patrol Vessel «for a ZEE

RUBRICHE

dominance»

Walter Andres Canales Herrera, Guglielmo Domini, Marzio Pratellesi

64 Il sistema politico e istituzionale del Giappone Rodolfo Bastianelli

Rivista Marittima Settembre 2021

96 100 107 118 121 124

Focus diplomatico Osservatorio internazionale Marine militari Scienza e Tecnica Che cosa scrivono gli altri Recensioni e segnalazioni 1


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RIVISTA

MARITTIMA MENSILE DELLA MARINA MILITARE DAL 1868

PROPRIETARIO

EDITORE DIFESA SERVIZI SPA UFFICIO PUBBLICA INFORMAZIONE E COMUNICAZIONE DIREZIONE E REDAZIONE Via Taormina, 4 - 00135 Roma Tel. +39 06 36807248-54 Fax +39 06 36807249 rivistamarittima@marina.difesa.it www.marina.difesa.it/media-cultura/editoria/marivista/Pagine/Rivista_Home.aspx

DIRETTORE RESPONSABILE Capitano di vascello Daniele Sapienza

CAPO REDATTORE Capitano di fregata Diego Serrani

REDAZIONE Capitano di corvetta Danilo Ceccarelli Morolli Sottotenente di vascello Margherita D’Ambrosio Guardiamarina Giorgio Carosella Secondo capo scelto QS Gianlorenzo Pesola Tel. + 39 06 36807254

IN

COPERTINA: Nave ORIONE, pattugliatore d’altura della classe «Costellazione», impiegato nella vigilanza pesca, sorveglianza e difesa delle coste e controllo del traffico mercantile marittimo.

SEGRETERIA DI REDAZIONE Primo luogotenente Riccardo Gonizzi Addetto amministrativo Gaetano Lanzo

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COMITATO SCIENTIFICO DELLA RIVISTA MARITTIMA Prof. Antonello BIAGINI Ambasciatore Paolo CASARDI Prof. Danilo CECCARELLI MOROLLI Prof. Piero CIMBOLLI SPAGNESI Prof. Massimo DE LEONARDIS Prof. Mariano GABRIELE Prof. Marco GEMIGNANI C.A. (aus) Pier Paolo RAMOINO A.S. (ris) Ferdinando SANFELICE DI MONTEFORTE

HANNO COLLABORATO: Ammiraglio ispettore (ris) Fabio Caffio Dottor Lorenzo Vita Dottoressa Paola Giorgia Ascani Dottor Daniele Antonio Tunno Contrammiraglio (aus) Francesco Chiappetta Tenente segundo Walter A. Canales Herrera Tenente di vascello Guglielmo Domini Sottotenente di vascello Marzio Pratellesi Dottor Rodolfo Bastianelli Professor Silvestro Sannino Professor Fabio De Ninno Ambasciatore Gabriele Checchia, Circolo di Studi Diplomatici Dottor Enrico Magnani Contrammiraglio (ris) Michele Cosentino Ammiraglio ispettore (aus) Claudio Boccalatte Contrammiraglio (ris) Ezio Ferrante Professoressa Beatrice Benocci Capitano di fregata Gianlorenzo Capano Capitano di fregata Gino Lanzara

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E ditoriale

C

i sia concesso di partire da lontano, anche se il tema, come scoprirà il paziente lettore è, in effetti, di strettissima attualità. Si narra che l’antica Roma non ebbe, all’inizio e per secoli, alcuna vocazione marinara. Dovette apprendere arte e mentalità nel corso delle ripetute guerre mortali contro Cartagine. Così nacque, la «grande strategia» di Roma, tanto per usare la felice espressione del celebre libro di Edward Luttwak, economista e storico statunitense ben noto anche in Italia (1). A scuola, talvolta in maniera svogliata, si manda a memoria senza sforzo il «Navigare necesse est, vivere non est necesse» di Plutarco, riportato nel Vita di Pompeo (diventato Magno, guarda caso, proprio sul mare, risanando in pochi mesi la Repubblica, le sue finanze e la vita del popolo tutto grazie all’efficace tutela dei traffici marittimi contro ogni minaccia, dai pirati fino ai fari, ai segnali e agli ingorghi negli ancoraggi e in banchina). Ma per comprendere e apprezzare il significato vero di quelle poche parole è probabilmente necessaria una seria riflessione e la giusta predisposizione di spirito. A partire dal 30 a.C. cominciò a essere usata l’espressione Mare nostrum unitamente a Mare internum per significare l’intero mar Mediterraneo, tuttavia parlare di Mare nostrum è, ancora oggi, talvolta difficile in seguito al pessimo abuso che si fece di queste due semplici parole durante il noto ventennio del secolo scorso. Eppure sono parole che risalgono a 2000 anni fa e quindi possiamo considerarle — politicamente — del tutto neutre. Di fatto, l’esercizio del Potere Marittimo praticato dalla Marina romana sul Mare nostrum, dalle basi maggiori di Miseno e Ravenna assicurò, per 350 anni, la pace e il progresso a tutti i popoli che gravitavano intorno al Mediterraneo. E proprio il concetto di Mare nostrum è rimasto fondamentale per tutta la storia dell’Impero mentre l’espressione Mediterraneum Mare, è attestata solo dopo la caduta dell’Impero d’Occidente (476 d.C.). Preme qui sottolineare come sul piano giuridico la concezione romana del mare non è «patrimonialistica», in quanto il mare è considerato come un bene — anzi una cosa — comune (res commune) a tutti gli uomini. Anche se il Mediterraneo è lo spazio dove domina Roma e vige la pax romana; è una «pace» fatta anche di norme giuridiche, antesignane e prodromiche del diritto marittimo. Più che definire giuridicamente il «mare», i Romani si sono preoccupati di normare le numerose fattispecie connesse e correlate agli usi marittimi SEGUE A PAGINA 4

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e quindi le varie condotte lecite, inquadrate nelle grandi categorie giuridiche (come il contratto di trasporto, quello di deposito, ecc.). Dunque i Romani si sforzarono di inquadrare le istanze del mondo marittimo in un quadro consolidato di istituti giuridici. Non interessa definire lo «spazio marittimo», bensì le condotte possibili e con esse le eventuali responsabilità degli agenti all’interno di questo. Questi concetti erano chiarissimi agli uomini del passato. Valga per tutti il celebre passo del Digesto (2) promulgato da Giustiniano nel 533 d.C. quando richiama, dandola per scontata, la norma dettata quattro secoli prima dall’imperatore Antonino Pio: «Io sono il signore del mondo terrestre, mentre la legge Rodia (3) lo è del mare (…) La questione sia giudicata secondo la legge Rodia relativa alle questioni marittime, nella misura in cui nessuna legge delle nostre sia a essa contraria». Si tratta, né più né meno, del Diritto internazionale marittimo (4) in base al quale il mare è un «luogo pubblico (…) accessibile», salvaguardando le attività private, dalla pesca al trasporto di beni e passeggeri. Il seme che avrebbe fatto poi germogliare, nel corso dei secoli successivi, il moderno diritto del mare fu gettato dal poliedrico studioso olandese Ugo Grozio, attraverso la pubblicazione nel 1609 del libercolo Mare Liberum, in cui presentava la giurisprudenza per la libertà dei mari, in principio opposto al concetto di Mare closum sull’esercizio dell’autorità nazionale sui mari. Data questa lunga premessa, qual è la situazione attuale? E qual è il ruolo della Marina Militare? La Convenzione internazionale di Montego Bay del 1982 (UNCLOS) ha affermato una volta di più il fatto che le acque internazionali sono uno spazio libero, il «Mare Liberum» di Grozio, ma ha anche sviluppato un ulteriore progresso giuridico precisando il diritto che regola la ZEE (Zona Economica Esclusiva), definita come l’area esterna e adiacente alle acque territoriali nel cui ambito lo Stato costiero ha la titolarità dei propri diritti sovrani (sovereign rights) di esplorazione, utilizzo e conservazione delle risorse naturali, viventi e non, sulla massa d’acqua sovrastante il fondo marino, sul fondo e nel relativo sottosuolo, compresa la produzione di energia dalle acque, dalle correnti, dai venti e, pertanto, anche quanto a installazione e utilizzo di isole artificiali o di strutture fisse a partire dalla ricerca scientifica e dalla tutela dell’ambiente marino (5). La ZEE non può estendersi oltre le 200 miglia dalle linee di base dalle quali sono misurate le acque territoriali di uno Stato. Di fatto, ciò ha comportato per le Marine di tutto il mondo non solo la necessità di difendere la «libertà dell’alto mare» ma anche quella di dover «gestire» congiuntamente le proprie ZEE. Nel Mediterraneo la trasposizione non è tout court. Si tratta di un mare relativamente ristretto in cui si affacciano ben 24 Stati che, fronteggiandosi, non possono esercitare congiuntamente il diritto alle 200 miglia nautiche di cui sopra. Da ciò deriva che, la delimitazione della ZEE tra Stati adiacenti, o che sono posti dalla natura e dalla storia uno di fronte all’altro, dovrà essere regolata a parte mediante accordi redatti sulla base del Diritto Internazionale (6). In Italia, con la Legge 14 giugno 2021, n. 91, è stata autorizzata l’istituzione di una ZEE a partire dal limite esterno del mare territoriale. In base a questa Legge, la correlata ZEE sarà a sua volta istituita da un Decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, su proposta del ministro degli Affari esteri al fine di: «(…) notificare agli Stati il cui territorio è adiacente al territorio dell’Italia o che lo fronteggia» i limiti esterni della Zona. Essi saranno «determinati sulla base di accordi» con detti Stati; nel frattempo i perimetri necessari sono «stabiliti in modo da non compromettere o ostacolare l’accordo finale» (7). In definitiva, per l’Italia gestire la ZEE significa governare in chiave moderna il Mare nostrum, esercitando un appropriato Potere Marittimo in modo da utilizzare, sostenere e proteggere questa delicatissima «porzione pregiata» di mare, compresi i fondali, in maniera responsabile e all’interno di un’adeguata cornice legale rappresentata, in primis, proprio dall’UNCLOS. In pratica, i diritti esclusivi di gestione e utilizzo delle risorse economiche, ittiche e minerarie in parola potranno essere estesi fino a un massimo di 200 miglia dalle coste. Nel contempo, l’Italia dovrà controllare e gestire direttamente le attività e gli impianti connessi all’utilizzo delle forme di energia pulita derivanti dal vento e dalle maree, senza trascurare la tutela dell’ecosistema marino. In quest’ambito la Marina Militare può operare come punto di riferimento nazionale assolvendo, as-

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sieme alle altre amministrazioni dello Stato, i compiti di vigilanza marittima e intervento istituzionali. Tutto ciò è auspicabile che avvenga nella maniera più economica possibile, ovvero ottimizzando l’impiego complessivo di personale, mezzi, sistemi di sorveglianza e procedure, così da assicurare un efficace controllo delle zone economiche a tutela degli interessi nazionali. Si tratta di un approccio che consente di evitare duplicazioni e assicura al meglio il ritorno complessivo degli investimenti del paese tutto. In sostanza, si tratta di capitalizzare l’esperienza inter-istituzionale finora maturata e puntare al miglioramento dell’efficienza e dell’efficacia crescente delle azioni che coinvolgono la dimensione marittima, garantendo un’appropriata condivisione delle informazioni, elemento questo indispensabile per il necessario raccordo delle fasi di pianificazione e di coordinamento operativo tra i diversi attori coinvolti in alto mare, sopra e sotto di esso le onde e nei cieli che le lo sovrastano. Un esempio concreto e recente è senz’altro rappresentato dalle operazioni «Pelagie», che hanno visto collaborare con efficacia, a supporto del ministero dell’Interno, mezzi e centrali operative della Squadra navale, della Guardia costiera e della Guardia di Finanza o l’utilizzo del «Dispositivo interministeriale integrato di sicurezza marittima (DIISM)», alle dipendenze della presidenza del Consiglio dei ministri, durante l’operazione «Mare nostrum» del 2013-14, un progetto partito nel 2007 e in corso di sviluppo, che prevede la fusione in un unico «centro» presso il Comando in capo della Squadra navale (CINCNAV) di tutte le informazioni raccolte in mare anche da parte delle altre amministrazioni dello Stato coinvolte, seppur con compiti circoscritti, nelle attività di pattugliamento entro la zona contigua o in alto mare. In termini molto più sintetici, efficaci e anche eleganti: «Mare nostrum» insieme a «Navigare necesse est, vivere non est necesse».

NOTE (1) E.N. Luttwak, La grande strategia dell’Impero Romano, Milano 1981 (ed. it.). (2) Codificazione realizzata e promulgata, nel 533, da Giustiniano I (imperatore dal 527 al 565). (3) Il brano del Digesto si riferisce alla Lex Rhodia de iactu, legge che fu adottata dai Romani e che fu già commentata alla fine dell’età repubblicana. Tale testo entrò a far parte poi dello stesso Digesto, nel libro XIV. (4) Nel Digesto, un passo del giurista Pomponio (che riprenderebbe Aristone), afferma: «come diventa privato ciò che è stato edificato nel mare, così diventa pubblico ciò che sia stato occupato dal mare» (D. 1, 8, 10). (5) UNCLOS Part V Exclusive Economic Zone. (6) Article 38 of the Statute of the International Court of Justice, in order to achieve an equitable solution. (7) G.U. Serie Generale n. 148 del 23/06/2021. Entrata in vigore del provvedimento: 08/07/2021.

DANIELE SAPIENZA Direttore della Rivista Marittima

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PRIMO PIANO

La Marina e la ZEE Attualità della Legge per la difesa del mare Fabio Caffio

Ammiraglio ispettore (ris), esperto diritto marittimo, collabora con la Rivista Marittima dal 1986. È autore del Glossario di Diritto del Mare, V edizione, supplemento Rivista Marittima novembre 2020; pubblica anche articoli sulle riviste on line Affarinternazionali e Analisi Difesa.

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IL TESTO DELLA LEGGE SULLA ZEE (14 giugno 2021, n.91)

«La sorveglianza del confine (...) della ZEE sarà il primo compito che la Marina dovrà assolvere al fine di evitare conflitti di giurisdizione o appropriazione di risorse nell’ambito della propria missione di “difesa militare dello Stato” sul mare prevista dall’art. 110 del COM». Nell’immagine: la fregata missilistica multiruolo, classe «Bergamini», FEDERICO MARTINENGO (F 596).

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Istituzione di una Zona Economica Esclusiva oltre il limite esterno del mare territoriale Art. 1. (Istituzione di una zona economica esclusiva oltre il limite esterno del mare territoriale) 1. In conformità a quanto previsto dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, fatta a Montego Bay il 10 dicembre 1982, resa esecutiva ai sensi della legge 2 dicembre 1994, n. 689, è autorizzata l’istituzione di una zona economica esclusiva a partire dal limite esterno del mare territoriale italiano e fino ai limiti determinati ai sensi del comma 3 del presente articolo. 2. All’istituzione della zona economica esclusiva, che comprende tutte le acque circostanti il mare territoriale o parte di esse, si provvede con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale, da notificare agli Stati il cui territorio è adiacente al territorio dell’Italia o lo fronteggia. 3. I limiti esterni della zona economica esclusiva sono determinati sulla base di accordi con gli Stati di cui al comma 2, soggetti alla procedura di autorizzazione alla ratifica prevista dall’articolo 80 della Costituzione. Fino alla data di entrata in vigore di tali accordi, i limiti esterni della zona economica esclusiva sono stabiliti in modo da non compromettere od ostacolare l’accordo finale. Art. 2. (Applicazione della normativa all’interno della zona economica esclusiva) 1. All’interno della zona economica esclusiva istituita ai sensi dell’articolo 1 l’Italia esercita i diritti sovrani attribuiti dalle norme internazionali vigenti. Art. 3. (Diritti degli altri Stati all’interno della zona economica esclusiva) 1. L’istituzione della zona economica esclusiva non compromette l’esercizio, in conformità a quanto previsto dal diritto internazionale generale e pattizio, delle liberta� di navigazione, di sorvolo e di posa in opera di condotte e di cavi sottomarini nonché degli altri diritti previsti dalle norme internazionali vigenti.

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La Marina e la ZEE: attualità della Legge per la difesa del mare

I

l 10 dicembre 1982, al termine di una decennale conferenza di codificazione (1), veniva aperta alla firma, a Montego Bay, la Convenzione delle Nazioni unite sul diritto del mare (UNCLOS dall’acronimo inglese). Tra le novità previste vi era l’istituto della Zona Economica Esclusiva (ZEE) (2), estesa sino al limite massimo delle 200 miglia dalle linee di base, in cui lo Stato costiero può esercitare diritti sovrani, per lo sfruttamento delle risorse naturali e la protezione dell’ambiente marino, sulla massa d’acqua sovrastante la piattaforma continentale (3). Qualche giorno dopo l’apertura alla firma dell’UNCLOS, il parlamento italiano approvava la legge 31 dicembre 1982, n. 979 dedicata alla «difesa del mare» (4). Il provvedimento dell’allora ministero della Marina mercantile stabiliva un articolato sistema di misure organizzative e gestionali per la protezione dell’ambiente marino, la prevenzione e il controllo degli inquinamenti, il salvataggio della vita (SAR) incrementando gli assetti del Corpo delle Capitanerie di porto. In aggiunta, affidava alla Marina la vigilanza sulle zone di giurisdizione extraterritoriali con norme la cui vigenza è stata riaffermata dal Codice dell’Ordinamento militare (COM) (5).

La ZEE italiana ante litteram La coincidenza temporale tra l’apGazzetta Ufficiale della Repubblica italiana anno 124o, n. 285 del 17.10.1983 – Decreto 20 provazione dell’UNCLOS e della Legge maggio 1983 del ministero della Marina mercantile, «Caratteristiche tecnico-operative delle navali da adibire al servizio di vigilanza di cui all’art. 2, lett. C) della legge 31 dicembre per la difesa del mare potrebbe essere unità 1982, n. 979, recante disposizioni per la difesa del mare». casuale; in realtà esprime quanto meno Marina che la legge può considerarsi lungimirante. Sela grande attenzione che quarant’anni fa c’era per il condo il combinato disposto degli articoli 2, lett. c) e 9 mare, in un periodo in cui il cluster marittimo italiano della stessa legge è assegnata alla Marina la titolarità aveva ancora il suo referente principale nell’ammidel «Servizio di vigilanza sulle attività marittime ed nistrazione civile della Marina mercantile. economiche, compresa quella di pesca, sottoposte alla Guardando all’oggi, la legge sulla difesa del mare si giurisdizione nazionale nelle aree situate al di là del rivela quanto mai attuale. Il suo impianto in materia di limite esterno del mare territoriale». Le intenzioni del tutela ambientale e SAR delle Capitanerie di porto è, legislatore, a leggere gli atti parlamentari (6), erano ininfatti, ancora valido. Ma è per le funzioni affidate alla

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La Marina e la ZEE: attualità della Legge per la difesa del mare

Le riserve degli Stati Uniti sulle ZEE

centrate sulla protezione dell’ambiente marino. Nel prevedere le attribuzioni della Marina si faceva tuttavia inequivocabilmente riferimento all’esercizio della giurisdizione polifunzionale che è tipica dell’attuale regime della ZEE; questo si deduce anche dal Decreto ministeriale riportato nel Riquadro 1 indicante le caratteristiche costruttive delle unità che sarebbero state costruite con fondi della Marina mercantile ammontanti complessivamente, al tempo, a 120 miliardi di lire: si tratta dei pattugliatori classe «Cassiopea» cui si aggiunsero in anni successivi i due «Sirio» (7).

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Potremmo chiederci a questo punto come mai nei primi anni Ottanta del secolo scorso l’Italia non si fosse dotata della ZEE, nonostante apparisse chiaro che il trend internazionale andava verso questa direzione. Il periodo di riferimento era, tra l’altro, quello in cui era stato emanato il Decreto per dichiarare area di ripopolamento il così detto «Mammellone», nota zona di pesca pretesa dalla Tunisia (8). Come si ricorderà, il nostro Servizio di Vigilanza Pesca (VIPE) per la protezione dei connazionali è attivo sin dagli anni Cinquanta del Novecento (9). Per comprendere quel che accadde allora bisogna considerare che al momento dell’apertura alla firma dell’UNCLOS, il 10 dicembre 1982, aderirono subito 117 Stati, tra cui l’allora Unione Sovietica, la Francia e l’Olanda, ma non Stati Uniti, Gran Bretagna e Italia (10). Le riserve degli Stati non firmatari riguardavano in particolare il regime di sfruttamento dell’area internazionale dei fondi marini (in seguito risolto con una modifica alla Parte IX della Convenzione) e la libertà di svolgimento di attività militari nelle ZEE. In proposito, la posizione statunitense fu chiaramente espressa dal seguente Statement del 10 marzo 1983 emanato dal presidente Reagan in concomitanza con l’annuncio della proclamazione della ZEE statunitense (11): «Gli Stati Uniti eserciteranno e faranno valere i propri diritti e libertà di navigazione di sorvolo su base mondiale in modo coerente con il bilanciamento degli interessi riflesso nella Convenzione. Gli Stati Uniti, tuttavia, non acconsentiranno ad atti unilaterali di altri Stati volti a limitare i diritti e le libertà di navigazione e sorvolo della Comunità (…) Proclamando oggi una Zona Economica Esclusiva in cui gli Stati Uniti eserciteranno i diritti sovrani sulle risorse viventi e non viventi entro 200 miglia nautiche dalla sua costa. All’interno di questa

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La Marina e la ZEE: attualità della Legge per la difesa del mare

zona tutte le nazioni continueranno a godere dei diritti e delle libertà d’alto mare che non sono legati alle risorse, comprese le libertà di navigazione e di sorvolo». Per comprendere la portata di questa Dichiarazione bisogna ritornare agli anni Settanta del secolo scorso, con lo sviluppo nel Sud America e nel Centro Africa del movimento (già iniziato con la Dichiarazione di Santiago del 1952 siglata da Cile, Ecuador e Perù) (12) per la protezione delle risorse di pesca nella fascia delle 200 miglia nautiche. Si capì allora che la posta in gioco era l’erosione della libertà dei mari al di là delle acque territoriali. Il conflitto tra paesi «territorialisti» e paesi «liberisti» come gli Stati Uniti fu composto, nell’ambito del regime delle ZEE disciplinato dall’UNCLOS. La soluzione di compromesso fu un bilanciamento tra i diritti degli Stati costieri allo sfruttamento delle loro risorse e quelli dei paesi terzi aventi titolo al tradizionale libero uso del mare. Di fatto si venne a creare un regime sui generis, la cui ambiguità si riflette nell’UNCLOS (art. 58) laddove si prevede che nelle ZEE straniere gli Stati terzi non possono usufruire di tutte le libertà dell’alto mare (13). Il regime della ZEE non è dunque quello dell’alto mare in quanto mancante di alcune delle libertà relative. Per questo motivo, con riguardo alle ZEE, si fa ricorso alla categoria più generale delle acque internazionali (che comprende anche la zona contigua) mentre si usa l’espressione alto mare per indicare gli spazi marini al di là della ZEE. La prassi degli Stati evidenziò subito la tendenza a interpretare erroneamente la ZEE in forma «territoriale». Il Portogallo, per esempio, emanò la legge 33/1977 in cui stabiliva che nella ZEE dovessero prendersi in considerazione le regole di diritto internazionale «in particolare quelle concernenti il transito inoffensivo», nonostante il richiamo a queste regole, riguardanti le acque territoriali (14), fosse palesemente non pertinente. Di qui la Dichiarazione del presidente Reagan del 1983 che l’amministrazione statunitense pose a base del Freedom of Navigation Program (FON) (15) volto a contrastare, con azioni diplomatiche o operative, le pretese marittime eccessive fondate su un’applicazione impropria di norme e principi del diritto internazionale. Il problema è quello della «Mobilità delle flotte» (si veda Riquadro 2) che è ancora di attualità nel Mar della Cina,

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Il problema del transito delle forze navali nelle ZEE («Mobilità delle flotte») Lo Stato costiero, al di fuori dei poteri, esplicitamente previsti e regolati dall’UNCLOS, non ha il diritto di sottoporre a vincoli, all’interno della propria ZEE, il traffico marittimo internazionale. Gli Stati terzi godono, infatti, della libertà di navigazione e sorvolo e degli «altri usi del mare, leciti in ambito internazionale, collegati con tali libertà, come quelli associati alle operazioni di navi, aeromobili, condotte e cavi sottomarini», a condizione di non intaccare i diritti dello Stato costiero e di osservare le norme da questi emanate nelle materie di propria competenza. Il testo dell’UNCLOS non contiene comunque alcuna norma che legittimi l’adozione di misure che limitino l’uso delle acque della ZEE da parte di navi da guerra straniere. Ciononostante è stato avanzato il dubbio che gli Stati costieri, estendendo in modo strisciante la propria giurisdizione sulla ZEE (fenomeno della creeping jurisdiction), finiscano per dare carattere territorialistico ai propri poteri assimilando, di fatto, la ZEE alle acque territoriali. Da questo punto di vista potrebbero essere ipotizzabili le seguenti restrizioni agli usi militari: — interdire la ZEE a forze navali operanti; — proibire attività di intelligence o di autodifesa; — consentire lo svolgimento di esercitazioni militari previa notifica o autorizzazione; — introdurre, sotto la specie di provvedimenti a difesa della fauna ittica, limitazioni all’addestramento delle forze navali con armi attive; — vietare il transito delle navi da guerra, al di là dei casi previsti dall’UNCLOS, in aree ove sono poste isole artificiali, istallazioni o strutture destinate all’esplorazione, sfruttamento e gestione delle risorse naturali. Tali questioni sono state concettualizzate nell’ambito del problema della così detta «Mobilità delle flotte» che è stato al centro dell’attenzione negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso: alcuni Stati iniziarono infatti — in funzione nazionalistica e anti-occidentale — ad avanzare pretese di preventive notifica o autorizzazione dell’attività svolta da navi da guerra straniere nelle loro ZEE. Espressione eloquente di questa tendenza è la posizione assunta dal Brasile (uno degli Stati più attivi nel processo di codificazione del nuovo diritto del mare) quando, nell’aderire all’UNCLOS nel 1987, ha dichiarato che: «The Convention do not authorize other States to carry out in the exclusive economic zone military exercises or manoeuvres, in particular those that imply the use of weapons or explosives, without the consent of the coastal State». Identico, nel considerare il libero transito di unità militari nelle ZEE come pregiudizievole per la sicurezza nazionale, è l’orientamento dell’India che nel 1995, al momento della ratifica della Convenzione, ha così argomentato: «The Government of the Republic of India understands that the provisions of the Convention do not authorize other States to carry out in the exclusive economic zone and on the Rivista Marittima Settembre 2021


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La Marina e la ZEE: attualità della Legge per la difesa del mare

continental shelf military exercises or manoeuvres, in particular those involving the use of weapons or explosives without the consent of the coastal State». Da ricordare che la posizione indiana è stata anche riaffermata, con riguardo all’incidente della Lexie del 2012, sostenendo l’illegittimità del transito non autorizzato del mercantile con a bordo i nostri NMP (Nuclei Militari di Protezione) antipirateria. Tra l’altro, proprio di recente (7 aprile 2021), la questione è ritornata di attualità quando l’India ha contestato agli Stati Uniti che l’USS John Paul Jones fosse transitato senza autorizzazione nella ZEE indiana del Mar Arabico. Allineate con tali posizioni restrittive sono le Guidelines for Navigation and Overflight in the Exclusive Economic Zone, studio non-binding elaborato dalla Nippon Foudation nel 2005. L’approccio italiano — condiviso da Germania e Olanda che come noi hanno depositato dichiarazioni alle Nazioni unite — è invece netto nel sostenere che nessuna disposizione dell’UNCLOS legittimi la preventiva notifica delle attività navali svolte nelle ZEE straniere.

ove gli Stati Uniti, assieme a un gruppo di paesi alleati, cerca di contrastare con appropriate attività navali le pretese cinesi a territorializzare spazi di alto mare (16). In tale contesto (esacerbato dall’allora Guerra Fredda e dal confronto serrato tra i due blocchi) va collocata la decisione italiana di assumere, anche in linea con i propri obblighi NATO, una posizione conforme a quella statunitense volta a negare valenza territoriale ai diritti esercitabili nelle ZEE. Il nostro paese nel firmare l’UNCLOS nel 1984 e nel ratificarla poi nel 1994, ha infatti dichiarato che: «Lo Stato costiero non gode, secondo la Convenzione, di diritti residuali nella Zona Economica Esclusiva. In particolare, i diritti e la giurisdizione dello Stato costiero in tale zona non includono il diritto di ottenere la notifica di esercitazioni o manovre militari o di autorizzarle». A quegli anni si può far risalire la riluttanza italiana a istituire una propria ZEE, forse motivata dall’esigenza di coerenza nell’affermare la libertà di navigazione (17), ma anche basata sul fatto che la situazione geografica del Mediterraneo, in caso di proclamazione generalizzata di ZEE, avrebbe portato alla scomparsa di qualsiasi spazio di alto mare (18). Questa posizione, mitigata nel 2006 con la disciplina quadro della Zona di Protezione Ecologica (ZPE) (19), terminerà nel momento in cui verrà approvata l’iniziativa parlamentare dedicata a istituire la ZEE.

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La futura ZEE italiana I contorni giuridici della nostra ZEE s’intravedono già. Nel testo del provvedimento di legge approvato dal Senato in via definitiva il 9 giugno 2021, si dice, infatti, che: 1) all’istituzione della ZEE, «che comprende tutte le acque circostanti il mare territoriale o parte di esse», si provvede sulla base dell’UNCLOS con decreto del Presidente della Repubblica; 2) i suoi limiti sono stabiliti per accordo con gli altri Stati o, in mancanza di essi, «in modo da non compromettere o ostacolare l’accordo finale». Un primo accordo bilaterale esiste già ed è quello con la Grecia del 9 giugno 2020 (20), improntato al criterio della coincidenza con il confine della piattaforma continentale; questa soluzione potrebbe essere agevolmente seguita in Adriatico con Albania e Montenegro, oltre che con la Croazia. Più problematico è immaginare un confine meridionale della ZEE che non ostacoli il raggiungimento di accordi definitivi, ma che nello stesso tempo non ci faccia apparire rinunciatari rispetto all’intransigenza dei vicini. Tale limite dovrà purtroppo essere stabilito a titolo provvisorio non essendoci prospettive, a breve, di accordi di delimitazione concordati con Algeria, Tunisia, Malta e Libia (21). Dobbiamo perciò prepararci a confini marittimi la cui effettività andrà vigilata con attenzione in quanto ci potrebbero essere, in caso di sovrapposizione con ZEE straniere, violazioni dei nostri diritti o addirittura «incidenti di frontiera». Scenari del genere potrebbero ipotizzarsi, per esempio, nell’area di sovrapposizione con la ZEE dell’Algeria a occidente della Sardegna (22). D’altronde, di recente, sia il Montenegro sia la Grecia (23) hanno effettuato attività di prospezione in zone di piattaforma continentale aperte alla ricerca sul versante italiano, al di là dei limiti stabiliti da accordo.

La Marina e la ZEE La sorveglianza del confine, sia pur provvisorio, della ZEE sarà dunque il primo compito che la Marina dovrà assolvere al fine di evitare conflitti di giurisdizione o appropriazione di risorse nell’ambito della propria missione di «difesa militare dello Stato» sul mare prevista dall’art. 110 del COM.

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La Marina e la ZEE: attualità della Legge per la difesa del mare

Il secondo compito sarà — come detto, quello, già previsto dal nostro ordinamento quarant’anni fa dalla Legge per la difesa del mare. Vale a dire lo svolgimento del «Servizio di vigilanza sulle attività marittime ed economiche, compresa quella di pesca, sottoposte alla giurisdizione nazionale nelle aree situate al di là del limite esterno del mare territoriale». Le aree della ZEE nazionale saranno molto estese: ai circa 120.000 km2 di acque interne e territoriali vanno, infatti, aggiunti i circa 500.000 km2 di piattaforma continentale e ZEE. Al loro interno, il nostro paese eserciterà diritti sovrani in materia di gestione delle risorse naturali, comprese pesca e rinnovabili, e protezione ambientale. La nostra giurisdizione sarà perciò molto estesa dal punto di vista spaziale e molto articolata in relazione alle varie materie di competenza. Per queste funzioni, la Marina ha tutte le qualità, in termini di capacità alturiere dei mezzi dedicati (che tuttavia andranno incrementati) per sorvegliare la ZEE nazionale. In

aggiunta, va considerato che l’art. 115, 3 del COM stabilisce che: «Ai comandanti delle unità di vigilanza, è riconosciuta la qualifica di ufficiali di polizia giudiziaria ai sensi dell’articolo 57, comma 3, del codice di procedura penale». È ovvio, in ogni caso, che sarà necessario coordinare tali competenze con quelle istituzionali del Corpo delle Capitanerie-Guardia costiera e con quelle della Guardia di Finanza (24). L’assenza di una normativa dedicata ad assicurare l’integrazione tra le attività nella futura ZEE delle varie amministrazioni rischia di causare un approccio dispersivo ai nuovi compiti con sovrapposizione di attività, programmi e competenze. Un efficace modello da seguire è quello previsto dal Regolamento del 2013 della Legge 30 luglio 2002, n.189 (Bossi-Fini) che attribuisce alla Marina il coordinamento delle attività di contrasto dell’immigrazione illegale oltre le 24 miglia dalla costa in ragione delle capacità di comando e controllo allocate presso CINCNAV (25). 8

L’ipotetica futura ZEE italiana (Limes, 2, 2021, 123).

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«Il Regolamento del 2013 della Legge 30 luglio 2002, n.189 (Bossi-Fini) attribuisce alla Marina Militare il coordinamento delle attività di contrasto dell’immigrazione illegale oltre le 24 miglia dalla costa in ragione delle capacità di comando e controllo allocate presso CINCNAV» (nelle immagini: la sede a Roma e la Sala operativa). NOTE (1) Una brillante e chiara analisi, scritta all’indomani dell’apertura alla firma della nuova Convenzione, è in T. Treves, La Convenzione delle Nazioni unite sul diritto del mare, Milano 1983. (2) Secondo l’UNCLOS (articoli 55 e 56) la ZEE è un’area esterna e adiacente alle acque territoriali in cui lo Stato costiero ha la titolarità di diritti sovrani sulla massa d’acqua sovrastante il fondo marino ai fini dell’esplorazione, sfruttamento, conservazione e gestione delle risorse naturali, viventi o non viventi, compresa la produzione di energia dalle acque, dalle correnti o dai venti. Allo stesso Stato spetta anche la giurisdizione in materia di installazione e uso di isole artificiali o strutture fisse, ricerca scientifica in mare e di protezione e conservazione dell’ambiente marino. (3) Lo Stato costiero esercita sulla piattaforma continentale diritti sovrani esclusivi per l’esplorazione e lo sfruttamento delle risorse marine naturali, vale a dire le «risorse minerali e altre risorse non viventi del fondo marino e del sottosuolo come pure negli organismi viventi appartenenti alle specie sedentarie (UNCLOS 77, 4.)». Tali diritti appartengono allo Stato costiero ipso facto e ab initio, nel senso che la loro titolarità non e� né la conseguenza di un atto di proclamazione (come invece previsto per la ZEE) né di un possesso effettivo realizzato mediante occupazione (UNCLOS 77, 3). (4) Testo in https://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:legge:1982-12-31;979. (5) D.LGS. 15 marzo 2010, n. 66 (https://www.difesa.it/Content/Pagine/CodiceOrdinamentoMilitare.aspx). (6) Il provvedimento, d’iniziativa governativa, cominciò il suo iter parlamentare nel 1980, durante la VIII legislatura, come A.S. 853-A. (7) L’art. 8 della legge 30 novembre 1998, n. 413 prevedeva la «costruzione di unità navali di tipologia simile ai pattugliatori classe “Cassiopea”, affidate alla Marina Militare per la vigilanza a tutela degli interessi nazionali, al di là del limite esterno del mare territoriale, e gestite dal ministero della Difesa». (8) La zona riservata di pesca del «Mammellone» fu istituita nel 1951 entro la batimetrica dei 50 metri (cfr. F. Caffio, Il Mammellone, tormentata e discussa zona di pesca, Rivista Marittima, 1988). Il suo regime e� stato fatto salvo dalla Tunisia, con la legge n. 60-2005. Con Decreto ministeriale del 25 settembre 1979 (poi abrogato nel 2010) l’Italia vietò la pesca dei cittadini italiani al suo interno per finalità di ripopolamento ittico. (9) https://www.marina.difesa.it/cosa-facciamo/per-la-difesa-sicurezza/operazioni-in-corso/Pagine/vigilanza-pesca.aspx. (10) T. Treves, op.cit., 9. (11) Presidential proclamation 5030 march 10, 1983 on the EEZ of the United States of America, in https://www.boem.gov/sites/default/files/regulations/Treaties/Presidential-Proclamation-No.-5030-EEZ.pdf. Gli Stati Uniti, benché non aderenti all’UNCLOS, istituirono la ZEE considerandola facente parte del diritto internazionale consuetudinario. (12) La genesi della ZEE si può far risalire alla Dichiarazione di Santiago del 18 agosto 1952 in cui si affermava che: «... the Governments of Chile, Ecuador and Peru proclaim as a norm of their international maritime policy that they each possess exclusive sovereignty and jurisdiction over the sea along the coasts of their respective countries to a minimum distance of 200 nautical miles from these coasts. The exclusive jurisdiction and sovereignty over this maritime zone shall also encompass exclusive sovereignty and jurisdiction over the seabed and the subsoil thereof... ». (13) V. in materia N. Ronzitti, Introduzione al Diritto Internazionale, Giappichelli, Torino 2016, 128 ss. Il testo dell’art. 87, 1 dell’UNCLOS e� il seguente: «1. L’alto mare e� aperto a tutti gli Stati, sia costieri sia privi di litorale. La liberta� dell’alto mare viene esercitata secondo le condizioni sancite dalla presente Convenzione e da altre norme del diritto internazionale. Essa include, tra l’altro, sia per gli Stati costieri sia per gli Stati privi di litorale, le seguenti liberta�: a) liberta� di navigazione; b) liberta� di sorvolo; c) liberta� di posa di cavi sottomarini e condotte, alle condizioni della Parte VI; d) liberta� di costruire isole artificiali e altre installazioni consentite dal diritto internazionale, alle condizioni della Parte VI; e) liberta� di pesca, secondo le condizioni stabilite nella sezione 2; f) liberta� di ricerca scientifica, alle condizioni delle Parti VI e XIII. (14) Il regime del transito inoffensivo nelle acque territoriali è regolamentato dagli articoli 17-20 dell’UNCLOS. (15) V. US Department of Defence Freedom of navigation (FON) Program in https://policy.defense.gov/Portals/11/DoD FON Program Summary 16.pdf?ver=201703-03-141350-380. (16) V. F. Caffio, Il G7 e libertà di navigazione, Rivista Marittima, 5, 2017, 8. (17) Sulla posizione italiana in materia di ZEE in relazione ai compiti NATO, cfr. B. Vukas, The extension of jurisdiction of the coastal State in the Adriatic Sea in N. Ronzitti (ed.), I rapporti di vicinato dell’Italia con Croazia, Serbia-Montenegro e Slovenia, Roma 2005, Luiss University Press, Giuffrè, 251. (18) Cfr. F. Caffio, Come cambia lo status quo degli spazi marittimi del Mediterraneo, Rivista Marittima, n. 3, 2020, 3. (19) Sulle ragioni che hanno indotto l’Italia a istituire la ZPE si vedano le approfondite analisi di U. Leanza, L’Italia e la scelta di rafforzare la tutela dell’ambiente marino: l’istituzione di zone di protezione ecologica, Rivista di Diritto Internazionale, 2006, 2, 309. L’unica ZPE istituita dall’Italia (con DPR 209-2011) è quella del Mar Ligure e Tirreno. (20) Cfr. I. Papanicolopulu, Prime osservazioni sull’accordo di delimitazione tra Grecia e Italia del 9 giugno 2020, 18 giugno 2020, SIDIBlog, in http://www.sidiblog.org/2020/06/18. (21) Cfr. F. Caffio, Non lasciamo ad altri la delimitazione del Canale di Sicilia, Il Mare è l’Italia, Limes, 10, 20, 209. (22) Presidential Decree No. 18-96 of 20 March A.D. 2018, establishing an exclusive economic zone off the coast of Algeria, in https://www.un.org/Depts/los/LEGISLATIONANDTREATIES/STATEFILES/DZA. html. (23) Cfr. J. Gilberto, Metano, sarà sfruttato dai greci il giacimento davanti alla Puglia, Il Sole-24 Ore, 25 settembre 2019. (24) Cfr. le acute osservazioni di A. De Sanctis, La deriva non è un destino, Limes, 3, 2021, 129. (25) Sul modello integrato adottato in materia, v. F. Caffio, Immigrazione clandestina via mare: l’esperienza italiana nella vigilanza, prevenzione e contrasto, Rivista Marittima, supplemento ottobre 2003.

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Il Mediterraneo risveglia l’Italia (*) Lorenzo Vita

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(*) Dottore in Giurisprudenza, ha conseguito il master in Geopolitica e sicurezza globale presso l’Università La Sapienza di Roma e ha seguito corsi di specializzazione sul terrorismo internazionale e le guerre ibride presso la SIOI. Nella redazione de il Giornale e di InsideOver dal 2017, si occupa di politica estera e questioni internazionali. È autore del libro L’onda turca. Il risveglio di Ankara nel Mediterraneo allargato (Historica-Giubilei Regnani, 2021).

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«Il percorso legislativo che ha avuto termine con l’approvazione della legge 14 giugno 2021 n. 91 — che prevede la «istituzione di una Zona Economica Esclusiva oltre il limite esterno del mare territoriale» — rappresenta un momento importante nella rimodulazione dell’impegno italiano all’interno dello scacchiere mediterraneo. Un paese (l’Italia) che non può non avere nell’economia marittima un pilastro della sua agenda strategica». Nell’immagine: unità della Marina Militare in formazione in Mediterraneo.

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Il Mediterraneo risveglia l’Italia. Una ZEE per ricostruire una proiezione regionale

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a delimitazione di una Zona Economica Esclusiva (ZEE) (1) appare oggi un passaggio obbligato nella conformazione della geopolitica mediterranea. E l’Italia, paese che fin troppo spesso dimentica la sua marittimità e la naturale proiezione verso il Mare nostrum, ha compreso questa necessità storica di giungere alla conformazione di una ZEE nazionale. Il percorso legislativo che ha avuto termine con l’approvazione della legge 14 giugno 2021 n. 91 — che prevede appunto la «istituzione di una Zona Economica Esclusiva oltre il limite esterno del mare territoriale» — rappresenta pertanto un momento importante nella rimodulazione dell’impegno italiano all’interno dello scacchiere mediterraneo. Un’ulteriore spinta verso una presa di coscienza collettiva — certificata dalla larghissima maggioranza politica che ha accolto la proposta di legge — su quello che il mare può e deve significare per l’Italia. Un paese che non può non avere nell’economia marittima un pilastro della sua agenda strategica.

Un Mediterraneo «territorializzato» La scelta italiana si incardina in un complesso fenomeno di rinnovata volontà di delimitazione degli spazi sovrani nel Mediterraneo. Una territorializzazione che sta riducendo in modo sensibile aree di alto mare e che fa apparire il nostro bacino di riferimento un mare sempre più contingentato e a rischio di dispute sui diritti di sfruttamento. Il tema è stato percepito con sempre maggiore interesse alla luce dei recenti sviluppi che hanno coinvolto settori fondamentali nella strategia marittima anche se non propriamente legati agli ambiti di applicazione delle Zone Economiche Esclusive. Il mare, un tempo dominio caratterizzato proprio dalla fluidità e dall’assenza di confini, è così destinato a essere considerato uno spazio dove si proietta nel modo più incisivo possibile la sfera di sovranità nazionale. Sovranità che si estende e che supera di gran lunga i limiti delle acque territoriali e che amplia la possibilità di creare non soltanto uno schermo di protezione dei propri interessi nazionali in «alto mare», ma di fare anche in modo che tale area rientri a pieno titolo nella possibilità di uno sfruttamento di tipo economico ed esclusivo. L’Italia non è ancora giunta a questo punto, così come

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la maggior parte dei paesi che si affacciano sul Mediterraneo. La legge 91 del 14 giugno 2021 (2) giugno pone, infatti, le premesse affinché il paese istituisca la propria ZEE. Tuttavia, non va sottovalutato il fattore «psicologico» dato dall’approvazione di questo atto normativo come doverosa presa di coscienza di un fattore marittimo nel panorama politico nazionale. Specialmente se, come sostenuto poc’anzi, questa svolta è messa in parallelo con quanto avviene (o è già avvenuto) nel Mediterraneo, riguardo questa delicata partita geopolitica. La tempistica, quindi, è essenziale per comprendere il ruolo che certe dinamiche possono avere negli equilibri regionali. L’idea embrionale di una Zona Economica Esclusiva — prima ancora che la sua formale istituzione — non è solo il riconoscimento di una marittimità ritrovata in uno Stato che fin troppo spesso non ha compreso le proprie fondamentali prospettive mediterranee. Proclamare una ZEE — o comunque iniziare a intavolare negoziati bilaterali in funzione di essa — comporta, infatti, la scelta di uno Stato di porsi non nell’ottica di attesa, ma di proposizione. Una spinta propulsiva, seppure in una fase iniziale, che esprime la volontà di costruire nuovi rapporti in un mare in fermento. Una regione in cui potenze piccole o medie, in ascesa o già ben definite e stabili, hanno fatto della Zona Economica Esclusiva un punto centrale della propria agenda marittima.

La svolta algerina e l’assertività turca È importante sottolineare che, almeno fino allo scorso decennio, la situazione mediterranea sul fronte delle delimitazioni marittime e dei diritti sovrani appariva abbastanza cristallizzata, frutto in particolare di una progressiva definizione delle aree di protezione della pesca. Molti paesi rivieraschi avevano già concluso accordi e delineato le proprie aree sovrane nel campo ittico e per la protezione ambientale. Inoltre, la via della ZEE presuppone una formula talmente ampia e unilaterale e richiede uno spazio geografico di proiezione talmente ampio (200 miglia dalla linea di base e quindi 400 da una costa all’altra) che è sempre apparso complicato muoversi con proclamazioni a rischio di dispute infinite. La necessità di un continuo dialogo sugli accordi per proclamare le Zone Economiche Esclusive ha così delineato i rapporti regionali, almeno su questo specifico tema, in

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l’istituzione di una Zona Economica Esclusiva affiora una sorta di «pax mediterranea» (e soprattutto europea) nei rami del Parlamento anche per questa svolta norin attesa di accordi su base bilaterale o regionale. dafricana che è apparsa, agli occhi di molti osservatori, Le vicende hanno subito un’accelerazione — e un come un campanello d’allarme. La scelta di un partner repentino cambiamento nella percezione globale — fondamentale per il sistema-Paese di realizzare una degrazie alle azioni di due paesi, Algeria e Turchia, e con limitazione che potesse potenzialmente ledere i diritti una serie di altre operazioni diplomatiche che hanno italiani ha innescato una reazione ampia ed eterogena. coinvolti i paesi del Levante. Questi due Stati, in parQuestione che è diventata poi centrale fino all’approticolare, hanno iniziato a costruire (o ricostruire) una vazione della proposta di legge del 2021. propria politica marittima che, tra i vari capitoli del L’importanza delle ZEE, e quindi le implicazioni di programma, partiva anche dalla Zona Economica queste aree sovrane nell’equilibrio del Mediterraneo, è Esclusiva. La ZEE è diventata pertanto emblema non apparsa particolarmente rilevante se unita alle dinamiche solo dalla possibilità di disegnare nuove sfere di sovradel quadrante che va dall’Egeo al Levante. Negli ultimi nità, ma anche di manifestare un’ascesa politica in un anni, la miscela di scoperte di idrocarburi nel Mediterracontesto marittimo tornato a essere turbolento. neo orientale, logiche di potenza, desiderio di sfruttare le Per quanto riguarda l’Algeria, va ricordato, in particorisorse marine e gestione delle infrastrutture che solcano lare, che la sua svolta marittima ha avuto una peculiare quelle acque, hanno provocato una netta riscoperta della incidenza proprio sull’Italia. Algeri, senza avere prevenvocazione marittima dei paesi rivieraschi. E quello che tivamente trovato un accordo con Roma, ha istituito una appariva come un bacino critico esclusivamente per la ZEE che, come ricordato da Analisi Difesa, «lambisce le sua appartenenza a un Medio Oriente incendiato dalle aree costiere della Sardegna occidentale, estendendosi «endless wars» (4) o come luogo di incontro e scontro sino nord-ovest del Golfo di Oristano in prossimità delle tra superpotenze, è diventato un mare inquieto anche per acque territoriali di Sant’Antioco, Carloforte, Portovedinamiche eminentemente regionali. sme, Oristano, Bosa ed Alghero, con una cuspide (punto Il fenomeno della delimitazione e dello sfruttamento di coordinate 40°21’31’’N-06°50’35’’E) distante circa delle ZEE si è dunque acceso in un’area già critica, in 60 miglia dalla costa della Sardegna e almeno 195 micui si sono innestati profili di natura giuridica, econoglia da quella algerina» (3). Parliamo dunque di uno specchio d’acqua particolarmente vasto, molto al di lì dei limiti che imporrebbe una soluzione egualitaria della ripartizione, e che per anni è stato al centro di trattative tra Roma e Algeri per raggiungere un accordo che mettesse in sicurezza i diritti italiani. Una scelta che aveva preoccupato anche la Spagna, posto che l’area delimitata e pretesa dal governo algerino si estende anche in prossimità delle isole Baleari. La mossa algerina ha in ogni caso avuto il merito di portare nel dibattito politico italiano un tema che è sempre apparso colpevol- «Negli ultimi anni, la miscela di scoperte di idrocarburi nel Mediterraneo orientale, logiche di potenza, di sfruttare le risorse marine e gestione delle infrastrutture che solcano quelle acque, hanno promente secondario. Tanto è vero che desiderio vocato una netta riscoperta della vocazione marittima dei paesi rivieraschi» (Fonte immagine: pixabay.com). l’iter legislativo della proposta per

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quello dell’esplodere delle tensioni con la Grecia come risposta di Ankara alla delimitazione delle acque accolta dalla comunità internazionale. Un disegno che, secondo la Turchia, accoglierebbe solo le tesi greche e che sarebbe certificato dalla circolazione della cosiddetta «Mappa di Siviglia» nei corridoi di Bruxelles (6). La mappa, che ha un carattere sostanzialmente accademico e soprattutto ipotetico, ha acceso da subito le preoccupazioni di molti accademici e strateghi turchi legati alla dottrina della Patria Blu. Questo poiché, in base allo studio spagnolo, la ZEE di Ankara sarebbe stata riconosciuta solo per una minima area a sud del Golfo di Antalya. Progetto che, a detta della Turchia, e non senza alcuna ragione, non teneva in considerazione l’estensione delle coste turche rispetto a quella delle piccole isole elleniche lontane dal continente. La Zona Economica Esclusiva si è così trasformata nel perno di una rivendicazione turca di più ampio respiro. Sotto il profilo interno, il presidente turco ha invece potuto utilizzare la questione marittima per illustrare una nuova idea di nazione che partisse dalla volontà di vedere riconosciuto ciò che considera non una pretesa, ma un diritto. Nei rapporti con l’Unione europea, Ankara ha potuto utilizzare questo strumento per manifestare una certa delusione nelle relazioni con Bruxelles rievocando negoziati arenati da tempo. Infine, a livello più propriamente marittimo, l’improvviso interesse per la ZEE non ha soltanto scatenato una corsa alla ricerca nei fondali e all’accaparramento di risorse presenti, ma anche a una nuova presa di posizione nei rapporti internazionali che si basava su un piano di riscoperta della Marina e di riarmo navale. La Repubblica turca ha intuito così che la delimitazione di questi nuovi confini sarebbe stata decisiva per ricostruire vecchie alleanze e crearne di nuove. Di qui la nascita di una vera e propria diplomazia «La svolta marittima di Ankara — la cui vocazione terrestre ha più volte prevalso su una storia in cui il delle ZEE che ha condotto a risulmare ha avuto un peso specifico non secondario — è stata particolarmente rilevante negli ultimi anni con tati controversi e che ha acceso real’interesse di Recep Tayyip Erdogan verso l’Egeo e il Levante» (Fonte immagine: pixabay.com). zioni piccate soprattutto dai mica, politica e militare che hanno investito tutto il Mediterraneo allargato. E un paese, in particolare, ha riacceso il dibattito unendolo a una riscoperta diplomatica e militare della propria marittimità: la Turchia. La svolta marittima di Ankara — la cui vocazione terrestre ha più volte prevalso su una storia in cui il mare ha avuto un peso specifico non secondario — è stata particolarmente rilevante negli ultimi anni con l’interesse di Recep Tayyip Erdogan verso l’Egeo e il Levante. La dottrina nota come Mavi Vatan, e cioè la Patria Blu, si è imposta nel panorama politico turco — almeno fino agli inizi del 2021 (5) — inserendo nel dibattito pubblico elementi di stampo marittimo che sembravano difficilmente imponibili nel sistema politico anatolico. E, pur con le oscillazioni tipiche della storia recente della Repubblica turca, spesso investita da turbolenze in grado anche di modificare le linee strategiche intraprese poco prima, quello che sembra evidente è che la riscoperta della proiezione nel mare rappresenti un anello di congiunzione del mondo kemalista e di quello neo-ottomano. Sintesi che confermerebbe pertanto una nuova e sistematica attenzione della Turchia verso il Mediterraneo. La certificazione di questo complesso meccanismo di risveglio dell’attrazione verso il mare ha avuto due momenti di particolare importanza per la stabilità regionale. Il primo momento può essere considerato

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governi di Atene, Nicosia e di tutti gli Stati dell’Unione europea preoccupati dall’assertività turca. Il «turning point» di questo processo di individuazione delle Zone Economiche Esclusive come termometro dell’interesso turco per il Mediterraneo si è avuto con il contestato accordo con il Governo di Accordo Nazionale libico guidato da Fayez al-Sarraj (7). L’iniziativa di firmare un patto con Tripoli sulla ZEE è stata la manifestazione di un doppio obiettivo della Turchia tra Mediterraneo e Nord Africa. Da un lato, esso ha rappresentato il segnale più eloquente di un rapporto consolidato nel corso della guerra di Libia in cui la Turchia si è imposta come alleato principale del governo di Tripoli fino a essere quasi il protagonista (o il regista) del conflitto. Dall’altro lato, la svolta sulla ZEE è stato un segnale di avvertimento erga omnes che ha manifestato il desiderio di Ankara di non rimanere ferma alla prossimità delle sue coste, chiarendo la centralità di questo strumento giuridico alla luce delle scoperte energetiche e della rinnovata importanza del Mediterraneo centrale ma soprattutto orientale. Come confermato anche dall’analisi dell’International Crisis Group, «la Turchia ha cercato a lungo questo accordo come uno strumento fondamentale per iniziare a ridisegnare i confini marittimi nel Mediterraneo orientale e mitigare quelli che considera vantaggi sproporzionati dovuti a due dei nemici storici di Ankara: la Grecia e la Repubblica di Cipro» (8). Quindi, l’accordo sulla ZEE segna la creazione di una sorta di avamposto di interesse: uno schermo protettivo per spostare nel Mediterraneo centrale il focus sul Mediterraneo orientale. La firma del memorandum d’intesa turco-libico si basa su una metodologia che si potrebbe definire arbitraria, anche se in realtà è insita nella stessa idea di ZEE come definita nell’ordinamento internazionale. I delegati libici e turchi hanno predisposto un accordo che congiunge le due Zone Economiche Esclusive in un’area poco a sud dell’isola di Creta senza tenere conto sia di quest’ultima isola greca, sia di tutte le isole elleniche che rientrano nella ZEE rivendicata dai turchi (9). Con questa delimitazione, Libia e Turchia hanno quindi scalfito lo status quo del Mediterraneo. E quello che appariva come un mare cristallizzato si è rivelato un mare estremamente più dinamico e meno stabile,

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non più fondato sulla prassi compassata della burocrazia europea. Una svolta che ha dimostrato come fosse impossibile reagire in modo chiaro, sotto il profilo legale e coercitivo, a una rivendicazione che è frutto di un atto spontaneo incontrollabile (se non condannabile a livello diplomatico). E che necessitava — come unica reazione e come unico modus operandi — di uno scatto da parte dei paesi rivieraschi, Italia compresa.

