Gratuita
Genova
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Solo tra le due notti il Mare risplende. Presa e costretta negli intorti gorghi, come una preda pallida, è la luce. Gabriele D’Annunzio, Alcyone
L’anno che verrà, parafrasando Lucio Dalla, seguirà necessariamente il corso intrapreso, accordandosi alle esigenze dei lettori e proponendo novità, senza però stravolgersi. Fischi di carta ha acquisito nel tempo una sua fisionomia, un suo ruolo nello spazio sia geografico che letterario. Questo territorio acquisito è ciò che impone la responsabilità di ascolto e le misure che ne conseguono. Dunque, come prima cosa e almeno provvisoriamente, Fischi di carta diminuirà la tiratura, passando a 1000 copie mensili, per garantire un’uscita regolare e mantenere, oltre ai propri standard qualitativi, l’indipendenza e la gratuità, fondamenti di questa idea. Inoltre, dal mese prossimo l’occhio attento di qualche lettore potrà cogliere un lieve riassetto interno della rivista, bilanciando gli spazi delle pagine a favore di una maggiore presenza di testi poetici, inediti e non. Nell’augurio di un anno ricco di idee e progetti, mi rivolgo ai lettori per un piccolo appello. Ciò che vi chiediamo è una cosa sola: leggete. Leggete noi e tutti gli altri giornali, riviste, siti che possano diventare un punto di riferimento per sviluppare un discorso da portare avanti non sul web né con voi stessi, un discorso che va aperto nelle occasioni di incontro, alle letture, agli eventi. Impariamo a farci carico delle nostre idee e a non aver paura di metterle in discussione. Questa è la cultura vera, quella che si fa tutti i giorni, soprattutto con la pratica. Buon anno a tutti
RICOMINCIARE di Alessandro Mantovani Una rivista, qualunque dimensione e posizione ricopra, è pur sempre una responsabilità. Riempire delle pagine bianche con precisi contenuti comporta una necessaria e costante attenzione nei confronti di ciò che si pubblica e di come lo si fa. Quello trascorso, con i Fischi di carta , è stato il primo anno di un progetto rinnovato che si è fatto carico di numerose penne, triplicando il numero dei componenti attivi e dunque dei cervelli e dunque delle idee. È stato un anno di sperimentazione e di forte tensione aspettativa, un anno in cui abbiamo morso il freno, scalpitando ad ogni occasione, per avere poi la conferma, nel nostro piccolo, che le cose fatte con testa e passione pagano.
di Matteo Valentini
Per questo, studiandomi anch’io, mosso da vanità, di lasciare qualcosa ai posteri e mirando a non restare io solo privo della libertà intrinseca al favoleggiare, non avendo d’altra parte nulla di vero da raccontare –nulla infatti mi era capitato degno di nota –, presi la via della menzogna, ma con molto più giudizio degli altri, giacché in una cosa almeno sarò veritiero, nella dichiarazione che mento. Luciano di Samostata, Storia vera , I, 4
Chi scrive mente? Si dice di sì. Chi scrive, banalmente, racconta storie. Chi scrive trascina la realtà che ha sotto gli occhi nel campo dell’ abc elementare. Costringe in uno solo tutti i linguaggi: i suoni, i colori, i gesti, le forme… Chi scrive è come chi, con un imbuto, travasa dell’acqua da una pentola a una bottiglia. Durante l’operazione: alcune gocce resisteranno alla corrente, abbarbicate alle pareti del conico strumento; parte dell’acqua traboccherà erroneamente per colpa dell’impugnatura incerta di chi presiede il travaso o dell’eccessiva inclinazione della pentola; il liquido che arriverà finalmente a destinazione si mischierà con la polvere e i residui di altre sostanze presenti all’interno della bottiglia. Chi avrà adoperato l’imbuto mentirebbe dicendo che nella bottiglia è presente la medesima acqua che stava nella pentola. Allo stesso modo, chi scrive soffoca la realtà all’interno di una prospettiva tutta sua oppure marxista, postmoderna, surmoderna, idealista, romantica, simbolista, foucaultiana, mistica…, si ripara per istinto dalla complessità di ciò che gli sta intorno e mente, altera il mondo, affermando cose diverse da come sono in realtà. Si dice anche che ogni bugia abbia il suo prezzo. Essa aiuta chi scrive a sezionare il reale, prenderne la porzione preferita, impacchettarla con cura, ma chiede in cambio la personalità dell’autore, la sua onestà e il suo coraggio (indagare ciò che non conosce, se non lo può evitare, fuggire dalle frasi fatte, smascherarsi davvero, usare un po’ d’ironia, fare attenzione ai modelli).
In definitiva, pagare o meno il prezzo della bugia rappresenta il discrimine tra quella che si potrebbe chiamare “letteratura” e le cartoline distanti delle mattine d’estate
Eravamo fermi in singole postazioni dolori da litorale, i moti dell’acqua sperando lenissero le aperture, le feritoie aperte a lasciar passare dardi gettarli in piene viscere in pieno abisso.
Abbiamo camminato poi rasenti la muraglia precaria delle cabine estive sapevamo di militi ingobbiti dal fucile, dallo zaino.
Qui è tutta una guerra, compagno, che domani rossi in testa ci terremo – non si dica –feriti nell’inconscio sulle mani striate a metà del petto sotto le bombe sopra le pietre.
Bada alle ombre, ti prego, dietro gli interstizi ai pungiglioni sotto sabbie smosse d’inferno. Salta sbecca dilania se devi, ma con curatela, fratello. Ricorda: qui fuori è tutta guerra.
