Pietà KIM KI-DUK
di MARCELLO PERUCCA
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ietà ha inizio con due scene molto significative: in primis assistiamo al suicidio di un giovane su una sedia a rotelle. Poi la macchina da presa stacca su un uomo a letto che si procura piacere masturbandosi: è Gang-do, trentenne solitario al soldo di un usuraio per il quale riscuote i crediti. Spietato e crudele, per ottenere le somme non esita a mutilare le sue vittime che, riscattando l’assicurazione, potranno saldare i debiti. Gang-do vive e opera in un quartiere popolare di Seul. Le sue vittime sono piccoli artigiani che la crisi ha impoverito, impossibilitati a campare con i loro miseri guadagni. Li perseguita senza pietà ed essi accettano rassegnati il loro destino. La sua vita verrà sconvolta quando una sconosciuta inizia a seguirlo, dichiarando di essere la madre che il giovane non aveva mai conosciuto perché abbandonato alla nascita. Rifiutando inizialmente questa idea, sottopone la donna a varie umiliazioni che lei accetterà per scontare le sue colpe e riabilitarsi agli occhi del figlio. Poi, lentamente, l’atteggiamento dell’uomo muterà e in lui nascerà una sorta di amore filiale che, insieme alla crescente paura di poter perdere di
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nuovo la madre ritrovata, ne smorzerà la brutalità verso le vittime. Una crudeltà conseguenza della solitudine che da sempre lo accompagna e che avevamo percepito assistendo alla scena iniziale della masturbazione. Man mano che in lui cresce l’amore per la madre, la sua brutalità cessa, lasciando spazio al terrore di poter nuovamente perdere l’affetto più grande, l’unico conosciuto nella sua tormentata vita. Si tratta, però, di un affetto fasullo: la donna, in realtà, non è sua madre, bensì quella del giovane in carrozzina che, nell’incipit, si era impiccato, non accettando l’infermità al quale lo stesso Gang-do lo aveva costretto. Si svela così il piano della donna che avvicina Gang-do e ne conquista la fiducia allo scopo di poter compiere la sua vendetta. Fingendo di essere minacciata da una delle sue vittime, si getterà nel vuoto. Disperato l’uomo ne seppellirà il corpo sotto il pino che egli stesso aveva piantato vicino al fiume (l’acqua, caratteristica ricorrente nella filmografia di Kim Ki-duk, in questo caso non è più fonte di vita, bensì di morte). Scavando il giovane scoprirà - e riconoscerà- il corpo sepolto del vero figlio, capendo la vera identità della donna e cosa l’aveva spinta ad avvicinarlo.
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La vendetta giunge così a compimento: Gang-do, sconvolto, si legherà sotto a un camion che, avviandosi, ne dilanierà il corpo, lasciando una macabra scia di sangue sull’asfalto. Con Pietà, meritato Leone d’Oro a Venezia, Kim Ki-duk disegna uno spaccato agghiacciante di una società putrefatta e sprofondata nel dolore. Gang-do è l’emblema di questa immane sofferenza. Perduto nella sua solitudine, dove l’unica possibilità di sopravvivenza è data dalla crudeltà, troverà nella morte la salvezza. E insieme a essa arriverà quella pietà suggerita dal titolo (e dalla locandina del film che rimanda alla famosa scultura michelangiolesca). Pietà è un film intriso di religiosità, tema che, declinato in vari modi, rientra spesso nelle opere del regista coreano. È la rappresentazione, con toni da tragedia greca, del percorso di un uomo obbligato alla violenza, che trova in essa una ragione del suo essere al mondo. Poi, con il sopraggiungere di un sentimento di affetto, vi è la rinascita – o meglio – la nascita come essere umano trovando, infine, nella morte la ragione della propria esistenza, la redenzione che lo renderà definitivamente uomo.