Fischi di carta 40 (10/2016)

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Gratuita Genova

Fischi di carta

L’affronterei a ventura, anche se il suo fiato mandasse fuoco come feroce dragone. Wolfram von Eschenbach, Parzival

pag. 2 | Editoriale – A. Moro 3 | Poesie – F. Ghillino, E. Pon

Planetario autori – L. Calpurni

| Le poesie dei lettori – L. Ruslan

| Elementi riflessioni – F. Asborno

| Migrazioni traduzioni – M. Brancaleoni

| Prossa nova racconti – M. Valentini

| Prossa dei lettori – E. Giomi 18 | Infischiatene recensioni – I. Buselli

www.fischidicarta.it
Ottobre 2016
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EDITORIALE

SO DI NON SAPERE

di Amelia Moro

Sarà capitato a tutti di trovarsi in imbarazzo quando, durante una conversazione, viene affrontato un argomento che non conosciamo o sentiamo una parola di cui ci sfugge il significato. Io di solito mi esibisco in un sorriso stiracchiato e in vigorosi cenni assertivi della testa, sperando soltanto che si passi oltre. C’è chi, invece, tenta di travolgere l’interlocutore con una sassaiola di altri spunti di conversazione, per far decadere l’argomento sgradito: “Ma tu sai che vuol dire anodino?” “Sì be’ certo, ma piuttosto, hai sentito che Kim Kardashian…”. Un’altra tecnica, arditissima, consiste nel fingere di aver capito, e di più, sfoggiare con noncuranza il termine ignoto: “Ma tu sai che vuol dire anodino?” “E come no! Tra l’altro, sai, quel cappotto che hai addosso, è incredibilmente anodino. Dico davvero.”

Alcuni cadono preda di un sordo livore nei confronti dell’interlocutore-avversario: “Ti piace Balzac? Io lo adoro! Tu cosa hai letto di suo?” “Niente. Io non ho letto niente di Balzac. A me piace Anacreonte. Come? Non lo conosci? Malissimo!”

Ma perché poi dovremmo sentirci a disagio se non sappiamo una parola, o un argomento? Perché si fa fatica a dire: “Non ho letto niente di Balzac, me ne parli?”. Spesso ci sentiamo giudicati, o in competizione, mentre chi ci sta parlando non è affatto lì per segnare un voto su un registro o per coglierci impreparati, ma semplicemente per il piacere di discutere con noi. Proviamo a ribaltare la situazione: se qualcuno ci chiedesse delucidazioni o consigli sul nostro scrittore preferito saremmo irritati e delusi oppure ci farebbe piacere? Certo, ci sono anche persone dal fiero cipiglio che reagiscono così: “Come non hai letto nulla di Henry James?! L’Assoluto, l’Eccelso, e tu non l’hai neppure sentito nominare?” per fortuna, però, si tratta di una ristretta minoranza e, oltretutto, sono in genere i più insicuri tra tutti. Rassereniamoci: non leggeremo mai tutti i libri del mondo. E nessun altro potrà farlo. Per cui non è il caso di sentirsi inferiori o superiori a nessuno: siamo solo persone con delle conoscenze e delle passioni, e la cosa più bella che possiamo fare è parlarne, scriverne, condividerle, imparare dagli altri. Per cui adesso mettiamoci tutti allo specchio e poi diciamo ad alta voce: “So di non sapere”. Sentirete che bella sensazione di leggerezza

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I DRAGHI

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Una vetta. Dal fondovalle non potevo altro che salire. Mi avevano detto dei draghi, ma continuavano a sfuggirmi nella quantità dei dettagli e in ciò che c’è d’inaspettato. Erano una mimesi esatta con lo sfondo, la narrazione fatta di fatti non poteva, però, trascurarne l’irruenza. D’un tratto li scorsi in quest’ordine: il lacustre, il terragno, l’aereo, il minerale col roccioso, e l’arboreo. L’unico modo per distinguerli, dalla vetta, era cercarmi dentro gli occhi per poi vedere meglio intorno. A quel punto, io, ebbi paura: mi ero finto guerriero, mago, astuto manipolatore, ma ero sfinito e disarmato. Ero uno, solo, e solo uno. Sondandoli li riconobbi tutti come parti di me: non erano ostili, potevo provare a capirli ma c’era dell’incomprensibile, dato dal beneficio dell’altezza. Fossero somma nel mio cuore sarei un rifulgere di fiamma inarrestabile, ma stanno fuori: animali impossibili da domare, come le cose. Non lo so fare, niente più. Hanno negli occhi quel riflesso da cui si può scorgere il resto, e quindi ci provo, mi vedo in loro e nel complesso colgo la vertigine della vetta: la mia natura di sconcerto.