Antonin Artaud (1896-1948), nativo di Marsiglia ma di origine turca per parte materna, trascorre gli anni dell’adolescenza studiando al liceo, appassionandosi alle lingue classiche, ai poeti francesi e inglesi più vicini alla sua indole (Baudelaire, Rimbaud, Verlaine, Rollinat, Poe). È però l’incontro decisivo a Parigi, nei primi anni venti del novecento, con Lugné-Poe, Jacob e Coupeau a introdurlo nel mondo del teatro, dandogli lavoro come attore e come critico, assieme alle parallele collaborazioni cinematografiche con Gance, Lang e Dreyer. Nel 1923 incontra il pittore André Masson e pubblica il primo numero della rivista Bilboquet da lui stesso diretta. Poco dopo esordisce come poeta pubblicando la plaquette Tric trac du ciel, ma sarà soltanto il ‘24 che lo farà comparire sulle scene della cultura (Correspondance avec Jacques Rivière sulla Novelle Revue Française) portandolo all’attenzione di Breton e dei surrealisti coi quali collaborerà tra il ‘24 e il ‘26 per poi distaccarsene dopo aver ricevuto accuse di renitenza nei confronti della rivoluzione russa. Le sue attività di attore e drammaturgo non riescono però a garantirgli un appoggio economico sufficiente mentre lo stato di depressione con momenti di squilibrio mentale presente sin dall’adolescenza – faceva uso di oppio su prescrizione medica dai diciotto anni – si accresce. Pasquale di Palmo, curatore mo-
derno dei versi di Artaud, ha individuato due sostanziali fasi creative del poeta: i primi testi, composti tra il ‘13 e il ‘23, debitori degli autori amati dal poeta, privilegiano l’utilizzo dell’alessandrino e contenuti d’ispirazione crepuscolar-parnassiana legati a scenari tradizionali (la città, la piazza, gli eventi naturali). La fase successiva (192435, conclusasi con l’internamento in manicomio) prende le mosse dal periodo surrealista per poi evolversi, nelle raccolte L’Ombilic des Limbes, L’Art et la Mort, Le Pèse-Nerfs, i Textes surréalistes – dove prosa, versi e brani teatrali si alternano – verso una produzione ancora legata a strutture metriche codificate (sonetto, quartina rimata), ma più incentrata sul corpo e sulle sue esigenze anche più basse, dove si avvicendano immagini ripetute (gli organetti di Barberia, ad esempio), visioni oniriche e stravolte, ossimori lessicali e contenutistici. In seguito si aggiungeranno anche bestemmie, nonsense, glossolalie alienate a metà fra realtà ed ironia, dovute anche al suo interesse per i medium e i linguaggi, con un tentativo di recupero d’una lingua “universale e del ritorno all’utopica lingua precedente Babele” (Di Palmo, p. II) testimoniata anche, nella produzione drammaturgica, dall’attenzione del poeta per il teatro balinese. Il corpo umano, simbolo dell’essenza vitale soprattutto nella
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sua martirizzazione analitica e spietata, viene letto alla luce delle antiche religioni, in particolar modo di quella egiziana: centrale in alcuni versi dei Textes surréalistes il riferimento al “corpo senza organi” da smembrare per far sì che rinasca sotto nuove forme (mito di Osiride) nonché alla mummificazione e alla “morte apparente”, preludio alla vita nell’aldilà. Sarà proprio il linguaggio multiforme la vera eredità poetica lasciata da Artaud che soltanto dopo l’internamento in diverse case di cura francesi e cinquantuno elettroshock riprenderà, nel 1943, a firmarsi col proprio nome. Ristabilitosi un minimo, potrà fare ritorno a Parigi sotto la tutela economica di amici che si occuperanno di pubblicargli la plaquette Révolte contre la Poésie (1944), con cui il poeta siglava il suo definitivo (ma già più volte tentato) distacco dai versi, croce e delizia di un'inquieta e tormentata esistenza. Nel novembre 1947 registrerà la famosa intervista radiofonica subito censurata – Pour finir avec le jugement de dieu, dove il delirio giunge agli estremi – pochi mesi prima di morire per un tumore il 4 marzo 1948
Organi a manovella, organetti, angeli Inchiostri, lacche, incredibile miscela Di acidità, di soavità, Vattene, mio libro, dalle chiuse membra, dove il midollo dello spirito s’iscrive, separato In angeli, lacche, inchiostri, miscele O lucido incubo, sofferenza chiarita
(da Tric trac du ciel, 1923)
• Antonin Artaud, Poesie della crudeltà (1913-1935), a cura di Pasquale di Palmo, Roma, Stampa Alternativa, 2011
HO DENTRO DI ME TUTTI I SOGNI DEL MONDO di Laura Calpurni
Un poeta perennemente alla ricerca del proprio io, del proprio scopo, del proprio ruolo nella società e nella quotidianità. Fernando Pessoa è lo spirito inquieto di una poesia sublime, che affascina e tormenta allo stesso
tempo. È l’uomo afflitto dal dubbio, dall’incapacità di sentirsi parte di un unico corpo. Bernardo Soares, Alvaro de Campos, Ricardo Reis, Alberto Caeiro – solo per citarne alcuni – non sono altro che burattini nati dalla
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penna del poeta , ciascuno con vizi, incubi e visioni differenti. Pessoa si muove in una Lisbona ora grigia ora soleggiata, tra le inquietudini culturali di inizio Novecento e letture di Milton e Keats sotto braccio. Pur essendo un personaggio schivo, quasi una comparsa anonima di un romanzo qualsiasi, era deciso ad animare la vita culturale e letteraria della sua città. La poesia nasce dunque dall’indagine del sé e si trasfigura in una «danza frenetica sull’orlo di un precipizio», tra quello che si è e quello che si vorrebbe essere. Unico rifugio: l’abbandono totale ed incondizionato all’immaginazione che porta a visioni sospese, come su una corda troppo tesa e fragile. Ma l’equilibrio debole che la visione stessa dona, è apparenza venata di delicata ironia e disincanto, che il poeta, quasi con lucida preveggenza, sente come inafferrabile: «[…] chiuso nel mio sogno, / immoto emigro, e, senza volere, / inutilmente ricompongo / visioni di quel che non sarà». Il mondo, tutto ciò che quindi fa parte di esso è fugace, finto. Le cose tangibili, gli affetti, sono una realtà troppo intima e sfocata, che si perde in una ricerca spasmodica. Un viaggio nel vuoto, una continua rincorsa per uniformarsi ad un mondo che piega, spezza e non risparmia. Quando la corda si spezza ed il rimpianto di aver perso quel poco che trasformava la
realtà si perde nel ricordo, le tante voci che si avvertono sono così in antitesi ed in contraddizione l’una con l’altra che non riescono a non formare una qualche armonia unica ed indivisibile. Pur nel paradosso della frammentarietà, Pessoa riesce a uniformare le visioni più forti e i sogni più deboli nel gioco caleidoscopico di eteronimie che si fondono sulla carta e nella mente del lettore
Dicono che fingo o mento quando scrivo io. No: semplicemente sento con l’immaginazione, non uso il sentimento. Quanto traverso o sogno, quanto finisce o manco è come una terrazza che dà su un’altra cosa. È questa cosa che è bella. Così, scrivo in mezzo a quanto vicino non è: libero dal mio laccio, sincero di quel che non è. Sentire? Senta chi legge.