Il campanello d’allarme e la scelta italiana Percorrere la storia più recente delle ZEE mediterranee aiuta a comprendere le motivazioni anche geopolitiche dietro la legge del 2021. L’immagine scaturita dalle mosse di molti attori rivieraschi è quella di una realtà mutevole e caratterizzata da una rinnovata assertiva. Uno scenario che non teneva particolarmente conto dei tempi e delle liturgie della diplomazia europea, imponendo invece un’agenda attiva che aveva (per certi versi anche paradossalmente) un suo fondamento giuridico (10). Questo non si traduce naturalmente nell’assegnare alle mosse di tutti i paesi un valore cogente, né riconoscere in esso il rispetto delle logiche del diritto internazionale. Tuttavia, bisogna in ogni caso riflettere sulla natura più diplomatica e politica che strettamente giuridica della proclamazione di una Zona Economia Esclusiva. Come spiegato da ampia dottrina in materia, la definizione delle ZEE è un atto tanto incisivo quanto privo di caratteri ben delineati. Partendo dalla definizione generale, che identifica la Zona Economica Esclusiva in una «porzione di mare adiacente alle acque territoriali, che può estendersi fino a 200 miglia dalle linee di base dalle quali è misurata l’ampiezza del mare territoriale», essa altro non è che la proclamazione di un’area i cui effetti non derivano solo dalla sua formale proclamazione, ma, in un mare come il Mediterraneo, anche in base al riconoscimento che le viene dato dai paesi frontisti (11). La peculiarità delle Zone Economiche Esclusive impone quindi una riflessione di tipo politico. La proclamazione di queste aree — e la produzione di effetti concreti — nasce da esigenze politiche ed economiche che esulano dal campo legale per entrare in quello diplomatico. Motivo per il quale la Turchia, tornando all’esempio precedente, pur muovendosi in un’ottica

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estranea alla prassi europea, non ha commesso un gesto del tutto infondato in punta di diritto, quanto un atto sui generis a livello diplomatico (12). Lo stesso dicasi delle modalità con cui l’Algeria, attraverso il Decreto presidenziale del 2018, ha optato per la delimitazione di un’area estesa dalle Baleari fino alle coste nord-occidentali della Sardegna (13). Quello che risulta chiaro, pertanto, è che a una logica strettamente giuridica si deve opporre una strategia di natura diplomatica, fondata su un equilibrio di intese e regole incardinate nella UNCLOS ma anche nelle relazioni politiche instaurate con i paesi vicini. È l’idea stessa di interesse nazionale, di inserimento in una logica di buon vicinato, e di come si impostano i rapporti regionali a fondare la proiezione nella ZEE più che la gabbia legale che la delimita. La conformazione della legge per l’istituzione di una Zona Economica Esclusiva impone, proprio per questo motivo, una duplice riflessione. Da una parte essa inquadra la creazione di quest’area come espressione di sovranità nazionale sul mare. Quindi, come mossa che anticipa quelle altrui o le limita a tutela delle proprie prerogative. Dall’altra parte, l’impianto legislativo rivela l’auspicabile desiderio di trovare accordi che evitino la proclamazione di una ZEE solo sulla carta o foriera di lunghi e pericolosi contenziosi. A questo proposito, è la stessa legge a investire nei canali diplomatici a disposizione, prevedendo all’articolo 1 comma 3 che «i limiti esterni della Zona Economica Esclusiva sono determinati sulla base di accordi con gli Stati di cui al comma 214, soggetti alla procedura di autorizzazione alla ratifica prevista dall’articolo 80 della Costituzione. Fino alla data di entrata in vigore di tali accordi, i limiti esterni della Zona Economica Esclusiva sono stabiliti in modo da non compromettere o ostacolare l’accordo finale». Di qui l’importanza di comprendere i rapporti di forza nell’area mediterranea per giungere ad accordi che facciano sì che la ZEE sia effettiva. Zona che, presupponendo l’accordo con gli Stati di «confine» e soprattutto prevedendo procedure che evitino la compromissione dell’accordo finale, si basa sul favorire il dialogo in sede internazionale e presuppone la comprensione dei complessi meccanismi politici mediterranei.

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Una trama di buon vicinato La proclamazione della ZEE corre perciò in parallelo con i rapporti internazionali che l’Italia deve costruire. E necessita di questi legami proprio per diventare effettiva. Questa condizione presuppone, pertanto, anche l’analisi dei singoli scenari dei paesi che si affacciano sullo stesso mare e che rivendicano altrettante aree. Ed è chiaro che non è possibile parlare di una singola Zona Economica Esclusiva senza fare riferimento ad accordi più o meno bilaterali che di volta in volta possono comporre il singolo tassello del mosaico. Per quanto concerne l’Adriatico, per esempio, esistono trattative già da tempo avviate con Croazia e Slovenia. Il recente vertice tra il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, l’omologo sloveno Anže Logar e l’omologo croato Gordan Grlić Radman, per formulare una dichiarazione congiunta sulla cooperazione nel settore Nord Adriatico è un segnale che va precisamente in questa direzione. Così come in questa direzione andava l’incontro precedente, tenuto a dicembre del 2020 a Trieste, in cui era stato ribadito il potenziamento della cooperazione trilaterale anche «alla luce delle informazioni condivise dall’Italia e dalla Croazia in merito alla loro intenzione di proclamare una Zona Economica Esclusiva nell’Adriatico» (15). Per quanto riguarda sempre l’Adriatico e il mar Ionio, in attesa dell’attivazione del Montenegro, esistono già accordi con Albania e Grecia che sembrano non destare particolari ambiguità o tensioni. Stesso discorso vale per Francia e Spagna, che appaiono allineate su un percorso di progressivo e reciproco riconoscimento futuro delle zone di esclusività. La questione si fa più complessa nell’elaborazione delle ZEE nel Mediterraneo centrale e, in generale, con i paesi del fronte sud del Mare nostrum. Algeria, Malta, Tunisia e Libia rappresentano, infatti, paesi estremamente importanti, cui l’Italia è legata da vincoli non solo puramente geografici ma anche economici e strategici, e che allo stesso tempo possiedono ognuno una propria peculiarità e un’autonomia tale da non poter parlare di un problema regionale né unitario. Dialogare con il singolo paese necessita di un’ampia conoscenza dei rapporti con quello Stato e della realtà che in questo momento caratterizza anche i rapporti bilaterali sotto il profilo marittimo. Dei rapporti con l’Algeria abbiamo già parlato in ri-

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ferimento al decreto del 2018. Orbene, l’Algeria ha sempre affermato la necessità e la volontà di instaurare un dialogo con l’Italia per arrivare a un accordo. Tuttavia, è opportuno considerare come il governo algerino abbia comunque proposto, in via prioritaria, una ZEE che si fonda su un parametro del tutto differente da quello prefigurato dall’attuale normativa italiana. Cosa che potrebbe rendere più complicato il raggiungimento di un accordo alla luce delle pretese già espresse dalla controparte. La ratio sottesa alla legge italiana è, infatti, votata al rapporto di buon vicinato: la normativa ritiene sempre preferibile basarsi su intese che evitino di distogliere dal risultato finale o che lo compromettano. Diverso, invece, sembra l’obiettivo di Stati costieri che appaiono intenzionati — almeno in via principale — a proporre una spartizione che sia vantaggiosa solo da un lato, in attesa di accordi futuri. Di qui la necessità di ribadire che, al netto della questione giuridica, ciò che non va dimenticato sul tema ZEE è che esso richiede prima di tutto una fitta trama diplomatica. Non è la ZEE a poter essere la base legale per i rapporti internazionali, ma può essere, al contrario, un’area disegnata grazie a una diplomazia attiva e sostenuta su più livelli. Questione diversa, ma per certi versi non meno complessa, è la definizione delle ZEE con Malta. Se, infatti, Roma e La Valletta hanno relazioni stabili e fondate sulla coesistenza all’interno dell’Unione europea, è naturale chiedersi fino a che punto l’isola sia disposta a trattare in un settore come quello marittimo così delicato e spesso frutto di incomprensioni. L’esempio della definizione e del modus operandi del governo maltese nell’ambito dell’area SAR (Search and Rescue) è, a tal proposito, un’indicazione chiara sull’importanza che la Valletta assegna al tema della delimitazione delle aree in mare di proprio interesse. A molti osservatori non è sfuggita la scelta maltese di predisporre un’area SAR apparentemente sproporzionata rispetto all’estensione dell’isola e ai mezzi a disposizione delle autorità per episodi in cui è previsto l’intervento delle squadre di soccorso. Tuttavia, questo «eccesso di zelo» non ha mai limitato le rivendicazioni del governo isolano, che si connota da sempre per un’autonomia singolare confermata anche dai rapporti instaurati con Turchia e governo libico. Rapporti spesso differenti anche rispetto a quelli impostati in sede europea.

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Proprio perché bisogna riflettere su una politica «caso per caso» e non definita da una regola comune, è importante comprendere anche come potrebbe comportarsi l’Italia con la Tunisia. Caso peculiare soprattutto per i rapporti che già intercorrono sul fronte marittimo tra i due Stati. Con l’Italia esiste un accordo, quello del 1971, che può essere utilizzato come base per la divisione delle rispettive aree di esclusività. Ma rischia di mettere in moto meccanismi di revisione complessi. L’ammiraglio Fabio Caffio, in un articolo apparso sulla rivista Limes, ricorda come in quell’accordo l’Italia, «accogliendo le pretese della controparte, ha riconosciuto un solo miglio di piattaforma continentale a Pantelleria oltre le sue acque territoriali, negando invece ogni spazio aggiuntivo a Lampedusa e a Linosa. In questo modo abbiamo accettato, per motivi contingenti (la Tunisia ci consentì allora di pescare per 8 anni nelle sue acque territoriali), una frontiera marittima vicinissima alle Pelagie; in alternativa, avremmo potuto pretendere una mediana tra esse e le coste tunisine che spartisse equamente anche l’area sovrastante della zona di pesca del “Mammellone”» (16). Partendo da questa delimitazione, l’Italia dovrebbe tentare di ritrattare confini che, con i diritti riconosciuti in ambito ZEE, rischiano di assumere un valore totalmente diverso. Soprattutto se paragonati all’attuale importanza economica dei diritti di pesca in quell’area. Un’ipotesi su cui si deve ragionare senza tralasciare il momento storico che caratterizza l’asse Roma-Tunisi. Alla luce dei recenti avvenimenti politici tunisini, alla fragilità economica del paese e alla instabilità che contraddistingue la regione, il rapporto tra Italia e Tunisia è solido ma non privo di ostacoli. Il profilo marittimo, caratterizzato in questi anni soprattutto dalla gestione del fenomeno migratorio e dal contrasto al traffico di esseri umani, risulta essenziale nelle relazioni tra i due Stati. Ma non va sottovalutato, specialmente per gli equilibri economici e politici, la difficoltà di un qualsiasi esecutivo tunisino ad accogliere richieste italiane che rivalutino accordi vantaggiosi per Tunisi. Infine, il nodo libico. La partita delle ZEE nel Mediterraneo centrale ha una valenza geopolitica in cui la Libia assume un ruolo centrale, come visto dall’accordo turco-libico. La firma del memorandum tra Ankara e Tripoli ha dimostrato come l’importanza di queste aree

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di sovranità nell’«alto mare» abbia già investito un paese fragile come quello nordafricano. Se quindi può sorprendere che un governo che vive una situazione difficile, dia ampio spazio a un accordo sulla Zona Economica Esclusiva, la sorpresa non deve essere enorme alla luce della partita geopolitica in corso. Da una parte, c’è un chiaro interesse di altre nazioni (Turchia, Malta e paesi limitrofi) a creare un’intelaiatura di rapporti con la Libia che abbia il mare al centro degli interessi reciproci. D’altra parte, proprio per questa corsa alla ZEE libica e ad altri accordi, l’Italia può tentare di inserirsi in questa partita per blindare le relazioni con il governo libico prima che altri Stati possano dettarne l’esclusione. L’Italia potrebbe giocare d’anticipo proponendo al governo nordafricano una bozza di accordo che contempli una linea di confine comune. Mossa che rafforzerebbe i rapporti con la Libia dopo che le influenze esterne e gli errori commessi dal nostro stesso paese hanno provocato un rapido (e apparentemente inesorabile) allontanamento di Roma da quell’area così vitale per la strategia nazionale. Un patto sulla ZEE, proprio per questa influenza ormai oscurata di Roma, fornirebbe l’immagine di un’Italia con le armi giuste per estendere i rapporti con il governo di Tripoli e con le altre fazioni anche in chiave di futura transizione e auspicata normalità. La proposta, inoltre, darebbe modo anche di consolidare una sorta di road-map italiana sul fronte marittimo che servirebbe anche a distendere i rapporti in questo particolare frangente. Ipotesi che potrebbe servire anche per evitare in«La territorializzazione del mare è un fenomeno che non ammette perdite di tempo ma che è soprattutto uno dei principali motori delle scelte strategiche in ambito marittimo». Nell’immagine: l’unità ausiliaria per il supporto logistico VULCANO (A 5335) e, nella pagina accanto, la fregata missilistica BERGAMINI (F 590) prima unità in versione multiruolo, vista da elicottero.

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cidenti come quelli avvenuti tra la marineria nostrana e le autorità e milizie libiche davanti Misurata e Bengasi.

Una vocazione da riscoprire In base a queste premesse, la definizione della ZEE italiana diventa pertanto un’opportunità che non può essere sottovalutata. La territorializzazione del mare è un fenomeno che non ammette perdite di tempo ma che è soprattutto uno dei principali motori delle scelte strategiche in ambito marittimo. Scegliere di costituire una propria area sovrana è una presa di coscienza di una realtà già in atto e da cui l’Italia non può rimanere esclusa senza subire ripercussioni difficilmente quantificabili. Sia a livello economico che a livello politico e strategico. Ma questa scelta, per Roma, potrebbe anche essere un presupposto utile a riattivare un’ampia rivisitazione e rafforzamento della rete di relazioni mediterranee. E questo può avvenire sia utilizzando i canali dell’Unione europea, sia rielaborando una strategia nazionale che si fondi sulla (ri)scoperta del cosiddetto «estero vicino». Dai Balcani occidentali al Mediterraneo centrale, la politica italiana ha l’opportunità di rafforzare il proprio status alla luce di accordi che sono necessari dal punto di vista giuridico, ma che servono soprattutto come potenziale frutto di una nuova diplomazia nel Mare nostrum. La ZEE, in ultima analisi, non è solo un punto di arrivo, ma una piattaforma legale e politica utile a ripristinare quella marittimità che per l’Italia è essenziale sia in chiave strategica che più concretamente economica. E che non riguarda solo l’orientamento del sistema-Paese per sfruttare le opportunità del Secolo Blu, ma che serve anche come volano per una riscoperta della proiezione regionale dell’Italia. 8

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NOTE (1) In base alla definizione presente in Caffio F., Glossario di Diritto del Mare. Supplemento alla Rivista Marittima, novembre 2020, Ufficio Pubblica Informazione e Comunicazione, per ZEE si intende «un’area esterna e adiacente alle acque territoriali in cui lo Stato costiero ha la titolarità di: diritti sovrani (UNCLOS 56, 1, (a) sulla massa d’acqua sovrastante il fondo marino ai fini dell’esplorazione, sfruttamento, conservazione e gestione delle risorse naturali, viventi o non viventi, compresa la produzione di energia dalle acque, dalle correnti o dai venti; giurisdizione (UNCLOS 56, 1, (b) in materia di installazione e uso di isole artificiali o strutture fisse, ricerca scientifica in mare e di protezione e conservazione dell’ambiente marino. La zona economica esclusiva (ZEE) può estendersi sino a 200 m dalle linee di base dalle quali è misurata l’ampiezza delle acque territoriali». (2) https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2021/06/23/21G00103/sg. (3) https://www.analisidifesa.it/2020/03/zona-economica-esclusiva-algeri-si-impegna-a-discuterne-con-roma. (4) La guerra «senza fine» è un concetto coniato per definire quello stato di guerra duraturo e privo delle condizioni necessarie per giungere a una conclusione. L’idea è stata utilizzata negli ultimi anni soprattutto per criticare i conflitti in cui sono coinvolte le Forze armate statunitensi e dove non è presente un nemico convenzionale né sono chiari gli obiettivi. (5) Le vicende legate alle figure apicali di questa linea strategica, a partire da quelle del contrammiraglio Cem Gürdeniz, fanno credere che sia in corso un ulteriore processo di evoluzione dell’agenda turca anche sul fronte marittimo. (6) La carta — parte di uno studio condotto dal professor Juan Luis Suárez de Vivero dell’Università di Siviglia — rappresenta un tentativo di pianificazione degli spazi marittimi per un’eventuale divisione del bacino mediterraneo. (7) https://www.un.org/Depts/los/LEGISLATIONANDTREATIES/PDFFILES/TREATIES/Turkey_11122019_%28HC%29_MoU_Libya-Delimitation-areas-Mediterranean.pdf. (8) Turkey Wades into Libya’s Troubled Waters, Crisis Group Europe Report n. 257, 30 April 2020. (9) La base di partenza delle due aree è, per la parte turca, la zona dell’isola greca di Kastellorizo. Per la Libia, invece, si fa riferimento alla costa della Cirenaica al confine con l’Egitto, partendo sempre dal presupposto che quelle province sono ancora oggi contese con l’Esercito nazionale libico del generale Haftar. (10) In riferimento alla proclamazione della ZEE e di sfruttamento della piattaforma continentale esiste un’area grigia dal punto di vista giuridico che permette definizioni arbitrarie, soprattutto in chi non riconosce determinate strutture legali e convenzioni internazionali. (11) Per quanto concerne la sua delimitazione, deve ricordarsi che, come affermato dall’ammiraglio Fabio Caffio nel suo Glossario di diritto del mare, valgono i principi per la delimitazione della piattaforma continentale. Nel testo si legge, infatti: «La disciplina dell’UNCLOS è in materia identica, in quanto l’art. 74, 1 relativo alla ZEE è perfettamente speculare rispetto all’art. 83,1 riguardante la piattaforma. Il principio è sempre lo stesso: raggiungimento di un risultato equitativo senza obbligo di adottare alcun metodo prefissato. Valgono quindi per la ZEE i criteri di delimitazione elaborati dalla giurisprudenza e dalla dottrina internazionale per la piattaforma continentale». Corollario di questo principio è che non vi è alcun obbligo di far coincidere ZEE e piattaforma continentale e che se è vero che «l’ipotesi normale» è quella della «completa sovrapposizione della colonna d’acqua al fondale nell’ambito del limite delle 200 mn dalle linee di base del mare territoriale adottando un confine monolineare», essa rimane in ogni caso una scelta nelle mani del paese rivierasco. La giurisprudenza, in questo senso, ha espresso delle decisioni che hanno costruito delle regole-quadro da potersi applicare nel caso concreto. Ma parliamo di metodologie che non sembrano possedere il carattere della coercizione. (12) Tanto che nel memorandum turco-libico si richiama espressamente la UNCLOS come norma fondamentale. (13) Décret présidentiel n. 18-96 du 2 Rajab 1439 correspondant au 20 mars 2018 instituant une zone économique exclusive au large des côtes algériennes. (14) All’istituzione della Zona Economica Esclusiva, che comprende tutte le acque circostanti il mare territoriale o parte di esse, si provvede con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, su proposta del ministro degli Affari esteri e della cooperazione internazionale, da notificare agli Stati il cui territorio è adiacente al territorio dell’Italia o lo fronteggia. (15) https://www.esteri.it/mae/it/sala_stampa/archivionotizie/comunicati/2020/12/comunicato-congiunto-dei-ministri-degli-esteri-di-italia-croazia-e-slovenia-sulla-cooperazione-trilaterale-nel-mare-adriatico.html. (16) https://www.limesonline.com/cartaceo/non-lasciamo-ad-altri-la-delimitazione-del-canale-di-sicilia?prv=true.

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Le sanzioni europee alla Turchia nella contesa turco-cipriota della

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Per contesa turco-cipriota si intende la situazione di tensione venutasi a creare sull’isola di Cipro tra le comunità greco-cipriota e quella turco-cipriota e che si è articolata in varie fasi a partire dal 1963.

Paola Giorgia Ascani Avvocato del Foro di Roma dal 2006, esercita prevalentemente in campo penale e tutela dei diritti umani. Patrocinante dinanzi la Suprema Corte di Cassazione e giurisdizioni superiori. Membro della Commissione diritto e procedura penale del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Roma, ha pubblicato con la casa editrice Giuffrè contributi sulla disciplina dei contratti, brevetti e marchi e proprietà intellettuale. È stata tutor e membro del direttivo della Camera penale di Roma e del Centro studi Alberto Pisani. Ha curato, sotto il profilo giuridico e legale, progetti fotoeditoriali in materia umanitaria e internazionale. È consulente giuridico e forense del Circolo del ministero degli Affari Esteri.

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a questione che rotea intorno alle Zone Economiche Esclusive del Mediterraneo orientale impegna una buona parte della recente Politica Estera di Sicurezza Comune per via del coinvolgimento della Turchia in qualità di candidata all’annessione UE. La vicenda, assieme a un’altra serie di differenze ontologiche, allontana sempre più il paese anatolico dalla realizzazione di questo obiettivo, malgrado il posizionamento geografico. Il casus belli relativo alle trivellazioni illegali nella ZEE cipriota è l’emblema della condotta assertiva, quanto illegittima, con cui la Turchia si sta affacciando

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sul panorama internazionale negli ultimi anni. Ed è solo uno dei tanti warning che l’UE si trova ad affrontare con questa nazione che, giova ricordarlo, è pur sempre una forte potenza militare NATO, ormai dal 1952. Il caso turco ha evidenziato all’Europa l’urgenza di ritoccare in modo definitivo ed efficace la propria politica di difesa. L’UE ha ritenuto necessario aggiungere un sistema di sanzioni e restrizioni davvero adeguato alle problematiche emergenti sul panorama internazionale, anche tenendo conto di questa forte conflittualità che il paese limitrofo non manca di esercitare. La Turchia si è mossa ponendo in essere svariate iniziative, sfruttando l’ambiguità che negli anni recenti ha caratterizzato i rapporti con la Russia, cui si è riavvicinata a seguito del presunto, e mai accertato, colpo di Stato del 2016, quando l’UE si defilò, evidenziando la sua scarsa fiducia nel partner europeo. La rivendicazione della piattaforma continentale cipriota e la sua occupazione fattiva, con le trivellazioni per la ricerca a fini di accaparramento delle ingenti risorse naturali scoperte nel sottomarino, è solo una delle emergenze che l’Europa ha dovuto affrontare. Si comprende bene come il fronte occidentale europeo sia seduto su una mina, se si legge la vicenda delle ZEE insieme a quella

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Mappa indicante la divisione della Repubblica di Cipro (wikipedia). Nella pagina accanto: «Il casus belli relativo alle trivellazioni illegali nella ZEE cipriota è l’emblema della condotta assertiva, quanto illegittima, con cui la Turchia si sta affacciando sul panorama internazionale negli ultimi anni» (ministero Difesa turco).

dell’accordo con la Libia (i due Memorandum d’intesa sulla delimitazione dei confini marittimi turco-libici nel Mediterraneo, del novembre 2019, confermati il 12 aprile scorso), ottenuto bypassando del tutto la politica europea e le iniziative di cooperazione già in atto. La risposta dell’Unione alle tensioni create nel bacino Mediterraneo orientale è stata relativamente pronta, anche se molta strada c’è ancora da percorrere perché sia anche efficace.

Le origini «terrestri» del dissidio turco-cipriota sulle ZEE Il clima, già teso, tra gli attuali attori dell’affaire sulle ZEE si è sicuramente inasprito qualche anno fa, nel momento in cui l’Europa ha sancito l’annessione di Cipro. La contesa di diritto internazionale marittimo dipende anche da ambiguità che perdurano da decenni sul fronte terrestre. A seguito dell’invasione Turca del 1974, l’isola di Cipro è infatti divisa, geograficamente, in una parte greco-cipriota a sud, e una rimasta alla Turchia, a nord. Mentre la prima, la Repubblica di Cipro, è governata da un’autorità che gode del riconoscimento internazionale, e dunque legittima, la seconda si è autoproclamata indipendente con la denominazione di Repubblica turca di Cipro del Nord, nel 1983, e non è mai stata riconosciuta dalla comunità internazionale,

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che considera la presenza militare turca sul suolo cipriota, come un atto abusivo, violativo del diritto internazionale. Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU (risoluzioni 541/1983 e 550/1984), ha ufficialmente sancito la nullità e l’invalidità della dichiarazione secessionista turco-cipriota, richiamando al riconoscimento della Repubblica di Cipro, come unica autorità di cui rispettare la sovranità territoriale. L’UE ha accolto il richiamo e ha disconosciuto la formazione statuale turco-cipriota sull’isola, anche sotto il profilo giuridico. Sotto il profilo sostanziale, anche la Corte di Giustizia europea ha applicato la c.d. «politica del non riconoscimento» della Repubblica turca di Cipro del Nord (RTCN) in un caso in cui si trattava di decidere sull’interpretazione di un accordo di associazione stipulato tra la CE e la Repubblica di Cipro, risalente al 1972, cristallizzandola così di diritto. Sotto il profilo formale, la Repubblica di Cipro è divenuta Stato Membro UE nel 2004, malgrado la mancata riunificazione territoriale per espungere dall’isola la Turchia. Questo obiettivo, a cui da decenni lavorano sia l’Unione europea che le Nazioni unite, senza alcun risultato diplomatico o negoziale, reca la conseguenza che ancora oggi solo una parte dell’isola di Cipro costituisce territorio europeo vero e proprio. L’annessione UE prevede anche una

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clausola molto rilevante e piena di conseguenze ai fini della questione ZEE, poiché sospende alla Repubblica di Cipro, l’acquis communautaire, ossia l’esercizio del controllo effettivo sulle proprie acque.

I presupposti giuridici del dissidio marittimo tra Cipro, Turchia e Grecia sulla delimitazione delle ZEE Su questo già complesso quadro terrestre si innesta la contesa marittima. L’istituto giuridico delle ZEE definisce, in buona sostanza, la proiezione liquida del potere solido di uno Stato, per questo la contesa e le pretese turche attuali sulla zona sottomarina cipriota sono particolarmente complesse. Una serie di fattori concorrono a rendere difficile il dipanarsi della questione: l’ambizione della Turchia di inserirsi nella spartizione e gestione delle risorse naturali scoperte di recente nella zona, appropriandosi innanzitutto dei confini in superficie; il fatto che non abbia mai ratificato l’UNCLOS, e che pertanto non abbia mai fatto ricorso ad alcun metodo di risoluzione delle controversie approvato dal diritto internazionale; la particolarità della disciplina che la stessa Convenzione detta per le ZEE nel caso delle isole in una alle dislocazione e conformazione geografica delle isole greche. A ciò si aggiunga che tutti gli Stati mediterranei hanno un mare territoriale di 12 miglia nautiche, a eccezione proprio di Grecia e Turchia nel mar Egeo. La Convenzione di Ginevra sulla piattaforma continentale (PC) del 1958 sancisce (art.6) che la PC tra due Stati costieri opposti si determina in primis con un accordo, in mancanza, si seguirà la linea mediana tra coste opposte. Se si tratta invece di Stati adiacenti, la PC si determinerà, sempre prima tramite un accordo, in mancanza, «a meno che non vi siano speciali circostanze», si applicherà il principio dell’equidistanza. Secondo le norme dell’UNCLOS (articoli 74 e 83), la delimitazione della ZEE come della PC, tra Stati costieri opposti o adiacenti, segue le regole del diritto internazionale, ai sensi dell’art. 38 (1) dello Statuto della Corte internazionale di Giustizia, per giungere a una equa soluzione, in mancanza si ricorre alle procedure secondo autorità giurisdizionale. A sua volta, anche la Corte internazionale di Giustizia ha espresso una metodologia di delimitazione nel corso dei giudizi (three step process), secondo cui prima si tenta «una linea di equi-

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distanza geometrica, poi si procede a una rettifica nel caso ci siano c.d. circostanze rilevanti (ovvero geografiche; fra queste la presenza di isole come nel caso in questione, geomorfologiche o geologiche, biologiche ed ecologiche) che giustifichino l’aggiustamento o lo spostamento della linea per ottenere un risultato equitativo» (2). Le isole di dimensioni ridotte, tuttavia, non entrano nel calcolo della delimitazione della giurisdizione. Il caso specifico di Cipro, e della maggior parte delle isole greche dell’Egeo (3), secondo la Turchia, rientra in quest’ultima fattispecie. Secondo il paese anatolico alcune isole non possiedono neppure la piattaforma continentale e quindi non possono dare vita a zone marittime di propria competenza territoriale, rimanendo così attratte nella piattaforma continentale degli Stati a esse prospicienti, e geograficamente comprese nel cono d’acqua sovrastante. Così sarebbe il caso di Cipro e delle isole egee, adagiate sulla PC turca. Così, non è (4). E, infatti, per contro, la Grecia sostiene che le proprie isole godano degli stessi diritti dei suoi territori sulla terraferma, e quindi appartengano a sé i diritti di sfruttamento delle aree sottomarine, secondo i criteri legali dell’equidistanza del diritto internazionale. Contro questo principio, la Turchia richiama l’attività della Corte internazionale di Giustizia (CIG), laddove essa ha talvolta segnato le sorti delle ZEE, decidendo secondo equità e non secondo il criterio dell’equidistanza. V’è da chiarire che ciò è accaduto non come regola generale derogatoria creata dalla CIG, bensì come alternativa al criterio generale e da valutarsi caso per caso. La Corte non ha mai escluso, espressamente, che anche un’isola possa avere una PC, neppure se collocata in un altro Stato. Infatti, la posizione giuridica ufficiale e consolidata della CIG è il riconoscimento pieno dell’estensione del mare territoriale anche alle isole (5). L’art. 121 dell’UNCLOS dirime, infine, la questione, applicando un principio definito dalla CIG (6) di diritto consuetudinario il quale sancisce che le isole possano, fuor

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d’ogni dubbio, generare mare territoriale, zona contigua, zona economica esclusiva e PC. Fatte salve le reciproche posizioni, nelle perduranti contestazioni turche, Cipro, nel 2004, ha dichiarato la propria ZEE con apposita legge, secondo la quale se la ZEE si sovrappone a quella di un altro Stato costiero, in assenza di una delimitazione convenzionale, si applica il criterio della regola mediana tra il proprio territorio e quello altrui. L’anno precedente, e negli anni seguenti tale promulgazione, l’autorità cipriota ha così utilizzato il metodo in questione per delimitare le ZEE tramite accordi bilaterali con Libano, Israele ed Egitto, quest’ultimo contestato dalla Turchia, con l’accusa di non aver rappresentato anche la posizione della Repubblica settentrionale sotto la propria gestione. La prima mossa compiuta dalla Turchia, allo scopo di ottenere le concessioni per le attività esplorative nelle acque cipriote, è stata nel 2011, quando ha sottoscritto un ac-

strade del diritto internazionale marittimo, e con l’avallo e il riconoscimento di legittimità internazionali, ha invitato più volte quella turca ad adire l’organo internazionale di giustizia per delimitare la giurisdizione reciproca, ma senza ottenere risultati. Così, si è giunti all’inasprimento della situazione nel novembre 2019 con la firma dei due Memorandum d’intesa con la Libia, che hanno delimitato le ZEE in modo altamente pregiudizievole per la nazione greca. Quest’ultima iniziativa turca ha trovato spazio proprio grazie all’applicazione del criterio dell’equa delimitazione proclamato dalla Turchia come unico applicabile, frutto della mancata adesione e ratifica dell’UNCLOS.

La reazione europea alle illegalità turche nella ZEE cipriota

Su entrambi gli accordi turco-libici è calato, immediatamente, lo stigma di invalidità internazionale del Consiglio europeo. La reazione dell’UE alle angherie turche a largo della Grecia è stata sicuramente sollecita, anche se, come si diceva, poco efficace. Nel maggio 2019 Cipro ha proceduto a informare tutti i capi di Stato o di governo degli Stati membri circa le attività illegali turche di trivellazione. Un solo mese dopo, il Consiglio europeo condannava le attività turche, chiedendo alla Commissione europea e all’Alto Rappresentante di prendere misure adeguate. Il Consiglio degli Affari esteri, invitava quindi la Turchia a negoziare in buona fede, secondo La nave da ricerca sismica della Turchia, ORUC REIS, nell’isola greca di Castellorizo (cnnturk.com). l’UNCLOS, con Cipro per le ZEE e la PC cordo bilaterale con la Repubblica turca di Cipro del e applicava alla Turchia delle misure restrittive, tra cui il Nord, per delimitarne la piattaforma continentale e cofermo quasi totale delle trattative per la pre adesione alla municandone poi le coordinate alle Nazioni Unite. QueUE e ogni tipo di prestito da parte della Banca europea. Non ste ultime hanno ufficialmente rigettato il Trattato, come essendo risultate abbastanza proficue, ai fini della cessapure Grecia e Cipro, perché in violazione del diritto inzione delle attività illecite, dette misure sono state succesternazionale e delle risoluzioni 541/1983 e 550/1984, su sivamente affiancate da altre sanzioni a carattere economico citate, che comprendevano il divieto generale e assoluto con decisione PESC ai sensi dell’art. 29 TUE. di riconoscimento degli atti giuridici provenienti dai terBase giuridica delle sanzioni UE alla Turchia ritori ciprioti a occupazione turca. La Turchia, invece, ha sempre considerato tali accordi validi ed efficaci e in base Per la prima volta l’UE, ha applicato delle sanzioni a questi ha portato avanti le operazioni di esplorazione e PESC per reagire ad atti illeciti che violano la sovranità ricerca nelle acque cipriote fino al 2019 e 2020. L’autodi uno Stato, e per di più, in ambito marittimo. Fin dal rità cipriota, dal canto suo, ha continuato a percorrere le 2003, il sistema sanzionatorio dell’Unione europea è

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razione compiute da una nave turca sulla PC greca. La stato sottoposto, su iniziativa del Consiglio e del ConsiCorte rispose con una sentenza di rigetto e non applicò glio per gli Affari esteri, a un elaborato meccanismo di alcuna misura interdittiva alla Turchia. Di fatto, si limitò revisione e monitoraggio costanti, al fine di valutarne efsolo a invitare entrambi gli Stati ad astenersi da atti in ficacia e adeguatezza alle minacce incipienti e pervenire reciproco pregiudizio. Il nuovo atteggiamento dell’UE, in modo tempestivo all’implementazione delle misure permesso dall’evoluzione del diritto marittimo dell’UNrestrittive. Nel 2004, il Comitato Politico e di Sicurezza CLOS, letto alla luce di questi precedenti, diventa partidell’Unione ha così cristallizzato i principi base sull’uso colarmente significativo e segna un importante cambio delle misure restrittive, confluiti in Linee Guida, e modi direzione. La decisione (PESC) 2019/1894 cambia dificati, da ultimo, nel biennio 2018-19, con un docututto. In essa, si parla più volte di attività «illegali», mento aggiornato di Migliori Pratiche per l’Unione per anche quelle che si riferiscono ad azioni relative alle l’attuazione effettiva di misure restrittive (sanzioni). ProZEE o alla PC e che ostacolano le attività convenzionali prio in questa occasione sono state introdotte tre nuove di delimitazione territoriale delle aree marittime. Dette fattispecie di misure, adeguate alle nuove minacce nelattività violano i principi di buona fede delle nazioni in l’ambito della Politica Estera di Sicurezza Comune, tra tema di ZEE, fissati nella Convenzione UNCLOS agli cui quelle che qui interessano: Misure contro i responarticoli 74, n.3 e 83 n.3 (8), secondo i quali è obbligo sabili di attività di trivellazione non autorizzate nel Medegli Stati, durante il periodo negoziale per la delimitaditerraneo orientale (decisione (PESC) 2019/1894 e regolamento (UE9 2019/1890). La nuova fattispecie, è stata «cucita» sulla situazione turco-cipriota, portando un’innovazione di non poco conto nel panorama delle misure restrittive: l’apertura alla situazione marittima. Grazie agli atti sopra citati, l’UE ha potuto applicare la misura del «congelamento dei fondi e delle risorse economiche di persone, entità e organismi che sono responsabili o coinvolti nelle attività di trivellazione collegate alla ricerca e alla produzione di idrocarburi, o all’estra«La Grecia era già ricorsa alla Corte di Giustizia contro la Turchia, per via della piattaforma continentale». zione di idrocarburi risultante da tali atzione, agire senza pregiudicare i diritti reciproci. La detività, ovvero che forniscono a tali attività sostegno cisione UE equipara pertanto le attività di trivellazione finanziario, tecnico o materiale, senza autorizzazione turche sulla PC cipriota ad azioni che violano la sovradella Repubblica di Cipro, nel suo mare territoriale o nità o i diritti sovrani di giurisdizione della Repubblica nella sua Zona Economica Esclusiva, ovvero sulla sua di Cipro. Chiarisce, infatti, che quelle attività, svolte piattaforma continentale. Tali persone fisiche e giuridisenza l’autorizzazione di Cipro, in zone non ancora deche, entità e organismi sono elencati nell’allegato (7) limitate secondo il diritto internazionale, ostacolano il alla decisione (PESC) 2019/1894». Occorre ricordare raggiungimento dell’accordo di demarcazione legittimo che, in precedenza, ancora assente la Convenzione di e sono da considerarsi «in contrasto con i principi della Montego Bay, la Grecia era già ricorsa alla Corte di GiuCarta delle Nazioni unite». Prosegue l’UE, nel passagstizia contro la Turchia, sempre per via della piattaforma gio più rilevante, «tali azioni sono in contrasto con la continentale. Allora, nel 1976, si trattava di veder ricorisoluzione pacifica delle controversie, e rappresennosciuto giudizialmente il diritto delle proprie isole egee tano», dunque «una minaccia per gli interessi e la sicua una PC, in relazione al compimento di attività di esplo-

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rezza dell’Unione» tutta. In questo contesto, l’applicazione degli articoli 29 e 215 dei principali Trattati istitutivi dell’Unione (rispettivamente Trattato sull’Unione europea e Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea), ai principi sanciti dal diritto internazionale marittimo, contenuti nell’UNCLOS, caratterizza le sanzioni inflitte alla Turchia, e rappresenta la principale innovazione normativa del sistema sanzionatorio UE. Nello specifico, l’art. 29 TUE autorizza il Consiglio UE ad applicare sanzioni a governi terzi (extra UE), enti non statali e individui perché cessino o modifichino le proprie condotte o attività pregiudizievoli per l’Unione. In aggiunta, l’art. 215 TFUE autorizza il Consiglio ad attuare le modalità esecutive necessarie all’effettiva applicazione delle misure intraprese (il citato regolamento (UE) 2019/1890 del Consiglio dell’11 novembre 2019 concernente le vere e proprie misure restrittive).

Peculiarità delle sanzioni UE applicate alla Turchia Sotto il profilo strettamente politico e geopolitico, l’applicazione di sanzioni, soprattutto quelle a carattere autonomo dalle risoluzioni NU, contribuisce all’affermazione dell’Unione, nel panorama internazionale, come soggetto politico dotato di una propria influenza. La creazione di un sistema indipendente dalle politiche e dalle risoluzioni delle NU ha permesso all’Europa di differenziare il panorama delle fattispecie sanzionatorie, rendendole più aderenti ai principi fondativi e ai valori costitutivi dell’Unione stessa. Per esempio, la scelta di prevedere sanzioni con finalità preventiva, piuttosto che punitiva, riduce al minimo le conseguenze e i rischi per la popolazione civile, permettendo così di rispettare i principi ispiratori della Politica di Sicurezza Comune. Dunque, l’approccio europeo al sistema punitivo è olistico, improntato alla coniugazione di dialogo, politica, diplomazia e strumenti legali mirati al rispetto delle entità e dei singoli non coinvolti nelle condotte da sanzionare. La finalità dell’intero sistema è quella di salvaguardare gli interessi e la sicurezza dell’Unione, ma anche preservare la pace nei suoi territori, sostenere la democrazia, il diritto internazionale, i diritti umani e contribuire al rafforzamento della sicurezza internazionale. A questo fine, è ampia la differenziazione delle fattispecie che spaziano dal genere diplomatico, alle sanzioni propria-

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mente dette, quindi con un fondamento giuridico (embarghi sulle armi, divieto di viaggio da e verso l’UE, congelamento dei beni, sanzioni economiche che colpiscono settori determinati dell’economia, le importazioni e le esportazioni o gli investimenti finanziari), che si differenziano anche in quanto alla durata (massimo 12 mesi, rinnovabili e monitorate, se si tratta di misure restrittive autonome provenienti da decisioni del Consiglio, o senza scadenza, qualora siano regolamenti). Rispetto alla generalità del sistema sanzionatorio europeo, le misure applicate alla Turchia si distinguono sotto tre punti di vista. Innanzitutto, per la prima volta, le sanzioni sono state applicate in forza del principio di solidarietà degli Stati membri, sul quale si incardina tutta la PESC (art. 24, comma 2 TUE): la minaccia a un singolo Stato membro equivale a una minaccia a tutta l’Unione. Il principio è stato ribadito anche nel Consiglio europeo dell’ottobre 2020 che, esaminando la situazione nel Mediterraneo orientale, ha ribadito alla Turchia l’obbligo di astenersi dal compimento di operazioni unilaterali contro l’UE, che violano il diritto internazionale e i diritti sovrani degli Stati membri, primo fra tutti il rispetto della sovranità cipriota. In caso contrario, ha ulteriormente minacciato l’applicazione di misure ai sensi degli articoli 29 TUE e 215 TFUE (9). Altra caratteristica, non meno rilevante, è il fatto che le sanzioni hanno colpito uno Stato candidato all’annessione dal 2003 che, fra gli altri motivi, rimane sospesa proprio a causa della mancata risoluzione della questione della Repubblica turca di Cipro, uno dei paesi che hanno condotto all’applicazione delle sanzioni attuali, a dimostrazione che si tratta di una questione ancora oltremodo aperta e sempre più soggetta a inasprimenti piuttosto che a soluzioni definitive. Una delle sanzioni imposte alla Turchia, non a caso, è proprio il blocco delle trattative per l’annessione, che rischia di pregiudicarla definitivamente. In ultimo, vi è un elemento particolarmente significativo che macchia di incoerenza l’azione sanzionatoria dell’UE, che si è decisa a intervenire solo di fronte alla violazione della sovranità territoriale, ma non anche nelle svariate occasioni in cui il paese anatolico ha violato i diritti umani, anche in maniera grave. Una giustificazione, labile ma plausibile, potrebbe consistere nella decisione di cambiare strategia, passando da quella collaborativa sempre adottata finora, anche in materia di diritti umani, che poco ha sortito in termini di

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efficacia, a una più assertiva. A questo proposito tuttavia, bisogna ammettere che, come sostengono molti commentatori, anche solo a livello intuitivo e senza perdersi nei meandri dei caratteri giuridici della questione, non sembra che la tipologia di misure restrittive adottate possa essere una risposta, anche solo deterrente, adeguata alla violazione della sovranità territoriale. In merito al blocco delle trattative per l’annessione, vi è da dire poi che la Turchia sembra essere ormai ben consapevole delle poche possibilità che si realizzi, malgrado l’intenzione europea espressa di voler praticare una nuova agenda politica che possa favorire la ripresa di un dialogo (10).

Conclusioni Il dibattito sull’efficacia delle misure sanzionatorie europee dimostra che siamo ancora lontani dall’avere raggiunto posizioni, se non consolidate, almeno codificate e come tali unanimemente interpretabili sotto il profilo giuridico. Per il momento l’UE possiede armi, purtroppo, spuntate. La filosofia europea è decisamente quella di adottare sanzioni che possano modificare il comportamento dei bersagli e condurre al rispetto delle posizioni europee in modo pacifico, e comunque praticando una «conversione» dei soggetti con i quali prediligere sempre e comunque l’aspetto dialogante, in primis. 8

NOTE (1) Art. 38, Statuto della Corte internazionale di Giustizia: 1. La Corte, cui è affidata la missione di regolare conformemente al diritto internazionale le divergenze che le sono sottoposte, applica: a. le convenzioni internazionali, generali o speciali, che istituiscono delle regole espressamente riconosciute dagli Stati in lite; b. la consuetudine internazionale che attesta una pratica generale accettata come diritto; c. i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili; d. con riserva della disposizione dell’articolo 59, le decisioni giudiziarie e la dottrina degli autori più autorevoli delle varie nazioni, come mezzi ausiliari per determinare le norme giuridiche. (2) Maritime Delimitation in the Caribbean Sea and the Pacific Ocean (Costa Rica v. Nicaragua), Judgment of 2 February 2018, par. 135. (3) Si veda il caso delle Isole di Castellorizo. Il gruppo di isole di Castellorizo, prima attribuito all’Italia con il Dodecaneso dal Trattato di Losanna nel 1923, che confermo� la sovranita� greca sulle isole egee, e il cui mare territoriale e� stato delimitato con accordo del 4 gennaio 1932 italo-turco; secondo la Grecia e� il punto da cui far iniziare l’area di ZEE verso l’Egitto e che cingerebbe la costa turca. (4) Caso Nicaragua/Colombia, 2012: la Corte internazionale di Giustizia ha definitivamente cassato l’argomentazione che le isole di uno Stato non possano avere una propria piattaforma continentale perche� si trovano sulla PC di un altro Stato: «The Court does not believe that any weight should be given to Nicaragua’s contention that the Colombian islands are located on “Nicaragua’s continental shelf», § 214. (5) Caligiuri, A., Le dispute nel Mediterraneo orientale: la delimitazione delle frontiere marittime come espressione di dominio del mare, Seminari di diritto e geopolitica degli spazi marittimi, Ciram 2020. (6) Ibidem nota (4); Caso Qatar v. Bahrain, disponibile sul sito della Corte internazionale di Giustizia. E, soprattutto, arbitrato Filippine v. Cina, nel Mar Cinese Meridionale, la nota decisione 12 luglio 2016, cui si deve un’interpretazione autentica dell’art. 121, par. 3, UNCLOS, § 539-553. (7) Regolamento (UE) 2019/1890 del Consiglio dell’11 novembre 2019 concernente misure restrittive in considerazione delle attività di trivellazione non autorizzate della Turchia nel Mediterraneo orientale. (8) Art. 74, n. 3: «In attesa dell’accordo di cui al numero 1, gli Stati interessati, in uno spirito di comprensione e cooperazione, compiono ogni sforzo per addivenire a intese provvisorie di carattere pratico e, durante questo periodo di transizione, non debbono compromettere o ostacolare l’accordo finale. Tali intese sono senza pregiudizio per la delimitazione finale»; art. 83, n. 3: «In attesa della conclusione dell’accordo di cui al numero 1, gli Stati interessati, in uno spirito di comprensione e collaborazione, compiono ogni possibile sforzo per addivenire a intese provvisorie di natura pratica e per non compromettere o ostacolare, durante tale periodo transitorio, il raggiungimento dell’accordo finale. Tali accordi provvisori sono senza pregiudizio per la delimitazione finale». (9) L. Pineschi, T. Treves, The Law of the Sea: The European Union and Its Member States, Leiden: Martinus Nijhoff, 1996, per un’analisi accurata della dottrina più autorevole sulle norme dell’UNCLOS e del diritto internazionale del mare. (10) Poli, S., Pau, A., La reazione dell’Unione europea di fronte alla crisi del Mediterraneo orientale: tra misure restrittive e la proposizione di «un’agenda politica positiva» alla Turchia, in European Pampers, vol. 5, 2020, n. 3, 1511-1530, pp. 1520 ss. BIBLIOGRAFIA TUE, art. 29, in eur-lex.europa.eu. TFUE, art. 215, in eur-lex.europa.eu. Regolamento (UE) 2019/1890 del Consiglio dell’11 novembre 2019, concernente misure restrittive in considerazione delle attività di trivellazione non autorizzate della Turchia nel Mediterraneo orientale, in Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea, L. 291/3, 12.11.2019. Decisione (PESC) 2020/275, del 27 febbraio 2020, concernente misure restrittive in considerazione delle attività di trivellazione non autorizzate della Turchia, in Gazzetta ufficiale dell’Unione europea, L. 56 I, pag. 5, in consilium.europa.eu. Decisione (PESC) 2019/1894, dell’11 novembre 2019, in Gazzetta ufficiale dell’Unione europea, L. 291/47, 12.11.2019, in eur-lex.europa.eu. Regolamento di esecuzione (UE) 2020/1655 del Consiglio del 6 novembre 2020 che attua il regolamento (UE) 2019/1890 concernente misure restrittive in considerazione delle attività di trivellazione non autorizzare della Turchia nel Mediterraneo orientale, in eur-lex.europa.eu. Decisione Consiglio europeo EUCO 13/20, del 2 ottobre 2020. Quadro generale relativo alle sanzioni dell’Unione europea, in eur-lex.europa.eu. Guidelines on implementation and evaluation of restrictive measures (sanctions) in the framework of the EU common foreign and security policy, Consiglio dell’Unione europea, dell’8 dicembre 2017, n. 15598/17, in data.consilium.europa.eu. Consiglio di sicurezza NU Risoluzione 365/1974, in UN doc. S/RES/365(1974), §1; vis.367/1975, UN doc.S7RES/367(1975), par.2, ris.541/1983, UN doc. S/RES/541(1983), §2,7. Corte di Giustizia, sentenza 5/7/1994, causa C-432/92, R c. Minister of agricolture, Fisheries and Food, ex parte SP Anastasiou; sentenza 30/9/2003, causa C140/02, Anastasiou and others, §. 28. Protocollo n. 10 su Cipro, Atto relativo alle condizioni di adesione 2003, art. 1, § 1. Corte internazionale di Giustizia, Territorial and Maritime Dispute (Nicaragua v. Colombia), sentenza 19/11/2021, §139, Case Concerning Maritime delimitazione and Territorial Questions between Qatar and Bahrain (Qatar v. Bahrain), sentenza del 16/3/2001, §167, 185 e 195. Artino, A., Il nuovo regime globale di sanzioni dell’Unione europea: una vera svolta?, Osorin - Osservatorio sulle attività delle organizzazioni internazionali e sovranazionali, universali e regionali, sui temi di interesse della politica estera italiana - SIOI, Roma 2021. Scovazzi, T., Elementi di diritto internazionale del mare, Milano, Giuffré, 2002. Morviducci, C., Le misure restrittive dell’Unione europea e il diritto internazionale: alcuni aspetti problematici, in Eurojus, 2019, eurojus.it.

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PRIMO PIANO

La Zona Economica Esclusiva italiana Daniele Antonio Tunno

Laureato in Giurisprudenza nel 2001 presso l’Università degli studi di Siena. Ha realizzato un percorso di studio e professionale trasversale tra legale, amministrativo e commerciale maturando esperienze tra multinazionali, pubblica amministrazione e studi professionali. Attualmente ricopre il ruolo di Regulatory Analyst in un importante gruppo bancario internazionale. Appassionato di storia dei trattati, storia moderna, politica internazionale e geopolitica.

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Il 14 giugno 2021 il Parlamento italiano ha approvato la Legge n. 91 relativa all’istituzione di una Zona Economica Esclusiva oltre il limite esterno del mare territoriale, come consentito dal diritto internazionale (Fonte immagine: governo.it).

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La Zona Economica Esclusiva italiana

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on la Legge 91/2021 (1) finalmente anche l’Italia si è dotata della Zona Economica Esclusiva (c.d. ZEE) oltre il limite esterno del mare territoriale. I presupposti giuridici di tale provvedimento si ritrovano nella Convenzione delle Nazioni unite sul diritto del mare (UNCLOS) firmata a Montego Bay (Giamaica) il 10 dicembre 1982. Tale Convenzione è stata ratificata e resa esecutiva nel nostro paese mediante la Legge 689/1994 (2). La ZEE è un’area esterna e adiacente alle acque territoriali nella quale uno Stato costiero ha la titolarità di diritti sovrani (come previsto della Convenzione delle Nazioni unite sul diritto del mare di Montego Bay del 1982) sulla massa d’acqua che sovrasta il fondale marino ai fini dell’esplorazione, sfruttamento, conservazione e gestione delle risorse naturali, viventi o non viventi, compresa la produzione di energia dalle acque, dalle correnti o dai venti.

Aree del mare nel diritto internazionale (wikipedia).

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Lo Stato ha anche giurisdizione (sempre ai sensi della Convenzione di cui sopra) in materia di installazione e uso di isole artificiali o strutture fisse, ricerca scientifica in mare e di «protezione e conservazione dell’ambiente marino». I diritti sovrani di esplorazione, sfruttamento e conservazione delle risorse naturali spettanti a uno Stato nella propria ZEE si esplicano principalmente nel diritto esclusivo di pesca. Le uniche limitazioni a questa incondizionata posizione di preminenza riguardano l’onere di ammettere altri Stati alla cattura della quantità di pesce disponibile in eccedenza rispetto alle proprie capacità di pesca, dando preferenza, su basi eque, agli Stati senza litorale o «geograficamente svantaggiati».

Il quadro giuridico internazionale La citata Convenzione delle Nazioni unite sul diritto del mare (UNCLOS) è uno dei più importanti esempi di codificazione del diritto internazionale attuata dalle Nazioni unite. Molte delle previsioni della Convenzione facevano già parte del diritto internazionale consuetudinario, ma la loro specifica codificazione, con la previsione di meccanismi di risoluzione delle controversie, ha costituito un progresso sul piano giuridico-internazionale. La Convenzione del 1982 si configura come un codice completo volto a regolare i comportamenti degli Stati sui mari e sugli oceani, nonché lo sfruttamento delle risorse e la salvaguardia dell’ambiente naturale degli stessi. Il fondamento della Convenzione deve essere rinvenuto nel superamento delle quattro Convenzioni adottate nella Conferenza di Ginevra del 29 aprile 1958, che coprivano le materie dell’alto mare, del mare territoriale e della zona a esso contigua, della piattaforma continentale, della pesca e preservazione delle risorse biologiche marine. L’Italia aveva proceduto a ratificare le due Convenzioni sull’alto mare e sul mare territoriale con la Legge 1658/1961 (3), mentre aveva attuato nella propria legislazione interna la Convenzione sulla piattaforma continentale. La necessità di superare le Convenzioni del 1958

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«La Convenzione di Montego Bay del 1982 si configura come un codice completo volto a regolare i comportamenti degli Stati sui mari e sugli oceani, nonché lo sfruttamento delle risorse e la salvaguardia dell’ambiente naturale degli stessi. (...) Inoltre, il rapido progresso delle attività petrolifere marine ha posto nuovi problemi circa la salvaguardia del patrimonio ittico e dell’ambiente marino» (Fonte immagine: twitter.com).

è derivata dai profondi mutamenti dell’assetto e degli equilibri internazionali, a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, quando subì una forte accelerazione il processo di decolonizzazione, con il relativo aumento del numero degli Stati del mondo, molti dei quali naturalmente portati a rivendicare i propri diritti sulle risorse naturali di loro prossimità. Inoltre, il rapido progresso delle attività petrolifere marine ha posto nuovi problemi circa la salvaguardia del patrimonio ittico e dell’ambiente marino. La Convenzione di Montego Bay ha quindi adeguato il diritto del mare al riconoscimento degli interessi degli Stati costieri, espandendone i poteri sui mari adiacenti, in particolare con la previsione dell’istituto giuridico della Zona Economica Esclusiva. Nella Convenzione viene inoltre riconosciuto l’interesse collettivo a preservare l’ambiente marino, consentendo lo sfruttamento di talune risorse minerarie al di là della giurisdizione marina nazionale dei vari Stati. La Convenzione provvede poi a riconoscere la tradizionale libertà di movimento e di comunicazione in mare e un articolato sistema di risoluzione delle controversie prevede la possibilità di mantenere un equilibrio tra i diversi e talora contrapposti interessi mediante un controllo giurisdizionale della corretta applicazione della Convenzione.