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MIAGIA di Emanuele Pon

Qualche targa annerita, il guano secco di qualche gabbiano: a l'è sempre a miagia do vento, ghe coa in scio fondo o bronzin vegio do tempo1 .

Passo la piazza di sempre con volti di sempre e di oggi: è solo il barista, sorride a veder gente, di gioia generica – «quanti ne vedo come voi, ne ho visti», è simmetria bonaria il suo chiedere della vita, se siamo turisti; ne ha visti tanti passare, tanti che adesso è di nebbia l’ordine di tutti quei loro che noi siamo stati, il ritmo dei volti appiccicati ai suoi muri – sulla miagia pezzi scalcinati.

Sbiadiscono solo per gioco i colori alle foto scattate per l’uso quotidiano – dare un poi sempre ad ogni prima, girare le pagine ingiallite di un diario –per gioco se basta appoggiarsi al muro e lì scorrere dopo l’ora di chiusura

il dito sullo schermo, gli istanti digitali vibrano onde lunghe da discernere a gocce o a fiotti, tutte uguali nel ricordo nel commento nel «mio dio! Il tempo che è passato!», nell’affacciarsi di tutto il nostro tempo nel pettegolìo.

Ed è naturale che uno alzi gli occhi a farsi scandire – sicuro – da un sole che sghignazza – lo sento – dietro il muro; l’orologio sulla pietra suona quanto vuole, ma il tempo non importa in questo magma scheggiato di passato, presente, parole: resta soltanto da assorbirne il marasma.

Qualche targa annerita, il guano secco di qualche gabbiano: a l'è sempre a miagia do vento, ghe coa in scio fondo o bronzin vegio do tempo.

1 Dialetto genovese: «È pur sempre il muro del vento, / ci cola sul fondo il rubinetto / vecchio del tempo».

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PLANETARIO

SEAMUS HEANEY

CON LA

Seamus Heaney, poeta irlandese di lingua inglese, è una voce profonda nella poesia della seconda metà del Novecento. Heaney nasce nel 1937, trascorrendo l’infanzia a contatto con la vita contadina dell’Ulster. I primi studi letterari lo portano ad ispirarsi alla poesia inglese di Keats e Hopkins. Dopo la laurea in letteratura alterna il mestiere di insegnante alla pubblicazione delle sue raccolte poetiche. La cultura classica e il folklore irlandese si intrinsecano nei suoi testi, trattenendo profonde radici che plasmano corpi, soggetti e parole. La ricerca poetica parte quindi dal fondo di ogni cosa, dal suo significato primordiale.

Esiste una forza tutta naturale e originale che traduce le sensazioni in fisicità; i versi sono costruiti tramite l’uso di un lessico essenziale nella sua eleganza. L’interesse di Heaney sta nel trarre argomentazioni da storie che si perdono nel mito o nella più profonda oscurità della terra, dando loro un significato storico e culturale. Il poeta ricava esperienza dal quotidiano, dalle emozioni più insignificanti raggiungendo scenari fortemente energetici, la sua penna diventa uno strumento non più solo fisico, tutt’altro. È l’allegoria dell’a-

ratro. Come si traccia il terreno, così si plasma la parola. Non esiste retorica, solo un rapporto saldo tra natura e parola e tra parola e vita dove gli oggetti, i suoni, la stessa esistenza si fondono con la terra, il concreto genera l’astratto e dall’astratto ci si volge alla storia, al mondo. In Crossing, la figura del contadino irlandese, simbolo terreno, diventa un tramite, viene eretto a divinità classica nel suo sincretismo che si perde nel tempo. Il bastone di frassino, oltre ad un riferimento al Ritratto di un artista da giovane di Joyce, è anche il simbolo della guida tra due mondi, tra i vivi e i morti, tra il significante e il significato.

Continui sono i riferimenti ad autori come Joyce e Yeats, ma senza accostarvisi, lasciando segni e simboli allegorici persi tra le liriche. Il poeta compie un’indagine infinita, nella sua intera opera, con irrequietezza ed eleganza sposta le riflessioni sulle identità degli uomini e delle loro storie, intravvedendovi una dimensione di assolutezza quasi mistica. Heaney è scomparso a Dublino il 30 agosto 2013 dopo aver dedicato la vita all’isegnamento e alla scrittura, ricevendo per questo, nel 1995, il Premio Nobel per la letteratura.