So che mai avrò quel che cerco, e che non so cercare quel che voglio, ma cerco, insciente, nel silenzio oscuro e stupisco di quel che so che non bramo.
• Fernando Pessoa, Il mondo che non vedo. Poesie ortonime, a cura di P. Ceccucci, edizioni BUR Biblioteca Universale Rizzoli, 2009
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QUANDO COMPRI LA SALSA AL SUPERMERCATO SEI COMPLICATA COME KAFKA di Edoardo Nicola Ghio
Le cassiere distribuiscono bollini come un signore con la barba duemila anni fa faceva con il pane e con i pesci Con la carta magnetica super sconti e i prosciutti sono tristi perché il salumiere lascia sempre i due [etti in eccesso
Tu sei ancora lì tra il degrado della società sei uscita in pigiama per immedesimarti nel prossimo inizi a sbuffare Che poi io e te tu ed io non avevamo deciso di mangiare pesce?
Un piatto di pasta al pomodoro e le tue convinzioni astratte svaniscono come pioggia distrutte Diventi rossa, stringi i pugni imprechi ad alta voce Non sopporti le scatole di latta per non parlare dei prodotti bio Sbatti i piedi gli annunci all’altoparlante distolgono la tua concentrazione dipendenti tristi compiono gesti [senza riflettere e il continuo rumore di ruote difettose invade l’edificio Muraglie di prodotti anziani in abiti eleganti danzano con bastoni d’assalto si spostano nell’ombra con esattori dell’Inps che li sorvegliano
Edoardo Nicola Ghio , è nato nel 1994 a Novi Ligure e risiede a Bosio. Ha frequentato il liceo scientifico bilingue E. Amaldi a Novi Ligure e attualmente sta conseguendo la laurea triennale in Economia a Genova.
L’uso contemporaneo del termine disagio sembra non avere più molto a che fare coi concetti che i dizionari, classicamente, attribuiscono ad esso: difficoltà, angoscia, inattitudine a sentirsi bene all’interno di una situazione. Se pensiamo brevemente ai contesti in cui questa parola compare oggi, ci rendiamo conto che si tratta di un vocabolo usato con facilità, quasi fino a perdere il suo vero senso, per trasformarlo in intercalare, in condimento e colore del discorso.
“Che disagio”, “Sono nel disagio più profondo”, e simili, sono locuzioni molto fortunate nel gergo odierno, basta scorrere le home di Facebook per verificarlo, disagi a destra e manca: in spiaggia, in aula studio, in cameretta e così via. Una lunga galleria di persone che adornano con questo termine la propria vita comune, che poi così disagiata non sembra.
Sarà che in questo disagio, da trucco sbavato e ubriachezza molesta, il giovane d’oggi ci si annega bene, in un certo senso ci gode: perché lo percepisce come un qualcosa di estetico.
Ma come può il disagio essere estetico? Come è diventato una specie di moda decadente, una superficie da indossare in società? Che gusto c’è a farsi vedere ed affermarsi come disagiati?
Ci si sente molto punk, a descrivere il proprio malessere come uno stile di vita, a farlo diventare moda imperante. Ma ci si dimentica che dietro al gesto, dietro al
capo d’abbigliamento, ci dovrebbe essere un’idea. Potrebbe andare bene anche un semplice slancio ribelle, forse illuso e stupido, ma sarebbe già qualcosa di più di questa semplice elencazione di motivi di depressione farlocca e autocompiaciuta, che finisce per sotterrare nel marasma della comunicazione le angosce vere di chi magari nel disagio ci si trova per davvero.
Sembra che si possa imputare quest’estetica del disagio alla disillusione degli anni zero, alla malinconica rassegnazione che sembra il maggior prodotto culturale della nostra epoca.
Che produciamo una rassegnazione malinconica e dolciastra sembra dirlo pure la nostra musica, indipendente e non solo, giusto per fare un esempio artistico e meno legato al costume sociale, alle tendenze generali di cui il Web può dare solo proiezioni e frammenti. Ma più che dirlo, in realtà, sembra che la nostra musica partecipi a questo fenomeno.
Spopolano, e basta fare un salto su Youtube per verificarlo, tutti quei cantautori che hanno fatto del senso di estraneità uno stilema ripetuto e ormai canonico: vanno tutti al mare perché nel mare si è più puri; stanno tutti lontani dai luoghi d’aggregazione per non contaminarsi; non ce la fanno tutti a fare la vita che stanno facendo. In definitiva sono tutti, per usare il gergo dei giovani italiani, “presi male”, e in qualche modo contenti di mostrarcelo e cantar-
celo, con innegabile competenza e capacità di mezzi musicali e linguistici, finalizzata a convincerci che questa sia l’unica cosa che si possa ancora dire senza sembrare banali, quando in realtà, ormai, è stato banalizzato pure questo assunto, e da molto tempo fra l’altro.