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Le nozioni di «Zona Economica Esclusiva» e di «piattaforma continentale» Nella Convenzione delle Nazioni unite sul diritto del mare del 1982 appaiono strettamente collegate le nozioni di Zona Economica Esclusiva e di Piattaforma Continentale (PC). La Zona Economica Esclusiva, disciplinata dalla Parte V della Convenzione, può estendersi non oltre le 200 miglia dalle linee di base da cui è misurata l’ampiezza del mare territoriale (188 miglia dal mare territoriale). A differenza della PC, per poter divenire effettiva, deve essere oggetto di una proclamazione ufficiale da parte dello Stato costiero, notificata alla comunità internazionale. Il regime di delimitazione delle ZEE tra Stati con coste adiacenti o opposte, analogamente a quello previsto per la piattaforma continentale, deve farsi per accordo in modo da raggiungere un’equa soluzione. In tale zona di mare lo Stato costiero: — beneficia di diritti sovrani ai fini dell’esplorazione, dello sfruttamento, della conservazione e della gestione delle risorse naturali, biologiche e minerali, che si trovano nelle acque sovrastanti il fondo del mare, sul fondo del mare e nel relativo sottosuolo: poteri che si sovrappongono a quelli sulla piattaforma continentale, assorbendoli completamente, e includendo anche altre

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attività dirette a fini economici, come la produzione di energia a partire dall’acqua, dalle correnti e dai venti, ma soprattutto la risorsa di maggior rilievo, ossia la pesca, oggetto principale della sovranità economica dello Stato costiero; — esercita la propria giurisdizione in materia di: a) installazione e utilizzazione di isole artificiali, impianti e strutture; b) ricerca scientifica; c) preservazione e protezione dell’ambiente marino. Nella ZEE tutti gli Stati, costieri e privi di litorale, hanno libertà di navigazione e di sorvolo, di posa in opera di cavi e condotte sottomarine. Inoltre — come già indicato all’inizio — lo Stato interessato può consentire loro di esercitare la pesca, qualora la propria capacità di sfruttamento sia inferiore al volume massimo di risorse ittiche sfruttabili, fissato dallo stesso Stato costiero e in forza di accordi bilaterali conclusi con i relativi Stati di appartenenza tenuto conto, in particolare, della necessità degli Stati che non hanno sbocchi sul mare o geograficamente svantaggiati Le previsioni della Convenzione in materia di pesca sono la manifestazione più evidente di come l’interesse alla conservazione e allo sfruttamento delle risorse non sia soltanto dello Stato costiero, ma dell’intera comunità internazionale. Indubbiamente la disciplina convenzionale attribuisce allo Stato costiero nella ZEE vantaggi prima sconosciuti: basti pensare al regime del consenso previsto per le attività di ricerca scientifica poste in essere da navi straniere o al regime delle autorizzazioni per quanto riguarda le isole e installazioni artificiali fisse o alla giurisdizione ai fini della protezione dell’ambiente marino contro l’inquinamento. Assai articolati appaiono inoltre i poteri di uso della forza (art. 73 dell’UNCLOS) che lo Stato costiero può esercitare a tutela dei propri diritti di esplorazione, sfruttamento, conservazione e gestione delle risorse biologiche nella propria ZEE. Poteri coercitivi che comprendono l’abbordaggio, l’ispezione, il fermo e la sottoposizione a procedimento giudiziario. Sono, comunque, garantiti i diritti di navigazione e di sorvolo, senza distinzione tra unità militari e

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mezzi civili, nonché di posa in opera di condotte e cavi sottomarini. In buona sostanza, si può affermare che nella ZEE tutte le attività concernenti l’utilizzazione delle risorse rientrano nelle competenze dello Stato costiero, mentre tutte le attività relative alle comunicazioni internazionali restano comprese fra i diritti degli Stati terzi. È importante aggiungere che, a prescindere dalla proclamazione della ZEE, il suo esercizio può tuttavia essere attuato in modo parziale, relativamente all’ambiente marino, o alla pesca, o anche a entrambe. A questo fine alcuni Stati — tra i quali l’Italia — hanno creato Zone di Protezione Ecologica (ZPE) ovvero Zone di Riserva o Protezione della Pesca (ZRP/PP). Benché tali zone non siano espressamente previste da norme positive, la prassi internazionale ne ammette l’istituzione quali zone sui generis costituenti un minus, alle quali si applica in via analogica, la normativa prevista dall’UNCLOS per le ZEE relativamente a estensione, delimitazione ed esercizio di poteri di enforcement. La piattaforma continentale, disciplinata dalla parte VI dell’UNCLOS, costituisce l’area sottomarina che si estende al di là delle acque territoriali, attraverso il prolungamento naturale del territorio emerso, sino al limite esterno del margine continentale, o sino alla distanza di 200 miglia dalle linee di base, qualora il margine continentale non arrivi a tale distanza. Quello delle 200 miglia è, in definitiva, considerato dalla Convenzione come il limite minimo della piattaforma continentale. L’UNCLOS — nel superare la tradizionale concezione geomorfologica adottata dalla Convenzione di Ginevra del 1958 — ha adottato criteri diversi, che prescindono dalla nozione «geografica» o «morfologica» della piattaforma stessa. Si è così stabilito che la piattaforma continentale si estenda, alternativamente: 1) fino al bordo estremo del margine continentale, ma non oltre la distanza di 350 miglia marine dalle linee di base del mare territoriale ovvero 100 miglia dall’isobata dei 2.500 metri. Con tale sistema si è posto un limite all’estensione

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della piattaforma continentale che per alcuni Stati, tenendo conto del solo dato geologico, poteva risultare eccessivamente estesa; 2) fino alla distanza di 200 miglia dalla linea di base del mare territoriale, se il margine continentale si trova a una distanza inferiore. Si è evitato, in questo modo, che alcuni Stati, la cui piattaforma continentale risultava essere di limitate dimensioni, fossero posti in condizioni svantaggiose rispetto ad altri. Sulla PC lo Stato costiero esercita diritti sovrani con riferimento all’esplorazione e sfruttamento delle risorse naturali della stessa, ossia le risorse minerarie (per esempio, gli idrocarburi) e le risorse biologiche sedentarie (organismi viventi che rimangono immobili sulla piattaforma o che si spostano rimanendo sempre in contatto con il fondo marino). Agli Stati terzi, invece, spettano le «tradizionali libertà» dell’alto mare alle condizioni stabilite dallo Stato costiero: a) navigazione; b) sorvolo; c) pesca (salvo che non vi sia l’esistenza di zone riservate o ZEE nella zona d’acqua sovrastante); d) posa di cavi e condotte sottomarine. I diritti dello Stato costiero sulla propria piattaforma continentale gli appartengono ab origine e perciò non hanno bisogno di proclamazione. Inoltre, a differenza del diritto di sovranità sul mare territoriale, tali diritti: 1) hanno natura funzionale: lo Stato costiero può esercitare il proprio potere di governo solo nella misura strettamente necessaria per controllare e sfruttare le risorse della piattaforma; 2) sono esclusivi, nel senso che nessuno Stato può effettuare attività di esplorazione o sfruttamento sulla piattaforma continentale senza la preventiva autorizzazione dello Stato costiero. Un problema molto delicato, data la vastità delle aree marine impegnate dai poteri degli Stati costieri sulla piattaforma continentale, è quello della delimitazione della piattaforma tra Stati costieri che si fronteggiano o che sono adiacenti. A tal proposito, la Convenzione di Montego Bay

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(art. 83) impone agli Stati di concordare una delimitazione tra loro, sulla base del diritto internazionale, in modo da raggiungere una «soluzione equa», abbandonando il criterio della «linea mediana» che era stabilito nella Convenzione di Ginevra, nel caso in cui non si raggiunga l’accordo tra Stati frontisti o limitrofi. Vale poi senz’altro la pena di accennare alla parte XV dell’UNCLOS, collegata agli Allegati V-VIII, dedicata alla risoluzione delle controversie: le Parti della Convenzione di Montego Bay si impegnano a sottoporre a giudizio o ad arbitrato un ampio gruppo di potenziali conflitti nell’applicazione e nell’interpretazione della Convenzione stessa. Ciascuna delle Parti, con specifica dichiarazione, potrà optare per la giurisdizione della Corte internazionale di giustizia o per quella del Tribunale internazionale del diritto del mare, ovvero ancora per una soluzione arbitrale — alla quale si ricorrerà comunque qualora due o più Parti in conflitto abbiano optato per giurisdizioni diverse. Il Tribunale internazionale del diritto del mare costituisce la seconda istituzione creata dalla Convenzione di Montego Bay, accanto alla già citata Autorità dei fondi marini. Basato ad Amburgo e composto da 21 giudici, il Tribunale è competente anche in materia di sfruttamento minerario dei fondi marini mediante una sua apposita sezione. Il Tribunale è inoltre investito della procedura sommaria di rapido rilascio di navi oggetto di fermo o sequestro. Va infine ricordata, nella XVII e ultima parte della Convenzione, la previsione per la quale le organizzazioni internazionali oggetto di trasferimento di poteri nelle materie della Convenzione possano divenire parte della medesima Convenzione, una previsione ritagliata quasi ad hoc per l’allora Comunità europea (oggi Unione europea), cui erano state delegate competenze esclusive in materia di pesca e competenze concorrenti in materia di protezione ambientale. In consonanza a tutto ciò si prevedeva la possibilità per la Comunità europea di ratificare in proprio (cosa che avvenne nel 1998) la Convenzione, dopo la ratifica della maggioranza degli Stati membri.

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Le intese bilaterali concluse dall’Italia per la delimitazione della piattaforma continentale e il quadro giuridico interno L’Italia è stato il primo e il più attivo degli Stati del Mediterraneo ad avviare negoziati per la conclusione di numerosi accordi di delimitazione della piattaforma continentale: in particolare, quello stipulato con Belgrado fu il primo accordo di delimitazione negoziato nel bacino mediterraneo, concluso a Roma nel lontano 8 gennaio 1969 e reso esecutivo con il Decreto del Presidente della Repubblica 830/1969 (4). Si segnalano inoltre i seguenti accordi: — con la Tunisia, in base a un accordo concluso a Tunisi il 20 agosto 1971 ratificato con la Legge 347/1978 (5); — con la Spagna, in base a un accordo concluso a Madrid il 19 febbraio 1974 ratificato con la Legge 348/1978 (6); — con la Grecia, in base a un accordo concluso ad Atene il 24 maggio 1977 ratificato con la Legge 290/1980 (7); — con l’Albania, in base a un accordo concluso a Tirana il 18 dicembre 1992 ratificato con Legge 147/1995 (8); Per quanto riguarda Malta, a seguito di scambio di note verbali del 29 aprile 1970 tra i rispettivi ministri degli Affari esteri, l’Italia ha instaurato un modus vivendi riguardante la delimitazione parziale e a carattere provvisorio di una porzione della piattaforma continentale. È importante altresì ricordare che, a seguito della proclamazione di Zone Economiche di Protezione della pesca da parte di Algeria, Spagna, Croazia e Libia e dopo la proclamazione di una Zona di Protezione Ecologica da parte francese, con la Legge 61/2006 (9) il nostro paese ha autorizzato l’istituzione di zone di protezione ecologica oltre il limite esterno del mare territoriale e fino ai limiti previsti dal successivo comma 3 quali risultanti da appositi accordi con gli Stati il cui territorio fronteggia quello italiano o è a esso adiacente. La normativa prevede in particolare che nelle zone di protezione ecologica in tal modo istituite il nostro paese eserciti la propria giurisdizione in materia di protezione dell’ambiente marino e del patrimonio archeologico e storico. Entro tali zone di protezione ecologica trovano applicazione le norme del diritto italiano, del diritto

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dell’Unione europea e dei trattati internazionali di cui l’Italia è parte in materia di prevenzione e repressione di tutti i tipi di inquinamento marino, come anche in materia di protezione dei mammiferi e della biodiversità, nonché del patrimonio archeologico e storico. Per quanto concerne le attività di pesca invece si rinvia a quanto previsto dal Regolamento UE 1380/2013 (10). In esecuzione della citata Legge 61/2006 è stato emanato, con il D.P.R. 209/2011 (11), il regolamento recante l’istituzione di zone di protezione ecologica del Mediterraneo nord-occidentale, del Mar Ligure e del mar Tirreno.

Il contenuto della Legge 91/2021 La legge che ha previsto — ma non ancora istituto perché saranno necessari altri passaggi normativi — la ZEE italiana si compone di 3 articoli come di seguito esposti: L’articolo 1 — dal titolo «Istituzione di una zona economica esclusiva oltre il limite esterno del mare territoriale» – al comma 1 stabilisce che, in conformità a quanto previsto dalla citata Convenzione delle Nazioni unite sul diritto del mare (Montego Bay 1982), è appunto autorizzata l’istituzione di una Zona Economica Esclusiva a partire dal limite esterno del mare territoriale italiano e fino ai limiti determinati ai sensi del comma 3 dello stesso articolo 1 della Legge 91/2021. Il comma 2 dell’articolo 1 stabilisce che all’istituzione della Zona Economica Esclusiva, che comprende tutte le acque circostanti il mare territoriale o parte di esse, si provvede con Decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, su proposta del ministro degli Affari esteri e della cooperazione internazionale, da notificare agli Stati il cui territorio è adiacente al territorio dell’Italia o lo fronteggia. L’articolo 1 si chiude con il comma 3 il quale indica che i limiti esterni della Zona Economica Esclusiva sono determinati sulla base di accordi con gli Stati di cui al comma 2 e soggetti alla procedura di autorizzazione alla ratifica prevista dall’articolo 80 della Costituzione. Tale articolo della nostra Carta fondamentale stabilisce che le camere autorizzano con legge la ratifica dei trattati internazionali che sono di natura politica, o prevedono arbitrati o regolamenti giudiziari, o importano variazioni del territorio o oneri alle finanze o modifica-

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zioni di leggi. Fino alla data di entrata in vigore di tali accordi, i limiti esterni della ZEE sono stabiliti in modo da non compromettere o ostacolare l’accordo finale. La legge prosegue con l’articolo 2 — dal titolo «Applicazione della normativa all’interno della zona economica esclusiva» — il quale prevede che all’interno della Zona Economica Esclusiva istituita ai sensi dell’articolo 1 Locandina del webinar organizzato dalla Marina Militare in collaborazione con Limes, il 12 l’Italia esercita i diritti sovrani attribuiti marzo scorso, dal titolo «ITALIA PAESE MARITTIMO: SFIDE E OPPORTUNITÀ». Nella pagina precedente, sullo sfondo, la fregata classe «Bergamini» VIRGINIO FASAN: «La sorveglianza dalle norme internazionali vigenti. del confine della ZEE sarà un importante compito che la Marina Militare dovrà svolgere per conflitti di giurisdizione o appropriazione di risorse nell’ambito della propria missione Infine l’articolo 3 — dal titolo «Di- evitare di “difesa militare dello Stato”». ritti degli altri Stati all’interno della zona economica esclusiva» — stabilisce che l’istiLa ZEE creerà i presupposti per rafforzare la marittuzione della Zona Economica Esclusiva non comtimità del paese — fortemente auspicata per altro dupromette l’esercizio, in conformità a quanto previsto rante la giornata di studio organizzata (webinar) dalla dal diritto internazionale generale e pattizio, delle Marina Militare il 12 marzo scorso dal titolo «Italia libertà di navigazione, di sorvolo e di posa in opera Paese Marittimo: sfide e opportunità» — dando condi condotte e di cavi sottomarini nonché degli altri creta attuazione alle responsabilità ecologiche e avdiritti previsti dalle norme internazionali vigenti. viando il contrasto delle attività illegali di pesca condotte da flotte straniere vicino alle nostre coste. Conclusioni La ZEE, per finire, pone anche una questione di natura militare che interesserà la nostra Forza armata: inQuando — ex art. 1, comma 2 della Legge 91/2021 fatti la sorveglianza del confine della stessa zona sarà — verrà formalmente istituita la Zona Economica un importante compito che la Marina Militare dovrà Esclusiva italiana, nel Mediterraneo non ci saranno prasvolgere per evitare conflitti di giurisdizione o approticamente più spazi di alto mare. priazione di risorse nell’ambito della propria missione Infatti, a eccezione di Montenegro e Albania, tutti gli di «difesa militare dello Stato» sul mare nel rispetto di Stati hanno esteso i diritti sovrani ed esclusivi in materia quanto previsto dell’articolo 110 del Codice dell’Ordidi pesca oltre le 12 miglia del mare territoriale o hanno namento militare ex D.LGS. 66/2010 (12). delimitato, con accordi bilaterali, le loro future ZEE. 8 NOTE (1) Gazzetta Ufficiale – Serie Generale, n. 148 del 23/6/2021. (2) Gazzetta Ufficiale – Serie Generale, n. 295 del 19/12/1994. (3) Gazzetta Ufficiale – Serie Generale, n. 75 del 22/03/1962. (4) Gazzetta Ufficiale – Serie Generale, n. 302 del 29/11/1962. (5) Gazzetta Ufficiale – Serie Generale, n. 191 del 10/07/1978. (6) Gazzetta Ufficiale – Serie Generale, n. 191 del 10/07/1978. (7) Gazzetta Ufficiale – Serie Generale, n. 181 del 03/07/1980. (8) Gazzetta Ufficiale – Serie Generale, n. 99 del 29/04/1995. (9) Gazzetta Ufficiale – Serie Generale, n. 52 del 03/03/2006. (10) Gazzetta Ufficiale Unione europea del 28/12/2013. (11) Gazzetta Ufficiale – Serie Generale, n. 293 del 12/12/2011. (12) Gazzetta Ufficiale – Serie Generale, n. 106 del 08/05/2010. BIBLIOGRAFIA Documentazione della Camera dei Deputati, Studi Affari Esteri/Politica Estera e Questioni Globali. Glossario di Diritto del Mare, Fabio Caffio, Supplemento Rivista Marittima, novembre 2020. La Zona Economica Esclusiva è legge: si rafforza la marittimità italiana, analisidifesa.it. Con la ZEE italiana nel mediterraneo non c’è (quasi) più l’alto mare, affarinternazionali.it.

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PRIMO PIANO

La pirateria marittima nel Golfo di Guinea (*) Francesco Chiappetta

West Africa vs East Africa. Un confronto pericoloso: molte differenze, poche analogie

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Nave LUIGI RIZZO impegnata nell’operazione Gabinia della Marina Militare, volta a garantire vigilanza e protezione degli interessi nazionali, nonché a sviluppare attività di cooperazione con le Marine partner e alleate presenti nella regione del Golfo di Guinea.

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La pirateria marittima nel Golfo di Guinea

(*) Contrammiraglio della Marina Militare in riserva. Segue temi di Difesa e Security marittima. Attualmente collabora con la Confederazione italiana armatori (CONFITARMA) e svolge attività di docenza non continuativa su tematiche relative alla Maritime Security e Cybersecurity nella dimensione marittima presso alcune sedi universitarie e istituti per le professioni marittime. Ha pubblicato vari articoli e lavori sulla Rivista Marittima e altre riviste e periodici.

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ià dal 2010 in Africa occidentale e, in particolare, nel Golfo di Guinea (GoG) episodi di furti armati in mare in vicinanza delle coste, solo in parte riconducibili al fenomeno della «pirateria marittima» così come definito dai riferimenti internazionali, non avevano particolarmente attirato l’attenzione degli operatori marittimi e, tanto meno, da parte di soggetti governativi sia della regione che esterni. Quindi, più di una decina di anni fa l’interesse si rivolgeva, in particolare a livello nazionale visti i cruenti eventi sofferti dagli equipaggi dei mercantili battenti bandiera italiana, verso l’Oceano Indiano, il Bacino somalo e il Corno d’Africa. Nel corso degli anni si è visto come in East Africa la pressione è gradualmente diminuita e gli interventi, avviati nel loro complesso dalla comunità internazionale, sono risultati man mano sempre più efficaci — da quelli prettamente militari a quelli intrapresi dalle organizzazioni internazionali ovvero attraverso l’applicazione delle misure di protezione passiva da parte delle compagnie di navigazione per arrivare alla protezione diretta attraverso la presenza a bordo dei nuclei militari armati e poi di guardie private. Al contrario, in West Africa il fenomeno ha preso invece vigore per raggiungere, in questi ultimi anni, livelli particolarmente preoccupanti. Una recrudescenza della minaccia alla security dei traffici commerciali marittimi nel bacino occidentale africano ben nota agli operatori che a livello nazionale, ma anche da parte della stessa Unione europea, solo negli ultimi anni è saltata all’attenzione dei media e dell’opinione pubblica, accrescendone la consapevolezza del problema anche a più ampi livelli decisionali. Per il contesto relativo al West Africa-Golfo di Guinea, come evidenziato in vari documenti, va detto che i fattori di insicurezza marittima rispetto al quadrante orientale africano sono, in gran parte, conseguenza di specifiche situazioni socio-economiche, oltreché diverse dinamiche e ramificazioni di ordine geopolitico e alquanto differenti modalità sul piano tecnico-operativo.

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Tuttavia in alcune analisi si sono osservate valutazioni orientate a esaminare il tema della pirateria marittima in Golfo di Guinea su piani di similitudine con il contesto presente in Africa orientale. Spingersi a confronti e analogie sugli scenari e su quanto si sta verificando (nella zona occidentale in rispetto al teatro operativo di quella orientale dell’Africa) in West Africa rispetto al teatro operativo in East Africa (dal Mar Rosso, al Golfo di Aden, Corno d’Africa, coste yemenite, Bacino somalo e l’intero Oceano Indiano visto come immensa area marittima di transito del traffico marittimo) rischia di portare a conclusioni poco corrette se non addirittura errate. Conseguentemente si rischia di individuare soluzioni similari, ma probabilmente inefficaci rispetto a quelle che, invece, efficacemente hanno mitigato se non annullato la minaccia della pirateria in Oceano Indiano. Una minaccia, quest’ultima, che dalle analisi appare sempre potenzialmente pronta a riprendersi. Soluzioni adeguate al teatro del West Africa devono invece basarsi su considerazioni peculiari che riflettono situazioni specifiche sotto molteplici aspetti. Lo scopo di questo articolo è, pertanto, quello di mettere a confronto i due differenti contesti, al fine di evidenziare specifiche e rilevanti differenze, analizzando quindi più ambiti, da quelli prettamente geografici a quelli politicostrategici, economici, energetici, oltre che sul piano tecnico-operativo e in generale su temi di Maritime Security.

East Africa: Mar Rosso, Golfo di Aden, Bacino somalo, Mare Arabico, Oceano Indiano Le condizioni in cui la minaccia della pirateria nell’Africa orientale si è manifestata negli anni sono per molti aspetti differenti rispetto al quadro che contraddistingue lo scenario di quella occidentale e nel Golfo di Guinea, innanzitutto in termini geografici e degli spazi marittimi prospicenti il continente africano. In East Africa parliamo, infatti, di un’area estremamente ben più ampia dell’area del Golfo di Guinea: sulla sponda orientale la minaccia della pirateria, negli anni di maggiore pressione, si era addirittura estesa fino oltre le 1.000 miglia nautiche dalle coste somale. Nei periodi di massima presenza di dispositivi navali, vista l’enorme ampiezza dell’area di rischio, si è contata la presenza fino a circa 40 unità militari, sia in ambito coalizioni internazionali (NATO, Unione euro-

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la pressoché totale incapacità pea, Combined Maritime Forces operativa di sostenere il con- CMF) sia di singoli Stati (vedi trollo delle aree marittime di Giappone, Russia, Cina). L’effipertinenza. In questo senso le ricacia delle operazioni navali, sosoluzioni del Consiglio di Sicuprattutto della NATO e dell’UE, rezza delle Nazioni unite (2), via nonché, come accennato inizialvia promulgate, hanno consenmente, la protezione diretta dei tito, soprattutto alle Forze aeromercantili attraverso l’impiego navali presenti, di operare con di nuclei militari imbarcati e di ampia libertà di manovra spinservizi armati privati, sono state gendosi anche all’interno delle senza dubbio le chiavi di volta acque territoriali e sul territorio del problema. somalo, contrastando efficaceTenuto conto anche del ridotto numero dei paesi della re- Figura 1 - Elevate distanze dalle coste somale dove si sono regi- mente le bande di pirati. In sincasi di attacco di pirati (wikipedia.org). Sotto: Figura 2 gione, nel tempo la comunità strati L’enorme ampiezza dell’area di rischio che era stata individuata in tesi, la comunità internazionale Indiano, messa a confronto con l’estensione dell’Europa ha potuto operare senza la neinternazionale si è potuta con- Oceano (BMP Ver. 4 - August 2011, grafica autore). cessità di confrontarsi con un frontare, stabilendo specifici acelevato numero di soggetti politici locali. cordi, essenzialmente solo con Gibuti, Kenya e Passando invece agli aspetti relativi al traffico maritSeychelles. Per quanto riguarda il territorio somalo, si è timo, in East Africa, da una semplice analisi dei flussi poi potuto agire con minori vincoli. Per la Somalia, da commerciali, ci troviamo di fronte a un’area essenzialcui operavano e partivano le organizzazioni criminali demente di transito per gran parte dei mercantili, con linee dite alla pirateria, ci si è trovati in una situazione, del resto di comunicazione (c.d. SLOC - Sea Line of Communiancora presente, di Stato «fallito» (1) a cui si aggiungeva


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zione Atalanta sono stati introdotti ulteriori «compiti secondari» che tengono appunto conto di alcune delle ulteriori minacce sopra richiamate. Infine, passando su di un piano prettamente tecnico-operativo, le iniziative e le soluzioni avviate e proseguite dalla comunità internazionale, sono risultate evidentemente appropriate: — presenza, già a partire Figura 3 - Oceano Indiano, SLOC (Sea Line of Communications) e porti (chellaney.net). Nella pagina accanto: Figura dal 2008, di dispositivi ae4 - Il nuovo mandato di EUNAFOR ATALANTA (eunavfor.eu/mission). ronavali attivati dalla NATO, dall’UE, dalla CMF o sotto l’egida di singoli cations) quasi sempre dirette, senza scali intermedi, opeStati; dispositivi peraltro ancora presenti nell’area con rate sulle tratte da/per il Sud-Est asiatico, Golfo Persico l’operazione UE Atalanta, come noto estesa per altri e sulle tratte Nord-Sud transitando per il Mediterraneo due anni fino a dicembre 2022 e dove la stessa Marina via Mar Rosso e Canale di Suez. Peraltro, è quanto mai Militare italiana ricopre un ruolo di primo piano; evidente che sulla sponda orientale africana non vi sono — un efficace Centro per la sicurezza marittima per il porti (sorgitori) di destinazione di spedizioni marittime; Corno d’Africa, il Maritime Security Centre – Horn of nella regione se ne contano solo alcuni, benché imporAfrica (MSCHOA), quale interfaccia quotidiana per i tanti, sulle coste indiane o pakistane. mercantili in transito oltre che di collegamento con le Circa i rischi e le minacce alla security marittima che operazioni navali attivate; interessano il bacino dell’East Africa, un importante ele— il modello di cooperazione e coordinamento tra tutti mento da tenere in considerazione risiede nel fatto che i soggetti interessati, rappresentato dalla SHADE (Shanon ci troviamo di fronte solo al problema della pirateria, red Awareness and De-confliction) Conference, al moma anche ad altre forme di insicurezza marittima che immento giunta alla 48a edizione (4); modello, peraltro, pattano fortemente sui traffici commerciali. Ci si riferisce, in particolare ai rischi di guerra (ancora presente da qualche anno preso a riferimento anche nell’ambito nello Yemen), a cui si aggiungono non solo i traffici ildell’operazione UE in Mediterraneo centrale EUNAleciti (armi, droga, ecc.), fenomeni di contrabbando tra FOR MED - operazione Irini (ex Sophia); la penisola arabica e le coste africane, ma anche attività — attivazione di corridoi marittimi di transito controldi pesca illegale e traffici di persone con flussi migratori lati da Forze navali, in particolare, nel Golfo di Aden; irregolari via mare. Nella Sezione 2 della 5a e ultima edi— applicazione da parte del naviglio mercantile delle citate BMP-5, con specifiche e appropriate misure di zione delle Best Management Practices (BMP) per il difesa passiva; contrasto della pirateria in East Africa viene affermato: — protezione diretta dei mercantili con la presenza a «The threat. As well as piracy, regional instability has bordo di team di protezione armati (per le navi battenti introduced new security threats including the use of: bandiera italiana inizialmente con i Nuclei Militari di ProAnti-ship missiles, Sea mines, Water-Borne Improvised tezione, che hanno operato da novembre 2011 a giugno Explosive Devices (WBIED)» (3). Del resto, anche se 2015 (5) e poi con l’impiego di guardie giurate armate); solo recentemente, nel nuovo «mandato» dell’opera-

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— le missioni civili-militari dell’UE, EUTM Somalia ed EUCAP Somalia; — infine, anche riforme di alcuni sistemi giudiziari regionali. Tutte soluzioni che in Africa orientale, nel loro complesso, hanno consentito di mitigare ampiamente, o meglio, ridurre pressoché a zero, un fenomeno che, comunque, per il perdurare dell’instabilità di questa regione, rimane ancora latente.

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West Africa - Golfo di Guinea Innanzitutto, dal punto di vista geografico, l’area del Golfo di Guinea (circa 2.350.000 km2), è decisamente inferiore a quella relativa al teatro operativo del West Africa. Questo aspetto ha un’importanza notevole soprattutto sulla differenza del livello quantitativo di assetti aeronavali necessari per operazioni di presenza e sorveglianza marittima. Come accennato, le situazioni di contesto in West

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Africa, soprattutto con riferimento a gran parte dei paesi che si affacciano sul GoG, con particolare riferimento alla Nigeria, sono alquanto diverse rispetto a quelle in Africa orientale (6). Ma non è certo che solo su tale aspetto si possono individuare significative differenze nel confronto tra i due diversi teatri. Sul piano politico bisogna, prima di tutto, considerare che la totalità dei paesi della sponda occidentale africana (7) non sono né in guerra né da considerarsi falliti (come nel caso della Somalia). Non siamo, quindi, in presenza di conflitti/crisi o situazioni che danno origine a ulteriori forme di rischi e minacce di natura militare, come invece si registra nel Golfo di Aden o anche in Mar Rosso. Pur senza entrare nel merito dei risultati finora ottenuti nel contrasto della pirateria o nei confronti di altri rischi e minacce in mare, gli Stati della regione occidentale sono pienamente legittimati, sotto il profilo giuridico e del diritto internazionale marittimo, a garantire — quantomeno sulla carta — le condizioni di security negli spazi marittimi di pertinenza con proprie organizzazioni e dispositivi. È pertanto evidente che organizzazioni esterne, sia civili sia militari, non possono certo sostituirsi a essi; è invece quanto mai necessario, se non indispensabile, stabilire precisi accordi, spesso individuali con questi paesi, basandosi sulla costruzione di un efficace dialogo tra le parti e individuando adeguati spazi di cooperazione con tutti i soggetti e le forze presenti, in modo da conseguire un accettabile grado di stabilità e sicurezza marittima dell’area. Bisogna, inoltre, tenere conto di un altro aspetto. Secondo alcune analisi, i fenomeni e le forme di minacce alla security marittima che riguardano il West Africa sono largamente dominati da organizzazioni criminali di soggetti economicamente svantaggiati (8) e che, oggettivamente, trovano ampi spazi di manovra in sistemi governativi che, ancorché legittimi, sono tuttavia soventemente carenti in termini di efficacia e, tra l’altro, dove si registra anche un certo grado di irregolarità e illeciti amministrativi. Va infine evidenziato che non risultano sussistere, invece, concrete evidenze circa possibili infiltrazioni da parte di organizzazioni riconducibili a frange terroristiche, sebbene molto attive in altri paesi o aree più interne del Centro-Africa e del Sahel. I traffici marittimi. Sebbene in West Africa-GoG il

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tasso di presenza/transito di navi mercantili è in qualche modo inferiore rispetto a quello in Oceano Indiano (che rimane sostanzialmente strategico per la valenza dei traffici marittimi in Mediterraneo ovvero esposto a possibili fattori di «marginalizzazione» in condizioni di insicurezza marittima nel Bacino somalo e Corno d’Africa), ci troviamo in una regione, anche per quanto riguarda gli interessi nazionali, estremamente importante sia per gli scambi commerciali con i paesi dell’area che dal punto di vista energetico. Per quanto attiene l’attività commerciale via mare, la quasi totalità delle merci importate ed esportate dall’Africa centrale transita, infatti, in queste acque. Significativa è poi la presenza di navi mercantili battenti bandiera italiana nel Golfo di Guinea; in media, dai dati raccolti, si parla di circa 25 compagnie di navigazione italiane che operano ancorché non in maniera continuativa e contemporanea nell’area, con un numero di oltre 100 navi italiane che, per esempio nel 2020, hanno toccato porti nel Golfo di Guinea; in particolare navi da carico, Ro/Ro, petroliere, LPG tanker, navi per rifornimento e unità tecniche di supporto per gli impianti offshore. Per quanto, invece, riguarda il tema energetico, in generale, circa il 70% del petrolio prodotto in Africa proviene da queste aree, dove sono appunto presenti i due maggiori produttori africani di petrolio, ossia Nigeria e Angola. Da qui la necessità di tutelare anche le «attività estrattive» delle aziende petrolifere che vi operano, tra cui l’ENI (oltre a Exxon Mobil, Chevron, Shell e Total). La minaccia. Negli ultimi anni — 2019-20 — il GoG è stata l’area in cui si sono verificati, a livello globale, il maggior numero di attacchi di pirateria e furti armati in mare. Un’area, seguita solo da quella dell’Est Asia-Stretto di Malacca, diventata tra le più pericolose al mondo per quanto riguarda la sicurezza dei traffici via mare. Secondo i dati pubblicati nell’ultimo report annuale dell’International Maritime Bureau (9), nel 2020, in generale, il fenomeno della pirateria a livello globale era sembrato cresciuto, con 195 incidenti registrati nel 2020 rispetto ai 162 del 2019. In totale, nel 2020, sono stati 135 i marittimi rapiti da pirati a scopo di estorsione; la regione del Golfo di Guinea, da sola, aveva visto ben 130 sequestri di membri dell’equipaggio (il 95% del totale), segnalati nella quasi totalità dei casi

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al largo di Nigeria, Benin, Gabon, Guinea equatoriale e Ghana. Nel mese di novembre dello scorso anno, tenuto conto dell’aumentato numero di casi, il livello di rischio nella HRA (High Risk Area) del Golfo di Guinea era stato elevato a «critico». Condizione anche aggravata proprio nei mesi invernali, nel corso dei quali i monsoni da sud-ovest favoriscono condizioni meteo-marine più favorevoli ai pirati. L’ultimo rapporto globale sulla pirateria del 2021, di IMB, descrive in dettaglio 68 episodi di pirateria e rapina a mano armata contro le navi — il totale più basso dal 1994 — in calo rispetto ai 98 incidenti dello stesso periodo dell’anno scorso. Nei primi sei mesi del 2021, il Piracy Reporting Center (RPC) dell’IMB (10) ha riferito di 61 navi abbordate, 4 tentativi di attacco, 2 navi sparate e una nave dirottata. Nonostante il calo complessivo degli incidenti segnalati, la violenza contro gli equipaggi è continuata con ben 50 membri dell’equipaggio rapiti nei primi sei mesi del 2021. In tale quadro, il Golfo di Guinea continua comunque a essere particolarmente pericoloso per i marittimi, con il 32% di tutti gli incidenti segnalati che si verificano nella regione. La regione ha, infatti, registrato tutti i 50 membri marittimi imbarcati rapiti (anche con un decesso), con attacchi da parte di c.d. Pirate Action Groups (PAG), soprattutto lungo le coste del Camerun, Nigeria, del Benin e del Ghana. Recentemente, con oggetto di rapimenti anche membri di equipaggi di pescherecci. Nessun caso di sequestro di mercantili. Per quanto invece riguarda la protezione degli impianto offshore di estrazioni oltre che di unità speciali che operano nell’area, si evidenzia, per esempio che, lo scorso anno, impianti petroliferi gestiti dalla Shell Petroleum Development Company (SPDC) (11) e dalla Nigerian Agip Oil Company (NAOC) (12) nell’area del governo locale di Yenagoa, capitale dello Stato nigeriano di Bayelsa, a sud dell’area del Delta del Niger, sono state oggetto di azioni di sabotaggio che, stante alle informazioni assunte da fonti aperte, sono state perseguite anche mediante l’impiego di «ordigni esplosivi». Tattiche e procedure. Per quanto riguarda le Piracy TTPs (Tactics, Techniques & Procedures) utilizzate dai pirati nell’area del GoG, sulla base di quanto osservato negli anni, poche sono le analogie con quanto invece era

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stato osservato e analizzato in East Africa che, fin dall’inizio del fenomeno aveva riguardato il dirottamento di navi. All’inizio, in West Africa si trattava essenzialmente di furti beni rinvenibili a bordo dei mercantili o anche di petrolio, compiuti in gran parte in acque interne o territoriali e classificati, pertanto, come casi di furti armati (armed robbery) perseguibili secondo le leggi degli Stati costieri. Inizialmente i soggetti attaccanti operavano pressoché indisturbati soprattutto nell’area del Delta del Niger. Solo successivamente, soprattutto negli ultimi due/tre anni, le tattiche e gli obiettivi delle organizzazioni criminali si sono in qualche modo diversificate ed evolute, operando più a largo e spingendosi anche oltre le 200 nm dalle coste superando, per esempio, la stessa Zona Economica Esclusiva (ZEE) dichiarata dalla Nigeria. Infatti, a oggi, ai mercantili in transito viene raccomandato, qualora possibile, di mantenere una distanza dalla costa di almeno 200/250 miglia. Infine, l’utilizzo di navi-madre si è osservato solo negli ultimi due anni. Secondo fonti aperte, raccolte da società di analisi di intelligence, nell’area del GoG insistono al momento prevalentemente 2 differenti gruppi criminali e che sembrano utilizzare un numero molto esiguo di navi d’appoggio soprattutto di opportunità (secondo i dati raccolti si contano non più di 2 unità mercantili: una chimichiera di circa 3.250 t e una motonave più piccola di circa 950 t). Come accennato inizialmente, nei casi si trattava soprattutto di furti di greggio oltre che di beni presenti a bordo; tuttavia, soprattutto il trasbordo di petrolio nelle modalità Ship-to-Ship (StS), processo piuttosto lungo e complesso, può evidentemente fornire alle forze di sicurezza una considerevole finestra di tempo per intervenire. Quando il prezzo del petrolio rubato era alto, il rapporto rischio/rendimento del bunkeraggio veniva considerato vantaggioso. Con il crollo dei prezzi globali del petrolio, già a partire dal 2014 e ulteriormente abbassatosi in questi ultimi anni, i criminali hanno evidentemente dovuto riconsiderare il rischio orientandosi verso un modello diverso, più redditizio, ovvero proprio quello dei sequestri a scopo di estorsione dei marittimi imbarcati e spingendosi in mare aperto. Comunque, è bene ricordare che non sono certo diminuiti i casi di attacco in prossimità della costa o addirittura su mercantili fermi in rada o in banchina (13). In buona sostanza, sebbene per l’attuale modus ope-

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Figura 5 - Infografica Q2 2021 IMB Piracy Report Gulf of Guinea (icc-ccs.org).

randi finora descritto (vedi impiego, per esempio, delle navi-madre) sembrano sussistere alcune analogie sulle tattiche sfruttate dai pirati somali, il «livello di pericolosità» da parte dei pirati e in generale della criminalità organizzata locale è risultata particolarmente più aggressiva con soggetti, secondo alcune fonti, anche meglio armati e più capaci (14). In quanto a violenza, alcuni ostaggi hanno denunciato abusi da parte dei loro rapitori tra cui l’amputazione delle dita, bruciature della pelle ecc. Recentemente, il direttore dell’IMB, Michael Howlett, ha dichiarato: «Pirates operating within the Gulf of Guinea are well-equipped to attack further away from shorelines and are unafraid to take violent action against innocent crews». Nei rapimenti vengono poi coinvolti un numero alquanto elevato di membri dell’equipaggio; in molti casi lo stesso comandante del mercantile, il primo ufficiale e/o il direttore di macchina. In effetti, gli attacchi riusciti hanno interessato anche più di una decina di ostaggi,

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come in uno dei più recenti eventi avvenuto il 31 maggio 2021 (15). Nella gran parte degli eventi i rapimenti sono stati risolti in un periodo di tempo notevolmente inferiore rispetto a quello che, sebbene si trattasse di casi di navi sequestrate, di massima si registrava al largo delle coste somale. Nel GoG, per esempio, nel 2018, la durata della prigionia si è concentrata dai 3 a un massimo di 10 giorni, rispetto invece anche agli 11 mesi di durata di sequestro di navi (16) durante il picco della pirateria nel Bacino somalo. Sebbene questo non sia uno sviluppo completamente nuovo, negli ultimi tempi i gruppi criminali che operano dal Delta del Niger appaiono alquanto più fiduciosi sulle loro capacità di trattenere, durante i negoziati per il riscatto, un numero piuttosto consistente di marittimi. A sua volta, il livello di aggressività sopra accennato, porta anche a pagamenti più elevati, rendendo improbabile che il corrente modello di «piracy business crime» cambi nel prossimo futuro. Misure di difesa passiva. Nel mese di marzo dello scorso anno le maggiori associazioni industriali marittime hanno pubblicato la prima edizione delle «Best Management Practices - West Africa» (17). Benché considerate essenziali, tuttavia considerevoli rimangono le criticità sul piano di una più concreta protezione del naviglio marittimo, a partire soprattutto dal fatto che, per esempio, non è di fatto consentita/autorizzata da gran parte degli Stati costieri la presenza a bordo di Servizi privati di protezione armata - c.d. PCASP (18). Addirittura alcuni paesi — in primis la Nigeria — guardano con sospetto l’utilizzo di tali servizi (19). Ciò obbliga le compagnie di navigazione, di fatto, a ricorrere ai servizi governativi e, in alcuni casi, anche a servizi privati indicati dalle stesse autorità marittime locali, con evidenti problematiche anche di legittimità giuridica connesse all’imbarco di personale armato, soprattutto militare, su navi battenti bandiera estera. Una criticità, quest’ultima, altresì evidenziata da società di armamento italiane che operano in quest’area. Dispositivi aeronavali. Sul piano degli interventi nazionali, sostenuti e sollecitati in più sedi dalla stessa armatoria nazionale già dal 2018 e, in particolare, da parte della Confederazione italiana armatori (Confitarma), con una intensa attività rivolta nei confronti dei decisori, dal 2020 la Marina Militare italiana ha iniziato a con-

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durre operazioni di presenza e sorveglianza nell’area, in particolare con unità navali della classe «Bergamini» (FREMM) (20), con una media di circa 8 mesi l’anno. Si tratta di operazioni volte a garantire la vigilanza e la protezione degli interessi nazionali, anche in termini di deterrenza e protezione, oltre che del naviglio nazionale e dei marittimi italiani imbarcati anche di protezione e sorveglianza degli impianti offshore ENI o comunque assetti gestiti dalle nostre società che operano nella regione (21). Tra gli scopi di tali operazioni si aggiunge poi uno degli aspetti forse ritenuto il più importante, ovvero quello di poter sviluppare attività di cooperazione, oltre che con le Marine partner e alleate presenti nella regione (al momento, oltre la Marina Militare italiana, Francia, Spagna e Portogallo o la stessa US Navy), soprattutto con i paesi e le Marine dell’area. Le iniziative delle organizzazioni internazionali. Infine, in un confronto tra le due aree fino a ora analizzate, vanno evidenziate le diverse dinamiche sul piano delle iniziative messe in atto dalle organizzazioni internazionali e regionali interessate. In Oceano Indiano, negli anni, abbiamo visto concretizzarsi iniziative maggiormente coese e coordinate; in primo luogo, come all’inizio ricordato, sono intervenute le Nazioni unite con specifiche risoluzioni, cui sono seguite numerose iniziative, soprattutto a livello NATO e UE, con operazioni e missioni civili-militari che hanno contribuito al raggiungimento dei risultati che oggi si registrano. Per il West Africa, seppure davanti a numerose e pur positive azioni, quelle finora osservate, seppure numerose, in effetti non appaino pienamente coese e strutturate. Per la Regione del Golfo di Guinea, nei primi mesi del 2020 l’ICS ha avviato uno specifico «Ad hoc Working Group on Piracy in West Africa» (22). Sono seguite, peraltro anche nel corrente anno, ulteriori iniziative sia attraverso forti posizioni assunte da parte della stessa IMO, sia dall’ECSA (23) o attraverso il recente avvio del «Gulf of Guinea Maritime Collaboration Forum (GOG MCF/SHADE)» sostenuto dallo stesso Maritime Safety Committee dell’IMO (24). Infine, nel mese di maggio 2021, BIMCO, aggiungendosi se non sovrapponendosi alle iniziative di ICS, evidenziando a parere dello scrivente un basso grado di coordinamento, ha pubblicato una propria dichiarazione indicata come

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«The Gulf of Guinea Declaration on Suppression of Piracy» (25); a tale dichiarazione è seguita, benché in più sedi da tempo annunciata, la notizia della dislocazione nell’area di una unità danese a partire dal mese di novembre 2021, che andrà ad aggiungersi alle altre Marine presenti, che tuttavia, e presumibilmente per i prossimi mesi, continueranno a operare secondo una linea di comando e controllo esclusivamente nazionale. L’Unione europea il 21 gennaio 2021 ha lanciato il «Coordinated Maritime Presences concept» per il Golfo di Guinea (26), che tuttavia, basandosi solo su temi di cooperazione e condivisione di analisi e informazioni, rimane a parere dello scrivente al momento un primo tentativo per un impiego strutturato di una Forza navale europea a similitudine dell’operazione Atalanta in Oceano Indiano. Vi è stata infine la recente iniziativa avviata dall’IMO con una risoluzione (27), adottata il 19 maggio di quest’anno da parte del Comitato per la sicurezza marittima (MSC). Con essa gli Stati membri, le autorità nazionali, le Nazioni unite e altre organizzazioni competenti sono stati esortati a prendere in considerazione il rafforzamento dell’applicazione della legge per arrestare e perseguire i pirati nelle giurisdizioni pertinenti in conformità con il diritto internazionale e i quadri giuridici nazionali, sollecitando gli Stati costieri ad armonizzare le sanzioni penali. A differenza di quello che si è visto nel tempo nel quadrante orientale africano, è stata poi sollecitata una migliore governance delle soluzioni di protezione e iniziative disponibili e, soprattutto, nel rispetto comunque della sovranità e integrità territoriale degli Stati costieri. Al riguardo, l’IMO ha sollecitato a sostenere e incoraggiare una più ampia partecipazione a iniziative regionali come lo stesso «Gulf of Guinea Maritime Collaboration Forum (GoG-MCF/SHADE GoG)» e ad altre piattaforme di coordinamento come il «G7++ Friends of the Gulf of Guinea (G7++FoGG)», per contribuire a migliorare safety e security nella regione e per facilitare il rafforzamento dei meccanismi di cooperazione per il pattugliamento e la protezione marittima. La risoluzione approvata dall’IMO ha, in particolare, sottolineato la necessità di una maggiore collaborazione tra tutte le parti interessate, compresa la condivisione di informazioni sulla criminalità e illegalità marittima, l’uso delle informazioni e dei dati diffusi

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a favore del naviglio commerciale: in particolare dal Maritime Domain Awareness for Trade-Gulf of Guinea - MDAT-GoG quale centro, operativo dal 20 giugno 2016, di cooperazione tra la Royal Navy (UKMTO) e la Marine Nationale (MICA-Center), nonché il NIMASA C4i-Centre, i Regional Reporting Centres o anche lo stesso ICC-IMB Piracy reporting centre. In sintesi, l’IMO, con la propria risoluzione, ha rimarcato l’esigenza di una più efficace e sinergica cooperazione e di una maggiore collaborazione tra tutte le parti interessate e, più in generale, sul contrasto anche delle altre forme di illegalità in mare (traffici illeciti contrabbando, pesca illegale). In particolare, richiedendo, tra l’altro, di utilizzare appieno i fondi della cooperazione tecnica (fondo fiduciario per la sicurezza marittima dell’IMO per l’Africa occidentale e centrale) per sostenere il rafforzamento, nella regione, soprattutto delle capacità di contrasto della pirateria e delle rapine a mano armata, al fine di cercare di realizzare condizioni maggiormente più efficaci per la condivisione delle informazioni tra i meccanismi già esistenti.

Conclusioni Come delineato in questa breve analisi, il generale contesto in cui si manifesta il fenomeno della pirateria in West Africa-Golfo di Guinea e le modalità con cui si stanno sviluppando le varie iniziative appare, in gran parte, differente rispetto a quanto si è potuto osservare in Oceano Indiano-Bacino somalo. Inoltre è evidente che le soluzioni e gli interventi, anche operativi, per ridurre e contenere per quanto possibile il fenomeno, devono essere necessariamente attinenti alle situazioni di contesto presenti in questa regione e opportunamente adattati alle condizioni ambientali. Ferme restando le numerose proposte e iniziative avviate, peraltro fortemente sostenute oltre che dall’IMO anche dalla stessa industria dello shipping internazionale in primo luogo attraverso l’ICS, in attesa che gran parte delle iniziative annunciate dalle autorità coinvolte si confermino pienamente operative (28) che, peraltro, al momento hanno anche subito rallentamenti a causa di una ridotta attenzione sui temi di security marittima dovuta agli impatti del Covid-19 (29), due sono i fattori principali che, si ritiene, debbano essere perseguiti. Fattori che,

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nel concreto, possano effettivamente consentire di mitigare il più possibile la minaccia della pirateria ovvero altre forme di illeciti via mare nel Golfo di Guinea. Da una parte deve essere assicurata una pressoché continua presenza di unità militari d’altura soprattutto da parte dei paesi occidentali, con adeguate capacità di intervento e performanti assetti imbarcati (elicotteri, team di protezione, team sanitari). La presenza navale nelle aree di crisi come lo è, evidentemente, il Golfo di Guinea o altre aree marittime di crisi, rappresenta, di fatto, la forma principale per produrre deterrenza e condizioni di stabilizzazione, assicurando un adeguato livello di sicurezza (security e in molti casi quando necessario anche di safety) marittima. La «semplice» presenza di unità navali militari d’altura rimane un elemento essenziale di dissuasione da parte di forme di minacce siano esse statutali, sia legate a fenomeni di criminalità più o meno organizzata che, invece, sono portate a operare in spazi marittimi non controllati. Inoltre, la presenza di Forze aeronavali rappresenta assetti in grado di realizzare, per esempio con rapporti diretti durante le visite nei porti, anche forme di pressione nei confronti delle autorità marittime oltre che di pressione diplomatica verso quelle governative locali. Quindi diventa opportuno incrementare il tasso di presenza navale attraverso attività a carattere tecnico-operativo con operazioni di presenza e sorveglianza marittima, così come già sottolineato e intrapreso dalla stessa Marina Militare italiana con l’operazione Gabinia, comunque sempre in stretto coordinamento con le altre Marine occidentali. Secondo determinante fattore è quello di incrementare e agevolare, al massimo, i rapporti di collaborazione e di cooperazione tra le Marine e forze di sicurezza locali nonché con le strutture operative marittime dei paesi della regione. Ciò deve essere realizzato soprattutto attraverso forme di accordi anche semplicemente individuali, accompagnati da attività di addestramento volte al raggiungimento di adeguate capacità operative e di intervento (c.d. attività di Maritime Capacity Building). Questo, a differenza di quanto realizzato in East Africa è probabilmente il fattore principale se non essenziale nel rispetto, come ha precisato la stessa IMO, di un elemento di contesto in West Africa nodale che si deve basare sul rispetto dei prin-

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cipi di sovranità e integrità territoriale di tutti gli Stati costieri. Tutto ciò sarà indispensabile fino a quando i temi di security marittima nel Golfo di Guinea non passeranno da un livello prettamente tecnico-operativo a una concreta azione e volontà governativa, ancorché

adeguatamente sostenuta dalla comunità internazionale che possa portare a una effettiva azione politica da parte dei paesi della regione per poter difendere e rendere sicuri i propri spazi marittimi al fine di un concreto, effettivo progresso sociale ed economico. 8

NOTE (1) Secondo le più recenti analisi, nell’aprile 2021 la Somalia sembrava essere di nuovo vicina a una guerra civile con scontri armati nelle strade di Mogadiscio tra fazioni politiche, nonché una frammentazione nei ranghi dell’Esercito nazionale somalo (SNA). Per una città già alle prese con la sfida alla sicurezza posta dal gruppo militante al-Shabab e il conflitto politico prossimo all’allargamento, tutti i progressi del paese verso la stabilità sembravano minacciati. Le origini del conflitto sono state le difficoltà nell’assicurare un accordo tra le fazioni politiche su nuove elezioni. Tuttavia, le questioni vanno molto più in profondità nel rapporto tra il governo e i singoli Stati che compongono la struttura federale in Somalia. In tale contesto, sono poi coinvolti anche attori esterni, in particolare Kenya ed Etiopia; le questioni politiche della Somalia si inseriscono, infatti, in un quadro di altri cambiamenti in atto nella più ampia regione del Corno d’Africa. (2) Le principali risoluzioni: UNSCR 1816 (authorizes all countries to enter Somali territorial waters to repress acts of piracy); UNSCR 1838 (authorizes military ships to crackdown on the high seas to avoid acts of piracy); UNSCR 1851 (authorizes to enter Somali territory and airspace). (3) BMP 5 Best Management Practices to Deter Piracy and Enhance Maritime Security in the Red Sea, Gulf of Aden, Indian Ocean and Arabian Sea”, versione 5, Giugno 2018, pag. 4 (https://wwwcdn.imo.org/localresources/en/OurWork/Security/Documents/BMP5%20small.pdf). (4) Cfr. https://eunavfor.eu/48th-shade-conference-26-27-may-2021/. (5) Cfr. https://www.marina.difesa.it/cosa-facciamo/per-la-difesa-sicurezza/operazioni-concluse/Pagine/nuclei-militari-protezione.aspx. (6) Una analisi del contesto in West Africa è stata trattata nell’articolo Pirateria Marittima in West Africa-Golfo di Guinea, Focus, tendenze e possibili risposte, F. Chiappetta, Rivista Marittima, maggio 2020, pp. 44-51. (7) Si tratta di 10 Stati: Liberia, Costa d’Avorio, Ghana, Togo, Benin, Nigeria, Camerun, São Tomé e Príncipe, Guinea equatoriale, Gabon. (8) Come i pirati della Somalia, i predoni della Nigeria sono giovani particolarmente impoveriti le cui possibilità economiche sono praticamente nulle. In una pressoché totale mancanza di legittime opportunità lavorative, la via del mare diventa una soluzione praticabile rapida per guadagni anche considerevoli. Nella gran parte non sono pescatori reclutati dalla criminalità organizzata come in Somalia. Secondo alcune analisi delle condizioni sociali sempre a differenza dei somali, gli uomini che vivono a ridosso del Delta del Niger non sono silenti ma molto più espliciti e visibili nelle loro proteste, per esempio, verso le compagnie petrolifere oltre che verso il loro stesso governo. La povertà, l’inquinamento da petrolio, le pratiche di lavoro discriminatorie percepite e l’emarginazione socioeconomica oltre che politica hanno, nel tempo, spinto migliaia di ribelli a organizzarsi e armarsi individuando nel naviglio mercantile uno dei principali obiettivi da colpire. Nel 2012-13 l’allora Movimento per l’emancipazione del Delta del Niger (MEND) era già una delle fazioni ribelle più organizzata e pesantemente armata della regione. Da allora le organizzazioni criminali originarie del Delta si sono di fatto ramificate in gran parte dei paesi che si affacciano sul Golfo di Guinea. (9) Vedi sito web di ICC-ICS (icc-ccs.org). (10) https://www.icc-ccs.org/index.php/1309-Piracy-and-armed-robbery-incidents-at-lowest-level-in-27-years-but-risks-remain-to-seafarers-IMB-cautions. (11) Vedi articolo su https://channel16.dryadglobal.com/explosions-damage-shell-agip-oil-facilities-in-bayels. (12) Vedi articolo su https://channel16.dryadglobal.com/. https://channel16.dryadglobal.com/update-1-eni-declares-force-majeure-on-nigeria-brass-river-crude-exports. (13) Vedasi, per esempio, il caso subito il 27 novembre 2020 dalla bulk carrier Roberto Rizzo, bandiera italiana della Società Rb-Rd Armatori. Si è, in effetti, trattato solo di un tentativo di intrusione di alcuni soggetti mentre la nave si trovava alla fonda nella rada antistante il porto di Takorado (Ghana), comunque sventato grazie all’allarme attivato da parte di guardie private di sicurezza (non armate) presenti a bordo; cfr. https://www.shippingitaly.it/2020/11/28/attacco-sventato-su-una-naveitaliana-di-rb-rd-armatori-nel-golfo-di-guinea/). (14) Lloyd’s List, Maritime Intelligence, Daily Briefing, Friday November 20, 2020, p.4, ANALYSIS – Armed guards “not the answer” to piracy threat. (15) Il F/V Iris S. (IMO8210493), attaccato e abbordato a circa 108 miglia nautiche a sud di Cotonou da uomini armati su due motoscafi, ha subito il rapimento di 5 membri dell’equipaggio (il capitano, il Chief Officer, il secondo ufficiale e 2 Ingegneri — tutti di nazionalità sud-coreana a parte un tecnico di macchina filippino), https://channel16.dryadglobal.com/idnapping-108nm-south-cotonou?. (16) Cfr. https://stableseas.org/publications/maritime-terrorism/state-piracy-2018-human-cost. (17) Best Management Practice to Deter Piracy and enhance Maritime security off the Coast of West Africa including the Gulf of Guinea; vedi https://wwwcdn.imo.org/localresources/en/OurWork/Security/Documents/BMP%20West%20Africa.pdf. (18) PCASP: Privately Contracted Armed Security Personnel. Per i mercantili battenti bandiera italiana il Decreto del ministero della Difesa del 24 settembre 2015 individua le acque internazionali a rischio di pirateria ove, in base alla Legge 130 del 2 agosto 2011, a bordo è consentito l’impiego di guardie giurate armate; secondo il predetto decreto, tra le acque internazionali individuate soggette a rischio pirateria, rientra la porzione di mare davanti le coste occidentali africane compresa fra i paralleli 36° N e 15° S e che si estende a partire dalle coste fino al meridiano 30°W. (19) Cfr. http://portoeinterporto.blogspot.com/2021/04/golfo-di-guinea-contro-la-pirateria.html. (20) Vedi https://www.marina.difesa.it/cosa-facciamo/per-la-difesa-sicurezza/operazioni-in-corso/Pagine/martinengo_missione_guinea.aspx. (21) Vedi https://www.marina.difesa.it/media-cultura/Notiziario-online/Pagine/20210512_nave_rizzo_assicura_protezione_alle_piattaforme_offshore.aspx. (22) ICS (International Chamber of Shipping), cfr. https://www.ics-shipping.org/current-issue/piracy-in-west-africa/. In ambito ICS l’Armamento nazionale è rappresentato da Confitarma. (23) ECSA (European Community Shipowner’s Association). Cfr. https://www.ecsa.eu/news/piracy-situation-still-serious-gulf-guinea. (24) https://www.imo.org/en/MediaCentre/PressBriefings/pages/GulfOfGuineaMay2021.aspx. (25) BIMCO (Baltic and International Maritime Council), cfr. https://www.bimco.org/GoGDeclaration. (26) Uno strumento «leggero e flessibile che consente agli Stati membri dell’UE presenti in aree di interesse marittimo di condividere consapevolezza, analisi e informazioni» (https://eeas.europa.eu/headquarters/headquarters-homepage_es/91970/. (27) IMO, Maritime Safety Committee resolution calls for greater collaboration to tackle escalating attacks in Gulf of Guinea, 19 maggio 2021 (https://www.imo.org/en/MediaCentre/PressBriefings/pages/GulfOfGuineaMay2021.aspx). (28) In Nigeria, il Deep Blue Project, struttura operativa di security marittima sostenuta dall’agenzia NIMASA (Nigerian Maritime Administration and Safety Agency), nonostante i ritardi anche nella formazione/addestramento del personale chiave a causa delle restrizioni legate al Covid-19, stante alle dichiarazioni delle stesse autorità governative, dovrebbe essere operativo entro fine 2021. Con un budget di 195 miliardi di dollari, lo scorso anno il progetto è stato assegnato all’azienda israeliana HLSI Security Systems and Technologies Limited (mast-security.com/maritime-security/west-africa). L’attuazione effettiva del progetto è, di fatto, molto lenta; nondimeno secondo fonti aperte (allafrica.com/stories/201911220133.html) risulta aperta un’indagine governativa sul contratto stipulato tra il Nigerian Federal Ministry of Transportation e la stessa HLSI. Secondo molti il progetto può funzionare solo se si realizzerà una reale partnership tra la NIMASA e la Nigerian Navy, cosa finora mancata. Inoltre, le autorità nigeriane ripetutamente confermano che hanno intensificato gli sforzi di cooperazione anche con rappresentanti dell’industria marittima, istituendo tra l’altro, a maggio 2020, un gruppo di lavoro congiunto (il c.d. NIMASA Joint Working Group - NJWG) che dovrebbe risolvere anche le diverse posizioni delle varie amministrazioni locale coinvolte e che, a oggi, reciprocamente reclamano presunte carenze. (29) ARX Mouldings, Whitepaper - Will the pressure of Covid-19 bring a return of piracy to East Africa?, 29 giugno 2019 (https://arxmouldings.com/).