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ATTRAVERSANDO di Seamus Heaney

Tutto scorre. Anche in un uomo solido, pilastro di sé e del proprio mestiere, con tanto di scarponi gialli, bastone, feltro floscio in testa, possono spuntare le ali ai piedi e farlo lesto, come un dio da fiera, da erma, bivio o stradone, patrono di viandanti e psicopompo.

“Sul battello cerca uno col bastone di frassino”, disse mio padre a sua sorella che partiva per Londra, “stagli vicino tutta la notte e sarai in salvo”. Che scorra, scorra pure il viaggio dell’anima con la sua guida, ed i misteri di intermediari col bastone!

SCAVANDO di Seamus Heaney

Tra il mio pollice e l’indice sta la comoda penna, salda come una rivoltella. Sotto la finestra, un suono chiaro e graffiante all’affondare della vanga nel terreno ghiaioso: è mio padre che scava. Guardo dabbasso finché la sua schiena piegata tra le aiuole non si china e si rialza come vent’anni fa ritmicamente tra i solchi di patate dove andava scavando.

Con lo stivale tozzo accoccolato sulla staffa, il manico contro l’interno del ginocchio sollevato con fermezza, sradicava alte cime e affondava la lama splendente per dissotterrare le patate novelle che noi raccoglievamo amandone tra le mani la fresca durezza. Il mio vecchio potrebbe impugnare una vanga presso Dio, proprio come il suo vecchio.

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Mio nonno estraeva più torba in un giorno di qualsiasi altro uomo su, alla palude Toner. Una volta gli portai del latte in una bottiglia turata alla meglio con un pezzo di carta. Si raddrizzò e lo bevve, poi subito riprese a lavorare intaccando e dividendo, mentre con piote sulle spalle andava sempre più a fondo in cerca di buona torba. Scavando.

L’odore freddo dei solchi di patate, il tonfo e lo schiaffo dell’umida torba, i tagli netti di una lama tra le radici vive si destano nella mia memoria. Ma non ho una vanga per succedere a uomini come loro. Tra il mio pollice e l’indice sta comoda la penna. Scaverò con quella.

CHANSON D’AVENTURE di Seamus Heaney

Fissato a strap, scarrellato, sollevato, bloccato in posizione per il trasporto, scosso d’ossa, sbatacchiato per la velocità. L’infermiera un passeggero davanti, tu installata nel suo posto d’angolo, libero, io, disteso piatto –le nostre posture immutate per tutto il viaggio, detto tutto e niente, veloci i raggi dei nostri occhi fili di laser, nessun trasporto simile a quello sino ad allora, nel freddo assolato di un’ambulanza una domenica mattina quando avremmo potuto, amore mio, citare Donne sull’amore sospeso, cuore e anima divisi.

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SCHIERANDOSI di Seamus Heaney

Il peso da 56 libbre. Solida unità di ferro della negazione; marchiata e fusa con un tramezzo, una corta traversa forgiata per maniglia, spessa come un piolo, peso squadrato dall’aspetto innocuo, finché non provi a sollevarlo, quindi uno scricchiolio d’ossa, forza disintegra-vita.

Nera scatola di gravità, l’inamovibile stampo, tarchiata radice del peso morto. Eppure prova a controbilanciarlo con un altro peso posto su una basculla – una basculla ben calibrata, oleata di fresco –e ogni cosa trema, si effonde di dare e avere.

*

E a questo ammontano le buone notizie: questo principio del sopportare, del far buon viso a cattivo gioco e dare il proprio appoggio dovendo solo controbilanciare con il proprio ciò che è intollerabile negli altri, dovendo sopportare qualsiasi cosa sia stata concordata e accettata contro il nostro migliore giudizio. La sofferenza passiva fa andare in tondo il mondo. Pace sulla terra, uomini di buona volontà, tutto ciò porta bene finché l’equilibrio tiene, il piatto sorge fermo e lo sforzo dell’angelo si prolunga fino a un grado sovrumano.

* Rifiutare l’altra guancia, lanciare la pietra, non agire così, alle volte, non contrastare

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l’adempiente che ti offende d’essere

è fallire il colpo, te stesso, la regola intrinseca. Maledici chi ti ha colpito! Quando i soldati beffeggiarono Gesù bendato ed Egli, a sua volta, non li irrise non si offesero né impararono nulla, tuttavia qualcosa fu reso manifesto – il potere del potere non esercitato, della speranza intuita

dagli impotenti, per sempre! Tuttavia, per Cristo, fammi un favore, almeno per questa volta: maledici, dai scandalo, lancia la pietra.