Uscendo dal contesto musicale, occorre forse precisare che qui non si sta parlando di una specie di contrapposizione fra pessimisti ed ottimisti o fra illusi e disillusi: quello del disagio è un semplice esempio. Qui si sta parlando della facilità con cui un adolescente, oggi, può prendere una posizione e senza nemmeno accorgersene, se è in buona fede, farla diventare una posa, uno stilema, una forma di manierismo che può essere artistico, legato al gusto o esistenziale.
La moda della parola, allora, non si rivela poi così diversa da quella dell’abbigliamento, da quella della musica e di tutto il resto: si tratta sempre di un fenomeno che schiaccia il circostante, di qualcosa che impacchetta la volontà dell’individuo, soprattutto se esso non ha sviluppato i mezzi per porre una propria resistenza, che deve
Tutti amano i geni.
Nella vita reale, in letteratura, nelle serie tv, siamo tutti inesorabilmente attratti da quel personaggio che seppure spesso sia scorbutico, irrazionale, a volte persino incosciente, con un guizzo improvviso rende la realtà meno ordinaria, presenta punti di vista totalmente nuovi su un argomento, risolve problemi considerati insormontabili da noi comuni mortali.
essere fatta, presumibilmente, di coscienza critica.
Tornando infine al vero tema di questo articolo, una nota di costume, occorre dire che senza dubbio gli ultimi anni sono stati ricchi di disillusione e che hanno contribuito a creare il fenomeno di cui stiamo parlando; ma questa estetica del disagio può essere vista come una delle tante derive del nostro sistema d’informazione e comunicazione, sistema che fomenta la moda stessa, e della moda, qualunque essa sia, si nutre come una pianta carnivora, senza alcun interesse per ciò che essa può significare, ma solo per ciò che può veicolare in senso economico.
Anche il linguaggio viene usurato dal sistema in cui ci muoviamo: le parole sono sempre più simili agli oggetti, significano sempre meno. In questo processo che pare irreversibile, l’unica alternativa, l’unica forma di resistenza, sembra essere un quotidiano sforzo di peso delle parole e dei significati che esse veicolano, per non scivolare nel magma indistinto della comunicazione di massa, dove anche il disagio è diventato una moda estetica
Così eccoci là, trasportati nel vortice del suo magnetismo, del suo inusitato carisma, incapaci di uscirne, di disintossicarcene, come forse razionalmente vorremmo. E quindi ci ritroviamo relegati, come il naturale ordine delle cose impone, al vecchio e inflazionato ruolo della spalla, adoranti spettatori di qualcuno che riteniamo troppo superiore a noi per poter solo immaginare di porci al suo stesso livello. Ma è
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davvero un destino così infame?
C’è chi dice che la spalla sia una necessaria controparte del protagonista, senza la quale egli stesso non potrebbe esistere, o quantomeno sopravvivere, in un mondo che secondo la sua prospettiva “non è alla sua altezza” o “non è in grado di capirlo”.
In effetti, chi sarebbe Sherlock Holmes senza la spalla con la S maiuscola, il fido dottor Watson? Sempre un genio, senza dubbio, ma probabilmente sarebbe morto di overdose sulla sua poltrona del 221B Baker Street, pianto dalla sua landlady Mrs Hudson, ma sconosciuto al resto del mondo.
La spalla in molti casi fa da tramite tra la realtà del genio e la vita reale nel tentativo di farle combaciare e quindi di creare una versione del genio più “socialmente accettabile”. Ovvero più incline ad accettare quelle convenzioni che, sebbene percepite come irrazionali, gli permettono di coltivare le relazioni personali necessarie alla migliore (e più proficua!) espressione delle sue qualità.
Chi opera in questo modo è per esempio il colonnello Pickering, amico del signor Higgins nel Pygmalion di George Bernard Shaw. Higgins è un uomo che, sebbene intelligentissimo, è incapace di trattenere il suo tagliente sarcasmo e perciò spesso maltratta la sua cliente Eliza Doolittle, la quale si è rivolta a lui per imparare i modi di una lady dell’alta società. Essa è invece convinta a perseverare per raggiungere il suo obiettivo proprio dai modi da gentleman del non brillante ma empatico colonnello Pickering. Inoltre, la riluttanza del genio a entrare in contatto con la società si risolve spesso nella sua solitudine a livello affettivo, mentre la spalla, nonostante il rapporto
simbiotico e di adorazione che ha con la sua controparte, è quasi sempre coinvolta in una relazione sentimentale, a sottolineare il suo ruolo più “sociale”. Ne sanno qualcosa le numerose fidanzate di Watson, o le ben tre ex mogli del Dr Wilson (Dr House –Medical Division).
Ovviamente essere una spalla non porta solo vantaggi, anzi, ma spesso causa una buona dose di malcontento.
La spalla si trova infatti ad essere messa in ombra dal fuoco che il protagonista a tratti sprigiona, così forte da mettere in secondo piano la costanza di chi, negli anni, quel fuoco lo ha alimentato e protetto. Solo un tipo “umano” come il buon Samwise Gangee, ciecamente fedele al suo Padron Frodo, può restare immune da una naturale invidia, non certamente un rosso di temperamento e di chioma come Ronald Billius Weasley, spesso geloso delle glorie attribuite all’amico Harry Potter.
Se il rapporto del protagonista con il suo sidekick risulta complicato anche quando i due sono una coppia di amici, per di più personaggi di fantasia, molti più fattori sono da considerare quando questa dinamica compare in una relazione tra una coppia reale, anche legata sentimentalmente.
Essere il partner/spalla di un protagonista/genio che dir si voglia è complesso, a tratti estenuante, logorante, persino se si è un fine intellettuale di buona famiglia come Leonard Woolf, marito nonché editore della famosa scrittrice Virginia. Trattare con una genialità così estrema, totalizzante e disperata si rivela il viaggio di una vita intera (l’autobiografia di Woolf si chiama, appunto, The Journey). Il rapporto tra i due è analizzato, o per meglio dire ricostruito, da Michael Cunningham
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nel suo The Hours (1998), rifacimento in chiave moderna del celebre Mrs Dalloway della Woolf. Cunningham intreccia in esso il racconto del suicidio della scrittrice, la storia di Laura Brown, insoddisfatta moglie anni ’50 e quella di Clarissa, ex amante di Richard, un poeta ora malato di AIDS.