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PANORAMICA TECNICO-PROFESSIONALE

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Figura 1 - L’Infinito Mediterraneo quale rappresentazione dei nuovi Teatri operativi marittimi (CESMAR).

Analisi per lo sviluppo progettuale di un pattugliatore d’altura per la Marina Militare italiana e la Marina de Guerra del Perù .(*) Walter Andres Canales Herrera, (**) Guglielmo Domini, (***) Marzio Pratellesi

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(*) È entrato nella Marina peruviana in qualità di ufficiale di vascello nel 2010. Nel 2011, è stato selezionato per continuare la propria formazione presso l’Accademia navale di Livorno, dove è rimasto fino al 2015 quando si è laureato in Scienze marittime e navali. Successivamente, ha frequentato il «Corso di perfezionamento per ufficiali delle Marine estere» presso il Centro di Addestramento aeronavale di Taranto, al termine del quale è rientrato in patria. È stato impiegato quale ufficiale di rotta sulle unità della Marina peruviana ex classe «Maestrale» ed ex classe «Pohang». Nel 2017 ha frequentato il corso di specializzazione navale presso la «Escuela de Superficie» peruviana. Nel 2018, ha frequentato un master presso la «Naval Post-Graduate School» di Montego Bay (Stati Uniti) sui sistemi di comando e controllo. Attualmente presta servizio presso la «IV Zona Naval» a Pucallpa in qualità di ufficiale alle Telecomunicazioni impegnato nelle attività di paattugliamento interno. (**) Tenente di vascello Stato Maggiore. Ha frequentato l’Accademia navale di Livorno, laureandosi in «Scienze marittime e navali» presso l’Università di Pisa, con una tesi premiata dall’Ufficio Storico della Marina Militare. È stato imbarcato su nave Caio Duilio come ufficiale di rotta (fino al 2017); successivamente sull’HMS Defender (cacciatorpediniere lanciamissili britannico) in qualità di Officer of the Watch sino al 2019, nell’ambito del Personnel Exchange Program con la Royal Navy. Specializzatosi TLC/IOC nel 2020, è attualmente capo Reparto TLC/CN-Me sul nuovo pattugliatore Thaon di Revel. (***) Sottotenente di vascello Stato Maggiore. Nell’estate 2016 si laurea in Scienze marittime e navali discutendo una tesi in missilistica. Dal settembre 2016 al febbraio 2017 svolge presso MARICENTADD Taranto il corso basico di Tattica navale e consegue l’abilitazione in Direzione del Tiro. Ha svolto l’incarico di capo Componente artiglieria su nave Luigi Rizzo e ha preso parte alla circumnavigazione del Sud America, a bordo della nave scuola messicana ARM Cuauhtémoc. Nel biennio 2019-21, ha svolto un PEP (Personnel Exchange Program) con la Marine Nationale, ricoprendo l’incarico di capo Settore autodifesa del cacciatorpediniere Forbin. Sta conseguendo la Laurea Magistrale in Scienze marittime e navali presso l’Accademia navale di Livorno. ARTICOLO EDITO SU INVITO DELLA DIREZIONE

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uesto documento, la cui stesura si è conclusa a febbraio 2021, rappresenta una sfida raccolta dal Centro Studi di Geopolitica e Strategia Marittima che ha coinvolto ufficiali di due Marine amiche nella ricerca di specifiche tecniche per un pattugliatore in grado di operare negli oceani e che risponda alle esigenze delle Marine italiana e peruviana. La genesi del progetto di ricerca nasce dalla consapevolezza che le ZEE sono diventate non tanto e non solo una forma di «territorializzazione» del mare, quanto piuttosto uno spazio da gestire: ovvero difendere, proteggere e controllare.

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Tale esigenza è molto sentita in Perù, pressato com’è da necessità di grande complessità quali l’inquinamento da plastica e da microplastica, la pesca indiscriminata, il monitoraggio climatico e la salvaguardia dell’ecosistema oceanico. Se a ciò si aggiunge la vastità delle acque da pattugliare, che si spingono sino all’Antartide, si può comprendere l’urgenza e la necessità di dotarsi di mezzi adeguati a far fronte a questi scopi. Per la Marina italiana era interessante e degno di nota individuare un mezzo navale che fosse originale, contenuto nelle misure e nel dislocamento e soprattutto versatile operativamente al fine di poter svolgere un adeguato ruolo di controllo delle ZEE, ma a costi contenuti e attraverso l’impiego di un mezzo spendibile. Da questi punti fermi gli autori sono partiti per giungere, al termine, a una soluzione che si ritiene essere metodologicamente e operativamente molto valida. Se a questa ricerca non potrà far seguito la costruzione di un’unità come quella immaginata, non dobbiamo né preoccuparci né rattristarci. Quello che davvero è importante risiede nell’aver sviluppato un’idea guida, un progetto concreto, logicamente sensato e bilanciato nelle sue componenti, e lo è ancor di più quando gli originatori sono giovani ufficiali. Sappiamo benissimo le molteplici ragioni che possono cancellare, rallentare, condizionare il futuro di un progetto, il futuro di questa classe di pattugliatori, come per esempio: l’esigenza di rispettare i tempi di costruzione di unità simili su cui il comparto industriale e la Marina hanno già investito molto o, ancora, la mancanza di fondi a disposizione. È successo altre volte, ma se il tentativo nasce da un serio studio strategico a monte, pur se messo da parte, esso non muore, ma costituisce un seme che può rinnovarsi, costituire lo spunto per altri progetti che fanno proprie tali idee per applicarle su classi di navi similari. Per questa ragione ringrazio questi giovani ufficiali di Marina, per il coraggio di mettersi in gioco e per la disponibilità dimostrata nel dedicare parte del loro tempo libero allo studio e alla stesura di questo documento. Ringrazio poi il Centro Studi di Geopolitica e Strategia Marittima (CESMAR) e la Comision de Estudio Estrategico-maritimos - Istituto de Estudios Historico-Marittimo del Perù (CEEM-IEHMP) con i quali è nata e si sta sempre più consolidando una partnership di grande valore culturale

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nel campo della geopolitica marittima. Desidero anche evidenziare l’importante contributo di pensiero dei soci del CESMAR, tra i quali in particolare: Giancarlo Poddighe, Michele Cosentino e Francesco Zampieri che hanno seguito a distanza, stimolato e consigliato i nostri giovani ufficiali sulle giuste rotte da seguire. Oltre a questo aspetto non va dimenticata l’importanza dei rapporti interpersonali, piccoli dettagli ma importantissimi per chi solca le onde: Canales Herrera e Domini sono compagni di corso, avendo studiato insieme in Accademia navale, mentre Pratellesi ha svolto una fondamentale esperienza professionale a bordo di una nave scuola della Marina messicana, entrando in contatto con i migliori ufficiali coetanei dell’intera America Latina; conoscenze che ha saputo poi coltivare e saldare nel tempo. A ciò si deve aggiungere la partecipazione, sia di Domini sia di Pratellesi, al Personnel Exchange Program (PEP) presso rispettivamente la Royal Navy e la Marine Nationale. Tutti e tre sono quindi giovani ufficiali che hanno nella loro formazione già esperienze internazionali, che li rendono maggiormente inclini a guardare gli scenari mondiali attraverso ottiche originali e fuori dagli schemi. Loro, tutti i giovani, rappresentano un investimento fondamentale per le nostre Marine che va stimolato e non fatto disidratare. Una delle responsabilità maggiori degli ufficiali più anziani è proprio quella di rappresentare uno stimolo per i giovani, un aiuto. Questa è la nostra vocazione più importante, questa da sempre la vocazione della Rivista Marittima. Abbiamo esempi illustri della nostra tradizione navale ai quali possiamo e dobbiamo attingere come, per esempio, l’ammiraglio Romeo Bernotti, primo direttore dell’Istituto di Guerra Marittima di Livorno, di cui l’Istituto di Studi Militari Marittimi di Venezia è il degno erede. Significativamente, all’atto della fondazione dell’Istituto (di cui a breve ricorre il centenario) aveva chiarito sin dall’inizio — come speriamo viva per sempre —, che i giovani ufficiali non sono diversi dai loro insegnanti. Il termine insegnante per l’ammiraglio Bernotti doveva essere bandito e lo aveva sostituito con quello di coadiutore, perché i frequentatori dei corsi erano comunque colleghi a cui era dovuto l’aiuto e il supporto per trovare le chiavi del ragionamento in grado

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di aprire tutte le porte che schiudono il sapere nel campo navale. A questo il CESMAR e il CEEM-IEHMP si rifanno come esempio, e siamo molto felici che il risultato di questo lavoro sia stato ottimo, al punto da invitare a perseverare su altri temi di interesse. Prima di concludere questa mia premessa, vorrei sottolineare come lo studio operativo di un progetto di un’unità navale non sia mai un lavoro semplice. Molte sono le Scuole di Guerra dove i frequentatori si cimentano in un’impresa che per molti versi appare impossibile. La sfida è di contenere i costi, ridurre il numero di personale di bordo, poter usufruire di mezzi tecnici di avanguardia, contare su di un’autonomia ragguardevole e contemporaneamente pensare a un dislocamento contenuto. Il mezzo deve poi avere motori e generatori semplici e affidabili, saper «reggere» bene il mare e soprattutto consentire condizioni di vivibilità adeguate a lunghe missioni fuori dalle basi nazionali. Se a tutto ciò uniamo le famose tre caratteristiche che l’ammiraglio Tirpitz indicava come proprie di ogni nave: galleggiare, galleggiare e ancora galleggiare, è facile pensare come l’impresa possa sembrare impossibile, ma sappiamo tutti che così non è, e che alla fine un compromesso si trova e con esso la soluzione. La Rivista Marittima è molto grata a tutti coloro che a vario titolo hanno collaborato a questo lavoro di sicuro valore operativo e anche scientifico, e siamo felici di aver aiutato questi giovani ufficiali di Marina a poter esprimere il loro libero e costruttivo pensiero. Ci auguriamo che nella scia molti giovani possano seguire, nel solco dell’ordinamento secolare della Rivista Marittima: «palestra di studi navali, tecnici e scientifici». Il Direttore della Rivista Marittima

§1. Introduzione Lo scopo del presente documento è di individuare un progetto di unità navale che possa rispondere alle esigenze della Marina Militare peruviana e della Marina Militare italiana. Tale progetto contribuirà a una stretta collaborazione tra i due paesi. L’obiettivo è di proporre un hardware condiviso tra le due Marine, adattabile funzionalmente in base alle esigenze operative di ciascun paese. La condivisione del medesimo progetto permette

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altresì di ridurre i costi di ricerca e sviluppo, potendo quindi utilizzare il budget per migliorarne la tecnologia. Come si evincerà dal testo, la scelta è ricaduta su una nuova classe di pattugliatori d’altura di circa 100 m di lunghezza che possano garantire un’autonomia elevata anche a grandi distanze dalla costa. Il pattugliatore viene sviluppato per un impiego tattico che ne permetta un prolungato periodo di presenza e sorveglianza in mare, garantendo una robusta Maritime Situational Awareness mediante i sensori organici e un complesso di droni integrati al sistema di combattimento. Requisito fondamentale del pattugliatore sarà elevata capacità TLC, LINK e SATCOM per permettere lo scambio di informazioni con gli MPA/UAV (Maritime Patrol Aircraft/Unmanned Aerial Vehicles) non organici e con i centri di comando e controllo nazionali. Gli Oceanic Exclusive Zone Patrol Vessel (OEZPV) saranno equipaggiati con sistemi d’arma in grado di garantire l’autodifesa e potenzialmente (Fit For SAM) la difesa antiaerea ravvicinata di un HVU (High Value Unit), tuttavia l’armamento sarà prioritariamente incentrato sul contrasto ai traffici illeciti via mare e su operazioni in zone di crisi con forte minaccia asimmetrica. Il raggio d’azione dell’unità sarà particolarmente elevato grazie alla presenza simultanea di un elicottero medio (per esempio SH-90 e in prospettiva AW169) e un mezzo RHIB (Rigid Hull Inflatable Boat) motoscafo protetto di circa 11 m con elevata autonomia, a cui si aggiungono due ulteriori mezzi minori di circa 9 m per le operazioni a breve distanza dall’unità madre. Valore aggiunto dell’OEZPV sarà la forte adattabilità a svolgere una vasta gamma di missioni: Maritime Security Operations, supporto umanitario, inserzione di forze speciali, missioni idro-oceanografiche, il tutto grazie all’imbarco di moduli dedicati e alle elevate capacità di alloggio. Il pattugliatore si inserisce nella visione strategica di fornire allo strumento della Difesa un’unità polivalente, onnipresente e atta al Sea Control della

Zona Economica Esclusiva e al supporto delle attività di interesse strategico del cluster marittimo nazionale.

§2. Requisiti operativi Si illustrano i requisiti operativi che sono stati maggiore argomento di riflessione per la realizzazione di questo studio. La difficoltà di far convergere le esigenze operative per un pattugliatore d’altura/corvetta in favore della Marina de Guerra del Perù e della Marina Militare italiana non è risultata particolarmente vincolante, dal momento che l’hardware strutturale dei pattugliatori può essere condiviso ampiamente da entrambi gli utilizzatori e il sistema di combattimento è adattabile in funzione del fabbisogno tattico. Per quanto concerne l’impiego nazionale, l’OEZPV è concepito per inserirsi in tutti i contesti operativi dell’Infinito Mediterraneo (Concetto descritto nella CESMAR 002, edizione gennaio 2021), uno spazio marittimo strategico che fisicamente si dirama dal Mediterraneo allargato verso gli altri Teatri operativi lambendo i circoli polari e occupando stanzialmente alcune aree del globo al di fuori del nostro teatro di riferimento, come il Golfo di Guinea, l’Artico, l’Oceano australe e l’Indo-Pacifico. I requisiti strutturali più stringenti, che hanno obbligato a trovare un compromesso bilanciato di più fattori sono stati: — la capacità oceanica, ovvero la ricerca di una carena in grado di sopportare lunghi periodi di pattugliamento in alto mare in condizioni meteomarine avverse; Figura 2 - Il CESMAR ha allo studio nuovi Teatri operativi (4 marittimi e 1 terrestre) che qui si ripropongono (CESMAR).


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— il dislocamento di 2.500 t, facilmente superabile se si cercano maggiori standard abitativi, l’imbarco di apparati per una robusta RAP (Recognized Air Picture) e RMP (Recognized Maritime Picture), nonché sistemi d’arma, droni e mezzi minori; — l’equipaggio di 70 membri, con la possibilità di imbarcare almeno altri 30 elementi in tirocinio/addestramento; — la possibilità di imbarcare droni leggeri tipo UAV e di controllare droni medi/pesanti lanciati da terra (radar di sorveglianza aerea, sistemi Sat-com). In Figura 3 è illustrato il Priority Balance alla guida del processo decisionale nella definizione dei parametri per il nuovo pattugliatore in questione. Gli ambiti in cui si è stati chiamati a trovare un equilibrio sono: l’abitabilità, la navigabilità e l’operatività; in particolare: — abitabilità: possibilità di imbarcare fino a 100 persone con buoni standard di vita per missioni prolungate (almeno 3 m3 o più a persona). Si cercherà quindi di non sacrificare i locali di vita e di massimizzare al massimo l’integrazione e l’interfaccia uomo-macchina del sistema di combattimento e di piattaforma al fine di ridurre il personale fisso di bordo; — navigabilità: si cercherà di aumentare la lunghezza della nave (circa 107 m) e dotare la carena di pinne stabilizzatrici; le sovrastrutture saranno quanto più leggere a vantaggio di una maggiore robustezza dello scafo. Un baricentro basso (migliore «stabilità di peso») permette l’imbarco di ulteriori container sulla sovrastruttura dell’unità; Figura 3 - Priority Balance per la progettazione dell’OEZPV (Oceanic Exclusion Zone Patrol Vessel) - (autori).

— l’operatività è rappresentata da: - 3 mezzi minori a chiglia rigida, di cui uno protetto; - capacità di compiere RAP ed RMP con un radar multifunzionale; - sistemi d’arma di difesa quali artiglierie di piccolo e medio calibro; - capacità di imbarco di UAV tipo Leonardo AW HERO/Scan Eagle; - capacità di condividere ad alta velocità la situazione tattica con i centri di comando e controllo a terra e le unità del dispositivo tattico; - MOOTW, Military Operations Other than war: spazi aggiuntivi per imbarco di container; - possibilità di implementazione di sistemi d’arma missilistici ASuW (Anti Surface Warfare) e AAW (Anti Air Warfare).

§3. Soluzioni già sviluppate da FINCANTIERI, base per l’OEZPV La Tabella alla pagina accanto illustra i progetti già realizzati da Fincantieri in materia di pattugliatori d’altura; come si può evincere: a una lunghezza comparabile, il dislocamento varia drasticamente in funzione dei sistemi imbarcati. Basandoci sui progetti già realizzati, o in fase di sviluppo da parte di Fincantieri, si propone di utilizzare come base lo scafo della classe «Al Zubarah», riadattando le sovrastrutture e i sistemi imbarcati in accordo con le nuove esigenze operative e garantendo allo stesso tempo una forte modularità e implementazione funzionale. Interessante soluzione, ma fuori dai requisiti di dislocamento, è la progettazione di un’unità classe «Dattilo», che offre il vantaggio di possedere un’eccellente abitabilità e una significativa capacità di imbarcare materiali. Il progetto di un «“classe Dattilo” armato», si collocherebbe nel pattugliatore oceanico con la silhouette tipica del rimorchiatore d’altura, alla stregua della classe «d’Entrecasteux» francese, ma le basse velocità operative rendono queste unità poco convertibili alla lotta sopra la superficie.

§4. Considerazioni generali dell’Oceanic Exclusive Zone Patrol Vessel La missione principale dell’OEZPV è la protezione della Zona Economica Esclusiva nazionale garantendo una lunga permanenza in mare (30 giorni) come piat-

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Tabella - OPV (Offshore Patrol Vessel) prodotti da Fincantieri, in verde le caratteristiche concordi al progetto dell’OEZPV (autori).

taforma di sorveglianza, controllo e coordinamento di assetti minori imbarcati (RHIB, USV e UAV organici) e proiettabili da terra (UAV a lungo raggio). Alla pagina successiva si illustrano le caratteristiche principali. La silhouette del pattugliatore dovrà essere furtiva (bassa Radar cross-section) per garantire discrezionalità radar in operazioni alturiere e capacità di mascheramento nel clutter costiero per operazioni in Shallow Water (infiltrazione SOF, lotta ai traffici illeciti). I materiali saranno funzionali all’operatività e all’endurance in mare pur mantenendo un basso dislocamento; in particolare si propone uno scafo in acciaio e sovrastrutture in alluminio-marino e materiale composito. Al fine di soddisfare il balance tra navigabilità, abitabilità e operatività si propone un adattamento funzionale della classe «Al Zubarah», già prodotta da Fincantieri. I vantaggi di tale scafo consistono in una migliorata navigabilità rispetto alla classe «Comandanti»; inoltre, l’aumento degli spazi rispetto alla sopracitata classe, consente di sviluppare soluzioni a vantaggio dell’abitabilità e dell’imbarco di ulteriori apparati rispetto alla classe «Cigala Fulgosi»: guerra elettronica, un RHIB poppiero, due

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droni, un radar di sorveglianza tridimensionale, degli spazi funzionali per container e la predisposizione per un sistema missilistico a corto raggio con lanciatore VLS (Vertical Launching Sistem). Lo spazio previsto per il lanciatore può essere utilizzato come area di stoccaggio materiali vari o deposito equipaggiamenti (forze speciali, materiale umanitario), a similitudine dello spazio VLS disponibile sulle FREMM e sui DDG «Orizzonte». La mo-

Figura 4 - Nave DICIOTTI, design spazioso e altamente abitabile con ottima endurance in alto mare, velocità ridotta ed elevato dislocamento (CC BY-SA 4.0).

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Caratteristiche principali OEZPV Lunghezza Larghezza Dislocamento p.c. Propulsione Velocità Autonomia Stabilizzazione Sensori

Figura 5 - Corvetta pesantemente armata classe «Al Zubarah» della Marina del Qatar, una versione alleggerita e funzionale di questa classe rappresenta il punto di arrivo del presente elaborato (Fincantieri).

torizzazione per la classe «Al Zubarah» (unità con maggiore dislocamento) permette all’unità di raggiungere la velocità di 28 nodi, caratteristica non necessaria al nostro progetto, per il quale si propone una motorizzazione che permetta di fare spunti a 25 nodi e una velocità di crociera economica a 12 nodi con bassi consumi; per tale motivo si ipotizza una configurazione CODLAD (Combined Diesel Electric and Diesel) rispetto a una configurazione più semplice, in termini di apparati, quale la CODAD (Combined Diesel and Diesel). È interessante ipotizzare un pattugliamento full electric a 12 nodi e spunti, alla massima velocità disponibile sui diesel di prolusione, per investigare un contatto di interesse. La suite sensoristica è concepita per garantire una completa sorveglianza above water e un controllo totale dello spazio marittimo con il concorso di mezzi a pilotaggio remoto (UAV e USV). Per quanto riguarda i mezzi minori, si vuole dotare il pattugliatore di due RHIB laterali tipo ZODIAC Hurricane e un RHIB/imbarcazione protetta/USV su uno scivolo poppiero. Il ponte di volo potrà accogliere un elicottero da 11 tonnellate tipo NH 90, con un hangar non estensibile, in grado di ospitarlo e manutenerlo.

Armamento principale

Ponte di volo Mezzi minori Mezzi Unmanned

107 m 14 m 2.800 t CODLAD 25 Kn 30 giorni a 12 Kn 2 pinne 1 radar tridimensionale 1 radar navigazione ARPA 1 radar appontaggio 1 radar controllo tiro 76/62 DAVIDE 2 x 25/80 remotizzate 12,7 Hit role 2 Minigun Elicottero da 11 t 2 RHIB 9 m 1 RIHB 11 m/Motoscafo Drone tipo Leonardo AW HERO Fit for UUV/USV

§5. Implementazioni funzionali dell’Oceanic Exclusive Zone Patrol Vessel 5.1 Sistema di combattimento 5.1.1 Sensori radar Al fine di poter garantire un’analisi autonoma dello scenario tattico e contribuire a una robusta recognized maritime picture si propone la seguente suite di sensori radar: — un radar multifunzione tipo Leonardo Kronos Naval in banda Charlie in grado di garantire una completa sorveglianza aerea e di superficie. Sarà il radar principale del pattugliatore e dovrà essere integrato nel sistema di combattimento in modo da: - garantire una chiara RAP fino a 80/100 km e il controllo efficace degli aeromobili organici (droni ed elicotteri); - contribuire alla RMP nazionale; - essere un sistema di condotta del tiro per il 76/62 di bordo;

Figura 6 - Rendering dell’OEZPV: lo scafo richiama una classe «Comandanti» allungata e le sovrastrutture sono affini alla classe «Al Zubarah», con un’ottimizzazione degli scarichi dei motori termici principali per asciare ampi spazi liberi sul cielo dell’hangar e per la «tuga container» (autori).

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Figura 7 - Suddivisione degli spazi di bordo in macro aree funzionali (autori).

- essere un radar di guida missili ASTER/CAMM ER in caso di implementazione futura degli stessi sulle unità; — un radar di navigazione integrato con il sistema NAVS di bordo; — un radar per appontaggio elicotteri integrato con il sistema NAVS di bordo; — un sistema IFF SIR-K integrato con il radar Kronos Naval; — un radar controllo del tiro NA 25-X in banda X con annessa suite di sensori IR/TV. 5.1.2 Sensori elettro-ottici Il pattugliatore possiederà un sistema elettrottico stabilizzato MEDUSA MK/4B per la sorveglianza elettro-ottica nei settori poppieri, per completare la sorveglianza prodiera già fornita dal sistema MSTIS di condotta del tiro. 5.1.3 Sistemi d’arma Al fine di garantire una completa capacità di autodifesa da minacce di tipo convenzionale e asimmetrico e la proiezione di potenza nelle Maritime Interdiction Operations, si è stabilito di dotare il pattugliatore dei seguenti sistemi d’arma: — un sistema 76/62 DART DF che garantisca una valida difesa antimissile e sufficienti capacità antinave, impiegabile soprattutto contro naviglio scarsamente protetto e in caso di warning shots; — 2 sistemi 25/80 remotizzati, controllati da due consolle in plancia; — 2 mini-gun sulle alette di plancia;

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— 12,7 hit role remotizzata da posizionare sul tetto dell’hangar elicotteri per coprire i settori poppieri senza esposizione di personale; — 4 postazioni di Browning 12,7 mm sul ponte di volo e sulla copertura dell’area manovra di prora; — adattabili al lanciatore Sylver A 43 per 8 missili ASTER 15/CAMM ER: questa soluzione è un requisito già presente nella classe «Al Zubarah». Il sistema CAMM ER, di futuro sviluppo, garantirebbe anche una sufficiente capacità ASuW a corto/medio raggio; — possibilità di imbarco e stoccaggio di sistemi d’arma spalleggiabili per assolvere missioni ad ampio spettro: missili spike a similitudine delle UNPAV (Unità Navale Polifunzionale ad Altissima Velocità), sistemi antidroni di tipo elettromagnetico. 5.1.4 Apparati TLC Il parco antenne e le capacità TLC dell’unità devono essere senza dubbio commisurate alle grandi distanze dalla costa in cui opererà l’assetto. Al fine di garantire un’adeguata capacità di Comando, Controllo e Comunicazione si ritiene necessario imbarcare i seguenti apparati: — un sistema satellitare preferibilmente tri-banda X/C/Ku così da poter garantire il collegamento con le corrette frequenze in base alla situazione operativa, imbarcato in prossimità dell’albero centrale, con due antenne simmetriche al fine di assicurare una copertura a 360°; — almeno due sistemi GPS commerciali, possibilmente anche con capacità differenziale, cui aggiungere

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Oceanic Exclusive Zone Patrol Vessel «for a ZEE dominance»

eventualmente anche un sistema GPS militare; — 8 antenne ricetrasmittenti UHF di nuova generazione da posizionare sull’albero; — 2 antenne ricetrasmittenti bi-banda V/UHF HK-014; — 4 antenne MF/HF stilo 10,5 m; — 2 antenne MF/HF stilo 7 m; — un’antenna ricetrasmittente VHF MIL posizionata sul cielo hangar. Il sistema per l’adeguato controllo di un così complesso parco antenne può essere il nuovo Software Defined Radio (SDR) di recente sviluppo, che garantisce flessibilità nell’impiego degli apparati. Preferibilmente l’SDR dovrà essere diviso in due sottosistemi, uno per la gestione della banda UHF e uno per la gestione delle bande MF/HF. Alle installazioni citate in precedenza, di carattere puramente operativo, bisogna aggiungere gli apparati di uso commerciale, ma fondamentali su questa tipologia di unità come l’intera suite di apparati e antenne del sistema GMDSS che comprendono un’antenna satellitare INMARSAT C, almeno un apparato MF/HF, almeno un apparato VHF. Le comunicazioni interne saranno garantite dal sistema 4G LTE che permette comunicazioni fino a 15 km dall’unità. Ciò risulta particolarmente utile quando vengono impiegati i mezzi minori dell’unità per attività di boarding. 5.1.5 Guerra elettronica Un grande limite della classe «Comandanti» è il non possedere una suite di guerra elettronica in grado di intercettare comunicazioni e analizzare le trasmissioni in area operativa. La disponibilità di apparati di intercettazione passivi permette al pattugliatore di compiere missioni di raccolta informazioni e possedere una RMP/RAP più chiara e completa. L’intercettazione di comunicazioni radio permette inoltre una maggiore sorveglianza sui traffici illeciti e la loro organizzazione. Non è necessaria l’installazione di sistemi di disturbo attivi non essendo, a differenza della classe «Al Zubarah», una corvetta di difesa aerea. Tramite i sistemi imbarcati sarà possibile effettuare sia Communication Electronic Support Measures (CESM) che Radar Electronic Support Measures (RESM), simili ai sistemi SLQ 751 già in commercio.

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5.1.6 Sistema di combattimento Il sistema di combattimento dovrà integrare tutte le componenti sensoristiche e i sistemi d’arma, inoltre dovrà essere interconnesso con banche dati aggiornabili dalla nave stessa e dai suoi sensori, in modo da poter garantire una conoscenza completa e costante dello spazio marittimo. Il sistema di combattimento dovrà possedere cartografie interattive e correlare tutti gli elementi provenienti dalla rete link tattica (Link 1116-22-JReap), la RMP nazionale e i propri strumenti di scoperta e tracciamento. 5.2 Sistema di piattaforma Per la propulsione del pattugliatore si indica una configurazione CODLAD, con un apparato propulsivo ibrido: elettrico per le andature di crociera e diesel/elettrico-termico per le alte velocità. Gli spazi ristretti e ottimizzati per la maggiore abitabilità nonché la volontà di ridurre funzionalmente l’equipaggio fisso di bordo, possono far valutare una configurazione propulsiva meno complessa e con meno apparati connessi di tipo CODAD con 3 diesel-generatori per le utenze elettriche. In configurazione CODLAD ibrido, in caso di propulsione esclusivamente termica, i motori elettrici saranno generatori di energia per le utenze di bordo. Si propone di installare, viste le dimensioni dell’unità, un’elica di manovra azimutabile tipo ART nei settori prodieri, asservita da un diesel generatore della rete di bordo. L’ART ha la finalità di agevolare la fase di ormeggio/disormeggio e la possibilità di fornire un apparato propulsivo drive home. Il sistema di piattaforma dovrà essere fortemente automatizzato e remotizzato, al fine di ridurre il personale imbarcato. Per il controllo dei sistemi di piattaforma si considera una centrale operativa di piattaforma in un locale separato ma annesso alla plancia dell’unità. 5.3 Mezzi minori imbarcati L’Oceanic Exclusive Zone Patrol Vessel dispone di 3 mezzi minori imbarcabili: due RHIB da 9 metri presenti nei rispettivi vani imbarcazioni al centro (su ambo i lati) e un battello a chiglia rigida da 11 metri manovrabile dalla zona manovra di poppa. Si propone, quale innovazione e punto di forza del pattugliatore, la disponibilità poppiera di un’imbarcazione ad alta velocità,

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gar estendibili, ma al fine di facilitare le operazioni di movimentazione soprattutto in condimeteo avverse, il pattugliatore sarà dotato di un sistema recovery assist, secure and traverse e di una deck locking grid. 5.5 Mezzi Unmanned

Figura 8 - Sistema CODLAD (Combined Diesel Electric and Diesel), proposto in prima opzione (MAN Diesel & Turbo).

all weather, protetta, con capacità di proiettare a lunghe distanze il braccio armato del pattugliatore, compensando il gap di velocità dato dalle basse velocità di pattugliamento dell’OEZPV. A tale scopo, si ipotizza l’imbarco di una fast patrol boat classe «Interceptor» prodotta dai cantieri Vittoria in una versione da 11 m. L’imbarcazione, definibile Long range interceptor/Interceptora de largo alcance sarà a prua tronca per favorire le fasi di abbordaggio. La spiaggia poppiera offre inoltre la possibilità di imbarco di un mezzo tipo USV (Unmanned Surface Vehicle) per il pattugliamento da remoto o droni UUV (Unmanned Underwater Vehicle) per missioni di tipo idrografico. 5.4 Elicottero organico L’unità è adibita all’imbarco di un elicottero di 11 tonnellate tipo NH 90, specifica garantita da tutti gli OPV prodotti da Fincantieri. Non si ipotizzano han-

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L’unità potrà imbarcare un UAV tipo AW Hero/Scan Eagle, imbarcabile in uno spazio adibito dell’hangar; il controllo dello stesso avverrà attraverso una consolle della centrale operativa di combattimento. L’unità potrà inoltre controllare ed essere interconnessa con dei droni a lungo raggio lanciabili da terra. La slitta poppiera è adattabile all’imbarco di un mezzo di superficie a controllo realternativa al sistema CODAD moto per migliorare le capacità di sorveglianza e di intercetto del pattugliatore. Al fine di compiere missioni di carattere oceanografico, si propone la predisposizione all’imbarco di ROV (Remotely Operated Vehicle) e UUV, controllabili attraverso dei moduli specificatamente imbarcati nella «tuga container funzionali». 5.6 Modularità Per garantire un’efficace capacità di imbarco supplementare (Dual Use, Military Operations other than War, disaster relief, special operations forces), l’unità è in grado di imbarcare 2/3 container standard (244x259x1.220 cm) nella zona dei centri, sul tetto delle aree RHIB, opportunamente rinforzate. L’unità non dispone di una gru per l’imbarco/sbarco poiché averne una ad alto tonnellaggio sul tetto dell’hangar utilizzabile per questa sola funzione sarebbe poco funzionale e dispendioso (esposizione all’ambiente marino/manutenzioni). L’unità è predisposta per ac-

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Figura 9 - Manovre di messa a mare RHIB da una fregata francese (Zodiac MIilpro). Accanto: figura 10 - Vittoria C855, 49’ Interceptor, High Speed Boat (Cantieri Navali Vittoria).

cogliere un sistema VLS con missili a corto raggio; in sua assenza, lo spazio può essere adibito allo stoccaggio materiali vari; l’imbarco dei suddetti avviene a mezzo gru esterna tramite un portellone apribile sul cielo del lanciatore. Il concetto di modularità attraverso l’imbarco di apparati ad hoc destinati implica una flessibilità di impiego e una polivalenza estremamente utili qualora si debba operare in campi che spaziano dal controllo delle vie di comunicazione e dei traffici marittimi, alle operazioni idrooceanografiche, piuttosto che a operazioni anti pirateria o di controllo della pesca.

§6. Equipaggio Per conciliare le esigenze operative e le necessità logistiche dell’OEZPV, la Tabella d’armamento ipotizzata è composta da 78 membri includendo il personale previsto per un elicottero medio imbarcato. Gli alloggi previsti per la classe «Al Zubarah» sono per 110 persone; di conseguenza l’OEZPV offre la possibilità di assolvere le missioni assegnate in modo da poter imbarcare ulteriori 32 elementi. Al fine di garantire alti standard di vivibilità per l’equipaggio fisso di bordo, si propongono alloggi di massimo 6 membri, dotati di bagno doccia e con standard abitativi civili. Con lo scopo di migliorare la permanenza in mare dell’equipaggio si propone la progettazione di spazi ricreativi quali palestre (impiego all-weather) e Quadrati funzionali con possibilità di conversione in sale multimediali (proiettori, sistemi audio, wifi). Inoltre, i camerini saranno dotati di porte telematiche per l’accesso ai servizi internet con possibilità di controllo del flusso e dei contenuti da parte del locale radio.

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§7. Conclusioni L’OEZPV permetterebbe alla Marina Militare italiana e alla Marina de Guerra del Perù di raggiungere i propri obiettivi strategici nel rispettivo spazio marittimo di interesse. Nel caso italiano si acquisirebbe la capacità di garantire una sorveglianza efficace, economica e continuativa del Mediterraneo allargato, adattandosi alle criticità del nuovo scenario strategico. Nel caso della Marina sudamericana, l’OEZPV garantirebbe un’efficace capacità di contrasto alla pesca illegale e ai traffici illeciti, nonché l’affermazione strategica della propria marittimità nei confronti dei competitors. Il punto di forza di questo progetto è senza dubbio la flessibilità di impiego della nave: essa può operare sia come unità isolata sia come parte integrante di un Gruppo navale. L’OEZPV può alleggerire il carico operativo delle unità maggiori (fleet in being ready to fight) nel pattugliamento d’altura, risultando una proiezione onnipresente e multi-dominio (satelliti e droni) dello strumento marittimo nazionale. Il balance three: requisiti operativi, abitabilità e navigabilità è rispettato nel presente e le soluzioni adottate possono essere funzionali nel futuro, per una lunga vita operativa del pattugliatore. In sintesi, capacità all weather, connettività, modularità ed efficienza sono le linee guida dell’Oceanic Exclusive Zone Patrol Vessel. 8 Rivista Marittima Settembre 2021


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BAP GUARDIAMARINA SAN MARTIN (ex-BAP CARVAJAL), fregata missilistica classe «Lupo» riconvertita in pattugliatore alturiero dalla Guardia costiera del Perù, svolge principalmente missioni di pattugliamento nella ZEE peruviana (Marina de Guerra del Perù). In basso: nave LUIGI RIZZO e un elicottero SH-90 assicurano la protezione delle piattaforme off-shore nazionali nel Golfo di Guinea.

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PANORAMICA TECNICO-PROFESSIONALE

Il sistema politico e istituzionale del GIAPPONE Rodolfo Bastianelli

Nato a Roma il 5 novembre 1969. Laureato in Giurisprudenza a Roma, ha effettuato un corso di specializzazione post-laurea presso l’Institut Français des Relations International (IFRI) a Parigi. Dopo aver lavorato presso le riviste Ideazione e Charta Minuta, dal 2011 segue la politica estera per L’Occidentale. È professore a contratto di Storia delle relazioni internazionali e collabora inoltre con LiMes, Informazioni della Difesa, Rivista di Politica, Affari Esteri e il settimanale on-line dello IAI, Affari Internazionali. Collabora con la Rivista Marittima dal 2009.

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«Il Giappone è una monarchia costituzionale con un sistema di governo parlamentare di tipo multipartitico. Dal punto di vista amministrativo, il paese si presenta come uno Stato unitario suddiviso in 43 prefetture, un distretto metropolitano (Tokyo), due prefetture urbane (Kyoto e Osaka) e un distretto (Hokkaido)» - (Fonte immagine: en.wikpedia.org).

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Il sistema politico e istituzionale del Giappone

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l Giappone è una monarchia costituzionale con un sistema di governo parlamentare di tipo multipartitico. Dal punto di vista amministrativo, il paese si presenta come uno Stato unitario suddiviso in 43 prefetture, un distretto metropolitano (Tokyo), due prefetture urbane (Kyoto e Osaka) e un distretto (Hokkaido). L’attuale assetto politico e istituzionale è stato definito dopo il Secondo conflitto mondiale, quando le autorità alleate di occupazione imposero un nuovo testo costituzionale per dare al Giappone una struttura democratica che sostituisse la vecchia Costituzione di tipo autoritario e imperialista in vigore dal 1889. Redatta durante il regno dell’imperatore Meiji, questa attribuiva al sovrano un ruolo fondamentale nella struttura politica del paese. In base a quanto enunciato dagli articoli 3 e 4, l’imperatore disponeva di tutte le

L’Imperatore Meiji (1852-1912), qui ritratto nel 1890, è stato il 122o imperatore del Giappone dal 3 febbraio 1867 sino alla sua scomparsa avvenuta il 30 luglio 1912. Guidò l’impero in un contesto di grandi cambiamenti, vedendolo mutare da uno Stato feudale a una potenza mondiale capitalistica e imperialistica attraverso la rivoluzione industriale giapponese (wikipedia.it).

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prerogative per la gestione dell’azione di governo e la sua persona era dichiarata sacra e inviolabile, essendo considerato come un Dio vivente in quanto la sua autorità derivava direttamente dalla religione shintoista (1). Sul piano politico poi, anche se il testo istituiva una prima suddivisione dei poteri, si affermava come l’imperatore avesse il diritto di opporre il veto a ogni provvedimento approvato dalla «Dieta» e come fosse sempre sua prerogativa in caso di emergenza di emettere delle ordinanze senza il consenso del potere legislativo. I ministri erano poi obbligati ad assistere l’imperatore nell’esercizio delle sue funzioni amministrative, mentre lo stesso ruolo del premier risultava alquanto limitato, disponendo quindi di prerogative assai più contenute rispetto a quelle dei suoi omologhi europei. Inoltre, il governo non era responsabile verso la «Dieta», ma nei confronti dell’imperatore. Sempre al sovrano spettava poi il comando dell’Esercito e della Marina, il potere di proclamare lo «stato d’assedio» e di dichiarare la guerra. Riguardo all’organizzazione della giustizia, l’autonomia delle corti e della magistratura erano fortemente ristretti e i diritti di cui godevano i cittadini nipponici risultavano quanto mai limitati e ritenuti soltanto una «benevola elargizione» del sovrano, in quanto questi non disponevano di alcun diritto costituzionale che li tutelasse dalle azioni compiute dal governo non potendo, infatti, contestare davanti alle corti nessun atto amministrativo. Il legislativo, la «Dieta», si componeva di una Camera dei rappresentanti i cui membri erano eletti direttamente dai cittadini anche se l’esercizio del diritto di voto era limitato a quelli di sesso maschile che disponevano di un determinato livello di ricchezza personale, e di una Camera dei pari composta da appartenenti alla nobiltà e personalità designate dall’imperatore. Infine, la stessa libertà di espressione risultava considerevolmente limitata da tutta una serie di disposizioni legislative (2). Ma con la sconfitta subita dal Giappone nel Secondo conflitto mondiale si assisterà a una radicale trasformazione della struttura politica e istituzionale del paese. Già nella Dichiarazione di Potsdam, rilasciata nel luglio 1945, i governi di Stati Uniti, Gran Bretagna e Repubblica di Cina affermavano come il Giappone

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avrebbe dovuto rimuovere tutti gli ostacoli per il rafforzamento delle istituzioni democratiche e introdurre il principio della libertà di pensiero, di espressione e di religione unitamente a quello del rispetto dei diritti umani (3). Così, dopo la resa dichiarata il 15 agosto 1945 e la conseguente accettazione della Dichiarazione di Potsdam da parte del governo di Tokyo, il Giappone venne posto sotto l’autorità del generale Douglas MacArthur in qualità di Comandante supremo per le Forze alleate (Supreme Commander for the Allied Powers, SCAP) al quale spettava la prerogativa di indirizzare le direttive al governo giapponese nonché l’autorità finale su ogni decisione (4). E uno degli obiettivi di MacArthur era rappresentato proprio dalla redazione di un nuovo testo costituzionale che sostituisse quello del 1889 così da rimuovere nella popolazione giapponese l’ideologia autoritaria e imperialista fino ad allora predominante nella cultura del paese. La nuova Costituzione avrebbe dovuto ispirarsi a tre principi, quali la revisione dello status sacro di cui godeva l’imperatore all’interno del sistema politico e sociale giapponese, l’introduzione di una forma di governo parlamentare unitamente all’introduzione nella Carta costituzionale di una serie di diritti e doveri spettanti ai cittadini. Appariva però evidente come il governo e le autorità giapponesi non avessero né la forza politica di procedere a una revisione costituzionale data la drammatica situazione sociale ed economica in cui si trovava il paese dopo il conflitto, né la volontà di modificare il sistema istituito con la Costituzione del 1889 essendone stati parte integrante e avendone condiviso i principi autoritari enunciati. Sarà quindi dopo un anno dalla fine del conflitto che il nuovo testo costituzionale verrà inviato ai due rami della «Dieta» giapponese, dove questo il 24 agosto 1946 riceverà l’approvazione della Camera dei rappresentanti con 421 voti favorevoli e 8 contrari a cui seguirà un mese dopo quella della Camera dei pari con 298 sì e 2 no. La versione definitiva sarà poi approvata dalla Camera dei rappresentanti a larga maggioranza e il 29 ottobre 1946 il Consiglio privato, alla presenza dell’imperatore Hirohito, firmava il nuovo testo costituzionale che verrà promulgato il 3 novembre per entrare ufficialmente in vigore il 3 maggio 19475.

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Douglas MacArthur (1880-1964) è stato un generale statunitense. Personalità di grande prestigio delle Forze armate americane del XX secolo, dimostrò qualità di comando e notevoli capacità strategiche durante le numerose campagne di guerra a cui prese parte, nel corso della Seconda guerra mondiale e la guerra di Corea. Qui ritratto assieme al 124o imperatore del Giappone, Hirohito (1901-89) - (wikipedia.it). In alto: una sessione della Conferenza di Potsdam, da cui è scaturito il documento firmato il 26 luglio 1945 dagli Alleati nel quale si esponevano le condizioni per la resa giapponese. Il testo della dichiarazione terminava affermando che, se il Giappone non si fosse arreso, sarebbe andato incontro a una «rapida e totale distruzione» (en.wikipedia.org/Bundesarchiv).

Il ruolo dell’imperatore secondo la Costituzione attuale Il nuovo testo costituzionale, oltre a introdurre una ben definita separazione dei poteri, dichiarava come ogni atto contrario ai principi espressi nella Costituzione — che rappresentava la legge suprema del paese — fosse da ritenersi nullo, fissava la divisione dei po-

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teri, sanciva il rispetto dei diritti umani e modificava sostanzialmente il ruolo istituzionale dell’imperatore. Se, infatti, in base al dettato costituzionale del 1889 questo possedeva una natura divina ed era al centro del sistema politico, stando al testo del 1947 il sovrano perdeva invece la sua sacralità, trasformandosi nel simbolo dello Stato nipponico e dell’unità del popolo giapponese all’interno del nuovo sistema democratico nel quale non avrebbe esercitato alcun effettivo potere politico o di governo. Le funzioni di cui oggi dispone l’imperatore sono quindi quelle di ordine protocollare esercitate dai sovrani nelle monarchie costituzionali degli altri paesi. In base alla Costituzione, spetta all’imperatore la prerogativa di nominare il primo ministro e il presidente della Corte suprema, di promulgare le leggi, di ratificare i trattati internazionali, di dissolvere la Camera dei rappresen-

L’imperatore Emerito Heisei (1933) è un membro della famiglia imperiale giapponese, 125º imperatore del Giappone dal 1989 al 2019. Qui ritratto assieme all’imperatrice Michiko (wikipedia.it). In alto: Naruhito (1960), 126º imperatore del Giappone, dal 1º maggio 2019. L’era giapponese corrispondente al suo regno porta il nome di Periodo Reiwa (periodo di bella armonia) e di conseguenza, secondo la tradizione giapponese, dopo la sua morte gli sarà attribuito il nome postumo di imperatore Reiwa (wikipedia.it).

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tanti e di procedere alla nomina e alle dimissioni dei ministri del governo. Nel corso del regno di Akihito — il quale ha ufficialmente abdicato il 30 aprile 2019 – l’imperatore ha però svolto un ruolo significativo nel campo delle relazioni internazionali. Pur spettando la gestione della politica estera al primo ministro e al ministero degli Esteri, Akihito in quest’area ha svolto un’importante funzione nella politica di riconciliazione con i paesi che hanno subito l’occupazione giapponese durante il Secondo conflitto mondiale, come avvenuto nel corso dei viaggi effettuati nel 1992 in Cina e nel 2016 nelle Filippine o in occasione della visita compiuta nel 1990 a Tokyo dall’allora presidente sudcoreano Roh Tae-woo, tutte occasioni in cui l’Imperatore ha espresso il suo rincrescimento per le azioni commesse dalle Forze armate nipponiche (6). In merito alla monarchia giapponese, va poi sottolineata la prassi, indicata come «a ogni imperatore, il nome di una nuova era», secondo la quale l’ascesa al trono di un nuovo sovrano segna l’inizio un nuovo periodo che viene denominato con un nome appositamente scelto dal governo e selezionato tra quelli proposti da burocrati ed esperti. L’attuale periodo, iniziato il 1o maggio 2019 con l’ascesa al trono dell’imperatore Naruhito, è indicato come «era Reiwa», ovvero «della bella armonia» (7).

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Calendario giapponese risalente al 1873 (en.wikipedia.org).

Le prerogative del governo e del legislativo All’interno dell’esecutivo la figura più importante è rappresentata dal primo ministro, la cui posizione è stata rafforzata dopo la riforma varata nel 2001, la quale ha reso il suo ruolo più incisivo in particolare verso la burocrazia, da molti analisti considerata un freno all’azione di governo, e ha attribuito al premier la prerogativa di presentare al gabinetto i provvedimenti riguardanti la politica estera, la sicurezza nazionale e l’economia. Con la stessa riforma si è poi istituito l’Ufficio di gabinetto e il Segretariato di gabinetto, un ufficio con il compito di coordinare i diversi ministeri e le agenzie e che è diretto dal capo del Segretariato di gabinetto, il quale costituisce una delle personalità più importanti all’interno del governo, tanto da essere indicato come una sorta di premier ombra, svolgendo anche il ruolo di portavoce dell’esecutivo. In base alla Costituzione, il primo ministro, che deve essere un membro del legislativo e una personalità civile, viene eletto dalla «Dieta» per essere poi formalmente nominato dall’imperatore. Tuttavia, nella procedura di designazione da parte della «Dieta» il ruolo della Camera dei rappresentanti, ovvero la Camera bassa, risulta essere preponderante rispetto a quello della Camera dei consiglieri.

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Difatti, qualora i due rami della «Dieta» esprimessero un diverso candidato alla carica di primo ministro e non fosse possibile raggiungere un’intesa nella commissione congiunta oppure nel caso in cui la Camera dei consiglieri non riuscisse a esprimersi nei dieci giorni successivi al voto della Camera dei rappresentanti, il candidato designato da quest’ultima costituirà quello indicato dalla «Dieta». Il governo, composto da undici ministri che vengono designati e revocati dal premier, è responsabile collegialmente davanti alla «Dieta», anche se solo la Camera dei rappresentanti può revocare la fiducia all’esecutivo. E nel caso la Camera bassa approvi una mozione di censura o respinga un voto di fiducia richiesto dal governo, questo è tenuto a dimettersi a meno che entro dieci giorni la Camera dei rappresentanti non venga dissolta, lasciando così l’esecutivo uscente in carica fino all’elezione di un nuovo primo ministro. È poi sempre prerogativa del premier di chiedere lo scioglimento della Camera dei rappresentanti e convocare elezioni anticipate (8). Riguardo al legislativo, la «Dieta» giapponese è di tipo bicamerale e si compone di una Camera dei consiglieri e di una Camera dei rappresentanti, il cui ruolo, come detto sopra, risulta però nettamente predominante (9). Questa si compone di 465 membri che restano in carica per quattro anni. Di questi, 289 vengono eletti attraverso il maggioritario a turno unico in altrettanti collegi uninominali, mentre 176 sono designati con il sistema proporzionale in undici circoscrizioni elettorali. Solo la Camera dei rappresentanti dispone della prerogativa di revocare la fiducia al governo mentre, in merito alla procedura di approvazione dei provvedimenti legislativi, nel caso la Camera dei consiglieri si esprimesse in maniera differente, la sua opposizione può essere superata da una nuova deliberazione presa dalla Camera bassa con la maggioranza dei due terzi dei voti. La legge di bilancio deve essere invece presentata alla Camera dei rappresentanti e, nel caso la Camera dei consiglieri si esprimesse in maniera negativa e non fosse possibile raggiungere un’intesa all’interno della commissione congiunta oppure qualora questa non riuscisse a pronunciarsi nei trenta giorni seguenti il voto della Camera bassa, la decisione presa dalla Camera dei rappresentanti costituirà quella della «Dieta».

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La Camera alta della «Dieta», ovvero la Camera dei consiglieri, è stata istituita con la Costituzione del 1947 e ha sostituito la precedente Camera dei pari esistente nella Costituzione del 1889 la quale si componeva di nobili ereditari, membri della famiglia imperiale e di personalità designate dall’imperatore. La Camera dei consiglieri si compone di 245 membri che restano in carica per sei anni anche se ogni tre anni questa viene rinnovata per metà dei suoi componenti. Il metodo di elezione prevede che dei 121 membri eletti in ogni rinnovo parziale, 73 siano designati in ognuno dei 47 distretti prefetturali del paese per mezzo di un particolare procedimento elettorale denominato «voto singolo non trasferibile» (10), mentre i restanti 47 vengano invece indicati con il sistema proporzionale. Il ruolo della Camera dei consiglieri risulta decisamente più defilato rispetto alla Camera dei rappresentanti, non potendo la Camera alta revocare la fiducia al governo e avendo, nella procedura di approvazione dei provvedimenti legislativi, solo la possibilità di ritardarne l’approvazione. Tuttavia, il parere della Camera dei consiglieri risulta essenziale nel procedimento di revisione costituzionale, la quale stabilisce che ogni emendamento debba essere approvato da entrambi i rami della «Dieta» con la maggioranza dei due terzi dei voti per essere poi successivamente sottoposto a referendum popolare. E data la rigidità di questa procedura, la Costituzione nipponica non è stata mai emendata dal momento della sua introduzione nel 1947. Va infine sottolineato come, a differenza della Camera dei rappresentanti, la Camera dei consiglieri non può essere dissolta anticipatamente, in quanto le elezioni per il rinnovo, secondo quanto stabilito dalla Costituzione, devono svolgersi ogni tre anni, avendo il governo solo il compito di fissare la data delle consultazioni.

La Costituzione «pacifista» e la riforma dell’articolo 9 Uno degli obiettivi delle potenze alleate all’indomani del Secondo conflitto mondiale fu non solo quello di avviare un processo di democratizzazione delle istituzioni nipponiche, ma anche di smantellarne la struttura militarista, dove le Forze armate fino al 1945 avevano disposto di un potere quanto mai rile-

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vante nella società, così da impedire che il Giappone potesse costituire ancora un pericolo dal punta di vista militare. Vennero quindi prima disciolte le Forze armate imperiali nel novembre 1945, poi nel gennaio 1946 epurati dagli incarichi governativi tutti gli ufficiali ritenuti essere attestati su posizioni ultranazionaliste e infine sempre nello stesso anno istituito il Tribunale militare internazionale per l’Estremo Oriente (International Military Tribunal for the FarEast) con il compito di processare ventotto tra personalità politiche e alti ufficiali considerati responsabili di crimini di guerra e contro la pace (11). Questa nuova visione della politica e della società nipponica si rifletterà anche nella stesura della Costituzione del 1947, la quale all’art. 9 enuncia espressamente il principio del pacifismo dichiarando come il Giappone rinuncia alla guerra proibendo inoltre al paese di mantenere in servizio delle Forze militari aeree, navali e terrestri stabili. Tuttavia, prima il mutato quadro geopolitico sorto con l’inizio della Guerra Fredda e poi lo scoppio del conflitto coreano, spinsero il generale MacArthur a dichiarare nel discorso di capodanno del 1950 come il Giappone avesse il diritto a riarmarsi per assicurare la sua difesa. Ma sarà con l’entrata in vigore del Trattato di Pace di San Francisco nel 1952, il quale riconosceva per il Giappone il diritto all’autodifesa individuale o collettiva secondo quanto enunciato dall’art. 50 della Carta della Nazioni unite, che la questione del riarmo del paese iniziò a entrare nel dibattito politico nazionale. Così, nell’agosto 1950 veniva istituita la National Police Reserve, una forza paramilitare equipaggiata con armamento leggero che due anni più tardi si trasformerà nella National Safety Force dotata di oltre centomila effettivi. In seguito, nel luglio 1954 venivano quindi formate le Forze di autodifesa (Self-Defence Forces, SDF), mentre nel dicembre dello stesso anno l’allora premier Ichiro Hatoyama dichiarava che, pur non enunciando espressamente la Costituzione il diritto all’autodifesa, questa però non lo negava apertamente, aggiungendo inoltre come ogni paese aveva il diritto di difendersi ed era quindi ovvio che il Giappone, essendo uno Stato indipendente, disponeva di questa prerogativa pur rinunciando alla guerra (12). Tuttavia, le disposizioni costituzionali

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negli anni successivi limiteranno sempre la capacità operativa delle Forze di autodifesa giapponesi, in quanto il paese disponeva solo del «diritto di autodifesa individuale» e non di quello «collettivo», non potendo quindi le sue Forze militari andare in supporto degli Stati legati al Giappone da trattati di alleanza. Di conseguenza, in ogni occasione in cui il Giappone ha preso parte a missioni internazionali è stata sempre necessaria un’apposita autorizzazione legislativa della «Dieta», tanto che, a detta di diversi analisti, il ruolo delle Forze di autodifesa è stato più simile a quello di una Forza di polizia che non di una militare (13). A partire dagli anni Settanta però il governo di Tokyo, di fronte all’emergere di un scenario in cui la Corea del Nord e la Cina venivano ritenuti un pericolo sempre più crescente per la sicurezza nazionale, ha cercato di alleggerire le limitazioni imposte alla difesa «collettiva», tanto che una serie di accordi internazionali unitamente alla legislazione approvata nel 1999 che ha modificato l’operatività della Forze di autodifesa ha di fatto autorizzato il Giappone ad attuare delle azioni militari nei confronti di pericoli provenienti dall’estero percepiti come imminenti. E un ulteriore passo verso il rafforzamento delle capacità operative delle Forze di autodifesa si è avuto nel luglio 2014, quando il governo allora guidato da Shinzo Abe ha proceduto a una nuova interpretazione dell’art. 9 in base al quale il Giappone è ora autorizzato alla «difesa collettiva» potendo così andare in supporto di un paese alleato nel caso si trovasse sotto attacco (14). In quell’occasione lo stesso Abe ha rilasciato un do-

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cumento, intitolato Cabinet Decision on Development of Seamless Security Legislation to Ensure Japan’s Survival and Protect Its People, nel quale si sottolinea come il governo è giunto alla conclusione che non solo quando il Giappone fosse attaccato, ma anche nel caso in cui un paese con il quale Tokyo ha stretti rapporti di alleanza subisse un’aggressione oppure si presentasse una minaccia esterna in grado di porre un serio pericolo all’esistenza della nazione giapponese, l’uso della forza militare al livello minimo necessario dovrebbe essere autorizzata interpretando in questo senso il testo costituzionale (15). E nel 2017 sempre Abe ha dichiarato alla «Dieta» come il contesto strategico regionale «(…) fosse per la sicurezza del Giappone uno dei più severi e critici mai esistiti…», sostenendo così la necessità di procedere a una revisione dell’art. 9 della Costituzione (16). 8

Yoshihide Suga è un politico giapponese, ex primo ministro del Giappone dal settembre 2020, sostituito nella carica di premier, dal 4 ottobre 2021, da Fumio Kishida. Precedentemente è stato ministro degli Affari interni e delle comunicazioni e segretario generale del governo negli esecutivi guidati da Shinzō Abe (wikipedia.it). In alto: Shinzō Abe è un politico giapponese, che è stato il più longevo primo ministro del Giappone, avendo ricoperto tale carica una prima volta dal settembre 2006 al settembre 2007 e una seconda dal 26 dicembre 2012 al 16 settembre 2020. È stato anche il più giovane primo ministro giapponese della storia. È un esponente della corrente più conservatrice del Partito Liberal Democratico (LDP), nonché uno dei più nazionalisti (repubblica.it).