* Due aspetti in ogni questione, certo, certo… ma ogni tanto, schierarsi è la sola cosa a cui si può ricorrere e senza discolparsi o compatirsi. Ahimè, una sera che ci voleva un colpo a seguire, e un colpo secco t’avrebbe fatto rodere d’invidia, replicasti ch’era la mia limitatezza a mantenermi destro, e avesti una mia prima resa. Mi trattenni quando avrei dovuto invece darci dentro e persi (mea culpa) il mordente. Una cavalleria del tutto fuori luogo, vecchio mio. A questo punto, solo un colpo basso lava l’onta.

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LE POESIE DEI LETTORI

Lyakh Ruslan si presenta così: «Sono venuto a vivere in Italia, nella città di Genova, quando avevo diciassette anni, nell’anno 2007. Paradossalmente, avendo studiato al liceo scientifico, sono rimasto colpito dalle lezioni dell’italiano. Così la poesia entrò nella mia vita e da quei giorni in poi non ho smesso di scrivere.»

LA NOTTE STRANA E MI ACCORGO di Lyakh Ruslan

E sono in mezzo a leggerezza del tenero immaginare della brezza di oltre confini dei mari, ove mi sognano i briosi faro lontani… Catene slacciate, la cella scampata… Crepare da anni non ha più importanza!

In mezzo ai sogni di un me sconosciuto io rimango

fedele a te, pur sempre perduta. Gli schizzi curiosi, singhiozzi notturni… Le rondini sono sempre amiche e sono, ahimè, in cielo.

Galleggiano strofe su creste di onde… L’amore s’appresta nel viaggio da dove non si ritorna.

E sono in mezzo a timidezza del cuore mio

inutile grezzo, degli sguardi mai più così cari… Mi svegliano strane le luci appassite dei falò lontani.

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ELEMENTI

riflessioni

PETER SHILTON E IL RACCONTO DELLO SPORT di Federico Asborno

Jesse Owens che nel 1936 a Berlino vince i cento metri davanti al palmo di naso di Hitler, i calzettoni arrotolati di Rivera mentre butta dentro il 4 a 3 con la Germania Ovest allo stadio Azteca, la nuvola di polvere e pietrisco che Valentino Rossi si lascia dietro mentre supera Stoner al cavatappi della Laguna Seca, gli occhi folli e l’urlo primordiale di Marco Tardelli al Bernabeu. Così come in quella letteraria, il racconto dell’epopea sportiva si impreziosisce tramite quei momenti, sublimazioni di dettagli e personaggi così cruciali da diventare veri e propri spartiacque, attimi cristallizzatisi in icone. Laddove però esiste il gesto tecnico – la punizione contro le leggi della fisica di Roberto Carlos – esiste chi al gesto tecnico deve arrendersi, il portiere Barthez.

Da un’altra parte del mondo, in un altro tempo Peter Shilton era un buon portiere, non uno di quelli che è riuscito a imprimere la sua manualità nella categoria ontologica dell’estremo difensore, ma rimane comunque il recordman di presenze della nazionale inglese, mantenendo inviolata la porta dei leoni d’Inghilterra per ben dieci partite della fase finale di vari mondiali. Eppure Peter Shilton nessuno oggi se lo ricorda se non per due singoli gol subiti, due gol molto diversi, segnati dallo stesso

giocatore nella stessa maledetta partita. Siamo allo stadio Azteca – siamo sempre allo stadio Azteca, quando il metronomo della storia del calcio perde il ritmo e si verificano le meraviglie –ci sono più di trenta gradi, il muro di Berlino scricchiola, ma è ancora in piedi, perché è solo il 1986. “El diez” Diego Armando Maradona è in campo e, palla al piede, si accinge a erigere il Limes tra ciò che è solo un quarto di finale dei Mondiali e quella che sta diventando uno dei momenti più iconici del XX secolo. Al di là del Limes, dove tutto è mistero e ignoto, c’è lui, con quella maglia a strisce bianche e azzurre, al di qua ci sono gli inglesi, i suoi compagni di squadra, tutti gli Antonio Salieri, tutti i normali che non riescono a conquistare quel famoso centimetro decantato da Al Pacino in Ogni maledetta domenica, tutti coloro che devono restare legati alla loro gretta materia imperfetta.

Perché però si sceglie di raccontare l’ordinario quando esiste lo straordinario? Perché raccontare Shilton se abbiamo Maradona?