Proprio Clarissa, pensando al suo particolare rapporto con l’amore perduto a cui ha fatto e continua anche nei suoi ultimi giorni di vita a fare da “spalla”, durante una passeggiata a Central Park pronuncia la se-
Il giardiniere che cura i suoi fiori per anni si stupisce, ma non troppo, quando una mattina trova in mezzo ai gerani il bocciolo di una rosa selvatica. Prima o poi sarebbe successo, la successione ordinaria e testarda delle sue piante richiama infine il miracolo: l’ispirazione. Se Gabriel Garcia Marquez inventa Macondo, il villaggio al centro del suo romanzo Cent’anni di solitudine, e la favolosa storia dei Buendìa, questo è perché per tutta la sua vita osserva minuziosamente i dettagli del mondo che lo circonda cogliendone grandi e piccole cose. Così, dopo interminabili osservazioni della vita quotidiana, un giorno il nostro scrittore si sveglia, si alza e va in cucina a prepararsi un caffè; ma quando sta per berlo, ecco finalmente la folgorazione: un’Amaranta intenta a chiacchierare con Pietro Crespi nella veranda, o un colonnello Aureliano che disfa l’ennesimo pesciolino d’oro rinchiuso nella stanza di Melquiadès. Tutto questo, magari, avviene anche più di una volta e le tazzine si accumulano irrimediabilmente sul bancone della cucina.
guente frase: «In questi giorni si valutano le persone prima di tutto per la loro gentilezza e capacità di devozione. Ci si stanca, a volte, dell’acume e dell’intelligenza».
Una frase che è stata probabilmente coniata dall’autore per la sua aderenza con la storia dei coniugi Woolf, ma che sembra applicabile a quella di tante altre spalle, letterarie e non. E che, in fondo, rassicura quelle reali del fatto che i loro sforzi prima o poi saranno riconosciuti da chi di dovere
Un processo alla Sei personaggi in cerca d’autore, tanto per intenderci: l’improvviso picchiare del cuculo contro l’albero inerme di Marquez.
Ed ecco, allora, un libro che è a un tempo favola e manuale, i cui personaggi sembrano vivere di vita di propria. Nugoli di farfalle gialle, tappeti volanti e spiriti errabondi circondano un’enciclopedia umana di rara ricchezza, accentuandone, anziché annebbiare, grandezze e debolezze, ma soprattutto restituendone fedelmente ogni più piccola sfaccettatura. Se il punto cardine del romanzo può essere individuato nel nascere e nell’appassire di una stirpe segnata dal peccato originale di incesto, “nel mezzo c’è tutto il resto”, come direbbe Fabi, “e tutto il resto è – giorno dopo giorno – […] costruire”. Pars costruens e destruens dell’essere umano volteggiano in un romanzo che riproduce in una sintesi niente affatto riduttiva il corso intero della storia umana e della vita di ogni individuo: un’armonia di contrari che farebbe sognare Eraclito e soddisfa il botanico, la storia di
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un albero genealogico che racchiude in sé le foglie di tutti gli altri. L’energia esplosiva dei José Arcadio, la caparbietà taciturna degli Aureliano e il potere esoterico e di volta in volta peculiare delle donne di Cent’anni di solitudine si fondono in un’antologia di tipi umani che diventa erbario grazie a una penna che sa tratteggiare in ugual misura odori, suoni e colori dell’esistere: il lettore si addentra nei meandri di una casa dove il vero peccato, dopotutto, è l’impossibilità dell’uomo di condividere realmente la propria vita con qualcun altro. La solitudine è forse, per Marquez, lo stato primigenio e ultimo dell’uomo, qualcosa da cui né il progresso né l’ostinato ritorno a una vita primitiva possono salvarlo: è solo lo Jose Arcadio-albero, ormai incapace di comunicare con chi lo circonda, relegato in giardino; solo Aureliano Secondo, che divide la sua vita tra moglie e amante e vuole far studiare sua figlia a Bruxelles.
E il resto del villaggio? Macondo non può che piegarsi alle misteriose forze che dalla dimora dei Buendìa investono tutti gli altri cittadini: non a caso, i personaggi di rilievo esterni alla famiglia acquisiscono reale consistenza soltanto entrandone a far parte, e in maggioranza sono donne toccate dalla follia o dalla disgrazia che proprio per questo riescono a inserirsi nell’universo solitario della casa – un esempio su tutti: Rebeca, che si presenta alla porta di Jose Arcadio e Ursula con le ossa dei genitori in un sacco, orfana e divoratrice insaziabile di terra e calcinacci. I non-Buendìa – certo per volere dell’autore e non per sua dimenticanza – sono poco più che sagome ammiccanti o ignare rispetto alle insidiose leggi magiche di Macondo, demoni e ombre. In questo, forse, Marquez ha voluto che l’occhio del
lettore coincidesse con quello dei Buendìa nel non riuscire mai veramente a osservare con interesse l’evoluzione del villaggio: la famiglia è totalmente ripiegata su se stessa e sulla propria maledizione e chiunque provi a cercare legami esterni viene prontamente punito o riportato sulla “retta” via dagli altri membri, spesso in modo violento. La casa ariosa e piena di vita chiude un’imposta dopo l’altra, mano a mano che ogni legame con l’esterno diventa sempre più labile e difficoltoso.
Per Marquez – alla luce di queste considerazioni è facile supporlo – l’incesto è il metaforico sintomo di una solitudine che, più che stato psicologico e fisico, assume in questo romanzo i tratti di un’estenuante malattia degenerativa che induce l’uomo a risolversi soltanto in se stesso o in chi condivide il suo sangue (e pertanto è, in qualche modo, pur sempre parte di lui), regredendo a un claustrofobico sistema tribale in cui la famiglia è l’inizio e la fine dell’individuo.