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NOTE (1) Secondo la leggenda, il Jimmu Tennū, ovvero il Primo imperatore che nel 660 a.C. avrebbe fondato la dinastia regnante giapponese, discenderebbe direttamente dalla dea del Sole Amaterasu Omikami. Questa aura di sacralità che circondava la figura imperiale assumeva degli aspetti che oggi risultano difficili da comprendere, come quello per cui la sua voce non fu mai ascoltata nel paese sino al 15 agosto 1945, quando l’allora imperatore Hirohito lesse alla radio il proclama, peraltro scritto con il giapponese arcaico in uso all’interno della corte imperiale il quale risultò poco comprensibile per la popolazione, con cui annunciava la resa del Giappone agli alleati. Questo aspetto religioso della persona del sovrano emerse anche in occasione della preparazione dei Giochi Olimpici di Tokyo del 1940 — che poi non vennero disputati a causa della guerra —, quando uno dei punti in discussione verteva proprio sul modo in cui Hirohito avrebbe dovuto dichiarare aperta la manifestazione, essendo considerata blasfema non solo la sua presenza allo stadio, ma anche che parlasse a un microfono. (2) Sulla Costituzione giapponese del 1889 vedi, The Constitution: Context and History, in Shigenori Matsui, The Constitution of Japan: A Contextual Analysis, Hart Publishing, Londra 2011, pp.1-35. (3) A luglio 1945, all’interno del governo di Tokyo, vi era ancora la convinzione che si potesse giungere a una «pace negoziata» dove il Giappone avrebbe conservato alcune conquiste effettuate in Asia e il suo territorio nazionale non sarebbe stato occupato. Da parte alleata però si continuava invece a richiedere nient’altro che la resa senza condizioni, lasciando intendere di essere disposti solo a prendere in considerazione il mantenimento della monarchia con il ruolo dell’imperatore ridotto a pure funzioni cerimoniali e che Hirohito non fosse processato come criminale di guerra. Così, quando il 10 agosto, dopo lo sganciamento della seconda atomica su Nagasaki e la successiva dichiarazione di guerra dell’Unione Sovietica al Giappone, il Consiglio imperiale si riunì, l’imperatore usò il suo peso determinante per far approvare una risoluzione nella quale si affermava come il Giappone era pronto ad arrendersi, richiedendo come sola condizione il mantenimento della monarchia. Il 12 agosto Truman accettò la proposta di resa giapponese dichiarando che l’imperatore sarebbe rimasto sul trono ma solo con un ruolo di tipo cerimoniale. Vedi su questo Japan Surrenders 10-15 August 1945 al sito https://www.osti.gov/opennet/manhattan-project-history/Events/1945/surrender.html. (4) Diversamente dalla Germania, dove le quattro potenze alleate avevano assunto direttamente il controllo del governo unitamente a tutte le attività politiche e amministrative del paese, in Giappone le autorità di occupazione, delle quali non facevano parte esponenti dell’Unione Sovietica, operavano invece attraverso il governo giapponese che aveva il compito di attuare le direttive emanate da MacArthur, il quale, va ricordato, aveva insistito perché la monarchia non venisse abolita e l’imperatore venisse lasciato sul trono. Con la firma del Trattato di Pace di San Francisco del 1951 e la sua entrata in vigore nell’aprile 1952, la sovranità giapponese su tutto il territorio del paese venne ripristinata, con l’eccezione però delle isole Ryukyu, le quali rimasero sotto il controllo degli Stati Uniti fino al 1971. (5) Vedi sulla redazione della Costituzione giapponese del 1947 John Van Sant, Democracy and Discontinuity: Japan’s Postwar Constitution, apparso in UCLA Historical Journal, n.13, Anno 1993, pp.61-88. (6) In merito all’abdicazione va ricordato come questa non fosse contemplata nell’ordinamento e nella legge di successione della casa regnante nipponica. L’ultimo sovrano a prendere questa decisione difatti era stato l’imperatore Kōkaku, il quale nel 1817 abdicò a favore di suo figlio. Così, quando nell’agosto 2016 Akihito dichiarò come intendesse abdicare a causa delle sue condizioni di salute, la «Dieta» giapponese iniziò la procedura per l’introduzione di un provvedimento legislativo che consentisse al sovrano di prendere questa decisione. La legge venne provvisoriamente approvata nel giugno 2017 e, di conseguenza, nel dicembre 2017 Akihito dichiarò, quindi, ufficialmente la sua intenzione di abdicare avviando così il procedimento che si sarebbe concluso il 30 aprile 2019 con la sua abdicazione e l’ascesa al Trono del Crisantemo di suo figlio Naruhito. Sulla procedura di successione esistente nella casa regnante giapponese vedi al sito https://www.kunaicho.go.jp/e-kunaicho/hourei-01.html. (7) L’uso del calendario imperiale venne introdotto in Giappone dalla Cina circa milletrecento anni fa, ma fu solo a partire dal Regno dell’imperatore Meiji (1868-1912) che l’usanza di far seguire l’ascesa al trono di un nuovo sovrano con l’inizio di una nuova era iniziò a essere effettivamente utilizzata. In base alla tradizione, il nome che indica ogni nuova fase consiste di due caratteri cinesi che non devono essere presenti in nessuna delle combinazioni utilizzate per indicare i periodi passati, ma per la nuova era iniziata con l’ascesa al trono di Naruhito si è preferito invece far uso di caratteri tratti dal Manyoushu, un’antica raccolta giapponese di poesie risalente all’VIII secolo. Finora il Giappone ha conosciuto questi cinque diversi periodi a partire dal 1868: Meiji (o era del governo illuminato, imperatore Meiji, 1868-1912 ), Taishō (o era della grande giustizia, imperatore Taishō, 1912-26 ), Shōwa, (o era della pace illuminata, imperatore Hirohito, 1926-89), Heisei (o era della pace raggiunta, imperatore Akihito, 1989-2019) e infine l’attuale Reiwa (o era della bella armonia, imperatore Naruhito, regnante dal 1o maggio 2019). (8) Sul ruolo del governo in Giappone vedi Japan’s Parliament and other political institutions, Briefing Continental Democracies, European Parliament Think-Tank, 15 dicembre 2020. (9) Sui risultati delle elezioni per la Camera dei rappresentanti tenutesi dal 1947 al 2017 vedi al sito http://www.parlgov.org/explore/jpn/election, mentre invece per quelli relativi all’elezione della Camera dei consiglieri svoltesi dal 1969 al 2016 vedi al sito http://archive.ipu.org/parline-e/reports/2162_arc.html. (10) Il «voto singolo non trasferibile» prevede che l’elettore possa esprimere un solo voto per un candidato all’interno di un collegio plurinominale. Si tratta quindi di un sistema simile al maggioritario, ma che a differenza di questo permette una maggiore rappresentatività consentendo che in un collegio vengano eletti anche esponenti di diversi partiti. (11) Delle cento personalità sospettate di crimini di guerra di cui lo SCAP aveva ordinato l’arresto, solo ventotto vennero portate in giudizio: di queste, due scomparvero per cause naturali nel corso del processo, mentre la posizione di un’altra venne stralciata a causa dei suoi gravi problemi psichiatrici. Nei confronti dei venticinque imputati rimasti, la sentenza emessa tra il 4 e il 12 dicembre 1948 stabilì per sette di loro la condanna a morte per crimini di guerra, contro l’umanità e contro la pace, mentre per altri sedici la detenzione a vita. Tuttavia, tre di questi morirono in carcere e gli altri tredici vennero tutti rilasciati tra il 1954 e il 1956. Uno dei problemi che le autorità alleate si trovarono ad affrontare era quello riguardante il ruolo di Hirohito che, in quanto Comandante supremo dell’Esercito e della Marina e responsabile della più alta posizione all’interno del governo, avrebbe dovuto essere anch’esso processato. Le autorità alleate ritennero però che se l’imperatore fosse comparso in giudizio per prima cosa vi sarebbero stati problemi di ordine legale e di sicurezza, ma soprattutto avrebbe avuto un impatto negativo sulla politica di occupazione del Giappone e quindi sulla stabilità dell’intera regione asiatica. Ancora oggi comunque, la questione se Hirohito avrebbe dovuto essere o meno processato continua a sollevare delle discussioni. Sul processo ai criminali di guerra nipponici vedi Yuma Totani, Tokyo War Crimes Trial, in The Encyclopedia of War, Wiley-Blackwell, Hoboken 2011. Sulle sentenze e i nominativi dei condannati vedi invece Tokyo War Crimes Trial, consultabile al sito https://www.nationalww2museum.org/war/topics /tokyo-war-crimes-trial. (12) Le Forze di autodifesa rispondevano non a un ministero ma all’Agenzia di autodifesa e sarà solo nel 2007 che verrà istituito il ministero della Difesa. Un altro limite imposto era poi quello che il bilancio destinato alla Difesa non superasse l’1% del PIL, quota che nel corso degli anni non è mai stata superata. Tuttavia, lo scorso maggio, il ministro della Difesa Nobuo Kishi ha dichiarato come, visto il contesto regionale, il Giappone è pronto a destinare una percentuale più alta per le spese militari. Vedi su questo Japan to scrap 1% GDP cap on defense spending: Minister Kishi, Nikkei Asia, 21 maggio 2021. (13) Con la legge approvata nel 1992 che consente alle Forze di autodifesa giapponesi di essere dispiegate anche all’estero, queste hanno partecipato a diverse operazioni di peacekeeping delle Nazioni unite nonché alla missione Enduring Freedom in Afghanistan e a quella in Iraq con un ruolo di forza logistica, prendendo inoltre parte alla coalizione internazionale antipirateria attiva nel Golfo di Aden e a missioni di aiuto nei paesi asiatici colpiti da disastri naturali. Sull’organizzazione delle Forze di autodifesa giapponesi vedi Japan: Defence and Security Policy Reform, European Parliament Research Service (EPRS), gennaio 2016. (14) Le Forze di autodifesa giapponesi contano 247.150 effettivi, dei quali 150.850 appartengono alle Forze terrestri, 43.500 alle Forze navali e 46.950 alle Forze aeree. I riservisti sono 56.000. La Guardia costiera dispone di 14.200 effettivi. Dati tratti da The Military Balance 2020, International Institute for Strategic Studies (IISS), Londra. (15) Vedi sulle modifiche attuate all’operatività delle Forze militari Jeffrey P. Richter, Japan’s “Reinterpretation” of Article 9: A Pyrrhic Victory for American Foreign Policy?, apparso su Iowa Law Review, vol. 101, n.3, anno 2016, pp.1223-1262. (16) Sul piano politico, a favore della revisione dell’art. 9 della Costituzione si dichiarano il Partito Liberaldemocartico (LDP), principale formazione del centro-destra e rimasto quasi sempre al governo dal dopoguerra a oggi, e i suoi alleati buddhisti del Komeito anche se con posizioni più sfumate. Sono invece contrari a ogni modifica le forze d’opposizione di centro-sinistra, rappresentate dal Partito Costituzionale Democratico (CDP) e dal Partito Comunista (JCP). Va poi ricordato che dal 16 settembre 2020 Yoshihide Suga, sempre dell’LDP, ha sostituito Shinzō Abe alla guida del governo.

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SAGGISTICA E DOCUMENTAZIONE

La navigazione in DANTE Silvestro Sannino

Già dirigente superiore per i Servizi ispettivi del ministero della Pubblica istruzione, si è occupato sempre di navigazione, sia sotto l’aspetto scientifico-didattico e storico sia in situazioni operative e di ricerca. Laureato in Scienze nautiche (1968). Ha insegnato navigazione negli ITN dal 1967 al 1985. È stato ispettore tecnico del MIUR, settore tecnologico, dal 1985 al 2010. Tra le sue pubblicazioni si segnalano: I Sistemi di Istruzione Nautica in Italia e nel Mondo (1980); Meteorologia Nautica (1982); Principi di Navigazione (1985); Elementi di Matematica per le Applicazioni (1985); Storia della Navigazione (in due volumi, 2007); Civiltà Agricola Vesuviana (2009); Dante e la Navigazione (2012); L’Arte Nautica di Cristoforo Colombo (2014). Oltre ai libri indicati sopra ha pubblicato numerosi articoli di Storia della navigazione su riviste italiane, sia cartacee sia online.

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«Dante indica numerosi metodi atti a fornire gli strumenti per navigare: l’orientamento, la misura del tempo, le condizioni di navigazione. Egli impiega la fenomenologia terrestre e astronomica mediante originali e ingegnosi meccanismi» (Fonte immagine: raicultura.it). In basso: Giuseppe Bernardino. Dipinto dell’Arsenale di Venezia (wikipedia.it).

Profilo del Dante Nauticus Nella immensa letteratura su Dante mancano studi o riferimenti sistematici all’arte nautica, alle competenze navigatorie del Poeta. Analisi, considerazioni e commenti ad alcuni aspetti legati a note metafore navigatorie sono molto diffusi; ma non mi pare esistano tentativi di inquadrare il Dante Nauticus in una prospettiva globale, in una visione organica di insieme, per esplorare e fare emergere significati meno immediati, meno evidenti, ma più profondi e più generali. Eppure la Commedia racconta un viaggio e il viaggio, per natura e per concezione, è assimilabile all’azione del navigare, per cui non deve sorprendere se nell’opera di Dante, nella sua poesia, la navigazione sia molto presente con funzioni e significati reali e simbo-

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lici. I principali riferimenti nautici sono contenuti sia nella Commedia e sia nel Convivio. Da tali riferimenti emerge una notevole sensibilità del nostro Poeta per l’azione del navigare e una visione organica, non episodica, della materia, seppure spesso espressa in figure retoriche e in stile poetico aulico. Il saggio si propone di evidenziare la concezione filosofica e operativa del Dante Nauticus, vale a dire la sua teoria della navigazione estesa all’ambito sociale e politico. Dante considera il Grundthema, il tema fondamentale del muoversi «per lo gran mar dell’essere» (Pd, I, 113), potente metafora nautica che contiene i tre elementi centrali: «il mare, il porto, la navigazione, attorno ai quali ruota una serie policroma di similitudini, metafore e allusioni». Il tema sottende il concetto del navigare, in una teoria della navigazione la quale trova nel Convivio (IV, IV, 5-6) una definizione precisa: a bordo tutti gli uffici sono ordinati e mirano a un solo fine, cioè a «prendere il desiderato porto per salutevole via». Questa definizione implica il concetto di una navigazione progettata e pianificata; inoltre essa deve seguire la via più idonea, più conveniente, più vantaggiosa, in sintesi «salutevole». La condizione contiene l’idea e una filosofia basata su utili e sapienti compromessi, tra costi compatibili e benefici ottenibili, tra assunzione di rischio e un ragionevole grado di sicurezza, scelta dettata da una attenta e ponderata valutazione della incidenza dei numerosi fattori in gioco, in un processo complesso come pochi. I riferimenti danteschi della Commedia, e in parte del Convivio, forniscono numerosi elementi per cercare e seguire l’orientamento, nonché per la misura del tempo con gli astri. Si possono quindi individuare le rotte seguite, sia costiere sia per l’alto mare, in funzione delle condizioni geografiche e ambientali del

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navigare. La navigazione di Ulisse, fatta per «l’alto mare aperto», indica i motivi di un’impresa ardita, temeraria, in un ambiente ignoto. Non mancano richiami e allusioni ai segni del tempo e del mare, le varie operazioni marinaresche, le manovre delle navi in mare e in porto. Vengono descritti i lavori fatti alla nave nell’arsenale di Venezia per riparare le usure e i danni accumulati in lunghe navigazioni e recuperare la piena condizione nei requisiti nautici. Alcuni degli elementi indicati nella Commedia mettono ancora in evidenza gli aspetti economici, gli aspetti relazionali, emotivi e sentimentali, legati all’azione più generale del navigare. La navigazione come metafora della vita e del vivere sociale viene evocata da Dante nel Convivio e in vari luoghi della Commedia. Peraltro, la sua condizione di esule, predetta dal suo trisavolo Cacciaguida: «Tu proverai sì come sa di sale/lo pane altrui, e come è duro calle/lo scendere e ’l salir per l’altrui scale», lo induce a paragonarsi, con grande amarezza, a un «legno senza vele e senza governo». L’efficacia delle similitudini, l’eleganza delle metafore, le pungenti allusioni in tema navigatorio (tutte declinate secondo la chiave di lettura che lo stesso Dante fornisce in Convivio, (II, 1): letterale, allegorica, morale e anagogica) si sono diffuse nei linguaggi più generali della politica, della religione, della letteratura, senza escludere il linguaggio corrente.

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Dante espressione della cultura del suo tempo La dimensione monumentale del Poeta per antonomasia non si discute, come una sterminata letteratura evidenzia, sempre e ovunque. Dante è uno dei quattro giganti della poesia di ogni tempo (con Omero, Shakespeare e Goethe); e tuttavia il suo spessore universale assume un ruolo privilegiato e unico per il sapiente intreccio che egli sa inventare tra conoscenze e poesia, che si sostanzia in una architettura armonica, cosmica, del suo

Luca Signorelli. Dante, affresco del 14991502, particolare tratto dalle Storie degli ultimi giorni, Cappella di San Brizio - Duomo di Orvieto. Accanto: Frontespizio dell’editio princeps della Divina Commedia (11 aprile 1472) - (wikipedia.it). «La Commedia racconta un viaggio e il viaggio, per natura e per concezione, è assimilabile all’azione del navigare, per cui non deve sorprendere se nell’opera di Dante, nella sua poesia, la navigazione sia molto presente con funzioni e significati reali e simbolici».

poema. Quindi per interpretare i suoi messaggi etici, teologici, ideologici, politici, sociali non si può fare a meno di considerare che Dante è anche un esponente di rilievo della cultura del suo tempo e le sue conoscenze hanno solide basi non solo in Alberto Magno e in Tommaso d’Aquino ma si alimentano di apporti filosofici e scientifici che la civiltà araba forniva alla cristianità. L’esame della Commedia e di altre opere mostra una spiccata familiarità di Dante in svariati campi del sapere, il cui orizzonte include conoscenze di astronomia, geografia, geometria, economia, botanica e scienze della natura.

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Le conoscenze del mondo sensibile vengono inserite da Dante negli istituti o figure retoriche (in primis similitudini, metafore, allusioni, allegorie …) che egli usa come strumenti per esprimere la sua poesia. Purtroppo tali conoscenze hanno costituito, per alcuni studiosi, motivo per far risaltare aspetti particolari della personalità intellettuale di Dante finendo, troppo spesso, per sminuire e mortificare la poesia. Quindi, un esame degli elementi dottrinari e scientifici presenti nell’opera deve servire solo per lumeggiare il complesso mondo poetico, senza alcun fine didascalico. Essi consistono, quasi sempre, in fugaci cenni, in leggeri tocchi, in deliziose pennellate e, talvolta, in semplici allusioni che non disturbano, non devono disturbare la poesia ma la rendono più viva, più ricca, la esaltano sul piano creativo ed espressivo, con raffinata eleganza non priva di concreta e robusta efficacia. Tali elementi vanno considerati perciò, nella visione escatologica del Poeta, «come ingredienti per arricchire e potenziare la macchina retorica e catturare con maggior presa l’animo del lettore, da illuminare e guidare verso la verità e la salvezza». La lezione di Dante sulle figure retoriche associate al tema nautico, che vantava incisivi riferimenti nei poeti antichi e in particolare in Alceo e in Orazio, verrà ripresa e alimentata dalla poesia più espressiva. Francesco Petrarca, nel sonetto Passa la nave mia colma d’oblio descrive la sua condizione esistenziale mediante l’allegoria della vita paragonata a un viaggio per mare. E la metafora nave, assimilata alla vita, fino a confondersi e a coincidere con essa, si ritrova ancora in altri passi del Canzoniere. Essa sarà poi presente in Ariosto e nel poema epico Os Lusiadas di Luis de Camões e ancora in Manzoni, solo per ricordare alcuni topici di maggior rilievo.

va alla deriva e non ha speranza di salvezza in tempo avverso, come fa rilevare Dante nella famosa, veemente invettiva in cui paragona Firenze a una «nave sanza nocchiere in gran tempesta» (Pg. VI, 78). Per Dante il porto è la meta della «umana compagnia». E per dirigere al porto desiderato si deve avere un riferimento, occorre orientarsi. È Brunetto Latini a indicare al suo allievo Dante la rotta da seguire, la via virtuosa: «Se tu segui tua stella/non puoi fallire a glorioso porto» (Inf. XV, 55). E il Poeta ammonisce che la meta, il porto è preso solo quando si è dentro, al sicuro. Egli ricorda il caso di un legno (nave) che si perde proprio vicino alla meta, all’entrata. «E legno vidi già dritto e veloce/correr lo mar per tutto suo cammino/perire al fine a l’intrar della foce» (Pd. XIII, 136). In questi passi coesistono la dimensione reale e l’allegoria. I messaggi che il Poeta trasmette assumono una grande valenza dai significati vari e diversi, pur associati al medesimo significante. Poi quando è tempo di dare le vele, quando «lo tempo chiama» e la navigazione per l’alto mare può iniziare allora l’artimone della ragione, ben orientato, «fa isperare in un dolce cammino».

Come si naviga in Dante Per dirigere a un porto, per seguire una rotta, è necessario conoscere la geografia dei luoghi, l’ambiente geofisico e la posizione della nave, in base ad alcuni fenomeni del mondo sensibile. In sintesi l’homo nauticus deve saper rispondere, in ogni istante, ai quesiti: Dove vado? Dove sono? Dante indica numerosi metodi atti a fornire gli strumenti per navigare: l’orientamento, la misura del tempo, le condizioni di navigazione. Egli impiega la fenomenologia terrestre e astronomica mediante originali e ingegnosi meccanismi. Nella famosa terzina del primo canto del Paradiso:

Teoria della navigazione e della politica È stato già indicato come, nel Convivio, Dante delinei una teoria politica cui si devono ispirare gli Stati, ordinati mediante una nitida analogia con la nave e la sua funzione di «prendere il desiderato porto per salutevole via». Ma per realizzare tale finalità si rende necessaria una guida e questa «è lo nocchiero, a la cui voce tutti obbedire deono». Senza il nocchiero la nave

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Surge ai mortali per diverse foci la lucerna del mondo; ma da quella che quattro cerchi giugne con tre croci. (Pd. I, 36-38) Egli indica un metodo sia per la misura del tempo sia per orientarsi. Il sole (la lucerna del mondo) nel corso

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La barca di Dante, E. Delacroix (1798-1863) - (wikipedia.it).

dell’anno percorre l’eclittica e sorge ai mortali da punti diversi dell’orizzonte (diverse foci); ma il 21 marzo (e il 23 settembre) si trova anche sull’equatore e quindi sorge nel punto cardinale est. Tale punto viene indicato da Dante come l’intersezione di quattro cerchi: orizzonte, equatore, eclittica e coluro. Se si prende l’orizzonte come cerchio base, gli altri formano con esso tre croci (che non sono ad angoli retti). Il fenomeno fornisce la direzione del sorgere equinoziale primaverile (oriente) e il relativo istante (ore sei del 21 marzo). Il concetto espresso da Dante in questa terzina è da ritenersi originale per il metodo, elegante per la forma ed efficace per il preciso significato cosmografico. Nella terzina si possono cogliere altri significati, reali e simbolici, ben illustrati nei commenti alla Divina Commedia. Tra l’altro non solo il sole ma anche gli altri astri (luna, pianeti, stelle) possono essere usati, in modo analogo, sia per la misura del tempo, sia per individuare l’oriente. Ma, Dante propone anche altri riferimenti astronomici per indicare le direzioni. L’Orsa Minore o Cinosura veniva impiegata sin dall’antichità per individuare l’asse del mondo e quindi la direzione dell’arcton, del nord. Nel XIII canto del Paradiso Dante invita il lettore a immaginare l’Orsa: Immagini la bocca di quel corno che si comincia in punta dello stelo a cui la prima rota va dintorno. (Pd. XIII, 10-12)

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La figurazione è perfetta. Basta dare uno sguardo a una mappa del cielo stellato per rilevare che l’Orsa Minore ha la forma di un corno la cui punta coincide, a meno di un grado, con il polo nord (ai tempi di Dante circa 4°). L’Orsa Minore non fornisce solo la direzione del nord ma può fungere da ottimo orologio durante le ore notturne. Inoltre la sua altezza sull’orizzonte fornisce il valore della latitudine. I Fenici navigavano con l’Orsa Minore; i Greci preferivano l’Orsa Maggiore. La bussola magnetica Ma, per orientarsi non vi sono solo i riferimenti dei punti notevoli costieri o gli astri. Ai tempi di Dante era stato introdotto in navigazione l’ago magnetico e il Poeta non tralascia di ricordarlo secondo il suo stile. Nel XII canto del Paradiso, Dante crea una leggiadra similitudine, mentre si trova nella seconda corona dei beati, prima di iniziare l’elogio di Domenico: Del cor de l’una delle luci nove si mosse voce che l’ago a la stella parer mi fece e volgere in suo dove. (Pd. XII, 28-30) Gli spiriti della seconda corona danzano e diffondono uno splendore intorno quando all’interno di uno di essi si muove una voce di carità che fa girare Dante in quella direzione alla stessa maniera che fa l’ago magnetico verso la Stella Polare. Francesco da Buti, uno dei primi commentatori della Commedia, descrive la bussola magnetica e il suo impiego da parte dei naviganti. Ma, la bussola di Buti, che scrive alla fine del XIV secolo, è già più evoluta per essere stato introdotto un disco di carta solidale all’ago, con i venti segnati sopra. Prima di Dante troviamo, intorno al 1250, Guido Guinizelli che delinea una vaga teoria magnetica che conferiva ai monti di tra-

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montana la proprietà di far «drizzar l’ago inver la stella». E ancora prima, nel 1205, il menestrello Guyot de Provins, in una versione satirica della Bibbia, lamentava che il Papa non fosse per la cristianità il riferimento, la guida che l’ago magnetico costituiva per i naviganti. Tipi di navigazione Dante fa molti riferimenti alla navigazione, sia nella dimensione reale, sia in senso metaforico e allegorico. Egli ricorda più volte la navigazione mitica degli Argonauti. Nel II canto del Paradiso, al verso 16, esalta: «Quei gloriosi che passaro al Colco» per indicare il viaggio nella lontana Colchide alla ricerca e conquista del Vello d’Oro, il quale, per il geografo Strabone, simboleggiava i campi di grano di quella regione del Pontus Euxinus (Mare Ospitale) laddove prima era Auxinus, Inospitale. In un passo del Paradiso (XXIII, 67) Dante allude alla navigazione d’alto mare che richiede precise condizioni operative senza le quali essa diventa rischiosa, mediante un’ariosa allegoria «non è pileggio da picciola barca…». Con il termine pileggio, ai tempi di Dante, secondo le istruzioni nautiche, si indicavano le traversate dirette, per l’alto mare, fuori vista della costa. Dante ritorna ancora sul concetto di navigazione difficile, impegnativa, in un famoso passo con un’allegoria di ampio respiro. Il Poeta lo fa nel II canto del Paradiso, versi 1-15: «O voi che siete in piccioletta barca, …». Il verso 7 recita: «L’acqua ch’io prendo già mai non si corse»; che propone il concetto di acque mai navigate, in senso reale e in senso allegorico. Tale concetto viene espresso pure nel Purgatorio, I, 130-132: «Venimmo poi in sul lito deserto/che mai non vide navicar sue acque/omo che di tornar sia poscia esperto». Qui Dante anticipa un tema assai diffuso nelle scoperte geografiche. Le rotte nuove, difficili, riservano insidie che richiedono grande perizia per essere affrontate; tema rinverdito da Luis de Camões nell’incipit del poema Os Lusiadas. Il passaggio dall’Inferno al Purgatorio inizia con una terzina ricca di felici metafore nautiche: «Per correre miglior acque alza le vele/omai la navicella del mio ingegno/che lascia dietro a sé mar si crudele». Le eleganti metafore navigatorie, nel loro significato allegorico, esprimono il passaggio a una fase del viaggio più elevata sul piano intellettuale e spirituale.

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La cura della nave La nave in navigazione è soggetta a continue sollecitazioni e tormenti che mettono a dura prova la resistenza dello scafo, il quale ha bisogno di un energico rimessaggio durante i mesi invernali. La nave in balia delle onde viene descritta nell’Inferno, ai versi 117-118: «Ond’el piegò come nave in fortuna/vinta da l’onda or da poggia, or da orza». I moti di venire al vento (orzare) o di andare nel verso del vento (poggiare) sono tipici delle navi in tempesta (fortuna), le quali hanno difficoltà a stare in rotta. Lo ricorda ancora Petrarca nel Sonetto CXLVI: «Lo qual, senza alternar poggia con orza…». E l’Ariosto ribadisce che «l’alternar di poggia e orza» è dovuto al vento crudele che si è levato (Orlando Furioso, XIX, 58). Se le sollecitazioni dovute al moto ondoso sono troppo forti allora si può avere qualche cedimento nelle strutture dello scafo, come viene specificato nel canto VII dell’Inferno, ai versi 13-14: «Quali del vento le gonfiate vele/caggiono avvolte poi che l’albero fiacca». Quindi, una nave che è stata per lungo tempo a mare, in genere da marzo a ottobre, ha bisogno di lavori di manutenzione allo scafo e all’attrezzatura di manovra. Si approfitta della pausa invernale per eseguire un energico rimessaggio. Dante descrive le frenetiche operazioni fatte nell’arsenale di Venezia in tre famose terzine del canto XXI dell’Inferno, dove fa una bella e incisiva similitudine con l’immagine della quinta bolgia del cerchio VIII, dove vengono condannati i barattieri.

La navigazione di Ulisse L’Ulisse dantesco dipinto nel canto XXVI dell’Inferno ha molti tratti in comune con l’eroe dal multiforme ingegno di Omero; ma a differenza di Odisseo non fa ritorno al focolare domestico. Dante, lo incontra nella bolgia dei consiglieri fraudolenti ove sconta la pena assieme a Diomede. Nell’episodio dell’Ulisse dantesco affiorano diversi motivi nautici e umani. Nel racconto, a Dante emerge in modo chiaro il motivo che spinse Ulisse a peregrinare per nuovi mari: non fu la sete di ricchezze che pure è stata sempre alla base della ricerca di nuove rotte e di nuove terre, ma il più alto e più nobile «ardore di divenire del mondo esperto/e de li vizi umani e del valore». Si tratta di un valore positivo che in parte riscatta le colpe per gli inganni che

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l’eroe di Itaca aveva perpetrato in varie occasioni, e primo tra tutti l’inganno del Cavallo di Troia. Il racconto di Ulisse inizia alla partenza dalla dimora di Circe, situata vicino a Gaeta, presso la quale era stato trattenuto per più di un anno. Il richiamo degli affetti familiari (la fedele moglie Penelope, il vecchio padre Laerte, il figlio Telemaco) non «vincer potero dentro me l’ardore/ch’io ebbi a divenir del mondo esperto/e de li vizi umani e del valore» (versi 94-99). In due terzine, Ulisse chiarisce il motivo della scelta, fatta tra aneliti e spinte in conflitto, opposti. Scelta che si rivelerà troppo audace, folle, e lo condurrà a naufragare lontano dai suoi. Alea iacta est. Ulisse prosegue: Ma misi me per l’alto mare aperto sol con un legno e con quella compagna picciola da la qual non fui diserto. (Inf. XXVI, 100-102) Il primo verso di questa terzina, a parte la bellezza poetica e stilistica, contiene significati vari e profondi, sia sul piano del realismo sia su quello simbolico. Io, misi me. Io, la volontà suprema, la mente che pensa, la forza spirituale, decide di mettere la persona fisiologica, corporale, quasi materiale, di Ulisse «per l’alto mare aperto». L’alto mare ha significato di mare lontano dalla costa, profondo, difficile e le navigazioni per peleggio Ulisse legato all’albero della sua nave, per non soccombere al canto delle sirene, mosaico romano (wikipedia.it).

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nel Mare nostrum erano appunto per l’alto mare, il quale, tuttavia, aveva dei limiti geografici. Ma, qui Dante lo specifica anche come «mare aperto». È qualcosa di più dell’alto mare, molto di più, è un mare senza confini, un mare ignoto. E il mare oceano in cui si inoltra Ulisse quando supera le Colonne d’Ercole è un mare senza limiti, tenebroso e sconosciuto, che conduce verso la zona torrida e gli antipodi misteriosi, ritenuti impraticabili per la natura umana e quindi non potevano essere penetrati. Le idee di Dante su questi concetti erano una sintesi delle posizioni antiche e dei giudizi dei Padri della Chiesa, in primis dell’opinione di Sant’Agostino che dubitava dell’esistenza degli antipodi perché nessuno li aveva sperimentati, erano occulti. Concetti modulati dalle idee e dalle posizioni degli arabi, filtrate in Europa attraverso le recenti traduzioni in latino. La visione di Dante è quella prevalente del suo tempo malgrado Alberto Magno nel De Coelo et Mundo ammettesse l’esistenza di vita nelle zone equatoriali, convinzione ribadita da Ruggero Bacone nella sua Opus Maius. Ulisse prende la via per questo mare aperto, ignoto, assieme ai pochi compagni rimasti, avanti negli anni e provati dalle lunghe peripezie, con un legno logoro e fragile. Egli descrive il cammino dal Circeo fino alle Colonne d’Ercole (versi 103-111) in cui mostra una conoscenza dei luoghi con precisione tale da far sospettare che avesse sotto gli occhi una carta nautica, del tipo Carta Pisana, da poco introdotte nella pratica della navigazione. Quando dice «da la man destra mi lasciai Sibilia/da l’altra già m’avea lasciata Setta» (110-111) il quadro è tale che una carta nautica medievale del tipo di quelle in dotazione delle navi dei crociati di San Luigi (1270) o della Carta Pisana (circa 1275) possa risultare nell’orizzonte delle conoscenze di Dante con elevata probabilità. Si fa notare che la Carta Pisana, ora nella Biblioteca Nazionale di Parigi, è un monumento cartografico di immenso valore scientifico, nautico e artistico. Non si conosce il suo autore ma l’esame, l’esegesi di una serie di elementi, inducono a


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porterà a essere inghiottiti negli antipodi che Dante colloca verso l’equatore. I remi che fan da ali al folle volo sono un’immagine elegante e suggestiva che fu già impiegata dai poeti dell’antichità. Nell’Odissea Tiresia, il veggente tebano, parla di «remi che son ali alle navi» e il motivo fu ripreso da Apollonio Rodio e da Ovidio. Il folle volo, il varco «Quando dice “da la man destra mi lasciai Sibilia/da l’altra già m’avea lasciata Setta” (110-111) il quadro è tale che una carta nautica medievale, del tipo di quelle in dotazione alle navi dei crociati di San Luigi (1270) folle, viene ricordato ancora da o del tipo della Carta Pisana (circa 1275) (foto), possa risultare nell’orizzonte delle conoscenze di Dante con Dante nel Paradiso. Mentre naelevata probabilità» (Fonte immagine: wikipedia.it). vigano verso sud-ovest, e poi a sud, cambia l’aspetto del cielo stellato, della sfera celefar pensare che sia stato Leonardo Pisano o un suo alste, in modo continuo. La variazione è resa con la bella lievo, come Campano da Novara. Solo loro avevano, ai e suggestiva immagine (versi 127-129): tempi di Federico II, le conoscenze di geometria euclidea necessarie per concepire e realizzare l’opera. Tutte le stelle già dell’altro polo Giunti alle Colonne d’Ercole Ulisse tenne ai suoi vedea la notte, e ‘l nostro tanto basso, compagni un breve sermone (versi 112-123) per inviche non sorgea fuor del marin suolo. tarli a procedere oltre, a osare: «non vogliate negar l’esperienza/di retro al sol, del mondo sanza È una creazione perfetta, per stile, per sintesi e per gente./Considerate la vostra semenza: il realismo. Essa mostra che Dante aveva assimilato la concezione dinamica della sfera celeste in relazione fatti non foste a viver come bruti, alla latitudine dell’osservatore. Ho fatto varie volte la ma per seguir virtute e canoscenza». rotta indicata, via isole Canarie e di Capo Verde, e la percezione degli astri sulla volta celeste è identica. Il Versi molto belli e molto conosciuti, spesso citati in passaggio per la zona torrida e per l’equatore fornisce varie sedi. Ulisse tocca i tasti giusti dell’umano sentire, la sensazione di quella «sfera retta» che fa vedere, in dell’orgoglio personale di antichi eroi coraggiosi, alla una notte intera, tutte le stelle del firmamento. La Trascoperta di un mondo ignoto (di retro al sol), agli antimontana che pian piano «si perde»; la Croce del Sud podi disabitati (sanza gente). L’invito riesce così incisivo, che comincia a vedersi già ai 30° nord e così via. penetrante che niente e nessuno ormai li può trattenere. Poi il Poeta indica la durata del viaggio in termini Per cui si va nel mare aperto (versi 124-126): di lunazioni, cioè di mesi: «Cinque volte racceso e tante casso/lo lume era di sotto della luna…». Una naE volta nostra poppa nel mattino, vigazione di ben cinque mesi li porta «ne l’alto passo» dei remi facemmo ali al folle volo, ove appare una montagna alta e bruna. Sembra quasi sempre acquistando dal lato mancino. essere arrivati alla meta ma è solo illusione. Un tremendo turbine vorticoso, tifonico, investe la fragile Si dirige con la poppa a levante e quindi con prua a nave che va in balia delle onde che si abbattono sui ponente; il «legno alato» penetra nell’oceano tenebroso fianchi con tremenda energia. Per tre volte il legno si e accosta in modo continuo a sinistra, verso sud-ovest e avvita nei vortici, sembra resistere; ma alla quarta perpoi ancora con rotta più vicina al sud. La nave spinta dai cossa non vi fu scampo: «levar la poppa in suso/e la remi, che appaiono come ali, inizia il folle volo che li

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prora ire in giù, come altrui piacque,/infin che ‘l mar fu sopra noi rinchiuso» (versi 130-142). Il mare si rinchiude sopra la nave che naufraga, si inabissa. Anche il Titanic affondò con la prua in giù e la poppa in alto! L’Andrea Doria mostra il suo nome sulla corona di poppa prima che il mare si chiuda su di essa. È il destino tragico di una lunga schiera di uomini che sono andati per mare. Un motivo che ritorna sempre nei grandi poeti. Victor Hugo nel Poema del mare e dei marinai esclama: «Oh! Quanti marinai, quanti capitani sono andati gioiosi su rotte lontane e sono spariti, là in un mare senza fondo, in una notte senza luna…». L’Ulisse di Omero, l’uomo astuto, saggio, dal multiforme ingegno, nel pensiero, nella morale arcaica può vantarsi di aver menato stragi per fare pingui bottini; di avere ingannato i Troiani col dono del cavallo di legno, di aver detto a Polifemo di chiamarsi Nessuno… Egli ritorna infine al suo focolare, in tempo per vedere il suo cane Argo morire felice, vendicarsi dei Proci, godersi la famiglia. Nella severa morale cristiana Ulisse può vantare solo l’ardore di nuove conoscenze; ma sconta i peccati di religione e quello di aver ingannato tanta gente. L’Ulisse di James Joyce sarà un campione di disvalori, senza alcun lato positivo. Il personaggio portatore di valori positivi è Telemaco.

Aspetti umani e sentimentali in Dante Non manca, non poteva mancare, nel Dante Nauticus, il lato umano, emotivo e psicologico. Il mare che incute paura, angoscia, ansia, emerge in più luoghi del poema. La paura che assale Dante quando inizia il viaggio e si ritrova nella selva oscura, selvaggia e forte, viene mitigata dai primi raggi del sole; allo stesso modo il naufrago che riesce a giungere alla riva e guarda il mare rinfrancato per lo scampato pericolo (Inf, I, 22-24). Il mare agitato che mugghia in fase di tempesta se soggetto a venti contrari incute paura profonda in una notte tetra (Inf. 2830). Ma, sono gli aspetti sentimentali a catturare la nostra attenzione, la nostra partecipazione. I naviganti, nelle soste nei porti, hanno sempre cercato di intrecciare relazioni sentimentali con le fanciulle del luogo, al di là dei rapporti sessuali mercenari esistenti da sempre in ogni parte del mondo abitato. Nella prima bolgia del cerchio VIII, ove

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«Nell’episodio dell’Ulisse dantesco affiorano diversi motivi nautici e umani. Nel racconto, a Dante emerge in modo chiaro il motivo che spinse Ulisse a peregrinare per nuovi mari: non fu la sete di ricchezze che pure è stata sempre alla base della ricerca di nuove rotte e di nuove terre, ma il più alto e più nobile “ardore di divenire del mondo esperto/e de li vizi umani e del valore”» (Fonte immagine: mondadorieducation.it).

scontano la pena i ruffiani e i seduttori, Dante e Virgilio incontrano Giasone, il capo degli Argonauti, che nella sosta all’isola di Lemno sedusse con parole non sincere la giovane Isifile e poi partì lasciandola sola e incinta. Nel secondo cerchio dell’inferno scontano la pena i lussuriosi. Virgilio indica a Dante molte anime tra cui le regine Semiramide e Cleopatra, Elena di Troia e, solo con un breve accenno, Didone, la sfortunata regina cartaginese che si innamorò di Enea e fu da questi sedotta. Didone venne poi abbandonata da Enea per «ragioni superiori»; la regina per il dolore si suicidò gettandosi su una spada che aveva avuto in dono. Buona parte del quinto canto (versi 73-142) viene dedicata al tragico amore proibito tra Francesca da Rimini e Paolo Malatesta, suo cognato. I due amanti, sorpresi dal marito di Francesca, furono trucidati. L’episodio di Paolo e Francesca, travolti dalla loro passione, sbocciata mentre leggevano, per diletto, il libro dell’amore di Lancillotto e Ginevra, è uno dei più dram-

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matici della Commedia e tra i più conosciuti, assieme a Ulisse, per l’intensità emotiva che esso suscita nel lettore. Il navigante viene spesso considerato come un avventuriero rotto a tutte le intemperie, fisiologiche e psicologiche. È un luogo comune improprio e fuorviante. Il navigante spesso è fonte e fiume di un profondo sentimento, tipico della gente che sta lontano da casa, dal focolare domestico. Dopo il tramonto, quando cala la sera, i naviganti vengono presi, assaliti da un senso di solitudine mentre guardano assorti la sconfinata distesa acquorea e pensano con nostalgia al porto più salutevole e più amato della loro esistenza che hanno lasciato il giorno in cui sono partiti: Era già l’ora che volge il disio ai navicanti e ‘ntenerisce il core lo dì c’han detto ai dolci amici addio. (Pg, VIII, 1-3) La malinconia del tramonto, tenera e struggente, la «saudade» prende il navigante nel profondo del suo io, del suo sentire e viene espressa con il delicato lirismo che sgorga in questi versi eccelsi, versi che per unanime consenso sono ritenuti tra i più belli del poema

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dantesco e la poesia attinge vette vertiginose. Non c’è bisogno di cercare di interpretare la sublime terzina, di dare significati a significanti che sono di per sé immediati, molto espressivi e ben percepibili e sentiti. E se poi si ha qualche esperienza di navigazione, che non sia troppo banale, i versi si possono fare pro- «L’episodio di Paolo e Francesca, travolti dalla loro passione, sbocciata mentre legpri nel sentimento, gevano, per diletto, il libro dell’amore di e Ginevra, è uno dei più dramcon totale trasporto, Lancillotto matici della Commedia e tra i più conocon penetrante parte- sciuti, assieme a Ulisse, per l’intensità emotiva che esso suscita nel lettore» cipazione, con piena (Fonte immagine: Gustave Doré, Inferno, canto 5-2, wikipedia.it). convinzione. La navigazione come dottrina di «via alla vita», del cercare-trovare le giuste rotte verso l’agognato, desiderato porto dell’esistenza, nonostante le difficoltà e i pericoli di cui è cosparso «lo gran mar dell’essere», la navigazione come strumento dei traffici e dei commerci, e quindi come metafora del vivere sociale, che ha nella nave il mezzo per realizzarsi, è parte importante della poesia di Dante nei suoi significati più vari come il Poeta stesso suggerisce di prendere in considerazione. Il Poeta esule si ritiene «di essere stato legno senza vele e senza governo, portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertate». Una nave disarmata e senza governo, alla deriva per porti, liti e approdi o impedita a uscire da bonacce e calme delle zone torride, prigioniera di un caldo opprimente in grado di far svaporare ogni energia fisica e morale, è la metafora di una vita difficile, cosparsa di ansia e di angoscia. Sono quasi sempre le difficoltà, i pericoli, le ansie, le angosce, i timori, che rendono il vivere assimilabile a una navigazione per mari avversi, insidiosi, crudeli, che richiede grande perizia, tenace impegno e profonda convinzione per guadagnare infine, la meta desiderata, il salutevole porto della propria esistenza, del proprio essere e divenire. 8 83


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STORIA E CULTURA MILITARE

Alberto Da Zara L’eterodossia al comando Fabio De Ninno

Ricercatore senior (Tipo B), abilitato alle funzioni di Professore associato, presso l’Università di Siena, segretario di redazione di Italia contemporanea, coordinatore del progetto della bibliografia italiana di storia militare 2008-19, del Centro interuniversitario di studi e ricerche storico militari. Collabora con il Second World War Research Group del King’s college di Londra. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo Fascisti sul mare: la Marina e gli ammiragli di Mussolini (2017) e I sommergibili del fascismo (2014), oltre a numerosi capitoli e articoli in pubblicazioni scientifiche italiane e straniere.

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Alberto Da Zara. L’eterodossia al comando

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lberto Da Zara è plausibilmente passato nella memoria pubblica sulla guerra navale italiana come il combattente per eccellenza della Marina, complice la fortuna delle sue memorie, a giudizio di chi scrive, tra le più obiettive e godibili tra i protagonisti del conflitto, complice l’intenzione dell’autore di considerarle come propri ricordi e non come storia, fornendo una visione eterodossa dell’istituzione e del suo sviluppo. Nato a Padova l’8 aprile 1889, figlio di un ex-ufficiale di cavalleria, egli stesso non seppe collocare nella sua autobiografia il momento in cui maturò la decisione di diventare ufficiale di Marina. L’infanzia e l’adolescenza furono comunque dominate dalla voglia di competizione, promossa attraverso lo sport, trovando nell’equitazione una precoce passione e compagna che lo avrebbe seguito per tutto il resto della vita. Compiuti gli studi liceali, il 10 novembre 1907, Da Zara fu ammesso all’Accademia di Livorno, realizzando il sogno della sua adolescenza e iniziando la frequentazione del triennio dei corsi normali. Ebbe come compagni alcune delle figure di riferimento della Marina dell’epoca delle guerre mondiali come Raffaele de Courten, a cui rimase legato da una profonda amicizia e Giuseppe Fioravanzo. Con l’Accademia, Da Zara ebbe un rapporto conflittuale. Avrebbe scritto che i modelli britannico e giapponese, che mettevano a contatto gli allievi con il mare prima e ne incentivavano la competitività fisica e l’iniziativa individuale, «segnassero inequivocabilmente la strada da seguire» per costruire dei combattenti. L’anglofilia di Da Zara e l’ammirazione per la Royal Navy sarebbero rimaste una costante nel corso di tutta la sua vita, ritenendo che l’esperienza marinara e i metodi di funzionamento dell’istituzione britannica fossero i migliori del mondo, convinzione che mantenne fin dopo la Seconda guerra mondiale, pur combattuta e persa contro i britannici. Per Da Zara, infatti, Livorno era un «eccellente istituto» ma che formava «ufficiali di Marina» e non «marinai da guerra» e «pochi fra quelli che furono tra i migliori allievi furono fra gli ufficiali migliori» (1). Inoltre, a suo giudizio,

in un’epoca di rapidi cambiamenti tecnologici, sarebbe stato necessario un corpo unico per formare la figura del «tecnico combattente» fondendo i ruoli del Corpo di Stato Maggiore, del Genio e delle Armi Navali che in Italia erano rigidamente separati (2). Necessaria avrebbe dovuto essere una formazione continua, diluendo maggiormente lo studio lungo il corso della carriera (3). Nell’aprile 1911, al termine del ciclo degli studi, Da Zara fu nominato guardiamarina, poi sottotenente di vascello nel luglio 1913, promozione che avrebbe ricordato come «la più grande gioia» perché gli consentiva di abbandonare il «quadratino» dei guardiamarina e godere di un proprio alloggio a bordo. Da giovane ufficiale, Da Zara si fece una reputazione come preparatore di equipaggi per competizioni sportive. Nel 1913, durante una visita di Vittorio Emanuele III a Kiel, preparò l’equipaggio che batté in una regata gli armamenti di ben sette navi da guerra tedesche venendo premiato direttamente dall’imperatore Guglielmo II (4). Al tempo della guerra italo-turca, Da Zara fu imbarcato sulla corazzata Vittorio Emanuele e poi sulla Regina Elena, ma fu con la Prima guerra mondiale che la sua In apertura: Alberto Da Zara «plausibilmente passato nella memoria pubblica sulla guerra navale italiana come il combattente per eccellenza della Marina». Sotto: la corazzata VITTORIO EMANUELE e, in basso, il REGINA ELENA, dove Da Zara fu imbarcato, al tempo della guerra italo-turca (Fonte immagini articolo: USMM).

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Alberto Da Zara. L’eterodossia al comando

carriera di combattente lo avrebbe portato precocemente alla ribalta. Da Zara in realtà, come molti altri ufficiali dell’epoca, rimase sorpreso dello stallo strategico verificatosi. Nelle sue memorie definì l’impostazione delle operazioni italiane una «mediocre strategia», che in parte riconduceva al fatto che il Duca degli Abruzzi posto al comando delle Forze navali riunite nel basso Adriatico non riuscì a cogliere occasioni per infliggere qualche serio colpo agli austroungarici. Sebbene egli stesso attribuisse la colpa di questo alla prudenza di entrambi i contendenti. Nel campo italiano, in parte ciò derivava dal fatto che il Duca, pur essendo un eccellente tattico e marinaio, non era un altrettanto buon stratega (5). Si tratta di giudizi che oggi trovano un parziale riscontro negli studi sull’argomento, che però mettono anche in evidenza le difficoltà dello scenario e il conseguente percorso di adattamento della strategia italiana verso una guerra d’attrito navale con accresciuto peso dei mezzi sottili, nei quali a detta di Da Zara l’Italia partiva in svantaggio sul piano qualitativo (6). Imbarcato inizialmente sull’Irrequieto, a fine giugno 1915, Da Zara sbarcò per preparare l’occupazione dell’isolotto di Pelagosa, dove fu decisa l’installazione di una stazione radiotelegrafica per fornire informazioni tempestive sugli avvistamenti di forze di superficie nemiche dirette contro i porti italiani dell’Adriatico meridionale, ripetutamente attaccati dopo l’inizio delle ostilità. La sistemazione della stazione era affidata al sottotenente Giancarlo Vallauri e il reparto di occupa-

Il cacciatorpediniere della Regia Marina, IRREQUIETO, dal quale Da Zara sbarco nel 1915.