Assolutamente contraria, se vogliamo porle a confronto, alla dottrina dannunziana, esiste la famosa “Prospettiva del dottor Watson”: prendo un personaggio come tanti e lo piazzo insieme a una personalità fuori dal

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comune, eccentrica e mai comprensibile fino in fondo. In narratologia si chiama “narratore omodiegetico”: l’autore decide di assumere come voce narrante non l’Andrea Sperelli di turno, ma uno degli spettatori che assistono alla scena madre (Peter Shilton che assiste impotente alla discesa di Maradona) perché per il lettore è più semplice empatizzare con il dottor Watson che con Sherlock Holmes. Raccontare Maradona è molto più semplice se sfrutti come punto d’appoggio il buon Peter Shilton, perché Peter Shilton – pur essendo un portiere di calibro internazionale – vede l’argentino come potremmo vederlo esattamente noi: un extraterrestre, Achille re dei Mirmidoni.

Ecco, ciò dimostra che a volte nello sport è più questione di come la si racconta che di come è avvenuta, una questione di prospettiva. Prendiamo la narrazione sportiva americana: Jorge Luis Borges dice che i nordamericani, non avendo una propria epica storica, riversano l’atavico bisogno di storie nel racconto e nell’esaltazione dello sport e dei suoi personaggi. Un’epica sportiva che cristallizza e storicizza il gesto del campione, tramutandolo in qualcosa di simile alla lancia di Diomede, all’epica: il tiro da tre di Michael Jordan è assimilabile così alla freccia di Paride, Foreman-Alì è il nuovo duello tra Ettore e Achille, la mazza di Joe DiMaggio è la clava di Eracle. Questo modo di raccontare lo sport crea un meraviglioso cortocircuito tra ciò che è avvenuto da (relativamente) poco e ciò che viene narrato alla stregua dei poemi omerici.

Il racconto dello sport di noi italiani, e quindi stiamo parlando quasi esclusivamente del racconto del calcio, dal momento che siamo piuttosto antidemocratici in questo, si è mosso verso un tipo di narrazione come quella realizzata dagli americani e teorizzata da Borges. Un esempio su tutti è il giornalista/onomaturgo Gianni Brera (1919-1992) che, ad esempio, paragonò il ritorno all’Inter di Helenio Herrera al dietrofront di Achille sulla decisione di restituire il corpo di Ettore a Priamo.

La radio e la stampa, non coadiuvate dall’ausilio dell’immagine come la televisione, hanno rimodulato il racconto del calcio verso un tipo di narrazione non più solo descrittiva. Oggi il bravo commentatore dev’essere un grande narratore e intrattenitore. Di qui si spiega il successo, straripante e meritatissimo, di un meraviglioso aedo come Buffa.

Federico Buffa incarna, oggi in Italia, il concetto di moderno narratore dello sport: un narratore che prende lo sport come Macguffin per raccontare un’epoca, dei personaggi, delle storie che possano andare a genio anche a chi non si nutre solo di sport nudo e crudo. I racconti di Buffa, così come il programma RAI “Sfide”, riavvicinano all’epica perché sono epica: la trasfigurazione dei campioni e dei loro gesti è pressoché totale. Un gol, una partita, un palo al novantesimo, tutto può diventare simbolo e spiegazione di un’era dell’uomo, di un fatto storico. Prendiamo le Storie Mondiali: Buffa ci racconta dieci edizioni dei campionati mondiali di calcio (1930, 1950, 1966,

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1970, 1974, 1982, 1986, 1990, 1994, 1998), ma non lo fa nello stile di quel Nick Hornby che in Febbre a 90° ci racconta di un protagonista che vive la sua vita adattando il proprio battito cardiaco a quello della sua squadra del cuore, l’Arsenal. Buffa adotta uno stile molto vicino a quello di Omero: sorvola il corpus delle sue storie decidendo se, come e quando planare in picchiata per approfondirne un aspetto. La vera genialità e il vero interesse sta nel modo in cui il narratore riesce sempre a spiazzare il lettore/spettatore, introducendolo agli eventi più noti sempre tramite la porta di servizio: nelle storie del narratore di Sky, chi ascolta viene sempre fatto entrare da dietro le quinte, lì dove gli attori sono più vicini, dove il contatto con la storia, ma anche con la finzione che è la storia, è più stretto.

Buffa riesce a scandire il suo racconto grazie alla perfetta padronanza del ritmo, dell’andamento, della gestione dei personaggi, creando costantemente strutture circolari in cui i dettagli non sono mai superflui. Come diceva Cechov «Se nel primo capitolo dici che c’è un fucile appeso al muro, nel secondo o terzo capitolo devi assolutamente farlo sparare. Se il fucile non viene usato, non dovrebbe neanche starsene lì appeso». Ecco, i fucili che Buffa appende ai muri sparano tutti quanti

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MIGRAZIONI

traduzioni

Adrian C. Louis, scrittore statunitense per metà indiano, è scrittore, giornalista e insegnante. La seguente poesia è tratta da Among the Dog Easter (1992). Traduzione di Maurizio Brancaleoni.