Neanche il diluvio biblico che investe Macondo e prosegue per “quattro anni, undici mesi e due giorni” riesce a purificare una famiglia – tribù destinata allo smarrimento esistenziale a causa del suo rifiuto nei confronti della realtà extrafamiliare, ma soprattutto non vi riesce l’amore, quasi a dimostrare che il sentimento dell’uomo solitamente considerato come il più puro e incondizionato non è che un’illusione destinata a piegarsi su se stessa ai primi rintocchi del gelo. Così che alla fine, del meraviglioso Eden in cui si diffonde il seme dei Buendìa, rimane un bambino con coda di porco e un rotolo di pergamene profetiche ormai decifrate, pochi istanti prima che un uragano porti via ciò che resta di cent’anni di solitudine
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traduzioni
Poesia di E.E. Cummings, tratta da Complete Poems 1904-1962, edito da George J. Firmage. Traduzione di Anna Denaro.
love is more thicker than forget more thinner than recall more seldom than a wave is wet more frequent than to fail it is most mad and moonly and less it shall unbe than all the sea which only is deeper than the sea
love is less always than to win less never than alive less bigger than the least begin less littler than forgive it is most sane and sunly and more it cannot die than all the sky which only is higher than the sky
l’amare è molto più spesso del dimenticare molto più sottile del rievocare più raro di un’onda bagnata più frequente del fallire
è più pazzo e lunare e meno può non essere di tutto il mare che è più profondo solo del mare
l’amare è meno sempre del vincere meno mai della vita meno più grande del più piccolo inizio meno più piccolo del perdonare
è più sano e solare e più non può morire di tutto il cielo che è più alto solo del cielo
La sveglia sembra non suonare mai, ma quando finalmente squilla, Federica non è pronta ad alzarsi. Eppure è sveglia già da un pezzo, la penombra della camera la opprime… Perché adesso non vuole tirarsi su? Ha fatto un sogno orribile, che le è rimasto in testa a tratti: ricorda solo che c’era un serpente nero, arrotolato tre volte e mezzo sul fondo della sua colonna vertebrale.
Allo specchio, mentre si veste, si ferma ad osservare la sua pancia. È gonfia, o così le sembra. La tira, la pizzica, la carezza, la guarda prima davanti, poi a destra, poi a sinistra. Non sa più che cosa è il suo corpo, se le appartiene. Sabato sera è uscita a cena con delle colleghe – perché non le vede già a sufficienza in ufficio – e hanno mangiato una pizza. Federica ha ordinato una delle più caloriche e ha riso tutta la sera, fingendo di trovarsi perfettamente a suo agio, perché le stronze non devono sapere i fatti suoi. Ha mandato giù ogni boccone a fatica, con lunghe sorsate d’acqua, sentendosi sempre più gonfia e più tesa, col corpo che le scoppia nei vestiti, nella gonna stretta.
Il giorno dopo, domenica, ha bevuto tre litri d’acqua e un caffè doppio. Le parole “caffè doppio” la fanno sentire bene senza alcuna ragione, le fanno pensare ad una donna d’affari al bar: mentre nel suo caso si è trattato solo di bere tutto il contenuto di un caffettiera da due. Avrebbe voluto anche mangiare una scatoletta di tonno, ma dopo aver aperto la latta del paté del suo gatto, la somiglianza tra la consistenza, l’odore e l’im-
ballaggio dei due prodotti le ha tolto ogni traccia di fame. Nel digiuno c’è qualcosa di puro, di ascetico, che la fa sentire appagata. I suoi sono digiuni segreti, che non racconta a nessuno, nulla a che fare con i blateramenti isterici delle colleghe, pronte a buttare soldi e speranze in macchine per i centrifugati e barrette ipocaloriche. Quando le chiedono ragione della sua magrezza, con occhi da vampire, Federica sbotta: “Seguo la dieta del melone. Mangio tutto, tranne il melone!”. I suoi digiuni sono un fatto privato, che ha –così si dice – pochissimo a che fare col peso. Sono una prova della sua forza di volontà, un modo per forgiare il suo carattere. Sentire la pancia vuota, la sensazione di uno spago teso tra la gola e lo stomaco, il ronzio sulle tempie, le dicono che è pura, che è forte, che è tosta. Allo specchio, quella mattina, si scontra con il suo viso pallido, giallastro, con le tracce blu delle occhiaie. Tutto bene, niente a cui non possa porre rimedio. Sceglie una canzone dal suo telefono – il vecchio espediente per non sentire il rumore che fanno gli oggetti in casa quando sei solo – e apre la scatola con i trucchi. Scalda con le dita il correttore e lo stende nella zona d’ombra tra l’occhio e il naso. Ha dormito male e passato la domenica al computer, a lavorare da casa, ma non c’è nessun bisogno che altri lo sappiano. A questo scopo stende il fondotinta su tutta la pelle del viso – il suo fondotinta si chiama dress me perfect, dress me perfect è un suono così bello, bello come “caffè doppio”, e in effetti, forse, lo ha comprato solo per il nome – e ter-
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mina con il blush. Il blush, (o fard) è il tipico trucco che viene enormemente sottovalutato, perché se non lo sfumi bene sembri Heidi, con due bottoni fucsia sulle guance. Restano solo il mascara e il rossetto rosso. Da qualche parte Federica ha letto che ogni donna si merita un rossetto rosso: e anche se non sa bene cosa significhi, non se lo fa mancare. Ecco una ragazza stupenda che ha passato il week end a leggere riviste di moda sulla sdraio. C’è una vena che pulsa nella sua palpebra, il mal di testa batte il tempo ritmicamente sulle tempie, ma l’unica cosa che conta è che nessuno lo sappia.