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zione era composto da un’ottantina di marinai. Nonostante lo scetticismo di Da Zara, sul valore dell’iniziativa, il 12 luglio l’isolotto fu occupato, i quattro semaforisti nemici catturati e la stazione installata. Il giorno successivo la guarnigione fu attaccata una prima volta, senza grossi danni, da un cacciatorpediniere nemico. Il 18 luglio fu effettuato un secondo e più serio tentativo, questa volta con una forza complessiva di 2 incrociatori leggeri, 5 caccia e 4 torpediniere che supportarono un tentativo di sbarco che però fu respinto, con una sola perdita tra gli italiani. L’isolotto, poi, dovette essere evacuato in seguito a un secondo massiccio bombardamento nemico (17 agosto), nonostante i rinforzi pervenuti nelle settimane precedenti, a causa delle difficoltà di mantenimento e rifornimento della posizione (7). Nel corso dell’azione, Da Zara conquistò la sua prima medaglia d’argento per aver mantenuto una condotta esemplare tenendo alto lo spirito degli uomini sotto il suo comando, sopravvivendo solo tra dieci occupanti nella trincea del pezzo antiaereo presente sull’isola, centrato da una granata nemica da 100 mm (8). Promosso tenente di vascello per merito di guerra, Da Zara spese la convalescenza come addetto alla persona di Ferdinando di Savoia-Genova e il 1o dicembre si reimbarcò a Brindisi. Partecipò o osservò direttamente le operazioni nel basso Adriatico che rafforzarono da un lato la sua visione negativa della strategia italiana, soprattutto per l’incapacità di cogliere opportunità per infliggere danni al nemico, frutto anche di una relativa lentezza nella risposta operativa. Al tempo stesso, l’esperienza in Adriatico portò alla convinzione dell’importanza di disporre cacciatorpediniere ben bilanciati come work horse della flotta, in quanto unità della massima flessibilità operativa. Nel maggio 1917, partì per gli Stati Uniti, come parte di una missione diplomatica guidata da Nitti e Marconi, destinata a rafforzare la cooperazione, dato l’avvenuto ingresso in guerra di Washington in aprile. Rientrato in Italia, si sarebbe dedicato informalmente allo studio della possibilità di indurre il nemico a uno scontro decisivo in condizioni favorevoli. Al rientro in Patria, la sua unità, il cacciatorpediniere Sparviero, fu dislocato in alto Adriatico, all’inizio dell’autunno del 1917, quella zona di contrasto caratterizzata dalla breve distanza tra le basi delle

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«Da Zara fu affascinato dalle imprese dei MAS, ritenendo Luigi Rizzo (accanto) il miglior esempio di “marinaio combattente”. «Assieme al collega e amico Franz De Pinedo (qui nell’immagine) si soffermò sul problema delle Marine numericamente inferiori rispetto agli avversari e come queste dovessero compensare lo svantaggio (...)».

due parti, da forme di guerra integrata aeronavale e dalla presenza di una costante azione delle forze sottili, Da Zara divenne un attivo sostenitore del combattimento notturno come necessario sviluppo per la Marina più debole e del tiro di concentrazione, in alternativa al fuoco di fila privilegiato dalla tattica navale dell’epoca (9). Affascinato dalle imprese dei MAS, ritenendo Luigi Rizzo il miglior esempio di «marinaio combattente» prodotto dal paese, Da Zara avrebbe concluso il ciclo operativo della Grande Guerra con un’ultima missione proprio sui MAS, per una breve ricognizione dell’isolotto di Pelagosa. Si concludeva così una esperienza ricchissima sul naviglio di superficie, segnata in positivo anche da una seconda medaglia d’argento conferitagli nel 1919 per le operazioni in Adriatico (91 missioni di guerra di cui 50 offensive). A giudizio di chi scrive, la lunga esperienza in mare e la frustrazione per la mancanza di successi, che Da Zara attribuiva alla scarsa iniziativa e propensione al rischio e al materiale non sempre adeguato, ebbero un peso decisivo nelle sue posizioni successive riguardo la condotta tattica, nei con-

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fronti della quale si dimostrò eterodosso rispetto alla dottrina navale nazionale. Subito dopo la guerra partecipò al corso superiore che lo avrebbe dovuto preparare al suo primo comando. Nel corso della permanenza a Livorno, Da Zara assieme al collega e amico Franz De Pinedo si soffermò soprattutto sul problema delle Marine numericamente inferiori rispetto agli avversari e come queste dovessero compensare lo svantaggio con un approccio qualitativo centrato sul superiore addestramento, una maggiore innovazione tecnica che in Italia era spesso marginalizzata e lo sfruttamento del combattimento notturno (10). Promosso primo tenente di vascello, nel maggio 1920, fece richiesta per essere inviato in Cina, invece dal dicembre di quell’anno e fino al 1922 tenne il comando dello yacht armato Cirenaica, per ricevere poi, nel maggio del 1922, l’incarico desiderato partendo alla volta dell’Estremo Oriente nel luglio seguente, per comandare la cannoniera fluviale Carlotto. L’Italia era presente in Cina dalla rivolta dei Boxer e manteneva una limitata, ma diplomaticamente e propagandisticamente impor-

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tante, presenza militare che il fascismo, insediatosi al potere poco dopo, avrebbe progressivamente espanso (11). Da Zara, in quanto comandante del Carlotto, avrebbe mirato soprattutto al potenziamento dell’efficienza dell’unità e a contribuire all’immagine pubblica della presenza italiana. Nel giugno 1923, con il Carlotto, risalì lo Yantzekiang fino a Kiating, penetrando per oltre duemila miglia nel cuore della Cina, in una impresa che nessuna nave italiana aveva tentato in precedenza. L’anno successivo giunse la promozione a capitano di corvetta assieme alla quale assunse anche l’incarico di addetto navale, militare e aeronautico presso la legazione di Pechino sostituendo Angelo Iachino. A queste funzioni, nel gennaio 1925, sommò anche quelle di comandante della guardia della concessione italiana di Tientsin dove or-

«(...) Nel luglio del 1922 partì alla volta dell’Estremo Oriente per comandare la cannoniera fluviale CARLOTTO».

ganizzò la sistemazione del distaccamento del battaglione San Marco inviato a svolgere funzioni di rappresentanza. Da Zara a riguardo tenne a curare particolarmente l’addestramento e le funzioni pubbliche, istruendo tutto il personale militare perché parlasse l’inglese. L’opera però fu interrotta dal richiamo in patria avvenuto nel giugno 1925, come parte di una serie di movimenti più generali dovuto al rimpiazzo al ministero della Marina del grande ammiraglio Paolo Thaon di Revel col sottosegretario Giuseppe Sirianni. Nel 1927 giunse la promozione a capitano di fregata. In quegli anni, Da Zara ebbe anche modo di approfondire le sue tesi sul futuro della guerra, inserendosi nel

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dibattito dottrinario allora in corso nell’ambito della Regia Marina e dei teorici del potere aereo e subacqueo (12). Sebbene nella sua autobiografia emerga il ritratto di un uomo d’azione, Da Zara mostrò sempre grande rispetto per l’elaborazione teorica e in particolare per quella strategica, ritenendo che le migliori menti della Marina dovessero essere raccolte in un unico centro di pensiero («brain trust») (13). Negli anni della guerra si era avvicinato agli studi di Bernotti e lesse i lavori di Mahan nel corso del 1917. Come abbiamo osservato, fin dal 1916 maturò la convinzione che occorresse operare secondo una concentrazione di fuoco di più bastimenti contro lo stesso bersaglio (14). Tesi che discusse anche con esperti stranieri. Nel 1927, nel corso di una visita a Genova dell’incrociatore Berlin si intrattenne a lungo con il comandante dell’unità, Kolbe, su questioni di tattica navale e l’esperienza della guerra. A giudizio di Da Zara il fuoco di concentrazione avrebbe potuto causare risultati ben diversi se impiegato allo Jutland e nel futuro la tattica delle Squadre avrebbe dovuto mirare a questo, concedendo anche maggiore autonomia di movimento ai comandanti delle unità, piuttosto che mirare al tradizionale taglio della T e al conseguente irrigidimento della formazione (15). Tale tema fu più volte affrontato da Da Zara pubblicamente e privatamente e ancora nel febbraio 1940 sulla Rivista Marittima perorò la causa del combattimento tra gruppi e dell’abbandono della formazione in linea di fila (16). Da Zara si inserirà nell’ambito dei sostenitori dell’innovazione nella condotta della guerra marittima, puntando sull’integrazione tridimensionale di armamenti aerei e subacquei come elementi portanti delle future flotte e sull’importanza del naviglio silurante di superficie (17). L’importanza attribuita all’innovazione aeronavale fu confermata durante la frequenza dell’Istituto di guerra marittima tra il 1930 e il 1931, facendo proprio il motto «Piattaforma per volare se vuoi vincere sul mare», condividendo la convinzione di tutti gli altri frequentatori dell’importanza delle portaerei. Mentre invece si ritrovò isolato sulla questione della battaglia notturna, il combattimento per gruppi e la concentrazione del tiro (18). La sensazione di vivere in contesto in cui l’innovazione era avversata e in cui l’espansione della flotta avrebbe finito

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con annullare le possibilità di rinnovamento dottrinario e tecnico si sarebbe progressivamente confermata soprattutto negli anni Trenta, durante il sottosegretariato di Cavagnari. Per esempio, Da Zara nel 1938 propose un articolo per la Rivista Marittima intitolato Quantità e qualità, in cui sosteneva che bisognava mantenere armati solo i bastimenti in quanto erano i direttori di tiro di prima classe di cui si disponeva. L’articolo fu rifiutato. Era questa una conferma del disinteresse che il vertice avrebbe progressivamente mostrato verso l’innovazione tecnica e le cui avvisaglie erano già manifeste a Da Zara nei primi anni del decennio, data la scarsa attenzione mostrata da Cavagnari verso l’Istituto di guerra marittima e la seguente opposizione a portaerei, tiro di concentrazione ed esercitazioni più realistiche (19). Con quest’ultimo, nell’epoca in cui fu sottosegretario della Marina (1933-40), Da Zara ebbe, stando a quanto riportato nelle sue memorie, rapporti non proprio amichevoli. Terminata la frequenza dell’Istituto si aprì una nuova fase. Nel luglio 1931 fu nominato Sottocapo di Stato Maggiore della Divisione navale d’istruzione e nell’ottobre successivo comandante in seconda del Vespucci, prima di passare nel novembre seguente al comando del Colombo, dove rimase fino al dicembre 1931. Fu poi imbarcato di nuovo sul Vespucci come comandante in seconda, per tornare una seconda volta sul Colombo dal giugno 1932 al maggio 1933. L’ultima campagna su questa nave portò la Divisione d’istruzione in una lunga crociera nell’oceano Atlantico, visitando i porti dell’America. Da Zara svolse la navigazione quasi totalmente a vela, fatto che gli valse un encomio per il contegno e la disciplina esemplari del suo equipaggio (20). Parallelamente a questi successi, Da Zara però collezionava «cicche» dal ministero per i suoi rapporti spesso critici dell’organizzazione delle crociere, del modo in cui erano svolte le crociere d’istruzione e della superiorità dell’organizzazione di ricezione straniera rispetto a quella italiana (21). In seguito, nel marzo 1938, il mantenimento di questa autonomia di giudizio gli sarebbe costato un rimprovero ministeriale per una relazione in cui esprimeva giudizi negativi sui diplomatici italiani di Hong Kong e Canton (22). Nell’agosto 1933, dopo aver lasciato il Colombo, Da Zara ebbe il comando della Squadriglia Zeffiro, composta

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dai caccia Zeffiro, Ostro, Borea ed Espero. Unità che costituivano quanto di più vicino ci fosse nella Marina al modello ideale della moderna silurante di squadra e sulle quali il comandante impose un serrato programma di addestramento. Fece seguito un periodo come istruttore alla Scuola di Comando navale di Taranto, voluta dal ministro Sirianni per istruire i tenenti di vascello in vista del loro primo comando. Nel frattempo, Da Zara era promosso capitano di vascello e nel settembre 1934 lasciava Taranto per Livorno per occuparsi dell’allestimento dell’incrociatore Duca D’Aosta, sul cui progetto e sistemazione espresse varie riserve, in particolare riguardo il fatto che le sistemazioni venissero decise dal Genio Navale senza una diretta consultazione con i futuri ufficiali comandanti, in particolare il nuovo torrione corazzato progettato da

«Nel novembre 1931 fu nominato comandante del CRISTOFORO COLOMBO, dove vi rimase fino al dicembre dello stesso anno».

Umberto Pugliese (23). La nave gli fu consegnata l’11 luglio 1935 e due giorni dopo Da Zara ne divenne ufficialmente il comandante, l’Aosta in seguito sarebbe diventata l’ammiraglia del Comandante in capo della 2a Squadra, con Da Zara ufficiale di bandiera prima dell’ammiraglio Salvatore Denti di Pirajno e poi dell’ammiraglio Bernotti. Nell’estate 1935, l’Italia fascista era ormai avviata all’impresa etiopica che l’avrebbe messa in rotta di collisione con la Gran Bretagna. È noto che il quadro strategico era sfavorevole e la Marina non riteneva esserci possibilità di vittoria in quel confronto, puntando sulla «guerriglia navale» per infliggere il massimo danno alla Royal Navy (24). Da Zara era scettico sulle capacità della

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«Nella primavera del 1937, in quello che lui stesso definì uno degli anni più fortunati della sua carriera, Da Zara ebbe il comando del MONTECUCCOLI».

flotta, dati i risultati mediocri delle esercitazioni a cui partecipò (25). Soprattutto però a preoccuparlo era il silenzio dei vertici navali nei confronti del dittatore. Da Zara non nascose nelle sue memorie le simpatie per il regime. Nel 1922, Mussolini gli apparve «quale il restauratore dell’ordine, il valorizzatore delle virtù nazionali, il difensore della vittoria, il disciplinatore conciliatore e pacificatore e fummo tutti idealmente fascisti». Il comandante ebbe poi modo di incontrarlo più volte, con un’opinione che si fece progressivamente più scettica nei confronti del suo ruolo di condottiero militare, data anche la scarsa competenza del duce su questioni belliche (26). Al tempo stesso, Da Zara, registrava con preoccupazione il fatto che anche cervelli di primo ordine come Bernotti tacevano davanti alle ipotesi militari del dittatore, persino quelle fantasiose come l’impiego del cannonissimo per assediare Malta (27), nonostante il successo in Etiopia sembrasse temporaneamente dare ragione a Mussolini. Inoltre, tra gli ufficiali cresceva il consenso per la politica estera filotedesca del regime, tra questi Raffaele de Courten, che avevano fiducia nell’alleanza in considerazione dello sforzo di riarmo tedesco, mentre Da Zara si considerava ancora dopo la guerra un «anglofilo classificato e schedato» (28). La descrizione di questi mutamente si iscrive nella cornice del rapporto tra Marina e regime, evidenziando come dalla speranza di una politica navale espansiva, che creò consensi tra gli ufficiali, nella seconda metà degli anni Trenta si passò a un misto di preoccupazione e censura che riguardava soprattutto quei leader che ritene-

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vano necessaria una politica navale più qualitativa e con maggiore attenzione alla questione aeronavale per fronteggiare la Gran Bretagna, tra questi anche Da Zara (29). Nella primavera del 1937, in quello che lui stesso definì uno degli anni più fortunati della sua carriera, Da Zara ebbe il comando del Montecuccoli. Dopo un intenso addestramento, l’incrociatore vinse le gare di tiro e ad agosto ne fu ordinata la partenza alla volta della Cina, dove Da Zara avrebbe assunto il comando superiore navale dell’Estremo Oriente, a tutela degli interessi italiani nella regione, investita dalle prime fasi della Guerra cinogiapponese. Mussolini ricevette Da Zara prima della partenza e gli ordinò di mantenere un atteggiamento di «nippofilia a oltranza» (30), in linea con il mutamento in corso nella diplomazia italiana che, dopo aver prestato assistenza navale ai nazionalisti di Chiang Kai-shek con l’invio di una missione navale, in seguito alla firma del patto anticomintern (25 novembre 1936), si stava riorientando in senso filo-giapponese come premessa alla costruzione fronte delle potenze tripartite (31). Il comando superiore era composto dal Montecuccoli, Lepanto e Carlotto, oltre a mille granatieri di Sardegna che furono impiegati nella difesa dell’insediamento internazionale di Shanghai mentre il resto della città era terreno di scontro tra cinesi e giapponesi. Tuttavia, ben presto la missione primaria di Da Zara tornò a essere «mostrare la bandiera» in una regione del globo, l’Asia-Pacifico, in cui gli interessi italiani erano tutto sommato ridotti. La prima missione fu svolta in Australia, in occasione del 150o anniversario della fondazione della colonia del Nuovo Galles del Sud (gennaio-febbraio 1938). La seconda, diplomaticamente forse più rilevante, fu in Giappone, a sostegno di una visita di una delegazione del partito fascista. Del Giappone, nell’autobiografia di Da Zara sembra emergere soprattutto la gelosa segretezza della Marina nipponica, sebbene i rapporti dell’epoca da parte della missione italiana definissero in termini entusiastici gli incontri e le visite dell’Accademia navale nipponica (32). Date le successive difficoltà di sviluppo dell’alleanza si potrebbe ipotizzare che il comandante del Montecuccoli forse aveva colto meglio alcune sfumature, essendo anche un conoscitore migliore della regione estremorientale (33). Il 23 agosto 1938 giungeva l’ordine di rimpatrio, mentre in Europa la tensione cresceva a causa della crisi dei

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Sudeti che causò una posticipazione del ritorno costringendo anche Da Zara a prepararsi all’ipotesi che le tre navi di cui disponeva dovessero fronteggiare le forze anglo-francesi nella regione, pianificandone eventualmente la partenza per il Giappone da usare come base di rifornimento. In ottobre, dopo che il Montecuccoli e il Lepanto avevano ricevuto ordine di salpare per Yokohama, l’evenienza fu scongiurata dal Patto di Monaco che posticipò la guerra al settembre successivo, il Comandante lasciava definitivamente l’Estremo Oriente, per l’ultima volta, il 5 novembre 1938. Rientrato in Italia, Da Zara lasciò il comando del Montecuccoli il 22 dicembre e il 2 gennaio successivo fu promosso contrammiraglio. A maggio 1939, Da Zara ebbe il suo nuovo incarico: comandante militare-marittimo in Albania. Il paese era stato occupato nell’aprile precedente, come culmine di un progressivo processo di penetrazione inserito nell’ambito dell’imperialismo fascista, in cui il controllo del paese avrebbe consentito anche quello del Canale d’Otranto e quindi dell’Adriatico (34). L’Albania però era priva di infrastrutture e quindi il regime avviò un programma di costruzioni che nell’ambito della Marina significò soprattutto provvedere alla sistemazione delle opere portuali e della rete semaforica, oltre alla formazione del personale che era costituito da elementi richiamati poco addestrati. Mentre era in Albania, Da Zara accolse negativamente la dichiarazione di guerra degli anglo-francesi in risposta all’invasione tedesca della Polonia, commentando che la situazione era la stessa del 1914 e che «nella guerra tra la balena e l’elefante ha sempre vinto la balena» (35). A metà maggio 1940 Da Zara fu richiamato a bordo, questa volta al comando del Gruppo «Da Giussano», composto dal Da Giussano e dall’Aosta e inserito nella IV Divisione navale di Alberto Marenco di Moriondo: il 10 giugno l’Italia dichiarava guerra a Francia e Gran Bretagna. La IV divisione (Da Barbiano, Cadorna, Giussano e Diaz) era inserita nella 1a Squadra navale dislocata a Taranto sotto la guida di Inigo Campioni. Il 9 luglio 1940, Da Zara partecipò con il suo Gruppo allo scontro di Punta Stilo, dimostrandosi soddisfatto della condotta delle unità sotto il suo comando, con equipaggi caratterizzati da «spirito aggressivo» ed «entusiasmo» (36). Nelle sue memorie però scrisse che la Marina aveva

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perduto una buona occasione e che sebbene anche per Andrew Cunningham, comandante della Mediterranean Fleet, fosse stata una «disappointing action», questo era dovuto al fatto che non era riuscito a vibrare il colpo decisivo dopo aver cominciato bene l’azione colpendo il Cesare. In ogni caso, il comandante britannico aveva mostrato «molto ardimento e molta iniziativa partendo da Alessandria e venendo a battersi sulle coste della Calabria», nonostante il rischio di trappole dei sommergibili e degli aerei italiani. La condotta italiana invece era stata errata nell’impostazione generale e la mancanza di una seria critica interna dopo l’azione fece un’impressione negativa su Da Zara. Le criticità furono confermate dalla perdita del Colleoni, avvenuta il 19 luglio seguente. L’Ammiraglio lamentava soprattutto la mancanza di progetti offensivi e vide alcune proposte, tra cui quella di una imboscata nel Canale di Creta, respinte da Supermarina, a cui imputava di ascoltare poco la «periferia» (37). A metà ottobre fu trasferito dalla IV alla VIII Divisione al comando del Gruppo Aosta-Montecuccoli, sotto la direzione di Ferdinando Casardi, venendo dislocato a Brindisi a copertura del traffico diretto verso l’Albania, intensificatosi a seguito dell’invasione italiana della Grecia, presto trasformatasi in disastro, mentre l’11 novembre successivo la Squadra italiana veniva dimezzata temporaneamente dalla messa fuori uso di tre corazzate (una definitivamente), evento che a giudizio di Da Zara ebbe gravi effetti morali sulla flotta (38). La destituzione di Cavagnari da Capo di Stato maggiore, la riunione delle due Squadre navali esistenti in un’unica forza e la riorganizzazione dei comandi conseguente portarono allo sbarco di Da Zara che rimase «disponibile» fino a metà febbraio 1941, per poi essere nominato al comando dell’arsenale della Spezia, da cui osservò il procedere della guerra con scetticismo, date le difficoltà dell’impostazione strategica italiana confermate dal disastro di Matapan del marzo 1941. Si espresse negativamente sulle possibilità di vittoria nel conflitto, nonostante molti colleghi fossero di idee opposte, ma Da Zara avrebbe continuato a pensarla in tal senso anche dopo il suo successo del giugno 1942 (39). Nel frattempo, il 1o agosto 1941 fu chiamato a dirigere una nuova organizzazione, l’Ispettorato della difesa e della guerra antisommergibile. Un settore dove la Ma-

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rina era abbastanza arretrata data la mancanza di classi di navi adatte, personale specializzato e il ritardo nell’adozione degli ecogoniometri (40). Da Zara tracciò un programma di costruzioni di 60 motovedette e 60 corvette, la riorganizzazione e l’allargamento delle scuole di formazione e si servì dell’addestramento garantito dagli alleati tedeschi a Gothenhafen, per formare gli uomini che aveva a disposizione. Supervisionò anche la costituzione di 13 nuovi reparti antisommergibili nelle zone di operazioni, sebbene la ritenesse prematura mancando ancora i mezzi d’impiego per gli stessi. Alla fine del 1941, l’impalcatura della difesa antisom italiana era in piedi, mentre il suo creatore veniva promosso ammiraglio di divisione. Con il nuovo grado, nel febbraio 1942, Da Zara veniva nuovamente chiamato all’imbarco, questa volta al comando della VII Divisione. Questa era costituita dall’Eugenio di Savoia, dal Montecuccoli e dall’Attendolo che però era ai lavori. L’unità aveva servito sotto de Courten, il quale godeva della massima stima professionale di Da Zara e l’organizzazione di bordo infatti era eccellente, così come i comandanti delle unità Franco Zannoni sull’Eugenio, Arturo Solari sul Montecuccoli e Federico Martinengo per l’Attendolo. Inoltre, Da Zara si adoperò attivamente per migliorare l’addestramento, obbligando le unità, anche quando impegnate in missione, ad almeno tre esercitazioni al giorno: una all’alba, una il pomeriggio e una dopo il tramonto. In maggio, l’Aosta sostituì il Montecuccoli e la Divisione lasciò Taranto alla volta di Cagliari, scortata da una squadriglia di cacciatorpediniere, per iniziare una nuova missione: la caccia al posamine Manxman. L’unità riforniva Malta grazie alla sua elevata velocità (fino a 40 nodi) eludendo il blocco dell’Asse che si andava rafforzando dopo la distruzione della forza K (dicembre 1941), la Seconda battaglia della Sirte (22 marzo 1942) e il ritorno in forze della Luftwaffe nel Mediterraneo, premessa alla realizzazione dell’invasione dell’isola (Operazione C-3) (41). Da Zara elaborò un piano per tendere un’imboscata al Manxman sulla rotta di rientro da Malta, ma ancora una volta Supermarina rigettò le sue proposte e la caccia proseguì infruttuosa fino al giugno successivo. Si giunse così al giugno 1942 e alla Battaglia di Pantelleria che avrebbe segnato per sempre la fama di Da

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Zara. Lo scontro si colloca nell’ambito dell’Operazione Mezzo Giugno (12-16 giugno 1942), ovvero dell’ultima vittoria a livello operazionale conseguita dall’Asse nella guerra navale nel Mediterraneo, dato che le appena 15,000 tonnellate di rifornimenti ricevuti dall’isola segnarono l’intensificarsi dell’assedio a cui era sottoposta (42). I dettagli dell’operazione sono noti e vale ricapitolarli solo brevemente: dopo la Seconda Sirte, Malta aveva urgente bisogno di rifornimenti, perciò, furono concepite due operazioni di rifornimento tramite convoglio: Harpoon da Gibilterra; Vigorous da Alessandria. Il 15 giugno, il convoglio proveniente da Gibilterra e la sua scorta (Force X), composta dall’incrociatore antiaereo Cairo, 2 squadriglie di cacciatorpediniere (11th su 5 unità e 12th su 4) e 4 dragamine fu oggetto di un attacco coordinato tra la VII divisione e le forze aeree dell’Asse, a fronte di 2 incrociatori italiani (Eugenio di Savoia e Montecuccoli) e 5 cacciatorpediniere (10a squadriglia: Ascari, Oriani e Premuda; 14a squadriglia: Vivaldi e Malocello). L’azione di Da Zara causò la dispersione del convoglio nemico e pesanti danni alla scorta e in concomitanza con gli attacchi aerei permise di affondare quattro dei sei mercantili che componevano il convoglio, sancendo la maggiore vittoria in un’azione di superficie italiana durante il conflitto. Nei rapporti successivi dell’azione, Da Zara avrebbe confermato che a suo giudizio il successo era dovuto all’implementazione dei suoi metodi tattici: «Il tiro di concentrazione ha dimostrato la sua terribile efficacia, il suo altissimo rendimento e la possibilità di eseguirlo con due unità anche senza speciali accorgimenti ma solo sfruttando le attuali apparecchiature e sparando con una Il posamine MANXMAN, giugno 1945 (wikipedia.it). «L’unità riforniva Malta grazie alla sua elevata velocità (fino a 40 nodi) eludendo il blocco dell’Asse che si andava rafforzando dopo la distruzione della forza K (dicembre 1941)».


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unità a palla e con l’altra a granata» (43). E che la formazione rigida andava abbandonata a vantaggio del combattimento tra gruppi: «In ogni modo la questione fondamentale è questa: debbono le navi maggiori vincolare i movimenti a quelli delle siluranti e debbono le navi maggiori manovrare senza vincoli rispetto alle siluranti? Poiché nessuna disposizione regolarmente stabilisce norme in proposito io ho applicato quella che ritenevo e continuo a ritenere la migliore: nel campo tattico quando le siluranti non camminano più delle navi maggiori non ci sono vincoli di manovra di rispetto a quella […] (44). In sostanza, anche in questo caso era stata l’eterodossia dell’Ammiraglio a condurlo al successo. Al tempo stesso egli era perfettamente consapevole dei limiti del materiale, la cui azione era stata facilitata dall’essersi svolta nelle ore diurne in condizioni di mare ottimali e che la necessità di serrare la distanza, come fece all’inizio dell’attacco contro la formazione nemica raggiungendo i 32 nodi con i suoi incrociatori, era fondamentale per mantenere il contatto, anche perché gli inglesi avrebbero potuto dietro lo schermo di nebbia che lanciarono «attuare una tattica difensiva che era nettamente dalla parte del nemico che aveva a sua disposizione i radiolocalizzatori» (45). L’azione gli valse l’ordine militare di Savoia (46). Dopo Pantelleria, la Divisione di Da Zara avrebbe partecipato all’azione di Mezzo Agosto, questa volta senza però riuscire a conseguire successi, ma rientrando a Napoli intatta. L’unità fu poi messa quasi completamente fuori combattimento il 4 dicembre 1942, quando un’incursione aerea statunitense sulla città partenopea affondò l’Attendolo, colpì il Montecuccoli a una caldaia immobilizzandolo per cinque mesi e danneggiò l’Eugenio di Savoia costringendolo a due mesi di riparazioni a Castellammare di Stabia. Nella primavera del 1943, l’Ammiraglio ebbe

alcuni problemi di salute e il 26 aprile lasciò definitivamente la VII Divisione, dopo aver subito un intervento alla gola presso l’Ospedale della Marina di Massa. Il 1943 e i suoi drammatici avvenimenti si aprirono per Da Zara con la perdita del fratello Guido, comandante del reggimento Cavalleggeri d’Alessandria. Ripresosi dalla convalescenza fu scelto da Raffaele De Courten, diventato ministro e Capo di Stato Maggiore nel luglio 1943, come nuovo comandante della V Divisione corazzate dislocata a Taranto, comprendente le navi Doria e Duilio, e comandante superiore navale del settore sud. La situazione ormai era critica, la Tunisia era caduta a maggio, la Sicilia era stata invasa e il 25 luglio il regime fascista era caduto. Da Roma, ora controllata da Badoglio, arrivò l’ordine di prepararsi a un possibile ultimo sacrificio della flotta. In quanto comandante del settore sud, Da Zara visse appieno la tragedia dell’armistizio, delineatasi tra il 6 e il 9 settembre 1943, quando la flotta, pronta a muovere contro l’ex-nemico ricevette invece l’ordine di raggiungere i porti controllati dagli anglo-americani, in ottemperanza alle clausole firmate a Cassibile che ne prevedevano la consegna (47). Le spaccature che emersero evidenziarono la difficoltà dei comandi a eseguire un ordine che ritenevano contrario all’etica con cui erano stati educati, mentre i casi di ammutinamento e opposizione sottolineavano la persistenza di radicali sentimenti antibritannici in una parte del personale (48). Da Zara inizialmente pensò di opporsi alla consegna e nelle memorie di Sergio Nesi è scritto che considerò quegli avvenimenti un tradimento e un inganno (49). La memorialistica repubblichina però offre sempre un grado di affidabilità relativo. Quello che è certo è che il 9 settembre, dopo aver discusso con i suoi subalterni e a terra con gli ammiragli Brivonesi e Fioravanzo, Da Zara, nonostante l’opposizione dell’ammiraglio Galati che comandava gli incrociatori presenti nella base e che fu messo in cella per questo, esigette dai suoi sottoposti una dichiarazione di lealtà al capo del governo (non al sovrano) circa l’esecuzione degli ordini (50). Come abbiamo osservato nelle sue memorie, l’Ammiraglio non nasconde la simpatia avuta per il regime, ma attribuì la sua scelta di eseguire le clausole armistiziali con la logica dell’obbedienza all’autorità riconosciuta come legittima,

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«In quanto ufficiale ammiraglio più anziano tra quelli giunti a Malta toccò a Da Zara presentarsi davanti all’ex-nemico ammiraglio Cunningham per discutere le condizioni di resa (accanto). «Il suo ultimo incarico a bordo lo ebbe il 1o agosto 1944, con la nomina a ispettore delle Forze navali, issando l’insegna sul CESARE (nell’immagine sotto), carica che lasciò il 30 settembre 1946.

che in quel frangente era rappresentata dal governo Badoglio (51). Le Forze di Da Zara lasciarono Taranto alle 16:30 del 9 settembre dirette a Malta. Le sue unità furono attaccate un paio d’ore dopo da aerei tedeschi senza subire danni e la Squadra raggiunse l’isola il pomeriggio del giorno successivo, per poi essere raggiunta dal resto delle Forze da battaglia, scoprendo solo allora che erano menomate dalla perdita del loro comandante, l’ammiraglio Carlo Bergamini scomparso nell’affondamento della corazzata Roma. In quanto ufficiale ammiraglio più anziano tra quelli giunti a Malta toccò a Da Zara presentarsi davanti all’ex-nemico ammiraglio Cunningham per discutere le condizioni di resa. A terra, all’Ammiraglio furono resi gli onori, la stretta di mano ricevuta dal comandante britannico fu «calorosa e silenziosa» e nel corso dei colloqui fu rassicurato sul mantenimento della bandiera nazionale sulle navi italiane, discutendo soprattutto della loro successiva dislocazione. Cunningham scortò poi Da Zara all’automobile che lo riportò in porto e gli disse prima di lasciarlo: «il vostro è un lavoro molto difficile, Ammiraglio». Nelle sue memorie, il comandante britannico avrebbe descritto Da Zara come un uomo che «avvertiva terribilmente la sua posizione» (52). Riflettendo sulla natura della sconfitta, Da Zara riconosceva che l’inferiorità tecnica, numerica e addestrativa, aggravatasi nel corso della guerra, aveva condannato lo sforzo italiano, assieme al fatto di avere buoni uomini ma capi deboli (53). Da Zara avrebbe speso i giorni successivi a organizzare i movimenti della flotta e ad avviare la cooperazione con gli anglo-americani, fornendo due cacciatorpediniere per inviare materiale da Algeri ad Ajaccio. Rimase nell’incarico fino al dicembre

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1943. Dopo un altro breve periodo a disposizione, l’11 marzo 1944 fu nominato comandante del Dipartimento marittimo dello Ionio e del Basso Adriatico, dove si trovava la base navale di Taranto che ospitava il grosso delle unità italiane passate a sud con l’armistizio. Durante questo incarico fu promosso ammiraglio di squadra, distinguendosi per il tentativo di migliorare le difficili condizioni di vita del personale, costituendo due aziende, AGREMA e ARREMA, destinate alla produzione di alimenti e beni di consumo quotidiano per la Regia Marina. Il suo ultimo incarico a bordo lo ebbe il 1o agosto 1944, con la nomina a ispettore delle Forze navali, issando l’insegna sul Cesare, carica che lasciò il 30 settembre 1946. Secondo l’ammiraglio Giuseppe Pighini, a questo punto Da Zara, come molti altri ufficiali avrebbe lasciato la Marina perché in disaccordo con i risultati del Referendum del 2 giugno, avendo affermato: «io che ho comandante l’Eugenio di Savoia e il Duca d’Aosta non posso rimanere in una Marina Repubblicana che potrebbe ribattezzarli Gramsci o Bruno Buozzi» (54). Tale scelta, nelle sue memorie, non traspare, perché si fermano al 1944, ma sappiamo dal suo stato di servizio che fu a disposizione fino al 31 dicembre 1946 per essere collocato in ausiliaria a domanda da quel giorno, venendo contestualmente dispensato dal servizio attivo. Da Zara avrebbe speso gli ultimi anni della sua vita in provincia di Foggia, dedicandosi alle sue memorie, pubblicate nel 1949. Poco tempo dopo, il 3 giugno 1951, il vincitore di Pantelleria si spense nel capoluogo della Daunia, in seguito alle conseguenze di una febbre tifoidea. Terminava così la vita di un ufficiale che si era caratterizzato per la sua eterodossia e autonomia rispetto all’ambiente che lo aveva formato e che in queste aveva avuto forse il suo maggior punto di forza in pace e in guerra. 8 Rivista Marittima Settembre 2021


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Alberto Da Zara. L’eterodossia al comando NOTE (1) Alberto Da Zara, Pelle d’ammiraglio, Mondadori, Milano, ci riferiamo qui all’ed. originale del 1949, p. 32. (2) Sul sistema educativo della Marina liberale si veda Francesco Zampieri, Marinai con le stellette, Aracne, Roma 2008, pp. 13-89. (3) Da Zara, Pelle d’ammiraglio, p. 17, 18, 19, 24, 33. (4) Ivi, p. 45. (5) Ivi, p. 56. (6) Ivi, p. 63, sul problema strategico in Adriatico, Ezio Ferrante, La Grande guerra in Adriatico, Roma 1987, pp. 47-65; Paul Halpern, La Grande guerra nel Mediterraneo, Vol. I, Leg, Gorizia 2012, pp. 92-122, 255-331. (7) L’azione è descritta nella Cronistoria della guerra marittima italo-austriaca, Impiego delle forze navali, fascicolo III, pp. 55-56. (8) AUSMM, Fascicolo personale di Alberto Da Zara, ministero della Difesa-Marina, matricola ufficiali, 2889/10/A, parte terza, notizie varie. (9) Da Zara, Pelle d’ammiraglio, pp. 116-122. (10) Ivi, p. 138. (11) Ciro Paoletti, La Marina italiana in Estremo Oriente: 1866-2000, USMM, Roma 2000, p. 157. (12) Sul quale rimandiamo a Luigi Donolo, Storia della dottrina navale italiana, USMM, Roma 1996, pp. 266-284. (13) Da Zara, Pelle d’ammiraglio, p. 88. (14) Ivi, p. 4. (15) Ivi, p. 211 (16) Alberto Da Zara, Un argomento di tattica navale, Rivista Marittima, febbraio 1940, pp. 188. (17) Alberto Da Zara, Sopra, Sotto, in Alto?, Rivista Marittima, novembre 1921, pp. 489-500; Alberto Da Zara, Siluranti di superficie, Rivista Marittima, settembre 1928, pp. 175-190. (18) Da Zara, Pelle d’ammiraglio, p. 229. (19) Ivi, pp. 231, 291. (20) AUSMM, Fascicolo personale di Alberto Da Zara, foglio d’ordini n. 133, 14-15 maggio 1933, Direzione generale del personale e dei servizi militari, art. 6. (21) Da Zara, Pelle d’ammiraglio, p. 253. (22) AUSMM, Fascicolo personale di Alberto Da Zara, Curriculum Vitae, p. 4. (23) Da Zara, Pelle d’ammiraglio, p. 270. (24) Robert Mallett, The Italian Navy and the Fascist expansionism 1935-1940, Frank Cass, Londra 1998, pp. 30-31. (25) Da Zara, Pelle d’ammiraglio, p. 274. (26) Ivi, pp. 284-285. (27) Si trattava di un pezzo da 381mm ritubato e portato al calibro 210/120 che dalla costa sud della Sicilia avrebbe dovuto poter colpire l’isola, ne parla anche Romeo Bernotti, Cinquant’anni nella Marina Militare, Mursia, Milano 1971. (28) Da Zara, Pelle d’ammiraglio, pp. 276, 281. (29) Ci permettiamo di rimandare a Fabio De Ninno, Fascisti sul mare. La Marina e gli ammiragli di Mussolini, Laterza, Roma-Bari 2017, pp. 221-225. (30) Da Zara, Pelle d’ammiraglio, p. 295. (31) Ci permettiamo di rimandare a Fabio De Ninno, The Italian Navy and Japan, the Indian Ocean, Failed Cooperation, and Tripartite Relations (1935-1943), «War in History», settembre 2018, pp. 6-7. (32) AUSMM, Raccolta di base, b. 2721, Missione del partito nazionale fascista in Giappone, 6 gennaio-23 giugno 1938, pp. 28-34. (33) Su questo aspetto si veda Valdo Ferretti, Il Giappone e la Politica estera italiana, 1935-1941, Giuffrè, Milano 1995. (34) Massimo Borgogni, Tra continuità e incertezza. Italia e Albania (1914-1939): la strategia politico-militare dell’Italia in Albania fino all’operazione «Oltre mare Tirana», Franco Angeli, Milano 2007, pp. 249-253. (35) AUSMM, Fascicolo personale di Alberto Da Zara, Giuseppe Pighini, L’artefice della battaglia, L’ammiraglio Alberto Da Zara, in Commemorazione del 50° anniversario della battaglia di Pantelleria, 1992, p. 10. (36) AUSMM, Scontri navali e operazioni di guerra, b. 3, Comando II Gruppo IV Divisione incrociatori, Missione di guerra 7-8-9 luglio 1940, p. 4. (37) Da Zara, Pelle d’ammiraglio, pp. 336, 338-341, 352. (38) Ivi, p. 344. (39) Ivi, p. 354. (40) Erminio Bagnasco, Le armi delle navi italiane nella Seconda guerra mondiale, Albertelli, Parma 2003, p. 168. (41) Mariano Gabriele, Operazione C-3, USMM, Roma 1996, pp. 121-132. (42) Rimandiamo per il quadro strategico a Douglas Austin, Malta and the British Strategic Policy, 1925-1943, Frank Cass, Londra 2004, pp. 137-152; per il quadro delle operazioni italiane a Pantelleria a USMM, Le azioni navali in Mediterraneo, al 1o aprile 1941 all’8 settembre 1943, USMM, Roma 2001, 288-311, una ricostruzione che sposa le critiche di Iachino a Da Zara in Francesco Mattesini, La battaglia aeronavale di mezzo giugno, Archeos, Rieti 2020, una visione ottimistica dei risultati in Vincent P. O’Hara, In passage perilous: Malta and the convoy battles of June 1942, Indiana University Press, Bloomington 2013. (43) AUSMM, Scontri navali e operazioni di guerra, b. 56, Rapporto della 7a Divisione navale, Comando 7a Divisione navale R.L. Eugenio di Savoia, Prot. n. 373/SRP, Rapporto di navigazione dei giorni 14-15-16 giugno 1942 (battaglia di Pantelleria), p. 16. (44) AUSMM, Scontri navali e operazioni di guerra, b. 56, Rapporto della 7a Divisione navale, Da Zara a Supermarina, tramite Littorio per FF.NN., Battaglia navale di Pantelleria, 8 dicembre 1942. (45) AUSMM, Scontri navali e operazioni di guerra, Rapporto della 7a Divisione navale, Comando 7a Divisione navale R.L. Eugenio di Savoia, Prot. n. 373/SRP, Rapporto di navigazione dei giorni 14-15-16 giugno 1942 (battaglia di Pantelleria), p. 4-5. (46) AUSMM, Fascicolo personale di Alberto Da Zara, Ufficiale dell’ordine militare d’Italia, R.D. n. 279 del 25 giugno 1942. (47) Il termine sia nella memorialistica sia nella pubblicistica italiana viene spesso intercambiato con quello di cessione. Le clausole armistiziali prevedevano appunto la consegna della flotta, ovvero che fosse posta sotto il controllo degli alleati, ma non la cessione, ovvero il passaggio della proprietà delle navi, che comportava ammainare la bandiera nazionale, evento al quale gli ufficiali italiani si opposero anche dopo l’armistizio. (48) Su questi temi Concetta Ricottili, La Marina Militare attraverso l’8 settembre, Il senso dell’onore tra dimensione storica e dimensione retorica, Il poligrafo, Padova 2007; Patrizio Rapalino, Giuseppe Schivardi, Tutti a bordo! I marinai d’Italia l’8 settembre 1943 tra etica e ragion di Stato, Mursia, Milano 2007. (49) Sergio Nesi, Decima flottiglia nostra. I mezzi d’assalto della Marina al Sud e al Nord dopo l’armistizio, Mursia, Milano 1986, p. 47. (50) Francesco Mattesini, L’armistizio del’8 settembre (2a parte). Il dramma delle Forze Navali da battaglia, in BAUSMM, settembre 1993, pp. 166-168. (51) Da Zara, Pelle d’ammiraglio, pp. 419-420. (52) Ivi, pp. 425-426; Andrew B. Cunningham, The Cunningham Papers, Vol. 2, The Triumph of allied Sea power, 1942-1945, a cura di Michael Simpson, Navy records society, Ashgate, Farnham 2006, n. 131, 12 september 1943, p. 128. (53) Da Zara, Pelle d’ammiraglio, pp. 373, 381, 417. (54) Commemorazione del 50o anniversario della Battaglia di Pantelleria, Napoli 14 giugno 1992, p. 16.

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RUBRICHE

F OCUS

DIPLOMATICO

Il vertice NATO di Bruxelles (14 giugno 2021): le premesse del nuovo Concetto strategico Il vertice dei capi di Stato e di governo della NATO di Bruxelles dello scorso 14 giugno segna un passaggio centrale del processo di revisione strategica sul futuro dell’Alleanza nel XXI secolo, destinato a giungere a conclusione con l’adozione del nuovo Concetto strategico (sostitutivo di quello di Lisbona del 2010) prevista in occasione del vertice di Madrid del prossimo anno. Si tratterà per così dire… del punto di arrivo — fermo restando che il processo di evoluzione e adattamento dell’Alleanza non può conoscere soluzioni di continuità — dell’esercizio di adeguamento della NATO alle nuove sfide, noto come NATO 2030, avviato dal segretario generale Jens Stoltenberg già alla fine del 2019. Il Summit si è collo-

«Il vertice dei capi di Stato e di governo della NATO di Bruxelles dello scorso 14 giugno segna un passaggio centrale del processo di revisione strategica sul futuro dell’Alleanza nel XXI secolo. Nell’immagine: Jens Stoltenberg segretario generale della NATO dal 1º ottobre 2014 e, nella pagina successiva, il presidente americano Joe Biden assieme al presidente del Consiglio Mario Draghi, durante il vertice (tg24.sky.it/repubblica.it).

cato nel contesto dell’importante prima visita in Europa del presidente Biden dall’assunzione dell’incarico, subito dopo il rilancio della «special relationship» con il Regno Unito post-Brexit (sua bilaterale con Boris Johnson dello scorso 10 giugno e firma, con lo stesso Johnson, della nuova «Carta Atlantica» a ottant’anni dalla firma di quella Roosevelt-Churchill) e il G7 di Carbis Bay nonché alla vigilia del suo incontro con i vertici UE e di quello successivo, a Ginevra, con il presidente Putin. Svoltosi quindi in un clima positivo per le relazioni transatlantiche, il Summit ha però avuto luogo sullo sfondo di uno scenario di sicurezza tra i più complessi:

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uno scenario nel quale (al di là dei risultati non negativi ma neppure «punto di svolta» dell’incontro BidenPutin) le relazioni con Mosca, per riprendere le parole dello stesso Stoltenberg, «sono al più basso livello dalla fine della Guerra Fredda»; la Bielorussia di Lukashenko ha dirottato un aereo civile nello spazio aereo europeo ed è concreto il rischio di una nuova aggressività talebana in Afghanistan alla vigilia del ritiro delle forze della coalizione, per citare solo alcuni dei fattori di criticità del presente momento. In ogni caso la tenuta del Vertice, e gli altri appuntamenti di rilievo che lo hanno preceduto e seguito, è parsa conferma eloquente del fatto che esso era chiamato a rappresentare, come avvenuto, un tassello di rilievo della più ampia strategia avviata dalla nuova amministrazione americana: strategia che muove dal consolidamento dei legami con gli alleati europei per allargare e rafforzare le alleanze con le democrazie dell’Indo-Pacifico. Al termine è stato rilasciato un comunicato articolato in ben 79 punti che per 61 volte ci rammenta come le azioni «aggressive» poste in essere dalla Federazione Russa rimangano la tradizionale minaccia per l’Alleanza. Gli alleati hanno trovato inoltre una «convergenza» nell’affrontare insieme le sfide «sistemiche» derivanti dalla crescente influenza e dalle politiche internazionali della Repubblica Popolare Cinese, la cui «opacità» nella modernizzazione degli armamenti e arsenali nucleari, l’aggressiva penetrazione nei domini cibernetici e dello spazio, le strategie predatorie di assetti e infrastrutture critiche in Europa e Africa, richiedono un approccio coerente da parte dell’Occidente. La NATO ha inoltre adottato un’aggiornata politica per la difesa cibernetica e discusso le sfide che provengono dallo spazio, considerato, insieme con quello cyber, nuovo dominio operativo. Le sfide provenienti dal Mediterraneo, rese ancor più indifferibili dalla crescente presenza nello scacchiere, militare e non, della Russia e della Cina sono purtroppo relegate al termine del lungo comunicato (derivandone che da parte italiana sarà necessario continuare a fare tutto il possibile perché esse trovino adeguato spazio anche nel contesto del nuovo Concetto strategico): comunicato che tuttavia, opportunamente, considera per la prima volta anche le minacce originate dalla regione del Sahel.

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Focus diplomatico

Alla luce delle conclusioni del Vertice, l’agenda che la NATO ha adottato nella prospettiva 2030 può essere sintetizzata nei seguenti punti chiave: 1) accentuazione del ruolo dell’Alleanza quale unico foro di consultazione politica su tutti i temi di sicurezza con un’agenda estesa alle più diverse tematiche: dal controllo degli armamenti, ai cambiamenti climatici, alla sicurezza in senso lato, alle cosiddette «Emerging Disruptive Technologies», EDT («quantum computing», intelligenza artificiale, «Big Data», armi ipersoniche, robotica per non citarne che alcune), ai temi economici — ed è dato nuovo — tra i quali il trasferimento di tecnologie e i controlli all’esportazione per i materiali sensibili. Consultazioni periodiche per giunta non più limitate al livello politico (Ministri degli Esteri e della Difesa) ma estese sino a includere i direttori politici, i consiglieri per la sicurezza nazionale (o i loro equivalenti laddove non esista nell’uno o nell’altro paese alleato una figura con tale specifico «status»), altri alti funzionari a seconda delle questioni da trattare; 2) rafforzamento della capacità di deterrenza e difesa e relativa riaffermazione dell’impegno degli Alleati a destinare il 2% del PIL per la Difesa. Il Vertice ha altresì ribadito l’impegno degli alleati mantenere un’adeguata combinazione («mix») di difesa nucleare, convenzionale e missilistica nonché a compiere ulteriori sforzi —anche attraverso mirati investimenti nelle infrastrutture — per accrescere la prontezza («readiness») di dispiegamento e reazione delle forze; 3) viene poi elevato il livello di ambizione alleato sulla «resilienza», con un correlato impegno a pervenire a un approccio più integrato alla protezione delle infrastrutture civili critiche onde rendere le società dei paesi membri meno vulnerabili agli attacchi, anche «cyber», di «attori» ostili. Sempre in tema di resilienza verrà altresì sviluppata, dal segretario generale, una proposta da sottoporre al Consiglio atlantico volta a definire meccanismi e parametri per stabilire, valutare, rivedere e monitorare gli obiettivi di resilienza come guida per i traguardi fissati a livello nazionale e per i relativi piani di attuazione. Merita rilevare che in tale spirito proprio per la resilienza, in Romania e su proposta di quel governo, è stato di recente istituito un Centro euro-atlantico appunto per la resilienza, a conferma della rilevanza della sfida e della necessità di af-

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frontarla in modo coordinato e complementare con l’Unione europea. A ben riflettere la stessa «deterrenza» della NATO dipende dal rafforzamento della resilienza nazionale e collettiva. Esplicite al riguardo le parole pronunziate dallo stesso Stoltenberg poco prima del Vertice: «la NATO crede che la resilienza sia la nostra prima linea di difesa. Le infrastrutture critiche devono essere protette, devono essere resilienti. E questo è tutto: dalle reti energetiche alle telecomunicazioni, al 5G, ai cavi sottomarini. E lavorare con l’UE sulla resilienza è una delle aree che abbiamo identificato come importante per operare in maniera sinergica»; 4) mantenimento del vantaggio tecnologico dell’Occidente (a fronte in primis della minaccia cinese e, in subordine, russa…) attraverso l’istituzione di uno strumento acceleratore d’innovazione per la difesa.

Esso avrà l’obiettivo di promuovere una più intensa e mirata collaborazione tra gli alleati in tale cruciale settore. Sarà inoltre definito un Fondo NATO per l’innovazione sostenuto da finanziamenti aggiuntivi da parte degli alleati che decidano di prendervi parte. In sostanza, e per concludere sul punto, tutto porta a ritenere che il tema della competizione tecnologica in primis con Pechino rappresenterà un aspetto qualificante e innovativo del nuovo Concetto strategico; 5) salvaguardia dell’ordine internazionale basato sulle regole. La NATO continuerà a preservare un ordine internazionale basato su regole per la difesa dei valori e degli interessi degli alleati. Verrà a tal fine rafforzata la collaborazione con i paesi partner esistenti, inclusa l’Unione europea, i paesi aspiranti (si ribadisce nel contesto la «open door policy» dell’Alleanza verso gli Stati dello spazio euro-atlantico che intendano

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Focus diplomatico

aderire, nel rispetto delle condizioni fissate dall’art.10 del Trattato di Washington e previa decisione unanime del Consiglio Atlantico). Si individueranno, sempre nella prospettiva di una NATO dotata di un approccio globale, «nuovi partner in Asia, Africa e America Latina». Alla base di tale aspetto qualificante delle conclusioni del recente Vertice il seguente convincimento così formulato in recenti documenti del Segretariato generale: «l’ordine internazionale basato su regole — che è alla base della sicurezza, della libertà e della prosperità degli alleati — si trova sotto pressione da parte di Stati autoritari, come la Russia e la Cina, che non condividono i nostri valori. Ciò presenta implicazioni per la nostra sicurezza, i nostri valori e il modo di vita democratico. Attraverso le decisioni adottate (o da adottare) basate sull’agenda NATO 2030, l’Alleanza investirà nella crescita e approfondimento dei suoi partenariati in linea con i nostri valori e interessi per la salvaguardia di un ordine internazionale basato su regole»; 6) addestramento e sviluppo capacitivo dei partner. Il comunicato prevede un sostanziale rafforzamento della capacità della NATO di provvedere all’addestramento e alle capacità («capabilities») dei partner, riconoscendo altresì che i conflitti e una diffusa instabilità nell’estero vicino impattano direttamente sulla sicurezza alleata; 7) cambiamento climatico. Esso viene considerato un «moltiplicatore di minacce» con ripercussioni sulla sicurezza dell’Alleanza. Il Vertice ha adottato un Piano d’azione per il cambiamento climatico e la sicurezza. L’Alleanza valuterà annualmente l’impatto dei cambiamenti climatici sul suo ambiente strategico, sulle missioni e le operazioni. Il Summit ha poi deciso di ridurre significativamente le emissioni di gas serra delle attività e installazioni militari invitando il segretario generale a formulare un obiettivo realistico, ambizioso e concreto e a valutare la fattibilità del raggiungimento dell’obiettivo di «zero emissioni nette» entro il 2050. Il maggiore livello di ambizione contemplato dall’Agenda NATO 2030 presuppone, come prospettato dal segretario generale in sue recenti prese di posizione, l’aumento del finanziamento comune per le attività di deterrenza e difesa. Gli alleati, come deciso dal Vertice, rafforzeranno dunque il loro impegno per la difesa collettiva, riaffermando il piano di investimenti del 2014 che ha avviato un aumento delle spese per la difesa a livello

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nazionale (per i paesi che non hanno ancora raggiunto il 2% del PIL) nel corso degli ultimi 7 anni. Sulla base dei requisiti, gli alleati accettano dunque di aumentare ulteriormente le risorse, inclusi se necessario finanziamenti comuni della NATO a partire dal 2023, sempre tenendo conto della sostenibilità delle spese in parola. Nel 2022 inoltre — insieme al nuovo Concetto strategico — saranno concordati i requisiti specifici per finanziamenti aggiuntivi sino al 2030. Qualche ulteriore osservazione con riferimento ai due «attori» (Russia e Cina) individuati nel documento conclusivo del Vertice come le principali minacce per i paesi alleati. La Federazione Russa, si osserva, continua a violare i principi, la fiducia e gli impegni delineati nei documenti concordati che sono alla base delle relazioni NATO-Russia. Riaffermando le decisioni assunte al Vertice di Celtic Manor (Galles) del 2014 nei confronti di Mosca, gli alleati continueranno a rispondere al deterioramento del contesto di sicurezza migliorando la deterrenza e la posizione di difesa, inclusa una presenza avanzata («forward presence») nella parte orientale dell’Alleanza. Viene anche sottolineato che la Russia ha tra l’altro continuato a diversificare il suo arsenale nucleare, anche dispiegando una serie di missili a corto e medio raggio in chiave anti-NATO. L’Alleanza resta comunque aperta (paragrafo 15 del comunicato) a un dialogo periodico mirato e significativo con una Russia disposta a impegnarsi sulla base della reciprocità «al fine di scongiurare malintesi, errori di calcolo e escalation involontarie e accrescere la trasparenza e la prevedibilità». Quanto alla Repubblica Popolare Cinese, essa viene definita come una «sfida sistemica» per la sicurezza dell’Alleanza. Le ambizioni dichiarate, si osserva, e il comportamento assertivo della Cina presentano sfide sistemiche all’ordine internazionale basato su regole e alle aree rilevanti per la sicurezza alleata. Gli alleati esprimono preoccupazione per le «politiche coercitive» cinesi che sono in contraddizione con i valori fondamentali sanciti dal Trattato di Washington. La NATO intende però mantenere un dialogo costruttivo con Pechino ove possibile. Sulla base degli interessi dell’Alleanza si accolgono poi con favore le opportunità di impegnarsi con la Cina in

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Focus diplomatico

settori di rilevanza per l’Alleanza e su sfide comuni come il cambiamento climatico. Emerge in sostanza da quanto precede la conferma di un’Alleanza determinata — in linea con gli auspici in primis statunitensi e di Stoltenberg — ad adottare sempre più un approccio globale (cosa ben diversa da quella NATO globale cui forse taluni pensano a Washington ma che incontra giustificate riluttanze tra gli alleati europei convinti che, quanto meno sul cruciale terreno dell’impegno alla difesa collettiva ex-art.5, l’area di competenza dell’Alleanza debba restare quella definito dal Trattato di Washington: vale a dire quella euro-atlantica). Non vi è dubbio comunque che il legame transatlantico, che l’amministrazione Biden ha inteso così visibilmente rilanciare, richiede da parte europea un solido ancoraggio che probabilmente oggi solo il nostro paese è in grado di fornire ancor più alla luce delle impeccabili credenziali «atlantiche» ed europee del presidente Draghi. Le complesse sfide delineate dall’Agenda NATO 2030 dischiudono, infatti, all’Italia una straordinaria occasione per incidere sul futuro dell’Alleanza e per cogliere le opportunità che dall’Agenda 2030 scaturiranno anche in campo tecnologico. Al pari di quanto avvenuto nel 1956 con Gaetano Martino che presiedette alla redazione del primo Rapporto sulla cooperazione «non militare» dell’Alleanza o in occasione dell’adozione del Rapporto Harmel finalizzato nel 1967 sotto l’egida dell’allora segretario generale Manlio Brosio, il nostro paese ha titolo oggi per rivendicare un ruolo ancor più decisivo in seno all’Alleanza. La qualità e lo spessore del nostro impegno complessivo in ambito NATO (sul quale non è questa la sede per soffermarsi) così come le importanti prossime scadenze elettorali che già vedono impegnate la Germania e la Francia, e la stessa Brexit, fanno infatti del nostro paese probabilmente il solo oggi in grado di perseguire l’agenda transatlantica in complementarietà

con quella dell’Unione europea. Abbiamo inoltre maggiori possibilità di favorire un dialogo costruttivo con la Federazione Russa e la stessa Cina ove le condizioni lo consentano, così come di offrire al Consiglio atlantico una visione davvero a 360 gradi tale da conferire la necessaria attenzione anche allo scacchiere del Mediterraneo e al di là. A cominciare dalle questioni connesse, per esempio, alla pervasiva presenza russa in Cirenaica (oltre che della Turchia in Tripolitania) e dalla correlata necessità di continuare a riflettere anche in ambito NATO alla opportunità di una qualche ripresa di contatto — almeno sui temi strategici — con Mosca seppur con le dovute cautele. Quello del recupero di una qualche forma di dialogo con la Russia, osservo per inciso, è, infatti, tema che continuerà a figurare tra i più sensibili nell’agenda dell’Unione europea come testimoniato da ultimo dalle negative reazioni destate tra la maggioranza dei paesi membri di Europa centro-orientale (Polonia e baltici in primo luogo) e non solo (assai critica per esempio anche l’Olanda) dalla proposta in tal senso avanzata dalla cancelliera Merkel e dal presidente Macron in apertura del Consiglio europeo dello scorso 24 giugno e sostenuta, seppur con opportuni «caveat», dal presidente Draghi. Chiudo l’inciso e torno al recente Vertice NATO con una riflessione conclusiva: il nostro Primo ministro ha esordito nel suo apprezzato intervento al Vertice sostenendo che «la NATO è stata negli ultimi 72 anni la pietra angolare della nostra sicurezza e difesa». Come è stato recentemente osservato dal presidente del Comitato atlantico italiano, Fabrizio Luciolli, il nostro paese se saprà giocare bene le sue carte, e non vi è motivo di dubitarne, potrà, da parte sua, costituire la pietra angolare (o quanto meno un attore ancor più autorevole di quanto già in atto) della NATO del prossimo futuro. Gabriele Checchia, Circolo di Studi Diplomatici

L’ambasciatore Gabriele Checchia è nato ad Ancona il 23 marzo 1952. Conseguita la Maturità classica, si laurea, nel 1974, in Scienze Politiche al «Cesare Alfieri» con successivo corso di specializzazione in Diritto internazionale alla «Johns Hopkins». Nel 1978, a seguito di esame di concorso, entra al ministero degli Esteri ricoprendo negli anni numerosi incarichi alla Farnesina e all’estero. È stato Ambasciatore d’Italia in Libano (2006-10), alla NATO (2012-14) e all’OCSE (2014-16). A riposo, per limiti di età, dal dicembre 2016. È, attualmente, «Senior Advisor» della Luiss per le tematiche di internazionalizzazione e Presidente del «Comitato Atlantico» di Napoli. Il Circolo di Studi Diplomatici è un’associazione fondata nel 1968 su iniziativa di un ristretto gruppo di ambasciatori con l’obiettivo di non disperdere le esperienze e le competenze dopo la cessazione dal servizio attivo. Il Circolo si è poi nel tempo rinnovato e ampliato attraverso la cooptazione di funzionari diplomatici giunti all’apice della carriera nello svolgimento di incarichi di alta responsabilità, a Roma e all’estero.

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O SSERVATORIO Full Operational Capability per il Joint Support and Enabling Command della NATO L’8 settembre la NATO ha dichiarato che il Joint Support and Enabling Command (JSEC) ha raggiunto la piena capacità operativa (FOC, Full Operational Capability) e ha celebrato l’occasione con una cerimonia presieduta dal suo comandante, il tenente generale Jürgen Knappe. Tra gli ospiti, il SACEUR, il generale statuinitense Tod Wolters, il vice ministro della Difesa di Berlino, Thomas Silberhorn, e il Direttore Generale dell’IMS (International Military Staff) dell’Alleanza, il tenente generale Hans-Werner Wiermann. Da quando ha raggiunto la sua capacità operativa iniziale (IOC) nel settembre 2019, i 400 militari e civili dello staff del JSEC, provenienti da 20 nazioni dell’Alleanza, si sono addestrati incessantemente in una serie di compiti e incarichi per identificare le carenze logistiche e operative alla mobilità delle forze alleate nel continente europeo. La più importante è stata la sua partecipazione all’esercitazione NATO «Steadfast Defender 2021», tenutasi nel mese di giugno, una vera e propria prova generale prima dell’ufficializzazione del raggiungimento della FOC. Aprendo la cerimonia, il tenente generale Knappe ha riconosciuto l’importanza di «Steadfast Defender 2021», una pietra miliare fondamentale nell’istituzione di questo quartier generale della NATO a livello operativo nel suo cammino verso la sua piena prontezza. Il JSEC, nonostante le piccole dimen-

Il tenente generale Jürgen Knappe, comandante del Joint Support and Enabling Command (JSEC) - (shape.nato.int).