THIS IS NO MOVIE OF NOBLE SAVAGES

Born of trees whose timeless atoms carried on their savage act of indolence in annual assault of leaves upon the earth while their branches felt up the sky where the white man’s God lives, this paper holding these petroglyphs is neither apology nor legacy but a wanted poster.

Now, dauntless before Dante’s nocturnal emissions of visions of Hell I curse God and weep because some creeps crept through the back window and carried away my typewriter while we were at the wake. When I find them, they will bleed broken English from shattered mouths and my fists will sing songs of forgiveness, unless of course they’re my in-laws.

QUESTO NON È UN FILM DI NOBILI SELVAGGI

Nata da alberi i cui atomi senza tempo hanno portato avanti il loro selvaggio atto d’indolenza nell’annuale assalto delle foglie alla terra mentre i loro rami palpavano il cielo dove il Dio dell’uomo bianco vive, questa carta contenente questi petroglifi non è apologia né lascito bensì un manifesto con scritto ‘Wanted’.

Ora, impavido dinanzi alle emissioni notturne di Dante di visioni dell’Inferno maledico Dio e piango perché certi vermi si sono intrufolati strisciando dalla finestra sul retro e si sono portati via la mia macchina da scrivere mentre eravamo alla veglia. Quando li troverò, sanguineranno inglese stentato dalle bocche spaccate e i miei pugni canteranno canzoni di perdono, sempre che naturalmente non siano stati i miei parenti acquisiti.

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PROSSA NOVA

LE PEONIE DOVRANNO PUR SIGNIFICARE QUALCOSA

(apre la porta di casa a piedi scalzi. Si è appena coricata e poi alzata dal letto. Ha sciolto i capelli raccolti sulla zona parietale. Ora scendono fino a quelle che dovrebbero essere, partendo dall’alto, le sue prime vertebre lombari, gonfi e caldi, forse anche sporchi di qualche giorno)

. Mi sono innamorato di te . Miche

. Ti ho scritto di aver dimenticato una cosa, è questa . Michele

? Forse l’hai pure cercata, mi spiace. Cosa pensavi che fosse . No, ero a letto . Giusto. Carino il pigiama (stira le labbra, tira fuori l’aria dal naso e fa un verso simile a quello degli ossi sonori per cani, perché ha il naso intasato dal muco: anche se è agosto, lei sente freddo, e a letto indossa una felpa e un paio di pantaloni verdi con le toppe finte sulle ginocchia. Sostiene di essere gracile e che da lei ci siano almeno due gradi di meno che nel resto del mondo)

. Perché me lo dici? Mi piace vederti, parlare. Però . Giustificazioni no, ti prego . Sono fidanzata. È già tanto se usciamo così

. Capisco. Non mi basta . Non so se possiamo più vederci (a entrambi sembra appropriata una pausa)

. Ci sono cascato come un pero

. Una pera . Una pera, sì

? E ora

. Pera pere peri pero Perù

. Non fare il bambino, per favore . Bah. Succeda quel che deve

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racconti

. Peccato, davvero. Mi intristisci

. …

(lei sospira e si china a sedere sul gradino di marmo tra il dentro ed il fuori. Prima però cerca uno straccio, per non poggiare la pelle nuda e brunita dei piedi sullo zerbino. Le unghie dei suoi alluci sembrano cammei, sono pallide e ovali, con la pelle tutta intorno)

? A che pensi

. En el Futuro

! Sul serio, per favore

. A una cosa che dice Brett… Brett… Il cognome adesso non lo ricordo. È in Fiesta. È una cosa che dice Brett a Jake, il suo amore castrato, che le consiglia di non innamorarsi di Romero il toreador. Gli dice: «Non posso farci niente. Non sono mai stata capace di farci niente.»