Nello specchio, ora, Federica si riconosce. Così ogni mattina, con un preciso atto di volontà, mette al mondo la persona che vuole essere. Lei ha studiato legge e ora è finalmente diventata avvocato, dopo tante notti insonni sui libri e un lungo tirocinio di code negli uffici e cartelle da mettere in ordine alfabetico. Ma il titolo non è sufficiente, se non sai dimostrare quanto vali: con il lavoro, con lo studio, ma anche con l’aspetto. Chi si rivolge ad un legale cerca una persona che gli ispiri sicurezza, una guida di cui fidarsi. Perché la legge sarà pure uguale per tutti, ma è risaputo che il diritto è interpretabile e che un buon avvocato ti farà strada per una via lecita, certo, ma più furba. Per questo il suo mestiere è fatto anche di apparenze: gli uomini hanno una propria uniforme, la cravatta, il completo, i gemelli. Per le donne non è lo stesso, non ci sono elementi precisi dell’abbigliamento che possano distinguere Federica – giovane avvocato in carriera – da una segretaria o da una praticante. Ma lei non ha passato i suoi anni di tirocinio invano, e nelle lunghe, snervanti code in tribunale, con i talloni che urlavano e le punte dei piedi che dolevano, ha osservato tutti quelli che contano. I gesti,
il modo di tenere sollevato il collo, di portare la borsa, il tono di voce: c’è un modo giusto e uno sbagliato, c’è un atteggiamento che può far capire a tutti che sei una fuoriclasse. Per questo Federica cerca ogni giorno di essere la migliore, o per essere precisi, lei è la migliore, se lo ripete, lo ripete, lo ripete. Il suo corpo lo ripete. Il modo in cui accavalla le gambe lo ripete. Il sorriso, le guance color pesca, l’orologio costoso lo ripetono. Non vedete come faccio tutto con efficienza e senza fatica? Sono io l’avvocato per voi, sono la migliore, sono forte, sono tosta. Sono anche un po’ stronza, ma è giusto così non è vero? Così mi volete. La gente è stupida, sono tutti così ingenui, così passivi, credono a quello che gli ripeti, se gli dici ogni giorno che il burro d’arachidi Mc Collins è il migliore e che ne hanno bisogno per essere felici, lo compreranno. Per questo Federica deve ripetere ogni giorno ai suoi colleghi, ai suoi clienti, a chi la urta per la strada, a chi cerca di sorpassarla in coda al supermercato, che lei è la migliore, che conviene fare gioco di squadra e non farsela nemica. Per questo le sue colleghe non hanno simpatia per lei, ma la rispettano. Hanno smesso di origliare le sue telefonate dalla porta socchiusa, o di frugare tra le cartelle sulla sua scrivania quando non c’è. Sanno che anche lei, all’occorrenza, può giocare duro. E se la sera escono a prendere una pizza, la guardano con attenzione, in distanza, come se fosse un serpente, nero lucido e pericoloso. Quieto, avvolto su stesso, tre volte e mezzo. Ma guardingo e minaccioso.
Federica ha terminato di truccarsi e adesso sistema i capelli. Vanno portati raccolti, non sciolti, il raccolto è più professionale, più serio. Li acconcia con cura, studia un ciuffo che le ricade ad arte, un poco spettinato. Fissare tutto per bene, con tante piccole forcine,
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è un lavoro lungo, che va eseguito con precisione, con accortezza, e alla fine le braccia le fanno male, le sente pesantissime. Al contrario di quello che si crede, le forcine vanno utilizzate con la parte ondulata rivolta verso il basso, così terranno meglio tra i capelli. Si guarda ancora: tutto appare come deve, è perfetto. Eccola lì, la persona che vuole essere. Ma c’è un’incertezza, e Federica lo sente. In qualche punto nel nido di capelli qualcosa non tiene. Muove la testa, la scuote un poco, lo guarda crollare. Il raccolto non avrebbe tenuto, è tutto da rifare. Ha le braccia pesanti, si sta facendo tardi. Le forcine cadono nel lavandino sporco di sputi e schizzi verdi di dentifricio, compongono un disegno che non riesce ad interpretare, stanno lì a ricordarle i sogni che al mattino la spaventano, ma che non ricorda, le paure che non dice, gli imprevisti della vita che non riesce a controllare. È così faticoso fingere che tutto sia sempre perfetto. Una lacrima ha sciolto il fondotinta, i capelli sono un disastro, dovrà ricominciare da capo. Ma ce la farà, perché lei è pura, è forte, è tosta. La migliore
Il 7 maggio 2014 Yann Tiersen tenne un concerto sull’isola di Ouessant per presentare il suo nuovo album, Infinity. Il racconto che segue, firmato da Marco Lolli, raccoglie le sensazioni suscitate dall’atmosfera di quel concerto e fa parte di una più ampia serie di scritti che “prendono vita da ascolti musicali e ad essi si riferiscono”.
La battaglia è combattuta sulla costa dell’isola francese Ouessant, in uno spicchio di mare incastonato nell’alta Bretagna, dove una piccola truppa di uomini dà vita a questa storia avvincente. Da un lato c’è il mare con le sue correnti e i suoi venti, nella vastità del dominio della natura che abbraccia e protegge questa terra. Dall’altra gli uomini che con i loro pochi strumenti, costretti ad un allestimento povero ed esiguo, tentano di destreggiarsi in un braccio di mare impervio e pericoloso. Le loro gesta forgiano un mirabile spettacolo, nel quale è l’armonia a regnare sovrana e ogni elemento si camuffa e si mescola alla brezza gelida che imperversa sull’isola.
L’uomo si perde nella natura, ne nasce un’atmosfera fantastica che coinvolge fin dalle primissime note: i filamenti magici di ciascun strumento si intrecciano sapientemente con la vastità del paesaggio che li circonda. Si scorge in lontananza l’Ile de Oussant. Quando ne L’Arrivée sur l’île si viene trasportati sulle note dall’essenza celtica di un valzer mitigato, l’abito marinaresco del motivo non fa altro che confermare l’immediato approdo sull’isola, ma la natura che preserva questo lembo di terra non è per nulla docile e permissiva.