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INTERNAZIONALE sioni del suo staff, è un organismo importantissimo nell’economia della difesa alleata, coordinando il movimento delle forze NATO attraverso i confini europei. In tempo di pace, il JSEC funzionerà come una capacità di rete tra le rispettive nazioni europee, che manterranno in ogni caso la sovranità e la responsabilità per i propri paesi. Il Joint Support and Enabling Command, che ha sede a Ulm in Germania è il secondo comando a raggiungere la piena capacità operativa quest’anno. Lo scorso luglio, anche l’Allied Joint Force Command Norfolk ha raggiunto il traguardo della piena capacità operativa.

Russia-Bielorussia: il nuovo (o vecchio) blocco Russia e Bielorussia saranno il luogo di quelle che potrebbero essere le più grandi esercitazioni militari in Europa degli ultimi decenni, le quali avverranno quando il presidente della Bielorussia, Aljaksandr Lukašėnka, deciderà di integrare il suo paese ancora di più, non solo militarmente ma politicamente, con la Russia, innescando però anche timori per gli assetti politici (e democratici) dell’area. Il 9 settembre ha avuto luogo la cerimonia inaugurale dell’esercitazione «Zapad-2021» (Occidente, in russo), che durerà fino alla metà del mese e coinvolgerà, secondo stime occidentali, 200.000 militari russi e bielorussi. Il contesto è difficile sia per la situazione interna della Bielorussia, caratterizzata da un anno di proteste contro il governo in carica per le durissime repressioni, sia per le relazioni NATO/Russia (secondo Bruxelles, Mosca, violando gli impegni OSCE, non ha invitato osservatori militari dell’Alleanza). Inoltre, la concentrazione di una tale forza nei pressi dei confini dell’Ucraina è un pesante segnale verso il debole governo del presidente Zelenskyy che deve far fronte a una secessione filorussa nella parte orientale del suo paese, una situazione economica, sociale e politica instabile. Inoltre, Lituania, Polonia e Lettonia hanno tutte dichiarato lo stato di emergenza per far fronte a un’ondata di migranti che, secondo loro, Lukašėnka sta organizzando per punire l’UE, per aver imposto sanzioni contro di lui, i suoi circoli di persone a lui prossimi e le imprese a lui (e a essi) collegate, in coordinamento con Stati Uniti, Gran Bretagna, Canada e altri paesi. Come noto, il Presidente Lukašėnka (al potere dal 1994) au-

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menta la pressione sulle ONG e sui media indipendenti come parte di una brutale repressione contro i manifestanti e l’opposizione a seguito delle elezioni dell’agosto 2020 ampiamente considerate fraudolente. Quando decine di migliaia di bielorussi sono scesi in strada, Lukašėnka ha reagito con una violenta repressione. Decine di migliaia di persone sono state arrestate, le ONG e i media indipendenti messi a tacere e i leader dell’opposizione incarcerati o costretti a fuggire, tra cui Svyatlana Tsikhanouskaya. Questa situazione ha ovviamente un impatto sulle politiche di sicurezza e generali della Bielorussia. Infatti, nonostante molte speculazioni (e pochi fatti, in realtà) Lukašėnka era piuttosto incerto nello stringere troppo i suoi legami con Mosca, ma ora la sua difficoltà interna lo ha obbligato ad avvicinarsi in maniera decisiva a Mosca, che rappresenta la sua unica ancora di salvezza. La situazione strategica oggi è molto diversa rispetto alla precedente esercitazione di Zapad, tenutasi nel 2017. La Russia vuole cogliere l’occasione per espandere la sua impronta militare e di polizia in Bielorussia e la «Zapad 2021» potrebbe fornire indicazioni in merito. Potrebbe anche comportare una maggiore integrazione dei servizi militari e di sicurezza russi e bielorussi, per reprimere una nuova rivoluzione colorata. I due paesi sono formalmente parte di una specie di unione e il tema del suo rafforzamento è stato al centro dei colloqui tra Lukašėnka e Putin, avvenuti a Mosca, con la sigla dell’avvio delle manovre. In Bielorussia, per la «Zapad-2021» (che si svolge ogni quattro anni), verranno utilizzati cinque grandi poligoni di manovra (Brest Litovsk, Baranavichy, Damanauski, Abuz-Lyasnouski e Ruzhanski nella regione di Hrodna) che si trovano nella Bielorussia occidentale, vicino ai confini con Polonia e Lituania. In Russia si svolgeranno esercitazioni in nove centri di addestramento e nelle esercitazioni sarà coinvolta anche la Flotta del Nord. Come nel 2017, le esercitazioni si concentreranno sul contrasto nei confronti di Stati fittizi (Nyaris, Pomoria e la Repubblica Polare), e la consueta lotta a «organizzazioni terroristiche». Il quotidiano ufficioso del Cremlino, Izvestia, ha riferito l’11 agosto che la «Zapad 2021» vedrà uno degli usi più estesi della guerra elettronica nel quadro di un’esercitazione condotta dalla 1a Armata corazzata e la 20a Armata combinata delle guardie russe.

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Il presidente bielorusso Aljaksandr Lukašėnka (s) assieme al presidente russo Vladimir Putin (sicurezzainternazione.luiss.it).

Le Forze armate russe hanno affermato che «Zapad2021» includerà 200.000 militari russi e bielorussi e circa 2.000 militari provenienti dagli Stati aderenti all’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (CSTO) e l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO), come Armenia, Kazakistan, Tagikistan, India, Kirghizistan, Mongolia, Serbia e Sri-Lanka, che invieranno contingenti, anche se piuttosto piccoli; mentre Cina, Vietnam, Birmania, Pakistan e Uzbekistan invieranno osservatori. Se questa cifra si rivelasse veritiera, la «Zapad-2021» sarebbe l’esercitazione più ampia in Europa da decenni (a titolo di esempio, la «Trident Juncture 2018», la più grande esercitazione della NATO di ultima generazione, ha coinvolto «solo» 40.000 militari). Russia e Bielorussia hanno iniziato a dispiegare forze e materiale militare per la l’esercitazione già nel mese di luglio e i ministri della Difesa di Minsk e Mosca, Viktar Khrenin e Sergei Shoigu, hanno annunciato l’intenzione di istituire tre centri di addestramento militare congiunti permanenti nelle regioni russe di Nizhny-Novgorod e Kaliningrad e nella regione occidentale bielorussa di Hrodna, che confina con Polonia e Lituania. Ciò è avvenuto dopo che i ministeri della Difesa dei due paesi hanno firmato, per la prima volta, un accordo di partenariato strategico quinquennale. La creazione di un centro di addestramento militare congiunto a Hrodna è una chiara indicazione che la Russia sta cercando di ampliare la sua presenza militare e si pensa che una parte del personale militare russo che parteciperà alla «Zapad 2021» resterà nel paese, approfittando della difficile posizione di Lukašėnka, e Minsk non ha scelta.

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Armenia, ovvero la presenza russa nel Caucaso Mosca non resta attiva solo su un fronte. Pochi giorni prima dell’avvio della «Zapad 2021» la Russia ha ritirato il mandato agli osservatori militari dell’OSCE che vigilano sulla tregua (fragilissima in verità) tra Ucraina e forze filorusse stanziate nell’est del paese e che hanno costituito repubbliche fittizie. La decisione, in qualche modo attesa, visto il sempre maggior fastidio di Mosca verso l’organizzazione basata a Vienna, ha ulteriormente avvelenato le relazioni con l’Occidente e sullo stesso fronte caucasico, lentamente, ma costantemente, le forze di interposizione russe stanno lasciando sempre più mano libera alle truppe armene, aumentando la tensione politica (sinora, ma per Baku non vi sono chances) e mostrando che i 2.000 militari della forza multinazionale russo-turca (in realtà vi sono solo una ventina di militari di Ankara nel comando, esclu-

Ilham Aliyev (s) presidente azero dal 2003 e, accanto, Nikol Pashinian, primo ministro dell’Armenia dal 2018 (euronews.com).

sivamente russo) è solo una facciata e che l’Armenia, dopo la sonora sconfitta contro l’Azerbaijan nel novembre scorso, si sta silenziosamente allineando, nonostante il presunto filo-occidentalismo del primo ministro Pashinian. L’Armenia è stata frustrata dalla riluttanza della CSTO, una sorta di NATO a guida russa, di cui Erevan fa parte quale Stato fondatore, a intervenire dalla sua parte nella Seconda guerra del Karabakh del 2020. Il Cremlino ha giustificato la sua inerzia affermando che la guerra si stava combattendo su un territorio internazionalmente riconosciuto come appartenente all’Azerbaijan (mentre Erevan lo contesta quando si riferisce al Nagorno-Karabakh), ma non ha potuto fare altrimenti che piegarsi alla superiorità militare azera. Ma la Russia, che usa sempre bastone e ca-

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rota con grande abilità, non ha nessuna intenzione di perdere una presenza consolidata nel Caucaso. Infatti, continua a mantenere due basi militari in Armenia, istituite nell’era sovietica e la cui permanenza è sempre stata confermata da tutti i governi di Erevan sin dall’indipendenza, negli anni Novanta. La 102a base militare russa a Gyumri (120 km a nord di Erevan e prossima al confine con la Turchia), che ospitava la 127a Divisione sovietica fucilieri motorizzati della 7a Armata della guardia sovietica e faceva parte del Gruppo di forze transcaucasiche, oggi ospita un numero ridotto di personale ma importanti quantità di materiali e una aviosuperficie. L’altra, è la base aerea di Erebuni, prossima a Erevan, e che ospita la 3624a base aerea russa, dotata di caccia MIG-29 «Fulcrum» ed elicotteri d’attacco Mi-24 «Hind». Queste due sono le uniche basi militari russe nel Caucaso meridionale. La Russia è il principale fornitore di armi e addestramento militare dell’Armenia, che ha una popolazione, un terzo di quella dell’Azerbaijan, ma senza le sue fonti di energia. Non ha le risorse finanziarie per acquistare attrezzature militari occidentali, turche e israeliane, come ha fatto Baku. Il presidente Ilham Aliyev ha reagito con incredulità quando la Russia ha annunciato che avrebbe aiutato l’Armenia nella «modernizzazione» delle sue Forze armate dopo la sconfitta dello scorso anno e le tensioni restano alte. L’Azerbaijan è frustrato dalla riluttanza dell’Armenia ad attuare i punti chiave dell’accordo del cessate-il-fuoco del 10 novembre 2020, come la riapertura del corridoio di trasporto di Zangezur che collega l’Azerbaijan alla sua enclave di Nakhichevan, attraverso l’Armenia. Inoltre Baku è frustrata dal rifiuto armeno nel ritirare le forze rimanenti dalla oramai dissolta repubblica del Nagorno-Karabakh. In caso di una rinnovata crisi o ripresa delle ostilità, il sostegno sempre più aperto della Russia verso l’Armenia, ha portato il 15 giugno scorso i presidenti turco e azero alla firma della Dichiarazione di Shusha, un’alleanza, che ha cementato i legami di sicurezza bilaterali tra i due paesi.

Nuovi orizzonti per la Marina indiana Nella sua sfida globale con la Cina, l’India segue proprio i passi di Pechino, a cominciare dalla accresciuta presenza militare su scala mondiale, nel cui quadro la dimensione navale svolge un ruolo fondamentale. I mesi di agosto e settembre sono stati particolarmente intensi

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per l’Indian Navy. Infatti, oltre alla partecipazione alle spettacolari manovre multilaterali con Stati Uniti, Australia e Giappone («Malabar 2021») nel contesto dell’iniziativa «Quad» e a quelle bilaterali con altre importanti Marine, come quelle britannica e francese), New Delhi ha iniziato a mostrare bandiera nel Mediterraneo, seguendo così la presenza, sinora occasionale di unità cinesi. Alla fine di agosto una fregata della classe «Talwar», la INS Tabar, ha svolto un’esercitazione di passaggio bilaterale (PASSEX) con una corvetta della classe «Adhafer», la Ezzadjer, della Marina algerina. La PASSEX è stata svolta per valutare e migliorare la capacità combinata, promuovere la sicurezza nazionale e regionale e aumentare l’interoperabilità tra le Marine dei due paesi amici (secondo quanto detto dalle autorità militari e diplomatiche dei due paesi). La Tabar, che fa parte del comando navale occidentale della Marina indiana con sede a Mumbai, svolge un dispiegamento di quattro mesi in Africa ed Europa, per partecipare a esercitazioni congiunte con Marine amiche e migliorare la cooperazione militare attraverso impegni navali. La PASSEX è un’operazione semplice, ma il contesto politico è assai importante e segnala la volontà di New Delhi di rafforzare ove possibile la sua presenza come alternativa alla proliferazione di quella cinese. C’è da aspettarsi una crescita della presenza indiana, innanzitutto navale, corroborata dall’inizio dei test della nuova portaerei, di progettazione e costruzione locale, la Vikrant, il mese scorso. Anche se rilevante strategicamente la presenza nel Mediterraneo, soprattutto in una prospettiva medio-lunga, il baricentro degli interessi strategici di New Delhi resta ovviamente l’area dell’Oceano Indiano, dimostrata dalle esercitazioni congiunte con US Navy ed EUROMARFOR «Atlanta». Accanto all’Oceano Indiano, il controllo degli accessi da e per il Pacifico e ai mari regionali (Mar Cinese Meridionale, Mar «SIMBEX 2021, tenutasi dal 2 al 4 settembre, è l’esercitazione marittima bilaterale che da più tempo la Marina indiana effettua con le Marine straniere» (Fonte immagine: mindef.gov.sg).

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Giallo) restano parimenti importanti. In quest’ottica, agli inizi di settembre, India e Singapore hanno concluso un’esercitazione bilaterale marittima complessa, dimostrando l’elevata interoperabilità raggiunta tra le Marine di entrambi i paesi, in ben 28 anni di attività congiunte. La SIMBEX (questo è il titolo dell’esercitazione) si è svolta dal 2 al 4 settembre. Avviata nel 1994, SIMBEX è l’esercitazione marittima bilaterale che da più tempo la Marina indiana effettua con le Marine straniere. Sostenere la continuità di questo impegno significativo nonostante le sfide della pandemia in corso sottolinea ulteriormente la forza dei legami di difesa bilaterali tra i due paesi. Nonostante questi vincoli durante le fasi di pianificazione, l’edizione di quest’anno di SIMBEX è anche un’«occasione speciale» poiché si svolge durante le celebrazioni del 75o anno dell’indipendenza dell’India.

Marina cinese: un altro allarme Uno degli obiettivi strategici di Pechino è quello di spezzare in tutti i modi la cintura (più politica che meramente geografica) degli arcipelaghi e linee di forza che fronteggiano le sue coste. Per fare questo, ovviamente, il primo strumento e quello di costruire una Marina, numericamente importante e tecnologicamente avanzata che possa essere una minaccia alla coalizione globale che progressivamente si sta costituendo, guidata dagli Stati Uniti. Il cammino è ancora lungo, ma i risultati sono comunque impressionanti, soprattutto per la costanza e l’impegno ad aumentare le proprie capacità. Attualmente, la Marina cinese ha una forza di battaglia complessiva di oltre 360 navi, tra cui più di 130 unità principali combattenti di superficie e più di 60 sottomarini, un’aviazione navale di oltre 300 velivoli ad ala fissa e rotante di ogni tipo e un inquietante programma di costruzione di portaerei, sempre più grandi e sofisticate, che seppur ancora indietro di almeno due generazioni rispetto a quelle statunitensi in termini di capacità, deve far riflettere sulla chiara volontà cinese di ridurre quanto prima il gap attuale. È una forza sempre più moderna e flessibile in grado di condurre un’ampia gamma di missioni in tempo di pace e di guerra, a distanze sempre maggiori dalla terraferma cinese. Dalle pattuglie antipirateria nel Golfo di Aden, agli schieramenti di navi ospedale in America Latina, ai pattugliamenti sottomarini nell’Oceano In-

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diano alle operazioni a lungo raggio nel Pacifico centrale. La Marina di Pechino è una forza sempre più globale a sostegno degli interessi in espansione della Cina. Per esempio, all’inizio del 2009, Pechino ha inviato un Gruppo navale nel Golfo di Aden per partecipare a pattugliamenti internazionali contro la pirateria, ai sensi della Risoluzione 2125 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU; all’inizio del 2014 una fregata cinese ha assistito nella scorta della rimozione di armi chimiche dalla Siria; nel 2011 e 2014 ha assistito le operazioni di evacuazione di non combattenti in Libia e Yemen. La missione in Yemen ha comportato l’evacuazione di oltre 200 cittadini non cinesi. Inoltre, le crociere della nave ospedale Daishan Dao in Africa, America Latina, Sud-Est asiatico e Oceania aiutano a stabilire la legittimità di Pechino come partner, fornitore di aiuti e sicurezza marittima. Ma non è sufficiente, infatti, Pechino sta sviluppando una serie di strumenti accanto all’espansione economica e militare, in senso stretto. Uno di questi è la Guardia costiera. Come la Marina, con cui opera di conserva, la Guardia costiera cinese sta crescendo in capacità e oramai ha una presenza consolidata in tutti i «mari vicini» della Cina, nell’Asia orientale e all’estero, nel Pacifico settentrionale, con pattuglie di vigilanza pesca e, la possibilità di ulteriori dispiegamenti a lunga distanza, è solo questione di tempo. Ciò è particolarmente vero nelle acque in cui vi sono interessi cinesi, come quelle occidentali dell’America Latina e del Pacifico orientale, a causa del crescente problema delle droghe dall’America Latina che si fanno strada verso i consumatori cinesi. La Guardia costiera cinese è il risultato del consolidamento, avvenuto nel 2013, di quattro agenzie di sicurezza marittima. Accanto alla razionalizzazione istituzionale, si è avviato un importante rinnovamento e miglioramento delle unità in mare e le sue navi a scafo bianco sono ormai comuni nei mari vicini della Cina, all’interno della prima catena di isole, in particolare nelle acque contese come Scarborough Reef, le isole Senkaku e Second Thomas Shoal, nonché vicino a piattaforme di trivellazione straniere. Con 140 navi oceaniche di 1.000 tonnellate o più, comprese 60 navi di 2.500 tonnellate o più, la Guardia costiera cinese ha una capacità più che sufficiente per espandere le sue operazioni oltre le acque regionali, a cominciare dalla partecipazione ai pattugliamenti internazionali della pesca nel Pacifico set-

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tentrionale. Dal 1994, l’US Coast Guard (USCG) ha ospitato le sue controparti cinesi a bordo delle navi statunitensi che operano nel Pacifico settentrionale, a sostegno degli sforzi per arginare la pesca illegale in alto mare, in gran parte da parte di pescatori cinesi. Da quando è entrata a far parte della Commissione per la Pesca del Pacifico settentrionale (NPFC, con sede in Giappone) nel 2015, la Guardia costiera cinese ha anche inviato proprie unità a operare nelle acque del Pacifico settentrionale, spesso attraverso pattugliamenti congiunti con scambi con la USCG. Analogamente a quanto citato in merito alle operazioni nel Golfo di Aden con la Marina vera e propria, la Cina potrebbe schierare navi della Guardia costiera nelle acque dell’America Latina, in base alle disposizioni della risoluzione 2482 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che richiama specificamente l’attività criminale, compreso il traffico di droga e nel contrasto a gruppi terroristici. L’America Latina è una regione di crescente importanza per Pechino. La massiccia iniziativa cinese Belt&Road ora coinvolge oltre 130 paesi e oltre 500 miliardi di dollari di investimenti includendo un elenco crescente di nazioni in America Latina (con Panama la prima ad aderire nel 2017). La crescente ricchezza cinese e il fatto che le droghe spesso ottengono prezzi più alti in Asia e in Australia rispetto al Nord America, rendono la Cina un mercato naturale per la cocaina prodotta in America Latina. In questo momento, le autorità cinesi stanno collaborando con quelle di altre nazioni per combattere il problema nell’Asia orientale. Tuttavia, è possibile che in futuro Pechino possa decidere di avere interesse a stabilire una presenza militare/di polizia cinese nell’emisfero occidentale, per aiutare a fermare il flusso di droga alla fonte. Il coinvolgimento della Guardia costiera nei pattugliamenti della pesca nel Pacifico settentrionale e il coinvolgimento della Marina nelle missioni sanzionate a «Come la Marina, anche la Guardia costiera cinese sta crescendo in capacità e oramai ha una presenza consolidata in tutti i “mari vicini” della Cina, nell’Asia orientale e all’estero, nel Pacifico settentrionale (...)» - (Fonte immagine: twitter).


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livello internazionale, forniscono il modello e la logica di base per i pattugliamenti antidroga della Guardia costiera nell’emisfero occidentale. Lo spiegamento cinese nel Golfo di Aden nel 2009 è stato generalmente visto come una gradita aggiunta alle Marine già operanti nell’area; anche la presenza della Guardia costiera nel Pacifico settentrionale è vista positivamente. La cooperazione con le forze statunitensi e delle nazioni partner, tesa a combattere il flusso infinito di droga proveniente dal Sud e Centro America, sarebbe ben visto ed è probabile che Pechino possa inviare sue unità presso quei governi latinoamericani che, in numero sempre maggiore, hanno buoni rapporti con la Cina. Una presenza più visibilmente cooperativa del Guardia costiera nelle acque dell’America Latina potrebbe anche calmare le crescenti preoccupazioni nella regione sulla pesca illegale da parte dei pescatori cinesi, attività che hanno creato forti tensioni (come con Argentina, Perù ed Ecuador). Tuttavia, una presenza navale cinese, anche se della Guardia costiera, potrebbe sollevare ulteriori preoccupazioni negli Stati Uniti a causa della sensibilità di lunga data di Washington in merito alla presenza di forze militari straniere nell’emisfero occidentale, risalenti all’istituzione della Dottrina Monroe. Al momento, le acque dell’emisfero occidentale meridionale sono di pertinenza della US 4th Fleet, che non ha forze permanentemente assegnate e che è la componente marittima dell’US Southern Command.

Somalia: forse una AMISOM II Nel mese di luglio, l’Unione Africana (UA) attraverso il Consiglio per la Pace e la Sicurezza ha offerto quattro opzioni separate per il futuro della missione dell’Unione Africana in Somalia (AMISOM) al governo federale somalo. Dalla fine degli anni Ottanta la guerra civile somala ha avuto molti colpi di scena, causato terribili sofferenze alle popolazioni civili e ha trasformato il paese in un coacervo inestricabile dove sussistono rivalità regionali, terrorismo, pirateria e attività criminali di ogni tipo. Nel 2008-09, Al-Shabaab è emerso come il principale oppositore militante islamista al debole governo di transizione somalo. L’AMISOM, originariamente schierata dal 2007 con il mandato di proteggere le istituzioni politiche di transizione somale, in parte per compensare il ritiro delle truppe etiopi, che nel 2006 avevano preso il controllo di

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vaste parti della Somalia (anche se scontri, incursioni più o meno ampie e veri e propri conflitti tra Addis Abeba e Mogadiscio si sono registrati tra il 1960 e il 1964, 197778, 1982 e tra il 1998 e il 2000) è diventata un elemento cardine della sicurezza dello Stato somalo. Dopo che AlShabaab si è ritirato da Mogadiscio nel 2011, l’AMISOM ha iniziato una lunga espansione che ha visto la liberazione di un certo numero di importanti centri urbani nel sud della Somalia, così come di altre zone del territorio (il nord è nelle mani del governo semi indipendente del Puntland e di quello totalmente indipendente, non riconosciuto internazionalmente del Somaliland). La Somalia meridionale è un insieme di municipalità governative isolate, clan rurali, aree controllate dalle milizie islamiche Al-Shabaab e relativi vuoti di potere. A Mogadiscio, le rivalità di ogni tipo all’interno del governo federale si riflettono nella crescente politicizzazione dell’SNA (Alleanza Nazionale Somala) limitandone la capacità e facendo temere nuove divisioni interne. Il continuo procrastinare delle elezioni rafforza Al-Shabaab, che ha il controllo di una grande enclave territoriale nel Medio Giuba; continua a isolare città periferiche come Huddur e sfrutta la mancanza di pattugliamenti regolari da parte dell’AMISOM e dell’SNA. Come ha sottolineato il gruppo di esperti delle Nazioni unite, nel suo ultimo rapporto sui gruppi terroristici, al Consiglio di Sicurezza, durante la prima metà del 2021, Al-Shabaab ha incontrato poca resistenza nell’impossessarsi di diverse città e villaggi in aree che erano state precedentemente ostili; la situazione si è aggravata a causa del ritiro delle forze statunitensi alla fine del 2020. Si parla con insistenza dell’infiltrazione di Al-Shabaab nella capitale Mogadiscio e si teme che la città possa cadere in tempi anche più brevi di Kabul, se l’AMISOM si ritirasse. Tutto ciò mostra perché una forza militare capace — la SNA politicizzata e divisa non è in grado di sostenere quel ruolo — rimane critica. La pianificazione militare dell’AMISOM è stata generalmente effettuata dall’UA e dai paesi che forniscono truppe, supportati da una varietà di consiglieri per lo più occidentali. Tuttavia, questa pianificazione, come il concetto operativo del 2018, che si basava su un piano di transizione somalo che a sua volta dipendeva dall’efficacia dell’SNA, sono stati profondamente irrealistici. Negli ultimi mesi, un team di valutazione indipendente ha esaminato le opzioni per il futuro di AMI-

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SOM. Quando il team ha presentato il suo rapporto, la raccomandazione era per un AMISOM riconfigurato, piuttosto che una forza ibrida ONU-UA, come in Darfur (visti gli scarsi risultati e gli enormi costi). Indipendentemente dal fatto che una missione ibrida dell’ONU e dell’UA migliorerebbe o meno le cose, molti mesi sarebbero stati persi per stabilire gerarchie e responsabilità della nuova missione ibrida tra le due organizzazioni, piuttosto che per assistere i somali. Inoltre, è generalmente riconosciuto che l’ONU non è la migliore organizzazione per svolgere un’intensa missione di combattimento. Altre due opzioni — il dispiegamento dell’Eastern Africa Standby Force (una realtà virtuale) e il ritiro totale dell’AMISOM — sono state a loro volta respinte. Il governo federale ha rifiutato il rapporto nella sua interezza, chiedendo invece un rinforzo numerico puro e semplice dell’AMISOM. Una delle opzioni sarebbe una divisione delle funzioni tra SNA e AMISOM. Mentre l’SNA ancora nel pieno di un lento e difficoltoso programma di equipaggiamento e addestramento (quest’ultimo condotto anche dalla missione dell’UE, la EUTM-S, forte di oltre 200 istruttori, in buona parte italiani e spagnoli e che opera dal 2010) svolgerebbe la funzione di proteggere obiettivi fissi e di sicurezza delle aree sgomberate da Shabab, AMISOM condurrebbe operazioni d’attacco grazie alle sua potenza di fuoco e mobilità. Comunque sia, alla fine la decisione è dei paesi contributori delle truppe, conosciuti come «caschi verdi». Sia il Kenya sia l’Etiopia avevano truppe in Somalia prima di unirsi all’AMISOM, rispettivamente nel 2012 e nel 2014. Entrambi i paesi sembrano essere stati influenzati a «rivestire» le loro truppe dai vantaggi finanziari derivanti dal fatto che i donatori, in primis l’UE, pagano per la loro presenza. Inoltre, la partecipazione all’AMISOM ha fornito ulteriore legittimità esterna alle loro truppe rimaste in Somalia, anche se in realtà rispondono più alle agende delle loro capitali nazionali nei riguardi di Mogadiscio piuttosto che all’UA. Pertanto, il Kenya sta inviando in Congo unità motorizzate e speciali, cosa che manterrà il suo Esercito impegnato e finanziato attraverso le risorse fornite dall’ONU. Ci sono quindi diverse indicazioni che il Kenya si stia preparando a ritirarsi dalla Somalia a suo tempo — forse nei prossimi 12-24 mesi — anche se non ancora del tutto. L’Etiopia vorrebbe mantenere le sue truppe all’interno del paese, come ha fatto per decenni,

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La regione del Tigrè, la più settentrionale delle regioni dell’Etiopia, in questi mesi è scossa da rivolte, massacri e violenze senza fine (onuitalia.org).

ma la crisi del Tigray è un nuovo elemento che pone dubbi su questa permanenza, almeno nei termini numerici attuali. Nel 2019, il presidente ugandese Yoweri Museveni ha minacciato di ritirare le truppe del suo paese dall’AMISOM se le Nazioni unite avessero insistito per ridurre il numero delle truppe coinvolte nella missione. L’Uganda è tra i paesi contributori delle truppe che ora sostengono che la missione venga riconfigurata come una missione ibrida UA-ONU, anche con la speranza di avere posizioni apicali all’interno della leadership dell’operazione. Sembra che Museveni sia ancora motivato dai compensi accumulati per la messa a disposizione di unità e che finanziano l’Esercito ugandese. Anche l’Uganda è profondamente coinvolto nella missione per motivo di orgoglio nazionale, avendone preso parte sin dal 2007. Le azioni del Burundi e di Gibuti saranno influenzate dai maggiori contributi finanziari per il mantenimento delle truppe. In particolare, sembra probabile che Gibuti rimarrà finché le sue forze, generalmente poco equipaggiate, potranno essere protette dagli etiopi. In sintesi, Al-Shabaab rimane forte e l’AMISOM rimane la forza militare cruciale che impedisce la sua vittoria e protegge il governo somalo. La missione resterà in Somalia fino al prossimo anno, e probabilmente per diversi — o forse molti — anni nel futuro. Missioni simili in Congo e Sud Sudan stanno entrando rispettivamente nel 20o e 16o anno. L’AMISOM rimarrà probabilmente una missione ibrida UA piuttosto che UA-ONU. I paesi che contribuiscono alle truppe hanno forse la maggiore influenza sul futuro della missione, e sembra — con la possibile eccezione del Kenya — che la maggior parte vi resti a lungo termine. Enrico Magnani

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M ARINE ARABIA SAUDITA Varo della quarta corvetta classe «Al-Jubail» Il 24 luglio, nel cantiere spagnolo di Navantia, a San Fernando, alla periferia di Cadice, è stata varata la quarta corvetta classe «Jazan Al Jubail» destinata alla Marina dell’Arabia Saudita. La corvetta fa parte del programma di costruzione deciso dal governo saudita, per la cui attuazione è stato firmato a luglio 2018 un contratto di 1,8 miliardi di euro. La costruzione delle unità è iniziata nel gennaio 2019 e la loro conclusione è prevista entro il 2024. Realizzate secondo il progetto «Avante 2200», le corvette sono concepite per la lotta antisommergibili, la protezione di assetti marittimi, la raccolta d’informazioni, la lotta contro i traffici illeciti e la ricerca e Il varo della quarta corvetta classe «Jazan Al-Jubail» destinata alla soccorso. Le corvette Marina dell’Arabia Saudita (NavanA fianco: il sottomarino classe «Al Jubail» tia). DOSAN AHN CHANG-HO, unità hanno una lunghezza eponima della classe e primo esemplare del lotto iniziale (Batch di 99 metri, una lar- 1) del programma KSS III, entrato in linea il 13 agosto 2021 (DSME). ghezza di 13,6 metri Nella pagina successiva: la fregata tedesca BAYERN è partita il 2 e un dislocamento di agosto da Wilhelmshaven per un nella regione Indo2.420 tonnellate: a dispiegamento Pacifico, destinato a concludersi a bordo sono disponi- marzo 2022 (Deutsche Marine). bili posti letto per 92 persone. Il sistema propulsivo è in configurazione CODAD, con quattro motori diesel MTU 12V1163-TB93 da 4,4 MW, che azionano due assi con eliche a passo controllabile Wärtsilä 5C11: la velocità massima è di 24 nodi, mentre l’autonomia raggiunge le 3.500 miglia a 18 nodi. L’armamento comprende un cannone Leonardo OTO da 76 mm, un impianto Oerlikon Millennium da 35 mm e due mitragliatrici da 12,7 mm: le unità sono equipaggiate con un ponte di volo e un hangar in grado di accogliere un elicottero.

Rivista Marittima Settembre 2021

MILITARI COREA DEL SUD Entra in servizio il sottomarino Dosan Ahn Chang-ho Il 13 agosto è entrato in servizio nella Marina sudcoreana il sottomarino Dosan Ahn Chang-ho (distintivo ottico SS 083), unità eponima della classe e primo esemplare del lotto iniziale (Batch 1) del programma KSS III, realizzato nei cantieri di Okpo a cura della società Daewoo Shipbuilding & Marine Engineering (DSME). Battezzato in onore di un personaggio di rilievo dell’indipendenza sudcoreana dall’occupazione giapponese, il Dosan Ahn Chang-ho sarà sottoposto a un periodo di valutazione che si concluderà nell’agosto 2022 e finalizzato soprattutto a validarne le capacità di

deterrenza strategica. Il progetto per un battello a propulsione non nucleare caratterizzato da un dislocamento alquanto rilevante (3.360 tonnellate in superficie e circa 3.800 tonnellate in immersione) è iniziato nel 2004, nell’ambito di una cooperazione fra DSME e la Hyundai Heavy Industries: nel progetto sono coinvolte altre aziende sudcoreane quali LIG Nex1, Hanwha and STX Engine, mentre le società britanniche BMT e Babcock assicurano assistenza tecnica. I battelli KSS-III Batch 1 hanno una lunghezza di 83,5 metri e un diametro dello scafo resistente di 9,6 metri; la velocità massima in im-

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mersione è di 20 nodi, mentre l’autonomia è di 10.000 miglia a una velocità economica che dovrebbe attestarsi sui 10 nodi. L’equipaggio è formato da 50 uomini. L’armamento si articola su otto tubi di lancio da 533 mm e su sei tubi di lancio verticali, situati a poppavia della falsatorre, destinati al lancio di missili da crociera «Cheon Ryong», prodotti da LIG Next 1 e accreditati di un raggio d’azione di 810 miglia; la produzione dell’impianto per la movimentazione di siluri e altri ordigni lanciabili dai tubi da 533 mm è a cura della Babcock, mentre la società spagnola Indra è stata prescelta per la fornitura del sistema di guerra elettronica «Pegaso». La società francese Safran fornirà due alberi optronici non penetranti, mentre l’ECA Group produrrà l’impianto di governo: gli equipaggiamenti di fornitura nazionale saranno il sensore acustico passivo laterale (flank array), realizzato da LIG Next1, e il sistema di gestione operativa, noto come «Naval Shield» e prodotto da Hanwha. La costruzione del Dosan An Chang-Ho è iniziata nel novembre 2014, con il varo avvenuto nel settembre 2018: il secondo esemplare della classe, Ahn Moo (SS 085) è stato varato a novembre 2020, mentre la costruzione del terzo esemplare Yi Dongnyeong (SS 086, l’ultimo del Batch 1) è iniziata a giugno 2017 nei cantieri Hyundai Heavy Industries di Ulsan. L’entrata in servizio del Dosan Ahn Chang-ho rappresenta certamente un traguardo importante per la Marina e l’industria cantieristica navale militare sudcoreana, che in soli trent’anni sono riusciti a progettare e realizzare un battello di elevata qualità e di dimensioni relativamente rilevanti. Nel marzo 2019, il governo sudcoreano ha approvato l’attuazione del programma KSS-III Batch 2, relativo a sottomarino di dimensioni superiori a quelli del Batch 1: il dislocamento in immersione dovrebbe aumentare almeno fino a 4.000 tonnellate, in modo da aumentare da 6 a 10 il numero dei tubi di lancio verticali per i missili da crociera. Questi battelli saranno equipaggiati con un maggior numero di sistemi e impianti di produzione sudcoreana, fra cui batterie agli ioni di litio e un motore elettrico di propulsione realizzata con la tecnologia dei superconduttori. La pianificazione della Marina sudcoreana prevede la costruzione di nove sottomarini KSS-III, suddivisi in tre Batch da tre esemplari ciascuno.

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GERMANIA Dispiegamento della fregata Bayern nell’IndoPacifico Come annunciato durante la International Maritime Security Conference di Singapore dal comandante in capo della Marina tedesca, ammiraglio Kay-Achim Shönbach, la fregata Bayern è partita il 2 agosto da Wilhelmshaven per un dispiegamento nella regione Indo-Pacifico; la decisione si inquadra nelle aspirazioni di Berlino di giocare un proprio ruolo nella competizione strategica fra la Repubblica Popolare Cinese e diverse nazioni occidentali. Secondo le dichiarazioni del ministro della Difesa tedesco Annegret Kramp-Karrenbauer, gli obiettivi del dispiegamento riguardano la salvaguardia della navigazione in acque internazionali, il supporto ai partner regionali che condividono gli stessi valori della Germania e la protezione delle «società aperte e democratiche»: il Ministro ha inoltre dichiarato che il Bayern contribuirà anche all’imposizione delle sanzioni decretate dalle Nazioni unite nei confronti della Corea del Nord, parteciperà alle missioni NATO e UE (rispettivamente «Sea Guardian» e «Atalanta»). Da una mappa pubblicata sul portale web delle Forze armate tedesche, il Bayern effettuerà soste a Gibuti, Karachi, Diego Garcia, Perth, Guam, Tokyo e Shanghai e attraverserà il Mar Cinese Meridionale, area marittima notoriamente contesa dalla Repubblica Popolare Cinese. Il dispiegamento si concluderà a marzo 2022: per eventi di questo tipo nella regione Indo-Pacifico ma di maggior durata, è verosimile che la Marina tedesca ricorra a un cambio dell’equipaggio mentre una nave tedesca si trova già nell’area, mentre non è esclusa la creazione di un hub logistico permanente a Singapore o in Australia.


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GIAPPONE Prove in mare per la fregata Kumano Il 24 agosto, la nuova fregata multimissione giapponese Kumano, parte del programma «30FFM» e costruita dal gruppo Mitsui E&S, ha iniziato le prove in mare al largo di Okayama; l’unità è il secondo esemplare della classe «Mogami», di cui l’eponima è realizzata dal gruppo Mitsubishi Heavy Industries (MHI) di Nagasaki. Il Kumano dovrebbe essere consegnato entro l’anno in corso, mentre l’intero programma prevede la realizzazione di 22 esemplari. Da rammentare i decolli e gli appontaggi di F-35B americani sulla nave giapponese IZUMO, i primi effettuati dal 1945.

GRAN BRETAGNA Dispiegamento permanente di due pattugliatori nell’Indo-Pacifico Il 20 luglio e nel corso di una visita ufficiale in Giappone, il segretario alla Difesa del governo britannico Ben Wallace ha annunciato che la Royal Navy assegnerà in permanenza due pattugliatori d’altura classe «River Batch II» alla regione Indo-Pacifico. L’annuncio segue le attività in corso nella medesima regione a cura del Gruppo navale capeggiato dalla portaerei Queen Elizabeth. I due pattugliatori d’altura, Spey e Tamar, sono salpate dal Regno Unito alla fine di agosto e le loro operazioni saranno supportate dall’Australia, dal Giappone e da Singapore. Nei prossimi anni, si prevede che la Royal Navy dislocherà nell’Oceano Indiano un «Littoral Response Group», Gruppo navale comprendente unità combattenti e ausiliarie e destinato a operare sfruttando le basi logistiche in Oman e nel Bahrein.

INDIA Prove in mare per la portaerei Vikrant Nelle prime settimane di agosto hanno avuto luogo le La nuova portaerei della Marina indiana, al momento nota come Indigenous Aircraft Carrier (IAC-1) e destinata a essere battezzata VIKRANT, ha svolto una prima serie di prove in mare (Cochni Shipyards Ltd.).

prime prove in mare della nuova portaerei della Marina indiana, al momento nota come Indigenous Aircraft Carrier (IAC-1) e destinata a essere battezzata Vikrant. Secondo fonti ufficiali della Marina indiana, la nuova portaerei sarà dotata di un reparto aereo imbarcato formato da velivoli multiruolo ed elicotteri di produzione russa (rispettivamente MiG-29K e Kamov Ka-31) e di produzione locale (rispettivamente «Tejas-Naval» e ALH). Progettata dagli enti tecnici della Marina indiana e costruita dalla società Cochin Shipyard Limited (CSL), la futura Vikrant ha una lunghezza di 262 metri e una larghezza massima di 62 metri: grazie a un ampio ricorso all’automazione per i sistemi di piattaforma e per l’insieme di armi e sensori, l’equipaggio sarà formato da 1.700 persone. La velocità massima sarà di 28 nodi, con un’autonomia di 7.500 miglia a 18 nodi. La Vikrant sarà equipaggiata con un sistema di gestione operativa sviluppato dalla società indiana Tata Power Systems. La prima uscita di prove in mare è stata preceduta da una fase di prove in banchina finalizzate alla verifica della catena propulsiva, comprendente quattro turbine a gas LM-2500, i riduttori, le linee d’assi e le eliche a passo controllabile; in questa fase è stato verificato il corretto funzionamento anche dei principali impianti ausiliari, vale a dire, la timoneria, il condizionamento, la generazione e la distribuzione dell’energia elettrica, il circuito antincendio ed esaurimento sentina e le comunicazioni interne.

ITALIA Al via la campagna d’istruzione del Durand de la Penne Il 27 luglio il cacciatorpediniere Luigi Durand de la Penne ha lasciato il porto di Taranto per svolgere la campagna estiva d’istruzione in favore degli allievi della 2a classe dell’Accademia navale, riuniti nel Corso «Esperia»; di esso fanno parte 111 allievi ufficiali, di cui 24 donne, e 10 provenienti da scuole militari di paesi esteri, che nel prossimo periodo — sempre nel totale rispetto dei protocolli sanitari in vigore — conosceranno in prima persona le peculiari attività svolte da un’unità navale in un contesto operativo. Alla partenza del De la Penne ha assistito il Comandante in capo della Squadra navale, ammiraglio di squadra Enrico Credendino, che dopo l’indirizzo di saluto si è trasferito in plancia per assistere alla

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Cavour di operare con i velivoli di quinta generazione. L’F-35B, protagonista dell’operazione, è il terzo velivolo assegnato alla Marina Militare e appena ritirato dallo stabilimento di assemblaggio di Cameri (NO), mentre i due precedenti si trovano negli Stati Uniti per svolgere attività addestrativa a favore dei L’indirizzo di saluto rivolto dal Comandante in capo della Squadra navale, ammiraglio di squadra Enrico piloti dell’Aviazione navale Credendino, all’equipaggio del cacciatorpediniere LUIGI DE LA PENNE, partito da Taranto il 27 luglio 2021 per la crociera d’istruzione a favore degli allievi della 2a Classe dell’Accademia navale. In basso: l’intervento del italiana. Presente all’evento, il Capo di Stato Maggiore della Marina Militare, ammiraglio di squadra Giuseppe Cavo Dragone, a bordo della portaerei CAVOUR, dopo il primo appontaggio di un velivolo F-35B dell’Aviazione navale, avvenuto il 30 luglio 2021. Capo di Stato Maggiore della Marina Militare, ammiraglio di squadra Giuseppe Cavo Dragone, ha ribadito che esso fase di disormeggio della nave dalla Stazione Navale Mar rappresenta «un grande passo verso l’obiettivo strategico Grande. Al comando del capitano di vascello Massimo di dotare la Difesa e l’Italia, di una capacità portaerei Bonu, il De La Penne è inserito nell’operazione Mare sicon aerei imbarcati di ultimissima generazione. Una cacuro da giugno 2020, il dispositivo aeronavale che garanpacità che ci proietta in un’élite di pochi paesi al mondo tisce attività di presenza, sorveglianza e sicurezza elevando, quindi, il livello e il peso internazionale delmarittima nel Mediterraneo centrale e nello Stretto di Sil’Italia». L’arrivo degli F-35B costituisce una tappa foncilia. Sin dai primi giorni d’imbarco, gli allievi toccano damentale nel processo di sostituzione degli AV-8B con mano l’importanza di tutte le componenti di bordo «Harrier II Plus»: da parte sua, la Marina Militare conta per la riuscita della missione, sperimentando il valore di ottenere entro il 2024 la capacità operativa iniziale delle campagne addestrative nel processo di formazione (IOC, Initial Operational Capability) e, successivamente dei futuri ufficiali. La campagna d’istruzione del De La la Final Operational Capability (FOC), dopo la consegna Penne si concluderà il 19 settembre 2021, a Livorno. dell’ultimo velivolo a essa destinata. L’arrivo a bordo del Appontaggio del primo F-35B della Marina terzo F-35B consente di iniziare l’addestramento per i pi-

Militare sulla portaerei Cavour Il 30 luglio, a bordo della portaerei Cavour in navigazione, è appontato per la prima volta un velivolo F-35B della Marina Militare, dopo l’attività di prova e certificazione effettuata dall’unità con i velivoli statunitensi durante la campagna «Ready for Operations» (RFO) conclusa a fine aprile 2021 e il cui esito positivo consente al

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loti all’acquisizione della cosiddetta «Caratteristica Bravo», ovvero l’abilitazione all’appontaggio e al decollo dai ponti di volo delle unità navali della Marina, che nel caso dei velivoli ad ala fissa che operano da portaerei prende il nome di «Carrier Qualification» (CQ).

dei sistemi di comando e controllo favorisce la crescita della fiducia reciproca e, conseguentemente, un sempre maggiore scambio di informazioni fra le Marine.

La Marina Militare alla VII International Maritime Security Conference

Dopo oltre 140 giorni in mare in qualità di flagship dell’operazione «Atalanta» per il contrasto alla pirateria e passato il testimone alla fregata spagnola Navarra, la fregata Carabiniere della Marina Militare è rientrata a Taranto a 13 agosto 2021. Impegnativi e diversi gli obiettivi assegnati, come molteplici e soddisfacenti sono stati i risultati conseguiti dal Carabiniere durante la sua attività nell’ambito dell’EUNAVFORCE Somalia, che nella 37a rotazione conclusa è stata comandata dal contrammiraglio Luca Pasquale Esposito, coadiuvato da uno staff internazionale di 10 persone. La cerimonia del passaggio di consegne tra i «Force Commanders», svoltasi a bordo del Carabiniere, ormeggiata a Gibuti, è stata presenziata dall’«Operation Commander», l’ammiraglio spagnolo José M. Nunez Torrente, che nel suo discorso ha sottolineato come durante il periodo operativo a guida italiana tutti gli obiettivi siano stati pienamente raggiunti. La presenza continua della Marina Militare nel Corno d’Africa è adesso assicurata dalla fregata Martinengo, che da fine agosto al prossimo dicembre sarà chiamata a svolgere molteplici attività tese a prevenire ed eventualmente reprimere atti di pirateria nelle aree marittime di interesse dell’operazione, a tutela della libertà di navigazione del traffico mercantile nelle acque del Mar Rosso, del Golfo di Aden e dell’Oceano Indiano. Il Martinengo è impegnato nella scorta ai mercantili assegnati al World Food Programme (WFP) e utilizzati per trasportare aiuti umanitari per conto dell’ONU) e di quelli impiegati nell’ambito dell’African Union Mission in Somalia (AMISOM): l’equipaggio italiano sarà impegnato anche in attività definite di Civilian and Military Cooperation (CIMIC), allo scopo di fornire supporto e beni di prima necessità alle popolazioni locali, oltreché al monitoraggio delle attività di pesca al largo della costa somala.

Organizzata a Singapore dalla Marina locale e dalla S. Rajaratnam School of International Studies, la VII International Maritime Security Conference è stata dedicata alla sicurezza marittima nell’era post-pandemica. All’evento hanno partecipato, di persona o virtualmente, politici, diplomatici, esperti e rappresentanti delle forze navali di 28 nazioni, fra cui le Marine dei principali paesi dell’area Indo-Pacifico, tra cui Stati Uniti, Cina, Giappone, Australia e Malesia, oltre naturalmente a Singapore; invitati anche Regno Unito, Francia, Germania e Italia, alla sua prima partecipazione. La delegazione italiana era guidata dall’ammiraglio di divisione Valter Zappellini, in rappresentanza del Capo di Stato Maggiore della Marina, e composta anche dall’addetto per la Difesa dell’ambasciata italiana a Singapore, capitano di vascello Armando Paolo Simi, e dal capitano di fregata Luigi Ciranna. La conferenza si è articolata in quattro sezioni, dedicate rispettivamente alla salvaguardia della pace e della risorse marittime nell’era post-pandemica, alla connettività e resilienza nell’ambiente marittimo post-pandemico, all’ordine marittimo basato su regole nella nuova era post-pandemica e alla sicurezza marittima e cooperazione nell’area Asia-Pacifico, sezione quest’ultima riservata alle questioni militari. La discussione ha riguardato gli impatti sul commercio internazionale delle restrizioni agli spostamenti e delle chiusure dei confini nazionali dovute alla pandemia; i partecipanti all’evento hanno ribadito la centralità della Convenzione ONU di Montego Bay (UNCLOS) come base del diritto marittimo internazionale, auspicandone il suo pieno rispetto. In apertura dei lavori, il ministro della Difesa di Singapore, Ng Eng Hen, ha espresso l’auspicio che la situazione si regolarizzi quanto prima, a fronte di una perdurante interdipendenza delle economie nazionali; fondamentale quindi il mantenimento dell’apertura delle rotte commerciali, la cui sicurezza è affidata ai militari. In quest’ambito, la crescente affidabilità

Rivista Marittima Settembre 2021

Impegno costante della Marina Militare nel Corno d’Africa

Prove in mare per il Trieste Il 12 agosto 2021 e in accordo con le attuali prescrizioni sanitarie vigenti, si è svolta nelle acque del golfo della Spezia, la prima uscita in mare del Trieste, la nuova unità

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La portaeromobili d’assalto anfibio TRIESTE della Marina Militare, ripresa nel corso della prima uscita in mare di prova, avvenuta nel Golfo della Spezia il 12 agosto 2021 (Foto G. Arra).

d’assalto anfibio della Marina Militare; l’evento ha avuto luogo a circa tre anni e mezzo dall’impostazione del primo blocco sullo scalo nell’ambito dell’allestimento dell’unità nel cantiere integrato di Fincantieri Muggiano, alla periferia della Spezia. Le prove in mare sono articolate secondo un complesso e variegato programma di test, che vedrà l’unità impegnata, per oltre un anno, in attività volte a verificare la funzionalità dei sistemi di piattaforma e combattimento: tali attività sono condotte da personale tecnico delle aziende coinvolte nella costruzione e nell’allestimento del Trieste, sotto la supervisione della Marina Militare, per assicurare il rigoroso rispetto dei requisiti militari contrattuali. La realizzazione della nuova unità — interamente costruita presso lo storico e rivitalizzato cantiere navale di Castellammare di Stabia (Napoli) — rientra nell’importante quadro del programma navale di rinnovamento della flotta militare d’altura italiana, avviato con la legge di stabilità 2014. Come noto, il Trieste è una «Landing Helicopter Dock, LHD», caratterizzata dal distintivo ottico L 9890 e progettata per svolgere missioni ad ampio spettro, sfruttando la sua intrinseca flessibilità d’impiego e di riconfigurazione di capacita. È quindi in grado di esprimere, senza soluzione di continuità, una rilevante proiezione di forza a lungo raggio, sul mare e dal mare, mediante molteplici assetti operativi, militari e di supporto umanitario, con elevata prontezza e ovunque sia richiesto. Il Trieste può ospitare un NATO Maritime Component Command o un comando di task force anfibia, nonché trasportare e proiettare a terra una forza anfibia di circa 600 elementi, impiegando il suo ampio bacino allagabile, nonché i più moderni aeromobili oggi in dotazione alla Marina Militare. In chiave dual use, la sua flessibilità d’impiego e la presenza a bordo di un ospedale dotato di capacità diagnostica autonoma, operatoria, e ri-

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covero con possibilità di assicurare trattamenti di terapia intensiva, consentirà al Trieste di concorrere alle attività interministeriali di soccorso umanitario in occasione di eventi straordinari/calamità naturali. Con una lunghezza fuori tutto di 245 metri, un dislocamento di circa 38.000 tonnellate a pieno carico, e un ponte di volo lungo 230 metri e largo 55 metri circa (comprensivo degli elevatori), la nave anfibia multiruolo Trieste, varata il 25 maggio 2019 a Castellammare di Stabia, si prepara a essere consegnata alla Marina Militare a fine 2022, rappresentando, di fatto, la più grande unità navale mai costruita in Italia dal secondo dopoguerra a oggi, in totale e rigorosa sinergia di intenti — nel campo marittimo — tra la Marina Militare e l’industria nazionale specializzata nella cantieristica e nella sistemistica navale, a dimostrazione delle capacità progettuali e tecnologiche nel mondo.

Al via il Nastro Rosa tour Organizzato dalla Marina Militare, Sailing Series International e Difesa Servizi S.p.A., il 26 agosto ha preso il via dal Porto Antico di Genova il Nastro Rosa Tour 2021, formato dall’evento offshore, che si disputa utilizzando i Beneteau Figaro 3, e da quello inshore, le cui emozioni sono garantite dall’evoluzione dei catamarani Diam 24. Per quanto riguarda l’altura, che lungo la tratta Genova-Napoli assegnerà il titolo europeo della disciplina Double Handed Mixed Offshore, i partecipanti provengono da Austria, Belgio, Gran Bretagna, Italia (due team), Spagna, Svezia, Sudafrica, Stati Uniti (due team): i team italiani sono formati da Andrea Pendibene e Giovanna Valsecchi, portacolori della Marina Militare che da diverse stagioni navigano in coppia, e da Alberto Bona e Cecilia Zorzi. Nel Nastro Rosa Tour esperienze e tradizioni marinaresche si fondono dunque con il moderno sport velico, emblema del legame tra cultura marittima e valori alla base della formazione di ogni marinaio, di cui la Marina Militare è custode.

REPUBBLICA POPOLARE CINESE Nuove prove in mare per la seconda LHD «Type 075» Secondo informazioni pervenute all’inizio di agosto 2021, si è appreso che la seconda LHD classe «Yushen», nota anche come «Type 075», della Marina della Repub-

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blica Popolare Cinese ha iniziato una nuova serie di prove in mare. Costruite nei cantieri Hudong-Zhonghua di Shanghai, queste unità hanno capacità superiori al naviglio d’assalto anfibio finora realizzato per la Marina cinese, conferendo a quest’ultima le capacità di impiegare diversi tipi di elicotteri e mezzi da sbarco per la proiezione dal mare di reparti da sbarco. A tal fine, le unità classe «Yushen» sono dotate di un ponte di volo esteso per tutta la lunghezza della nave e un bacino allagabile: il loro dislocamento è pari a circa 36.000 tonnellate, mentre il reparto aereo imbarcato sarà formato da 30 elicotteri. La propulsione è assicurata da quattro motori diesel, mentre l’armamento è articolato su due impianti per la difesa di punto tipo HHQ-10 e altrettanti tipo H/PJ11.

RUSSIA Modifiche nel rischieramento degli SSBN più moderni L’11 maggio il quotidiano Izvestia ha riportato che dopo la recente esercitazione militare «Umka 2021», svoltasi nell’area del Circolo Polare Artico con la partecipazione di tre sottomarini russi, la Marina della Federazione Russa ha intrapreso una revisione dello schieramento dei propri sottomarini nucleari lanciamissili balistici (SSBN), in modo da contrastare le possibili minacce derivanti da una differente tattica d’impiego delle forze militari NATO operanti alle elevate latitudini settentrionali. In precedenza, il ministero della Difesa di Mosca aveva divulgato notizie frammentarie relative al dispiegamento dei battelli lanciamissili inquadrati nella 25a Divisione sottomarini/16a Squadriglia della Flotta del Pacifico, basati a Petropavlovsk-Kamchatskiy. Tuttavia, sembra che almeno uno dei battelli classe «Dolgoruky/Project 955A», tuttora in costruzione o allestimento, sarà invece assegnato alla Flotta del Nord: inoltre uno dei battelli della stessa classe, già in servizio con la predetta 25a Divisione potrebbe essere trasferito dalla Flotta del Pacifico alla Flotta del Nord. La 31a Divisione sottomarini/12a Squadriglia di base a Gadzhiyevo è attualmente formata dallo Yuriy Dolgorukiy e dal Knyaz Vladimir, mentre alla Flotta del Pacifico sono assegnati l’Alexandr Nevsky e il Vladimir Monomakh. Il Knyaz Vladimir è stato uno dei tre sottomarini partecipanti all’esercitazione «Umka 2021» emersi con-

Rivista Marittima Settembre 2021

temporaneamente sulla banchisa artica, un evento mirato soprattutto a rafforzare l’immagine e le capacità dei battelli russi a beneficio dell’opinione pubblica russa. Anche se non è ancora noto quale sarà l’assegnazione dei sottomarini lanciamissili classe «Dolgoruky» in costruzione, è opportuno ricordare che sei di essi si trovano sugli scali in vari stadi di costruzione e allestimento: si tratta del Knyaz Oleg (di previsto ingresso in servizio nel 2021), del Generalissimo Suvorov, dell’Imperator Alexander III, del Knyaz Pozharskiy, del Dmitry Donskoy e del Knyaz Potemkin; l’entrata in servizio degli ultimi due è programmata per il 2026-27. Se questa programmazione verrà rispettata, alla fine del presente decennio, la Marina russa avrà in servizio 10 sottomarini nucleari lanciamissili balistici appartenenti alla più recente generazione progettuale russa.