. Vorrei che tu sapessi, comunque, che sono felice di averlo saputo

. ¿Qué? Pobre Oronoko, pobre

. Che sei innamorato di me, tonto. Fa freddissimo

. Ma non ho voglia di entrare in casa, meglio di no. Preferisco una situazione liminare

. È stato un bel gesto

. Vedi: tu, seduta sull’ultimo gradino, non vuoi uscire; io, in piedi sul pianerottolo, non posso entrare. Non è proprio un pianerottolo, questo – che parola buffa pianerottolo. Pia-ne-rot-to-lo. Questa è una casa indipendente e io sono… sulla passerella che collega il giardino alla porta. Passerella è veramente un termine insipido. Mi ricorda uno stabilimento balneare. Disimpegno. Sì, questo è un disimpegno. Senti come suona elegante e raffinato

. Hai capito che sono una persona schietta e che mi servono gli amici onesti

. Quello della soglia, tra l’altro, è un tema di lunghissimo corso all’interno del teatro occidentale

? Da ora in avanti il nostro rapporto sarà più maturo. Consapevolmente squilibrato. Esiste, d’altronde, un rapporto che sia equilibrato

. Dall’Elena a Macbeth, ti assicuro, una proliferazione immensa

. Dopo stasera potresti immaginare di suicidarti, o di avere un tremendo incidente. Io lo faccio, a volte

. Macbeth e signora si fissano le mani piene del sangue di re Duncan e, siamo nel cuore della notte, qualcuno bussa al loro portone

. Ma ti salveresti e poi in sala operatoria urleresti il mio nome, con i tendini sul collo alti un dito. L’ospedale sarebbe costretto a chiamarmi a casa per farmi venire di corsa. Oppure addirittura mandarmi un taxi

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. Loro ovviamente non rispondono, anzi precipitano verso la propria camera da letto, infilandosi nelle vestaglie

. Io passerei davanti a tutti in pigiama – con questo, magari – o in abito da sera –sarei a una festa aziendale, di quelle noiose –. Chissà la mia faccia

. La porta continua a tuonare fino a che non la apre il portiere, ubriaco

. Una faccia preoccupata, o forse di più: angosciata, tormentata. Senza lacrime però

. E qui sta la grandezza, perché Shakespeare capisce che dopo streghe, battaglie, tempeste e pugnali, il pubblico non ne può più, vuole ridere!, e allora infila il portiere ubriaco che parla del pisello che non gli si rizza

. Una volta dentro mi sistemerei al bordo del tuo letto. Con una mano ti accarezzerei sul ginocchio e ti chiederei se sei pazzo

! Ma i registi cani questo non lo capiscono e il custode o lo espungono o ne fanno un grottesco matto da manicomio

? E tu mi diresti che sì, sei pazzo di me. Non sarebbe bellissimo, Miche (ha gli occhi minuti e leggermente allungati, ricordano due mandorle tolte dal guscio; il buio lì intorno si infossa, è ancora più denso che in cielo. Le peonie rosa antico, cresciute da sole in mezzo alla salvia, mandano un odore davvero troppo sottile perché uno dei due riesca a sentirlo)

PROSSA DEI LETTORI

Si può raccontare qualcosa utilizzando parole che non esistono? Può risultare comprensibile? Può evocare pensieri diversi in lettori diversi? Può lasciare più spazio alla creatività del lettore? Credo che più la parola si allontana dalle altre esistenti più sia potenzialmente evocativa… Ma anche inespressiva, è un rischio.

LA LEGGENDA DELL’AMBICO CORTOMUSCHIATO di Enrico Giomi

Una perturnicolazione stereomansibile si è protomantata nell’istamento in cui sorreddigitanti multescenti si corrobinavano maldestrisciatamente. Accamminarono repensosamente i mistori galattocardici, famolosi per la loro borangità, sguainastrarono i

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loro buccicciotoli laser e frastornicarono il processionario alla base. Non avevano casperato però che l’alleantrovatimidanza sorreddigitante avesse trucerbiattoli a zampillazzuli liberticenti, infatti questi intergettirono provicacemente con lanugo stranfulo. Insomma i mistori galattocardici si trovarono misticerchiati e la buccianurità sembrava un pragolismo. Cosa fare? La nastrovicella matrerna ricampava segnuli di pericolerica ma la disastrage fu inevitoccultabile.

Goran, l’ambico cortomuschiaio, respitonava pensicuri di tutti. Non era la primotivata voltaccaduta che popolastrazioni tumefficienti sbrigoldavano inpuliti. Tuttavia il postricurdo dicitofonistico in servizio sgunulava anomanzie da tutti gli gnoli, come se diburtazuoni ribattenti avessero allangato torbe a fiati. Segnallarme di pericarditolo!

Strillonzavano le sirencefale, i cortomuschiai reclastati in gruppazioni di difellerta, le camalleabili dei marmoni corbistate in sellavallo.

Goran era ambico, ovvero capacizuoso di leccornitriti a ratificazioni caramellarie distali. Non appenassurdo i sorredigitanti si mostricarono spascellando i civilabittadini con i loro trucerbiattoli alleanzati, ecco i leccornitriti allettattrarre la golosiccità, le dentibole cominciziare a caramellariarsi! Le dentazioni trafordite dagli zucchertimenti prosticavano con terringuli doloribrezzi stellatricidi! Mai una contorcizione dentalica così frignevole e zigugnosa si era goltumberata nella tempernità.