Ne La Noyée il riconoscibile cigolio di una panciuta imbarcazione in legno suona come
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la difficoltà e la tenacia necessarie ad aprirsi un varco nelle correnti del mare. La fisarmonica è la prima ad incoraggiare il vascello, sospingendolo con fermezza nella sua tratta. L’imbarcazione si trova in balia del mare, quasi sommersa sotto la schiuma delle onde, ed è la ciurma degli archi a giungere in soccorso, tanto da permettere alla fisarmonica di abbandonare la rotta indicata e lanciarsi in un assolo, che avviene sulla prua della nave dove si trova a mirare l’orizzonte. Oramai la nave ha preso velocità e il gruppo si stringe unito. Le Fromveur descrive bene quali siano le caratteristiche del luogo, la cui magnificenza risiede in un carattere grezzo, per nulla sottomesso. Il suono metallico dei violini rappresenta una sensazione di brezza gelida che taglia come lama sul viso. Catapultati in questo mare impervio e caratterizzato dalle forti correnti, si ode in lontananza lo scricchiolio di piccoli vascelli in legno e il fischio delle sirene di imponenti imbarcazioni, quasi come se non si fosse più soli
YASMINE INCRETOLLI MESCOLO TUTTO (TUNUÈ, 2016) di Amelia Moro
recensioni
Yasmin Incretolli è un’autrice giovanissima (classe 1994) e con il suo romanzo d’esordio, Mescolo tutto, ha ottenuto una menzione speciale al Premio Italo Calvino. Si tratta dell’ottavo titolo uscito per la collana di romanzi targata Tunué, casa editrice tra le più citate del momento grazie alla qualità e all’originalità delle sue pubblicazioni (una su tutte: Dalle rovine di Luciano Funetta, che è stato in lizza per il Premio Strega).
Il titolo con cui il romanzo era stato presentato al Calvino, Ultrantropo(rno)morfismo, è stato successivamente sostituito da una citazione dell’artista Gina Pane: Io mescolo tutto è infatti il nome di una famosa performance in cui la donna incideva il proprio corpo con un rasoio. Maria, la protagonista dell’opera, è un’adolescente che si sente prigioniera di un mondo soffocante, prevedibile e squallido. Solo il dolore fisico sembra restituirle una forma di controllo sulla propria vita, perché nel momento in cui incide la propria pelle con una lama affilata il malessere del corpo sovrasta e placa quello della mente. L’unico che riesce a penetrare nell’isolamento di Maria è Chus, compagno di classe con svariate forme di parafilia. Entrambi preda di pulsioni non accettate dalla società, incompresi ed isolati, i due adolescenti trovano nella propria storia d’amore un riparo dalla solitudine che si trasforma però in una nuova ossessione. L’autrice gioca con uno stile estremamente personale, che “mescola tutto”, ricercando un forte contrasto dato dagli accostamenti fra toni alti e toni bassi, affiancando al turpiloquio, allo slang, al dialetto, vocaboli desueti e letterari, termini specialistici,
neologismi. La frase si caratterizza per l’ampio uso di attributi, apposizioni e participi, con una netta prevalenza della subordinazione implicita su quella esplicita: ne risulta una scrittura fortemente espressiva, nervosa, che raggiunge a volte momenti di grande efficacia ma che in altre ricade in uno stile eccessivamente compiaciuto, quasi stucchevole.
Maria non è semplicemente la protagonista della storia, ma, nella finzione letteraria, è l’autrice del romanzo che racconta del suo primo amore adolescenziale. Dunque questo linguaggio è il suo linguaggio, il suo peculiare modo di esprimersi. Così lei si racconta ai lettori, attraverso la scrittura, e così lei parla ai personaggi del libro, generando nei propri interlocutori divertimento, sconcerto o fastidio, attraverso dialoghi in cui si alternano il linguaggio iperletterario di Maria e quello banale e quotidiano delle persone che la circondano.
Le parole di Maria plasmano un mondo a propria immagine e somiglianza, un mondo di contrasti e forti chiaroscuri. Poiché è lei stessa a raccontarci le proprie vicende, noi le vediamo attraverso i suoi occhi, come attraverso un vetro deformante, dal momento che la ragazza proietta le sue stesse ossessioni su tutto ciò che vede.
In tutti coloro che incontra Maria vede sesso, violenza, paura: dai passeggeri di un treno ai passanti per strada. Ciò talvolta avviene a discapito dell’approfondimento dei personaggi che risultano spesso piatti e poco approfonditi, quasi macchiettistici (come la madre egoista, che culmina una lunga lista di malefatte con la suprema nefandezza di vendere i libri di Maria – per ottenerne poi chissà quale lauto guadagno
– e che quando la figlia scappa di casa per settimane accetta la cosa con filosofica rassegnazione, se non con totale disinteresse).
Il romanzo alterna due ambientazioni dai toni a contrasto: il quartiere povero e grigio di Maria, teatro dell’amore con Chus; e la zona “bene” dove la protagonista conosce dei ragazzi ricchi e viziati che la introducono nel loro gruppo. In realtà la differenza è solo apparente perché da una parte come dall’altra a dominare è lo stesso vuoto, la stessa vertigine colmata con forme diverse di stordimento e di eccesso (e poca conta che da un lato ci siano borchie e catene, dall’altro pellicce, abiti firmati e tofu). L’autrice tocca con questo romanzo un “nervo scoperto” della nostra società: il rapporto esasperato con il corpo, alla cui origine c’è un malessere interiore nebuloso, dalle cause imprecise anche per chi lo prova, eppure così soffocante da dover essere sfogato fisicamente, imponendo e imponendosi sofferenza (in questo romanzo sono prese ad esempio le parafilie e l’autolesionismo, ma ci sono anche altre forme, come quelle legate ai disturbi alimentari).
Mescolo tutto non si propone però come obiettivo di affondare le mani in questo malessere, di cercarne le cause, di proporre un’analisi, e prende invece un’altra via: i personaggi talvolta eccessivamente stereotipati (i modi viscidi del patrigno; l’edonismo esasperato di Margherita e dei suoi amici), alcune scene barocche ed estremizzate (come la climax di eccesso della grande festa, che culmina con un improvviso incendio) fanno piuttosto virare la narrazione verso i toni di una “favola nera” con ambientazione metropolitana
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