Celebrato il 325° anniversario della Marina russa Il 25 luglio 2021 è stato celebrato il 325° anniversario della fondazione della Marina russa, con diverse manifestazioni in Russia e all’estero: l’evento principale si è svolto a San Pietroburgo, con una parata navale lungo il corso del fiume Neva. Altre manifestazioni hanno avuto luogo nelle basi navali di Caspiisk, Severomorsk, Sevastopol, Baltijsk e Vladivostok, nonché a Tartus, in Siria. A San Pietroburgo hanno defilato oltre 50 unità navali di superficie di varie dimensioni, nonché sottomarini, velivoli ad ala fissa ed elicotteri, per un totale di circa 4.000 uomini e donne. Fra le unità navali russe, di rilievo la presenza del cacciatorpediniere Marshal Ustinov, della fregata Admiral Kasatonov, delle corvette Gremyashchy e Stoiky, delle unità da trasporto e sbarco Vice Admiral Kulakov, Pyotr Morgunov e Minsk e dei dragamine Alexander Obukhov e Vladimir Yemelyanov; presente all’evento, ma in forma statica, anche il sottomarino nucleare lanciamissili balistici Knyaz Vladimir (classe «Borey-A»). Erano presenti anche unità delle Marine di India, Pakistan e Iran.

Varo del sottomarino Krasnoyarsk Il 30 luglio, nel cantiere del gruppo Sevmash di Severodvinsk, è stato varato il sottomarino nucleare lanciamissili da crociera Krasnoyarsk, appartenente alla classe

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«Yasen-M/Project 885M»: si tratta del terzo battello della classe, impostato nel luglio 2014. La Marina russa ha in servizio il Severodvinsk, battello di pre-serie, appartenente alla classe «Yasen/Project 885» e il cui progetto è stato modificato con alcune migliorie che hanno dato vita al «Project 885-M»: a quest’ultimo, appartiene anche il Kazan, varato nel 2017, e il Novosibirsk, varato nel 2019. I sottomarini nucleari lanciamissili da crociera saranno distribuiti fra le Flotte del Nord e del Pacifico; da parte sua, Sevmash ha in corso la costruzione di altri sei battelli della classe «Yasen-M», vale a dire Arkhangelsk, Perm, Ulyanovsk, Voronezh e Vladivostok. L’entrata in servizio di quest’ultimo, programmata per il 2028, concluderà il programma costruttivo, formato così da sei esemplari, a cui si aggiunge il già citato battello di pre-serie Severodvinsk.

trollo remoto «K-Ster», prodotti dalla società ECA Group. Il «K-Ster C», è un mezzo spendibile di peso e dimensioni contenute, impiegato per la neutralizzazione delle mine navali mediante una carica esplosiva: esso è equipaggiato con un software che gli permette di indirizzare l’esplosione in modo da neutralizzare mine da fondo, mine ancorate, le vecchie mine galleggianti e anche gli ordigni più sofisticati; la propulsione del «KSter C» è dimensionata per contrastare correnti sottomarine di elevata intensità, nonché di avvicinarsi quanto più possibile all’ordigno da neutralizzare.

STATI UNITI Test dei missili antimissili balistici SM-6

Il 24 luglio, l’US Missile Defense Agency (MDA, ente interforze del Pentagono), in cooperazione con l’US Navy, ha condotto a nordovest delle Hawaii un SINGAPORE Test operativi con naviglio contromisure mine test denominato «Flight Test Missile 33, FTM-33» e a cui ha partecipato il cacciatorpediniere lanciamissili a controllo remoto Ralph Johnson (DDG 114). L’unità è una delle più reLa stampa locale ha riportato che a metà luglio la Macenti della classe «Arleigh Burke» ed è equipaggiata rina di Singapore ha condotto una campagna di prove con l’ultima versione del sistema di gestione operativa con un paio di unità per contromiusure mine a controllo «Aegis» e con i missili superficie-aria «Standard SMremoto (genericamente denominate «Mine Counter6», il tutto ottimizzato per la difesa contro i missili baMeasures Unmanned Surface Vessels», MCMUSVs), listici a breve-medio raggio, con l’intercettazione del impegnate a neutralizzare un bersaglio sommerso locabersaglio nella fase terminale della sua traiettoria. Inlizzato al largo della Southern Island: i due MCMUSVs fatti, l’obiettivo del FTM-33 era l’intercettazione di due erano a loro volta equipaggiati veicoli subacquei a conordigni di questa categoria, per mezzo di una salva di quattro missili. Un bersaglio è stato colpito, mentre dalle informazioni trapelate sembra che il secondo missile-bersaglio non sia stato colpito, confermando quindi la complessità di questo tipo di test. Originariamente previsto per essere svolto nel dicembre 2020, l’FTM-33 è stato ritardato a causa delle restrizioni imposte dalla pandemia e non è da escludere che l’intenzione di portarlo comunque a termine sia la causa di una non corretta procedura di preparazione; in ogni caso, il personale dell’MDA è impegnato nell’analisi dei dati ottenuti durante il Un’unità per contromisure mine a controllo remoto — «Mine CounterMeasures Unmanned test e delle prestazioni del binomio Surface Vessels, MCMUSVs» — della Marina di Singapore impegnata in un test di identifi- «Aegis/SM-6», in modo da poter ripetere la cazione e distruzione di un bersaglio subacqueo (MoD Singapore). prova della doppia intercettazione.

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Al lavoro sul progetto di un nuovo sottomarino nucleare d’attacco L’US Navy ha ricevuto dal Congresso degli Stati Uniti un milione di dollari per iniziare le attività di ricerca e sviluppo relative al programma per una classe di sottomarini a propulsione nucleare di nuova generazione — al momento denominato SSN(X) — destinato a sostituire nel lungo termine i battelli classe «Virginia». Lo scafo delle nuove unità potrebbe avere un diametro superiore a quello di questi ultimi ed essere quindi comparabile con quello dei precedenti battelli classe «Seawolf», di cui sono stati realizzati soltanto tre esemplari a causa dei costi elevati: l’obiettivo è quello di ottimizzare e progettare le nuove unità per consentire il contrasto di potenziali minacce future nei domini subacqueo e di superficie, traendo vantaggio da tecnologie avanzate disponibili nei settori della propulsione, del silenziamento acustico e dei sistemi d’arma e sensori. Secondo gli organi di ricerca del Congresso e tenendo conto della programmazione trentennale per le nuove costruzioni dell’US Navy — peraltro aggiornata periodicamente —, il primo SSN(X) dovrebbe essere finanziato nel 2031, mentre nei due anni successivi verrebbero finanziati gli ultimi quattro battelli della classe «Virginia»: ciò consentirebbe il finanziamento di due SSN(X) all’anno a partire dal 2034. Nel corso del primo trimestre di quest’anno, i contenuti della predetta programmazione trentennale sono stati aggiornati prevedendo un incremento della flotta subacquea statunitense da 66 a 72-78 sottomarini nucleari d’attacco, un obiettivo teoricamente da raggiungere nel quarto decennio del XXI secolo, ammesso che le risorse finanziarie siano effettivamente disponibili. Il concetto dei nuovi SSN(X) ripropone l’enfasi sulle operazioni antisommergibili, attraverso un incremento della velocità in immersione e delle misure di stealthness subacquea rispetto a quanto già presente sui «Virginia»; inoltre, i nuovi battelli avranno un carico utile più cospicuo e diversificato, in modo da contrastare unità subacquee nemiche e mezzi subacquei a controllo remoto e coordinarsi con unità e altri mezzi di superficie e aerei alleati. Una recente relazione del Congresso afferma che l’US Navy sta esaminando tre opzioni progettuali preliminari, cioè un progetto basato su quello dei «Virginia», uno basato sui sottomarini nucleari lanciamissili balistici classe «Co-

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lumbia» (di cui è in corso la fabbricazione dei primissimi elementi) e un progetto totalmente nuovo. Fonti dell’industria subacquea statunitense hanno dichiarato che il diametro dello scafo resistente degli SSN(X) potrebbe essere pari a 10,3 metri, cioè simile a quello dei «Seawolf» e dei «Columbia» (rispettivamente 12,1 e 13 metri): un altro rapporto del Congresso risalente a qualche mese fa ha stimato che il costo medio per ogni SSN(X) dovrebbe aggirarsi fra 5,8 e 6,2 miliardi di dollari. In materia di nuove tecnologie, i nuovi sottomarini potrebbero disporre di armi a energia diretta, sensori elettroacustici passivi più avanzati e di dimensioni cospicue, computer quantistici, volumi interni in grado di accogliere un maggior numero di armi e mezzi subacquei a controllo remoto, propulsione elettrica molto silenziosa, lanciatori verticali per missili da crociera e ordigni ipersonici e superfici di governo poppiere a «X» per una migliore manovrabilità in immersione.

Ritirata dal servizio la Littoral Combat Ship Independence L’unità capoclasse della variante «Independence» Delle Littoral Combat Ship/LCS (scafo a trimarano) è stata ritirata dal servizio nel corso di una cerimonia svoltasi in forma ridotta il 29 luglio nella base navale di San Diego e a cui hanno partecipato i componenti dell’equipaggio iniziale; l’evento ha concluso una carriera durata circa 15 anni, costellata da numerosi problemi che hanno costretto l’US Navy a impiegare l’Independence come piattaforma sperimentale della sua categoria piuttosto che come un’unità operativa vera e propria, anche al fine di raccogliere informazioni per prevenire e risolvere i problemi riscontrati su altre unità della classe. Il carattere sperimentale dell’Independence è stato rimarcato dall’ammiraglio di squadra Roy Kitchener, comandante della componente di superficie dell’US Pacific Fleet, che ha ricordato come l’unità sia stata impiegata anche per la validazione di concetti operativi legati alla configurazione dei sistemi imbarcati. L’ammiraglio Kitchener ha inoltre ribadito che il lavoro svolto dall’Independence e dal suo equipaggio (9 ufficiali e 41 fra sottufficiali e graduati) ha consentito all’US Navy di impiegare operativamente sei unità similari, dispiegandone alcune anche al di fuori degli Stati Uniti. La LCS Independence è la

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sesta unità dell’US Navy a portare questo nome: la prima era una cannoniera costiera risalente ai tempi della Rivoluzione americana del 1776, mentre la seconda era un’unità di linea varata nel 1814 ed equipaggiata con 74 cannoni. La terza Independence era un’unità ausiliaria utilizzata nella Prima guerra mondiale e oltre, mentre la quarta era una portaerei leggera eponima della classe entrata in linea nel 1943 e distintasi nelle operazioni aeronavali condotte nel Pacifico durante la Seconda L’HYMAN G. RICKOVER (SSN 795), il più recente sottomarino nucleare d’attacco classe «Virginia Block IV» in costruzione per l’US Navy, così battezzato il 31 luglio 2021 per onorare il pioniere dell’adozione dell’energia guerra mondiale. La quinta In- atomica a bordo di unità di superficie e subacquee statunitensi (US Navy). dependence era una portaerei entrata in servizio nel 1959 e che concluse il suo periodo nonché artefice dei requisiti operativi e delle procedure di servizio nel 1998. Dopo il ritiro dal servizio della LCS d’impiego degli impianti e dell’addestramento del persoIndependence, l’US Navy ha in linea altre 22 Littoral nale addetto alla loro condotta. Il precedente (SSN 709) Combat Ship nelle due configurazione con scafo a triera anch’esso un sottomarino d’attacco a propulsione numarano e monocarena tradizionale, mentre altre si trocleare, appartenente alla classe «Los Angeles», entrato in vano in vari stadi di costruzione e allestimento. Pertanto, servizio a Groton nel luglio 1984, ritirato nel dicembre va ricordato che il 7 agosto è stata varata la LCS 27, bat2007 e a cui furono conferiti diversi riconoscimenti uffitezzata Nantucket e in versione monocarena: l’evento ha ciali. Da completare entro il 2021 e da inquadrare nel avuto luogo nel cantiere Fincantieri Marinette Marine, «Submarine Squadron Four», il nuovo Hyman G. Rickodove altre sei unità si trovano in costruzione. ver ha un dislocamento di 7.835 tonnellate, un equipaggio di 132 uomini e donne e una dotazione sistemistica comBattesimo dell’Hyman Rickover e ingresso in prendente 12 tubi di lancio verticale per missili da crociera e quattro tubi di lancio tradizionali da 533 mm per linea del Vermont l’impiego di siluri, missili antinave e mine. Il 28 agosto è Proseguendo con una tradizione risalente alla classe invece entrato in servizio nell’US Navy il sottomarino «Los Angeles», l’US Navy ha dato il nome di Hyman G. Vermont (SSN 792), anch’esso della classe «Virginia Rickover al più recente sottomarino nucleare d’attacco Block IV» e le cui peculiarità riguardano alcune modificlasse «Virginia Block IV», caratterizzato dal distintivo che progettuali finalizzate a ridurne i costi di esercizio nel ottico SSN 795: la cerimonia dell’evento ha avuto luogo corso dell’intero ciclo di vita. il 31 luglio nel cantiere navale di Groton, nel Connecticut, appartenente alla società General Dynamics’ Electric Boat. L’ammiraglio James Caldwell, responsabile dei Concluse le prove preliminari dell«Enterprise programmi navali nucleari dell’US Navy, ha ricordato Air Surveillance Radar, EASR» l’operato dell’ammiraglio Rickover, rimasto in servizio L’US Navy e la società Raytheon Missiles & Defense per 63 anni e pioniere dell’adozione dell’energia atomica hanno completato una prima serie di prove sul nuovo a bordo di unità di superficie e subacquee statunitensi, «Enterprise Air Surveillance Radar, EASR» nel poli-

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gono di Wallops Island, a largo della Virginia. Scopo delle prove è stato la validazione delle prestazioni previste per le due varianti dell’EASR, vale a dire la AN/SPY-6(V)2 ad antenna rotante e la AN/SPY-6(V)3 a facce fisse. Entrambe le varianti sono designate per scoprire e tracciare simultaneamente bersagli aerei e navali, anche non pilotati, nonché per contribuire alla guerra elettronica e al controllo del traffico aereo a favore di velivoli imbarcati su portaerei e portaelicotteri dell’US Navy. L’EASR sostituirà i radar delle generazioni precedenti: la variante AN/SPY-6(V)2 è destinata alle grandi portaelicotteri d’assalto anfibio e alle portaerei classe «Nimitz», mentre la variante AN/SPY-6(V)3 sarà imbarcata sulle portaerei classe «Ford» e sarà compatibile per essere installata sulle fregate classe «Constellation», nonché su unità analoghe eventualmente costruite per Marine estere.

Al via la costruzione della quarta portaerei classe «Ford» Con il taglio della prima lamiera, il 25 agosto è stata avviata la costruzione della quarta portaerei classe «Ford», evento svoltosi nei cantieri Newport News Shipbuilding del gruppo Huntington Ingalls Industries. All’unità è stato assegnato il nome di Doris Miller, per onorare la memoria di un marinaio afro-americano distintosi durante l’attacco di Pearl Harbor; la portaerei sarà inoltre il secondo esemplare della classe costruito impiegando piani generali e procedure digitalizzate. L’impostazione del Doris Miller (CVN 81) è prevista per il 2026, mentre la consegna all’US Navy è stata programmata per il 2032.

stre: l’evento ha avuto luogo nel corso dell’esercitazione della Marina turca «Denizkurdu 2021», svoltasi il 26 e 27 maggio nelle acque del Mediterraneo orientale, a ridosso del mar Egeo. Sviluppato congiuntamente dai cantieri turchi Ares e dalla società Meteksan Defence, l’«Ulaq» è stato varato a gennaio 2021 ed è stato impegnato nelle prove in banchina e in mare, completandole all’inizio di maggio. Durante l’esercitazione «Denizkurdu 2021», il mezzo ha utilizzato il missile «Cirit» dotato di testata bellica, colpendo un bersaglio posto a 4 chilometri di distanza. Queste attività si sono svolte al largo della costa di Antalya, con l’«Ulaq» controllato a distanza da una stazione costiera, incaricata di designare il bersaglio, governare il mezzo e lanciare il missile. L’evento ha avuto un’elevata risonanza nella stampa specializzata turca, che ha menzionato l’«Ulaq» quale primo esemplare al modo di mezzo di superficie a controllo remoto armato e operativo. Da parte loro, Ares e Meteksan hanno annunciato che fra breve prenderà il via la produzione di serie dell’«Ulaq», con l’obiettivo di costruirne 50 esemplari all’anno. Nel frattempo, ha preso il via anche la fase preliminare e concettuale per una variante del mezzo destinato alle operazioni antisommergibili, al fine di soddisfare uno specifico requisito della Marina turca. Michele Cosentino

TURCHIA Operativo il drone di superficie «Ulaq» Il primo mezzo navale di superficie da combattimento a controllo remoto prodotto in Turchia, noto come «Ulaq», ha eseguito con successo le prove di lancio di un missile a guida laser «Cirit» contro un bersaglio terre-

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Durante l’esercitazione della Marina turca «Denizkurdu 2021», il mezzo navale di superficie da combattimento a controllo remoto turco «Ulaq» ha eseguito con successo le prove di lancio di un missile a guida laser «Cirit» contro un bersaglio terrestre (Ares).

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RUBRICHE

S CIENZA

E

T ECNICA

I progetti statunitensi di Small Nuclear Reactor In Italia l’industria nucleare, che fino agli anni Ottanta era una vera eccellenza nazionale, non esiste praticamente più, come conseguenza della scelta di abbandono della produzione di energia elettrica mediante centrali elettronucleari a seguito dei due referendum del 1987 e del 2011. In altri paesi, invece, esiste ancora un’industria nucleare, che studia e produce reattori nucleari per la produzione di energia elettrica sempre più economici e sicuri. L’energia nucleare in questi paesi è considerata una «energia pulita» in quanto non produce anidride carbonica o altre sostanze inquinanti tradizionali (ossidi di zolfo, ossidi di azoto, particolato, ecc.); secondo molti, però, la produzione di rifiuti radioattivi insita nel funzionamento di una centrale nucleare (combustibile esausto, acque contaminate, filtri e altro materiale di consumo, Impressione artistica di un impianto basato sul concetto di Small Modular Reactor sviluppato dalla società statunitense NuScale Power visto dall’alto. In basso: Mock-up in vera grandezza del terzo superiore di un piccolo reattore nucleare NuScale Power Module™ (businesswire.com/news, cortesia NuScale Power).

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Immagine artistica dell’edifico ove è installata una centrale elettrica basata su piccoli reattori nucleari modulari Power Module progettati dalla società NuScale. I moduli sono installati in una grande piscina, la cui acqua è usata per il raffreddamento del reattore (nuscalepower.com).

materiale proveniente da riparazioni e sostituzioni, e soprattutto il reattore stesso, che deve essere smaltito al termine della sua vita utile) è tale da non poter considerare l’energia nucleare come un’energia «pulita». Tra i paesi che impiegano diffusamente l’energia nucleare vi sono gli Stati Uniti d’America, dove circa il 20% dell’energia elettrica consumato ha origine appunto in una centrale nucleare. Negli Stati Uniti l’industria nucleare è soggetta a stretti vincoli fissati dal potente Dipartimento dell’Energia (DoE) (1), il cui obiettivo è conciliare un elevatissimo livello di sicurezza con costi competitivi. Uno dei programmi di punta del DoE è quello per gli Advanced Small Nuclear Reactors (SNRs). Si tratta di reattori che spaziano nel campo di potenza tra qualche decina e varie centinaia di MW, con possibili impieghi, oltre che per la generazione di energia elettrica, per la desalinizzazione dell’acqua, la produzione di calore o altri utilizzi industriali. Il liquido refrigerante usato per i progetti in stadio più avanzato è l’acqua leggera, impiegata nella maggior parte dei reattori commerciali; alcuni progetti di SNRs prevedono però l’impiego, come refrigerante di gas, metallo liquido o sale fuso. Tra i vantaggi degli SNRs rispetto a impianti di dimensioni maggiori (gli impianti nucleari tradizionali hanno potenze dell’ordine di uno più GW, cioè migliaia di MW) ci sono le ridotte dimensioni, che consentono una più ampia scelta dei siti, il ridotto investimento inziale e la possibilità di futuri aumenti di dimensioni e potenza, sfruttando il concetto di modularità. Il DoE, dopo

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Immagine artistica di un Power Module trasportato su strada verso il sito della centrale, dopo essere stato interamente costruito in fabbrica (nuscalepower.com). In alto: impressione artistica di un impianto basato sul concetto di Small Modular Reactor sviluppato dalla società statunitense NuScale Power visto dal livello del suolo (businesswire.com/news, cortesia NuScale Power). Accanto: immagine artistica di un singolo Power Module della società NuScale (nuscalepower.com).

un primo periodo di supporto alla ricerca tecnologica, ha iniziato nel 2019 il programma Advanced SMR R&D, che prevede, mediante una partnership con la società NuScale Power di Portland (Oregon) e il fornitore di energia Utah Associated Municipal Power Systems (UAMPS) di sviluppare, nel corrente decennio, un primo prototipo di SNR raffreddato ad acqua, con l’obiettivo finale di risolvere i rimanenti problemi tecnologici e poter offrire, sia sul mercato interno statunitense che sul competitivo mercato internazionale, gli SNRs nel prossimo decennio. Attualmente, secondo un report pubblicato nel 2020 dall’agenzia internazionale per l’energia atomica IAEA (2), ci sono infatti circa 50 progetti di SNRs in tutto il mondo, in diversi stadi di maturità, e in particolare ce ne sono 3 in costruzione in Argentina (CAREM, reattore PWR, la cui costruzione è iniziata nel 2011 e il cui com-

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pletamento è previsto per il 2023), Cina (il reattore HTRPM progettato dall’università Tsinghua di Pechino, refrigerato a gas, attualmente in fase di prova, e che dovrebbe entrare in funzione nel 2021) e Russia; il primo impianto russo, l’impianto galleggiante «Akademik Lomonosov», dotato di 2 reattori KLT40-S da 35 MWe ciascuno, è già entrato in funzione (3), e la società Rosenergoatom, e lo studio di progettazione Afrikantov OBM, stanno proponendo il progetto in tutto il mondo, evidenziando i vantaggi di un impianto galleggiante rispetto a un impianto nucleare tradizionale, come per esempio il discorso che il combustibile nucleare per il funzionamento dell’impianto arriva all’interno dell’impianto stesso, senza transitare a terra; la sostituzione del combustibile esausto (refueling) avviene riportando la centrale nel paese d’origine via mare, e tutto il complesso, con il combustibile esausto al

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I rompighiaccio a propulsione nucleare russi ARKTIKA (a sinistra) e SIBIR (a destra) in costruzione presso il cantiere Baltic Shipyard di San Pietroburgo, nell’agosto 2018. Il primo dei due è stato recentemente consegnato. Questi rompighiaccio sono dotati ciascuno di 2 reattori nucleari RITM-200, dei quali è in corso di sviluppo una versione installata su di una chiatta destinata a fornire energia e calore in zone costiere (wikipedia/Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International license). Accanto: immagine artistica di un SNR ad acqua bollente tipo BWRX-300, il cui progetto è in corso di sviluppo da parte della società GE-Hitachi (Fonte: GE-Hitachi).

termine della vita utile del reattore, viene trasportato nel paese di costruzione del reattore, all’interno della struttura galleggiante, per essere smantellata (decommissioning): il combustibile radioattivo, durante tutto il ciclo di vita del reattore, non transita mai sul suolo della nazione che riceve l’energia prodotta. I reattori KLT40-S impiegati da questo impianto sono derivati da quelli impiegati per la propulsione di unità navali mercantili, tipo rompighiaccio, e sono allo studio versioni con potenza maggiore, basati sui reattori RITM200-M con potenza di 50 MWe ciascuno, sviluppati per la propulsione dei nuovi rompighiaccio nucleari russi classe «Artika», il primo dei quali è stato consegnato nel 2020. Si comprende quindi la preoccupazione del governo e dell’industria statunitense per il vantaggio nel quale si trova attualmente l’industria russa, capace di offrire una soluzione già sviluppata e sperimentata, seppure con tecnologie meno innovative. Ricordiamo ai lettori che la vendita di una centrale nucleare non è solo un affare commerciale, ma comporta la creazione di un legame politico tra lo Stato cliente e quello venditore, così come le vendite di armamenti sofisticati. Il progetto di NuScale Power ha ricevuto, nell’agosto 2020, da parte delle autorità statunitensi l’approvazione finale. Alla base del progetto è il modulo Power Module™, capace di produrre 60 MWe di elettricità (a fronte di una potenza termica del reattore di 200 MWt), costruito inte-

ramente in fabbrica e trasportato in sito quando completo; il modulo è una versione in scala ridotta di un reattore ad acqua pressurizzata PWR, contraddistinto da elevata sicurezza e modularità; in condizioni normali la circolazione dell’acqua è naturale (basata sullo sfruttamento della gravità, della convezione e della conduzione), riducendo quindi la necessità di pompe e tubolature. Un impianto può comprendere fino a 12 Power Modules, raggiungendo potenze di oltre 700 MW, tipiche dei grandi impianti tradizionali. I Power Modules sono sommersi in una piscina all’interno di un edificio a prova di terremoti e di crash aereo. Nell’ottobre 2020 il DoE ha firmato un accordo con una sussidiaria della società Utah Associated Municipal Power Systems (UAMPS), per il finanziamento di un impianto nucleare di generazione di energia elettrica composto da 12 Power Module NuScale, ubicato preso lo Idaho National Laboratory e nel 2022 è previsto l’ordine dei NuScale Power Modules™ da parte di UAMPS. Il programma prevede che la costruzione inizi nel 2025 e che il primo Power Module diventi operativo nel 2029. Oltre al progetto NuScale Power, negli Stati Uniti è in corso lo sviluppo di altri 4 SNRs raffreddati ad acqua, tra cui il progetto di SNR ad acqua bollente (BWR) BWRX300 della società GE-Hitachi. Si tratta di un compatto reattore da 300 MWe (870 MWt) che incorpora tecnologie per aumentare la sicurezza di un reattore BWR, dove il reattore è raffreddato da acqua che diventa vapore all’interno del contenitore del reattore stesso (pressure vessel), a differenza dei più diffusi reattori PWR, dove l’acqua all’interno del contenitore rimane sempre allo stato liquido. Anche questo progetto è ancora in una fase abbastanza preliminare, e i primi impianti dovrebbero diventare operativi tra il 2027 e il 2030; la compagnia ha contatti con clienti in diversi paesi, tra cui Canada e Polonia. Gli altri progetti statunitensi di SNRs sono SMR-160 di Holtec International, Westinghouse SMR della Westinghouse Electric Company LLC, e mPower di BWX Technologies, Inc. Claudio Boccalatte

NOTE (1) https://www.energy.gov. (2) https://aris.iaea.org/Publications/SMR_Book_2020.pdf. (3) Si veda, La centrale nucleare galleggiante russa Akademik Lomonosov, di Claudio Boccalatte, in Rivista Marittima, luglio-agosto 2020, rubrica Scienza e tecnica, pagine 125-127.

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RUBRICHE

C HE

COSA SCRIVONO GLI ALTRI

«La Pace Fredda» e «The Longer Telegram. Toward a new American China strategy» ASPENIA, N.92, MARZO 2021 - ATLANTIC COUNCIL, PAPER, JANUARY 2021

«Quando gli storici guarderanno al 2020, vi vedranno probabilmente uno spartiacque: un anno che, come il 1949 o il 1979, ha trasformato le relazioni della Cina con l’Occidente — leggiamo nell’Editoriale della rivista trimestrale di affari internazionali firmato da Marta Dassù e Roberto Menotti — La gestione della pandemia ha alterato i rapporti di forza a vantaggio di Pechino. E ha provocato una reazione dura dell’America, con Trump prima e con Biden oggi. L’America ha ritrovato un “nemico sistemico” esterno: contenere la Cina è l’unico obiettivo politico realmente condiviso, che potrà in parte compensare le ferite interne del paese». In buona sostanza si preannuncia una «competizione estrema», per usare la formula utilizzata proprio dal neopresidente Biden alla Conferenza sulla Sicurezza di Monaco, una «competizione» che, in qualche modo, ricorda il vecchio confronto bipolare con l’Unione Sovietica. Ed è questo lo schema di una «Nuova Guerra Fredda», secondo alcuni analisti (tra cui ricordiamo il bel libro di Federico Rampini, La Seconda Guerra Fredda) fra la superpotenza del secolo scorso, gli Stati Uniti e la sua principale sfidante di oggi, la Cina. «In realtà, la storia non si ripete mai esattamente», ammoniscono correttamente gli Autori, nel senso che, a differenza dell’Unione Sovietica, la Cina di oggi è fortemente integrata nel sistema economico globale, dove esercita un peso quanto mai rilevante e ciò complica enormemente la risposta occidentale. Il modello cinese inoltre, che combina autoritarismo e capitalismo, non ha aspirazioni universali ma, rispetto al sistema sovietico di un tempo, funziona infinitamente meglio. La «competizione estrema» fra Cina e Stati Uniti non prelude però a un «decoupling assoluto» fra le due economie (troppo oneroso sarebbe per l’America stessa e il suo business), ma semmai a un «decoupling

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parziale», «anzitutto e soprattutto in campo tecnologico». Uno scenario possibile come risultato della gara in corso per il predominio tecnologico, è che si crei nel tempo — prospettano gli Autori — una «sfera tecno-autoritaria» dominata dalla Cina, in opposizione a una «sfera liberale» dominata da standard occidentali. Tecno-autoritarismo versus tecno-democrazia allora? L’esito della competizione estrema, dopo lo spartiacque della pandemia, potrebbe essere proprio questo, senza un vero vincitore globale. «Una guerra hi-tech in tempi di pace: ovvero una “pace fredda”», come indica il titolo del numero in questione. In particolare poi nello scorso gennaio, l’Atlantic Council con sede a Washington D.C., uno dei più autorevoli think tank americani, ha pubblicato un Paper anonimo intitolato The Longer Telegram. Toward a New American China Strategy, scritto da un ex alto funzionario governativo americano, nel quale si prospetta, ancora una volta, come la Cina rappresenti la sfida più importante per gli Stati Uniti nel XXI secolo e, per affrontare questa sfida, gli Stati Uniti hanno urgente bisogno di «una strategia nazionale integrata, operativa e bipartisan» (testo integrale in https://www. atlanticcouncil.org/ content-series/atlantic-council-strategy-paper-series/thelonger-telegram), al quale l’Editoriale in parola dedica un ampio commento. Un testo che ovviamente non può non ricordarci il più celebre Long Telegram che George Kennan, diplomatico americano in servizio a Mosca, mandò al Dipartimento di Stato nel febbraio del 1946, gettando le basi concettuali della strategia di contenimento statunitense dell’Unione Sovietica durante il confronto bipolare, «trainata da un mix di pressioni economiche e politiche, combinate alla deterrenza militare». Ebbene, secondo il «longer telegram» dell’Atlantic Council, in estrema sintesi, gli Stati Uniti dovranno puntare innanzitutto a uno scenario strategico «principale» (la capacità cioè dell’America e dei suoi alleati — democrazie europee e asiatiche — di «continuare a dominare l’equilibrio di potenza regionale e globale»), e quindi a uno «secondario», seppur considerato poco rea-

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Che cosa scrivono gli altri

listico (la possibilità cioè che la leadership nazionalista di Xi Jinping venga sostituita da una leadership del partito «più moderata»). Certo è che «i paragoni storici vanno sempre maneggiati con cautela» nel senso che «l’Anonimo autore del documento riconosce le differenze fra l’avversario di un tempo (Unione Sovietica) e quello di oggi (Cina). «Quando George Kennan scrisse il suo telegramma, parlando del fallimento probabile del sistema sovietico, la superiorità del modello americano era nettissima ed evidente. Oggi — leggiamo nel Longer Telegram — questo assunto non può più essere dato per scontato. Il compito di oggi, infatti, va molto al di là del problema di affrontare le vulnerabilità interne della Cina, e si estende anche alle fragilità degli Stati Uniti. Senza agire su entrambi i fronti, gli Stati Uniti falliranno!».

«Russia in the Mediterranean: Here to Stay» CARNEGIE ENDOWMENT FOR INTERNATIONAL PEACE, PAPER, MAY 27, 2021

«La strategia della Russia nel Mediterraneo è parte integrante della sua strategia per il più ampio teatro europeo, che è stata a lungo l’arena principale dei suoi trionfi e battute d’arresto in politica estera — scrivono Eugenio Rumer e Richard Sokolsky, due studiosi che fanno capo al prestigioso think tank statunitense fondato nel lontano 1910 dal filantropo e imprenditore d’origine scozzese naturalizzato americano Andrew Carnegie — La posizione dominante dell’Europa nell’agenda di politica estera della Russia è infatti un prodotto della sua cultura strategica, che a sua volta è plasmata dalla geografia, dall’eredità storica e da una visione del mondo d’élite che considera l’Occidente una minaccia per l’ordine politico interno». La rinnovata presenza della Russia nella regione mediterranea, dopo il 2015 e l’intervento militare in Siria, mostra, infatti, una grande continuità con i tempi sovietici e presovietici, quando gli sviluppi in Europa erano i principali motori della politica. Il Paper in esame si suddivide in tre sezioni. Nella prima si esamina l’eredità storica della Russia di coinvolgimento nel Mar Nero e nel Mediterraneo e identifica i principali fattori trainanti e duraturi della sua politica nella regione. La seconda esamina i risultati della politica sovietica nel Mediterraneo durante la Guerra Fredda e, infine, la terza fornisce al lettore una panoramica del «ritorno della Russia nel Mediterraneo» dopo la ritirata

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post-Guerra Fredda, corredata da un’ampia valutazione della sua politica, capacità e risultati fino a oggi conseguiti. Dati i suoi mezzi limitati, il ritorno della Russia nel Mediterraneo dovrebbe essere visto come un successo. Il Cremlino è stato determinato, paziente, abile e opportunista nella ricerca di aperture e opportunità create da sviluppi politici della regione, come gli sconvolgimenti innescati dalle primavere arabe e dalle politiche stesse degli Stati Uniti e dei loro alleati, imperniate sulla volontà di ridurre gli impegni nell’area in parola ed evitare implicazioni dirette in Siria o in Libia. La Russia ha assunto dunque rischi calcolati, ma ha evitato di impegnare risorse, prestigio e credibilità per perseguire obiettivi irrealistici e, soprattutto, provocare un confronto diretto con gli Stati Uniti. La dinamica post-2015 non è certo un replay della competizione statunitense-sovietica della Guerra Fredda. Negare alla NATO il dominio assoluto del Mediterraneo, piuttosto che cercare di dominarlo a sua volta, questo potrebbe essere oggi il fine strategico di Mosca. La Russia è riemersa come una presenza da non sottovalutare, conseguendo importanti vantaggi. Ha complicato la pianificazione e le operazioni statunitensi e della NATO, ha ripristinato con forza la sua posizione nel Mar Nero pur dopo «l’occupazione illegittima e illegale» della Crimea, si è affermata come una presenza importante nel caos siriano e libico, ha modellato un buon rapporto con Israele, Algeria ed Egitto e uno ragionevolmente buono (anche se a volte non manca di momenti di disagio) con la Turchia. «Il ritorno della Russia nel Mediterraneo continua una lunga eredità di coinvolgimento nella regione, guidata da ambizioni, interessi e percezioni di minacce che durano da secoli — concludono i due Autori, che non mancano di sottolineare come — non ci sia motivo di aspettarsi che questa postura cambi in un futuro prossimo o lontano. La Russia è nel Mediterraneo per rimanere, e la sua determinazione a espandere la sua presenza navale, aerea e terrestre continuerà». Come si conviene, aggiungerei, a una Russia ritornata a essere considerata «una grande potenza» sulla scena internazionale, secondo la definizione dello stesso presidente Biden dopo il bilaterale di Ginevra con Putin del 16 giugno scorso e non semplicemente «una potenza regionale», come l’aveva liquidata Obama all’Aja nel 2014, a margine del summit sulla sicurezza nucleare, con grande disappunto di Mosca.

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Che cosa scrivono gli altri

«L’esplosione della corazzata Maine: attentato o incidente?» STORICA. NATIONAL GEOGRAPHIC, A. XIII, N.148, GIUGNO 2021

«Il 15 febbraio 1898 alle ore 21:40 la corazzata statunitense Maine saltò in aria — nella baia dell’Avana a Cuba, dove era entrata tre settimane prima per «mostrare la bandiera» a protezione dei cittadini americani, in un contesto politico estremamente difficile con la guerriglia indipendentista in corso contro le autorità coloniali spagnole che controllavano l’isola — Un’esplosione la fece sollevare dall’acqua e poi affondare accanto alla boa dov’era ancorata, a circa una dozzina di metri di profondità. Alcuni testimoni riferirono di aver sentito due deflagrazioni, la prima “simile a un colpo di pistola” e la seconda così violenta da provocare delle fiammate, una pioggia di frammenti di metallo e un fumo denso che si innalzò sopra i resti dell’imbarcazione. Il bilancio delle vittime fu terribile: su un equipaggio di 340 uomini si registrarono 266 morti e circa una ventina di feriti». In questa maniera stringata ma efficace lo storico militare spagnolo Germán Segura introduce ex-abrupto la drammatica vicenda del «misterioso» affondamento della corazzata di seconda classe a torri in diagonale USS Maine entrata in servizio nel 1895 (dislocamento 6.789 t, cento metri di lunghezza e dieci di larghezza) e dei suoi effetti politici ai fini della genesi del conflitto ispano-americano (la guerra venne dichiarata da Washington a Madrid il successivo 25 aprile) e che, nel giro di tre mesi e mezzo, avrebbe spazzato via dall’America e dall’Asia le ultime vestigia di quello che era stato il primo e più grande impero coloniale del mondo sul quale non «tramontava mai il sole», come amava riImmagine artistica dell’esplosione della corazzata MAINE (storicang.it).

petere all’epoca del suo massimo fulgore l’imperatore Carlo V. Più complessa la vicenda delle cause e relative responsabilità del tragico evento. Infatti, la Commissione d’inchiesta statunitense condotta dalla Marina arrivò ipso facto alla conclusione che solo l’esplosione di una mina sotto la nave avrebbe potuto provocare simili danni. Certo è che, se così fosse stato, gli spagnoli erano i meno interessati a provocare il gigante americano, tanto più che il governo di Madrid pensava di risolvere la «questione cubana» con la concessione dell’autonomia, sottolinea il Nostro, che guarda piuttosto a possibili responsabilità da parte degli indipendentisti cubani nell’intento di provocare un incidente per forzare così la mano a Washington per un diretto intervento militare. Ma al riguardo, l’Autore riconosce che non ci sono prove al riguardo. E se l’affondamento della Maine fosse stato causato non da un’esplosione «esterna» ma «interna» alla nave stessa? Alcuni esperti individuano, infatti, come causa scatenante dell’esplosione il surriscaldamento del carbone imbarcato per alimentare le otto caldaie della nave, che si sarebbe poi propagato al deposito della polvere da sparo a causa delle scarse misure di sicurezza (tanto più che incidenti simili si erano già verificati sulle navi americane). Ovvero si pensò pure a un’accensione spontanea delle munizioni stesse conservate nelle polveriere. Il Maine restò semiaffondato nella baia dell’Avana fino al 1911 quando fu riportato a galla (all’uopo venne costruita una specie di armatura attorno al relitto, ne venne estratta l’acqua, facendolo così riemergere). Venne aperta un’altra indagine, la seconda, sulla sua distruzione, indagine che però non riuscì a fornire nessun indizio sicuro che aiutasse ad approfondire le cause stesse del disastro. La nave fu quindi affondata con la dinamite trovando la sua tomba definitiva nello Stretto della Florida. Ma la sua storia non finisce qui. I dubbi sulle vere cause disastro hanno continuato ad aleggiare per decenni finché nel 1975 un’ennesima Commissione di esperti diretta dall’ammiraglio Hyman Rickover, tra i promotori della propulsione nucleare navale, arrivò alla conclusione che l’esplosione della corazzata Maine era da considerarsi di natura prettamente «interna»! Ezio Ferrante

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RUBRICHE

R ECENSIONI

E SEGNALAZIONI

Antonio Donno Giuliana Iurlano Vassili Schedrin

ÿIn America non ci sono ZarŸ Le Lettere Firenze 2021 pp. 232 Euro 18,00

Al centro di questo interessante volume, curato da Antonio Donno, Giuliana Iurlano e Vassili Schedrin, troviamo la questione ebraica, così come si sviluppa in Russia tra il 1880 e il 1914, e come, a sua volta, condiziona le relazioni russo-statunitensi del tempo e contribuisce alla nascita della diplomazia umanitaria. Iniziamo col dire che questo libro, ben scritto e di piacevole lettura, è frutto di un corposo lavoro di ricerca su fonti inedite ed edite, a sua volta arricchito dall’attenta analisi di due studiosi di storia diplomatica ebraica americana, Donno e Iurlano, e di un profondo conoscitore delle correnti migratorie ebraiche dalla Russia zarista, Schedrin. Il volume è diviso in tre parti. La prima, curata da Donno, analizza la progressione dei contrasti tra le due diplomazie russa e americana, a partire dai pogrom contro le comunità ebraiche che avvennero in Russia dopo l’uccisione di Alessandro II, sino al 1913, anno in cui Washington decide di abrogare unilateralmente il trattato del 1832, che disciplinava i rapporti politici ed economici tra i due paesi. L’inizio del crescente dissapore tra i due paesi è legato alla questione dei passaporti. Secondo i governi zaristi gli ebrei americani che viaggiavano in Russia avrebbero dovuto sottostare alle leggi che vigevano nell’Impero. La questione, sin da subito ritenuta oltraggiosa da parte di Washington («in nessun altro paese al mondo si assiste a una discriminazione nei confronti dei nostri cittadini in visita»), si trasformò nel corso del tempo in un’attenzione sia del governo sia dell’opinione pubblica americana alla condizione vissuta dagli ebrei russi in patria. Il crescente interessamento da parte dell’opinione pubblica e, al suo interno, della comunità ebraica americana è oggetto della seconda parte del volume. Le organizza-

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zioni ebraiche americane si muovono, come sottolinea Iurlano, su due fronti: da un lato, per ottenere dalle amministrazioni americane un impegno costante di critica ai governi zaristi per la condizione in cui vive la minoranza ebraica nell’Impero, dall’altro, per creare un progetto di diplomazia umanitaria. Nel perseguire questo secondo obiettivo, le organizzazioni avrebbero dialogato sia con gli ebrei russi, sia con il governo zarista. Come ricorda l’autrice, il perdurare delle difficili condizioni per gli ebrei russi avrebbe convinto le organizzazioni ebraiche americane a promuovere e sostenere anche economicamente un esodo verso gli Stati Uniti d’America. Molto belle sono le pagine che Iurlano dedica al difficile tema dell’integrazione. Gli ebrei russi insieme a quelli americani sono chiamati, a causa del grande esodo, a riflettere su sionismo, antisionismo, assimilazione. Non mancano le voci di coloro che chiedono di non andare in America e quelle di chi ricorda che in «America non ci sono Zar». È questo un percorso articolato, che si modifica con l’evolvere delle vicende storiche nazionali, europee e internazionali e che ruota intorno al concetto di identità ebraica. La terza parte del libro, curata da Schedrin, sposta l’attenzione del lettore al contesto russo, analizzando, da un lato, i motivi economici e sociali che indussero gli ebrei russi a vedere nell’emigrazione l’unica via di salvezza, dall’altro, l’atteggiamento via via assunto dai governi zaristi verso questa migrazione di massa; se per alcuni la fuga degli ebrei finiva per mettere in risalto la debolezza dello Stato russo, per altri rappresentava un modo per liberare il paese da una questione secolare. Infatti, come ricorda l’autore, la presenza degli ebrei in Russia era stata conseguenza di una migrazione virtuale, avvenuta all’indomani della spartizione della Polonia tra Austria, Prussia e Russia (1772-95). Coloro che erano stati ebrei polacchi erano divenuti, per il solo spostamento dei confini, ebrei russi. Nel corso degli anni molte sarebbero state le iniziative volte ad assimilare, spostare o confinare, facilitare l’emigrazione interna o esterna della componente ebraica della società russa. Tra il mese di gennaio e il mese di giugno del 1882 prese il via la «febbre dell’emigrazione». Più fattori vi avevano contribuito: la paura di nuovi e violenti pogrom, la crisi economica, gli aiuti occidentali e la collaborazione del governo russo nel facilitare l’emigra-

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zione. Ma, come ricordato nel libro, solo a partire dalla metà del 1890 l’emigrazione ebraica divenne un fenomeno di massa; all’indomani della Rivoluzione del 1905 il flusso di emigrazione avrebbe infatti raggiunto le 200.000 persone l’anno. Secondo i registri degli immigrati in America, tra il 1881 e il 1914, risultano entrati in America circa 1,6 milioni di ebrei dalla Russia. In conclusione, i tre autori offrono al lettore una nuova chiave di comprensione della articolata e complessa origine dell’impegno americano in favore della questione ebraica. Beatrice Benocci

Laura Guglielmi

Le incredibili curiosità di Genova Uno sguardo su più di mille anni di storia della Superba Ed. Newton Compton Roma 2019 pp. 348 Euro 12,90

L’autrice, giornalista e professoressa presso l’Università di Genova, in ottanta gradevolissimi affreschi, descrive la vita della Superba e dei suoi protagonisti illustri e meno illustri in un arco di tempo di circa mille anni. Così, chiunque si accinga a scorrere le pagine di questo libro, potrà scoprire particolari e curiosità su avvenimenti e personaggi di cui pensava di possedere la completa conoscenza o di cui ne ignorava totalmente l’esistenza. Il lettore, quindi, potrà scegliere, tra questi affreschi, quelli di maggior gradimento per lui. Di seguito riporto una breve descrizione di quelli che mi hanno colpito di più. Genova è la città dove tre santi si dividono la venerazione popolare: San Giorgio, con il suo famoso simbolo della croce rossa su sfondo bianco, San Giovanni Battista e San Lorenzo, dichiarato compatrono, insieme agli altri due, nel 1327. «Campopisano è una delle più belle piazzette del centro storico genovese. […] Al centro, l’immagine di una galea della Repubblica di Genova, con la bandiera issata». Lì, nel 1284, i genovesi, dopo aver

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sconfitto i pisani nella battaglia della Meloria, portarono i prigionieri e, una volta recintata l’area, li lasciarono morire di freddo. «Vengono sepolti proprio lì dove ora c’è una splendida pavimentazione acciottolata oppure gettati in mare. […] Questa triste vicenda spopola Pisa e decapita il suo esercito. È rimasto famoso il detto: Se vuoi vedere Pisa vai a Genova». A Palazzo San Giorgio, fatto costruire dal capitano del Popolo Guglielmo Boccanegra (allora si chiamava Palazzo del Mare) venne rinchiuso il veneziano Marco Polo (1254-1324) che, dopo esser rientrato dal suo viaggio in Cina, fu fatto prigioniero durante la battaglia della Curzola, combattuta tra veneziani e genovesi. E in quel palazzo egli dettò, a Rustichello da Pisa, il suo mirabolante viaggio noto come Il Milione. «In pochissimi sanno (però) che un genovese, Andalò da Savignone, a partire dal 1330 fece tre viaggi in Cina. Non lo ricorda quasi nessuno, perché non ha incontrato sulla sua strada un Rustichello a cui lasciare le sue testimonianze». Un tempo, Genova, «era una città di torri, se ne contavano ben sessantasei nel Medioevo. I ricchi nobili o mercanti, proprietari dei palazzi, non le avevano costruite per difendersi dagli attacchi degli invasori, ma per prendersi a mazzate gli uni contro gli altri. Erano delle vere e proprie basi militari da dove venivano lanciate pietre, acqua bollente, frecce e ogni sorta di strumento atto a far del male al malcapitato nemico». Poi, alla fine del XII secolo, tutte le torri vennero accorciate in modo da non essere più alte di venti metri. Ne fu risparmiata solo una, ancora oggi visibile: la Torre degli Embriaci. «In tanti conoscono il museo Galata, così chiamato in omaggio al quartiere genovese di Istanbul». Ai tempi delle repubbliche marinare, infatti, fu stipulato un trattato — era l’anno 1261— tra l’imperatore di Bisanzio e il capitano del Popolo genovese Guglielmo Boccanegra, con cui vennero affidati, alla Repubblica di Genova, diversi territori, tra cui la costa che dal borgo fortificato di Galata, a Bisanzio, arrivava alla penisola di Crimea. «La torre di Galata a Istanbul testimonia la potenza dei genovesi in quel periodo». Genova è soprattutto nota come la città della Lanterna che, costruita nel 1128, «con i suoi settantasette metri, è il faro più alto del Mediterraneo e il secondo in Europa. […] Sembra che attualmente sia il

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quinto faro del pianeta». Ma Genova è anche la città che ha dato i natali a Cristoforo Colombo. «Mentre negli Stati Uniti alcuni gruppi politici stanno attaccando la figura e la memoria di Cristoforo Colombo, in Liguria da più parti se ne rivendicano i natali». Oggi, vicino Porta Soprana, è visitabile la casa dove il grande navigatore trascorse la prima parte della giovinezza. I suoi legami con la città, però, successivamente diventarono «sempre più flebili, tant’è che per la grande impresa della sua vita, quella conosciuta come la scoperta dell’America, si rivolse a Isabella di Castiglia». La torre Grimaldina, il carcere genovese, tenne rinchiuso il terribile pirata Dragut dopo che, catturato da Giannettino Doria in Corsica, era stato imprigionato su una galera come rematore. Il pirata fu poi liberato, forse in seguito a un accordo tra il suo capo, Barbarossa, e Andrea Doria: la sua libertà in cambio della concessione della pesca del corallo vicino alla costa tunisina. «Forse Dragut non era poi così antipatico all’ammiraglio genovese. […] C’è un dettaglio che fa pensare si fosse affezionato al corsaro ottomano: in vecchiaia chiamò il suo gatto proprio Dragut». A Montebruno, nei pressi di Genova, fece un atterraggio di fortuna la prima donna aeronauta della storia, la francese Sophie Blanchard (1778-1819). Partita da Milano, il 15 agosto 1811, con un aerostato, venne trasportata, da una corrente, verso Genova. Tentata una discesa sull’appennino ligure, «atterra in un bosco e il pallone rimane in bilico tra le fronde di alcuni alberi». La mattina seguente alcuni contadini, credendo si trattasse della Madonna, si inginocchiarono a pregare. Tanti furono gli scrittori che passarono un periodo della loro vita, più o meno breve, a Genova. Tra questi Mary Shelley, Honoré de Balzac, Mark Twain, Charles Dickens, Herman Melville, Gustave Flaubert, Henry James. Anche il filosofo Friedrich Nietzsche trascorse del tempo a Genova. «In riviera, tra Zoagli, Rapallo, Santa Margherita e Portofino, concepì la figura di Zarathustra». Genovese era Goffredo Mameli, nato nel 1827 e che, nella sua breve vita (mori a soli 21 anni, a Roma, durante l’assedio) scrisse il Canto degli italiani, meglio conosciuto come Inno di Mameli, diventato Inno nazionale nel 1946, con la proclamazione della Repubblica. Da Genova, precisamente da Quarto, con la navi Lombardo

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e Piemonte, partì, nella notte tra il 5 e il 6 maggio 1860, la famosa Spedizione dei Mille di Giuseppe Garibaldi. Molti sono gli esploratori nati in Liguria. Tra questi ricordiamo Enrico Alberto D’Albertis (1846-1932), ufficiale della Marina Militare, poi passato alla Marina mercantile. Circumnavigò l’Africa e «sfidò gli oceani, attraversando zone impervie a dorso di cammello e, per mettersi nei panni di Cristoforo Colombo, arrivò fino a San Salvador, usando la tecnologia di fine Quattrocento». Nella cattedrale di San Lorenzo si può vedere una bomba della Seconda guerra mondiale. Il 9 febbraio 1941 la Royal Navy iniziò a bombardare il capoluogo ligure. In città ci fu una strage, ma la cattedrale si salvò. La bomba «cadde attraversando una parete, ma si posò sul pavimento senza scoppiare». Genova è stata anche terra di cantautori e poeti. Tra i prima abbiamo De André, Tenco e Paoli, mentre tra i secondi l’autrice dedica alcune pagine a Eugenio Montale, Dino Campana e Giorgio Caproni. «Quando mi sarò deciso/d’andarci, in paradiso/ci andrò con l’ascensore/di Castelletto…»: così scrisse quest’ultimo che, nato a Livorno e trasferitosi a Genova all’età di dieci anni, dopo la guerra andò a vivere a Roma, dove vi rimase per tutto il resto della vita, «ma non riuscì a togliersi la Superba dalla testa e visse nel rimorso di averla abbandonata». Gianlorenzo Capano

Lorenzo Vita (prefazione di Marco Valle)

LÊonda turca Il risveglio di Ankara nel Mediterraneo allargato Giubilei Regnani Cesena 2021 pp. 250 Euro 17,00

La Turchia rientra sempre nel novero delle attrazioni geopolitiche internazionali. Paese ponte tra l’Occidente europeo e l’Anatolia, proiettata verso l’Oriente che fu ottomano, la Turchia offre diverse

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chiavi di lettura per ciò che concerne le relazioni internazionali, svariati spunti che danno l’idea della complessità della sua realtà, ma che fanno rendere conto di quanto possa essere arduo giungere a una sua compiuta comprensione. Lorenzo Vita, giornalista de Il Giornale, ci accompagna in un’analisi che compendia storia, geopolitica, economia, politica interna, con uno stile rapido, scorrevole, accattivante. L’onda Turca, pubblicato per i tipi di Giubilei Regnani, punta a cogliere gli elementi salienti della politica interna e della situazione geopolitica correnti, proiettando ipotesi e visioni razionali nel futuro, interpretando dunque un ruolo letterario di pregevole e raffinata cultura politica internazionale. Il libro, chiaro, esplicativo, arguto, diviene saggio di politica e storia contemporanee, in grado di correlare passato e presente, per portare poi il lettore a guardare al prossimo futuro e ai suoi interrogativi più coinvolgenti, vista l’area geopolitica coinvolta. Le tinte riservate alla situazione mediterranea arricchiscono l’immagine di un’estensione ribollente che parte dalla Libia, passa per il Golfo Persico, tocca il Mar Rosso, per arrivare al Levante, al Mar Nero e al Caucaso, lambendo finanche l’Afghanistan; tutti luoghi dove la presenza di Ankara è palpabile, dove il sogno imperiale di Recep Tayyip Erdogan intende reincarnare velleità neo ottomane. Alla luce sia della difficile, se non disastrosa, situazione economica, sia di un isolamento politico determinato dalle scelte indotte dal fortemente percepito sentimento islamico, la Turchia è cosciente del fatto che per poter rivestire un ruolo confacente sul palcoscenico internazionale, è costretta giocoforza a partire dalle acque del Mediterraneo. Vita si fa lettore e interprete storico-politico, interpreta il pensiero di Ataturk, legge chiaramente le linee guida dell’uomo per il quale, già dal secolo scorso, il destino nazionale era custodito tra le onde dei mari che circondano e lambiscono l’Anatolia. Risiede in una lettura geopolitica di ampio respiro, che considera la presenza della Turchia anche in funzione dello sguardo strategico volto oltre gli stretti fino all’ingresso dell’Oceano Indiano e ai traffici che vi flui-

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scono, il comprendere l’importanza attribuita al sultanale Bosforo, passaggio e propulsore del nuovo Stato laico che stava conformandosi e che tutt’ora guarda a Egeo, Cipro, Tripoli, Baku, Mogadiscio, Qatar. L’ascesa al potere di Erdogan ha ravvivato le originarie mire marittime, altrimenti a lungo sopite nel periodo compreso tra il Trattato di Losanna e il termine della Guerra Fredda, grazie a una politica anti kemalista posta sotto il riflettore islamico. Secondo Vita, la svolta si basa su una dottrina ben precisa, quella del Mavi Vatan, della Patria Blu, ideata dall’ammiraglio Gurdeniz. L’obiettivo è chiaro: il controllo del mare per la vigilanza delle risorse energetiche imponendo l’influenza nazionale turca, un fine sì politico ma anche economico, perché è al mare che è demandato l’onere di sostenere le mire egemoniche di un paese sostanzialmente revanscista. Secondo la visione del Reis, la Turchia ha un obbligo politico per cui, pur di permanere al centro dell’attenzione, è lecito servirsi di qualsiasi cosa possa occorrere a prescindere dai possibili preconcetti, per arrivare al 2023, anno di elezioni ma anche di rievocazioni centenarie del Trattato di Losanna, perenne memento della disfatta bellica, contrastato dall’allestimento di una Forza navale moderna sospinta da investimenti strutturali e di ricerca, e tuttavia penalizzata da decisioni politiche, talvolta troppo ardite, che l’hanno privata degli F-35. Tenuto conto dei tentativi americani di rafforzamento del dispositivo ellenico, e delle operazioni finanziarie sulla divisa turca, già debole di suo, il libro di Vita ci lancia tuttavia un preciso ammonimento circa i timori non troppo larvati sulla possibilità di un allontanamento turco dal campo occidentale, per avvicinarsi alle posizioni sino-russe; un’ipotesi strategicamente inaccettabile per la NATO. Nel testo, che non dimentica di fornire una panoramica della più recente azione politica italiana nel Mediterraneo orientale, si susseguono commenti, ipotesi, inquadrature geopolitiche che possono sicuramente fungere da ottimi spunti di studio e approfondimento. Gino Lanzara

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La Marina e la ZEE: attualità della Legge per la difesa del mare Fabio Caffio

Il Mediterraneo risveglia l’Italia. Una ZEE per ricostruire una proiezione regionale 8

Lorenzo Vita


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