La sconfiggitazione sorredigitante fu epicatastrofischiante.

Goran, stremaffaticato per la caramellificante retificazione distale si spresciugò in un sofficeruleo sbuffetto fli con leggiadrezza.

Ancora oggi si tramescola la leggendaria progenzia del cortomuschiaio e della sua dolcimentazione ambica, e si narra che da allora mai più l’alleantrovatimidanza sorredigitante nocque a nessuno

INFISCHIATENE

GABRIELE DI FRONZO

IL GRANDE ANIMALE (NOTTETEMPO, 2016) di Irene Buselli

Ci sono romanzi che sembrano nascere senza sforzo, come improvvisati. Il grande animale non è tra questi: l’esordio di Gabriele Di Fronzo è un’opera curata in ogni dettaglio, frutto di un grande lavoro sul protagonista e sul suo linguaggio.

recensioni

Non è un personaggio che si possa improvvisare, infatti, Francesco Colloneve, di professione tassidermista. Del suo mestiere l’autore conosce quasi ogni strumento e ogni procedura, e per ogni animale sono descritti, con lessico tecnico

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ma allo stesso tempo con una connotazione quasi rituale, tutte le fasi che compongono il processo di imbalsamazione. Affinché un animale possa conservarsi, qualunque esso sia, è necessario che sia svuotato della sua «parte viva» e dunque deperibile: lo spazio in cui sempre tende a muoversi Colloneve, come persona e come professionista, è appunto questo vuoto, la dimensione dell’assenza e dell’addio.

Insomma, il lavoro di Colloneve, «facile capirlo, ha a che fare con la parte viva dei morti».

E se il suo mestiere è decisamente insolito, molto comune è invece la situazione che egli si trova a dover affrontare: accudire il padre nelle sue ultime settimane di vita.

Ma a che animale assomiglia un padre? Come ci si congeda da lui, come ci si avvicina a quel vuoto che, come Colloneve ha imparato in anni di esercizio, è necessario a non perderlo per sempre?

Di Fronzo riesce a trasmettere l’intimità e la fragilità di questo rapporto nel più delicato dei modi, senza mai di fatto evidenziare l’avvicinamento tra padre e figlio che il lettore, tuttavia, percepisce chiaramente.

Così, con un procedimento per certi versi analogo a quello che è abituato a seguire con gli animali, il figlio si muove con i suoi strumenti nella memoria del padre, scavando tra ricordi e colpe quasi dimenticate.

Voce narrante del romanzo, Francesco Colloneve parla di sé quasi esclusivamente attraverso la sua professione; tutto ciò che il lettore apprende sulla sua personalità passa attraverso i vezzi linguistici

e le espressioni desuete che caratterizzano la sua lingua, costruita su di lui con precisione chirurgica.

L’operazione che Di Fronzo compie sulla sua scrittura, in un certo senso, lo assimila al suo protagonista: con massima precisione il tassidermista sostituisce le interiora degli animali con la plastilina, con estrema attenzione lo scrittore restituisce a chi legge l’anima del suo personaggio attraverso uno stile plasmato a sua immagine. E, come il rischio più grande del tassidermista – secondo Colloneve – è quello di rendere troppo evidente il proprio operato, il pericoloso confine su cui si muove l’autore è proprio quello che separa il controllo della scrittura dall’artificiosità: confine all’interno del quale, a parer mio, non sempre riesce a mantenersi. La sensazione, in alcuni punti, è quella di scorgere oltre la pagina quello che dovrebbe rimanere nascosto al lettore, ovvero la fatica di questa costruzione; così capita che lo sforzo volto alla ricerca della naturalezza ottenga l’effetto contrario, delineando non i tratti del protagonista, ma le forme di una maschera posticcia.

Nonostante queste sbavature, Il grande animale riesce ad accompagnare il lettore all’ultima pagina con una delicatezza e un’intensità eccezionali, in una climax ascendente di potenza e spessore introspettivo: un libro che certamente vale la pena leggere, una grande metafora dell’eterna fragilità umana di fronte alla morte

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ILLUSTRAZIONE DI COPERTINA

Sofia Grassi GRAFICA Beatrice Gobbo

Fischi di carta è stampata presso:

Genova Marassi Via Tortosa, 51r

Tel. 010.837.66.11 www.nextgenova.it centro.stampa@nextgenova.it

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