Affari di Gola ottobre-novembre 2020

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Anno XX n. 4 - Poste Italiane S.p.A. Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB Bergamo - € 2,60

OTTOBRE-NOVEMBRE 2020

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Il profumo delle cose semplici

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EDITORIALE

Oscar Fusini Direttore

CUSTODIRE LE TRADIZIONI PER ESALTARE LE DIVERSITÀ

I

l consumismo, che negli anni '50 e '60 ha accompagnato l’abbandono della terra per il posto in fabbrica e ha privilegiato l’offerta massificata, ha ormai inesorabilmente ceduto il passo alla cultura e alla riscoperta del territorio, alla sostenibilità e alla biodiversità.

In questo periodo storico, anche alla luce della pandemia che stiamo attraversando, ciascuno sta riscoprendo il rapporto con se stesso, con la propria terra, con il bello e il buono che ci circonda. La ricerca della biodiversità, che è valore distintivo e ricchezza di un territorio, sta spingendo nuovamente a “sporcarsi le mani”, a saper fare, crescere, allevare e custodire quello che si ritiene prezioso. Tanto da valorizzarlo, presentarlo, proporlo e raccontarlo. In questo numero anche noi abbiamo cercato di fare la nostra parte e abbiamo voluto andare alla scoperta e alla valorizzazione dei prodotti della terra: l’olio, i grani, le erbe aromatiche, il sale, gli ortaggi da conservare, l'uva. Conservare i prodotti della terra così come custodire le proprie tradizioni e origini esalta la diversità e permette a ristoratori e clienti di riscoprire il bello e il buono nelle sue diverse forme, dalle materie prime, ai piatti, all'organizzazione fino al servizio. Come accade per i prodotti della buona terra, così avviene nel mondo della ristorazione: ciascuno ha una storia diversa, tutte affascinanti e curiose. Noi apprezziamo questa ricchezza e quel desiderio dei nostri imprenditori di fare sempre bene e sempre meglio, ciascuno mettendo a frutto i propri talenti, secondo la nostra cultura agricola e cristiana. Buona lettura.

SOMMARIO O t t o b re - n o v e m b re 2 0 2 0

Direzione e Redazione: Iniziative Ascom S.p.a. Via Borgo Palazzo 137, 24125 Bergamo tel. 035 4120322, fax 035 4120182, affaridigola@larassegna.it Direttore responsabile: Oscar Fusini In redazione: Laura Bernardi Locatelli Editrice: Iniziative Ascom S.p.a. via Borgo Palazzo 137, 24125 Bergamo Presidente: Giovanni Zambonelli Pubblicità: Ufficio Marketing Ascom Confcommercio Bergamo, via Borgo Palazzo 137, 24125 Bergamo tel. 035.4120111, marketing@ascombg.it Abbonamenti: Iniziative Ascom S.p.a. via Borgo Palazzo 137 24125 Bergamo, tel. 035.4120322 - 035.4120182 Registrazione Tribunale di Bergamo – n. 48 del 22 novembre 2001 Collaboratori: Lara Abrati, Leonardo Bloch, Marco Offredi, Rosanna Scardi Progettazione grafica: Samanta Cattaneo, Mozzo, Bg Stampa: Litostampa Istituto Grafico, Bg

4. Olive, è tempo di raccolta 8. Quel pizzico di brio in cucina e a tavola 12. Le conserve vanno in dispensa 16. La scienza ai fornelli 20. Il pane di una volta 24. L'intervista 28. Erbe aromatiche 30. Viaggio tra le bionde bergamasche 34. In evidenza 36. Fermentazioni spontanee e vini "naturali" 39. Leggere di gusto


Olive, è tempo di raccolta L'OLIO È UN PRODOTTO CHE APPARTIENE ALLA CULTURA GASTRONOMICA DEI PAESI MEDITERRANEI E CHE NON SI CONOSCE A FONDO. ECCO ALCUNE INDICAZIONI E PRODUZIONI LOCALI di Lara Abrati

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L

a penisola italiana presenta moltissime peculiarità gastronomiche e una ricca biodiversità grazie soprattutto alla presenza di numerosi micro-climi diversi che danno origine a un patrimonio immenso e unico. Anche per l’olivo, e quindi l’olio di oliva, è sostanzialmente così. Le zone del bacino del mediterraneo sono le migliori per quanto riguarda la coltivazione dell’olivo. È un dato di fatto che in regioni europee e non meno esposte delle nostre, non sia consuetudine comune utilizzare l’olio extra vergine di oliva. Anzi, non lo era del tutto nemmeno nelle regioni del nord Italia, quando l’economia era prevalentemente di tipo rurale. I grassi comunemente utilizzati erano di origine animale: il burro e lo strutto hanno infatti fatto la storia della gastronomia regionale delle zone del nord Italia. Le regioni meridionali e insulari sono quelle che in prevalenza ospitano questa cultura, ma soprattutto sono le zone in cui l’olivo riesce ad esprimersi al meglio. Le produzioni sono abbondanti, così come la presenza di olio nelle olive: le rese sono assolutamente alte rispetto alla resa in olio di olive coltivate nelle regioni del nord, diventando così una coltura più redditizia. In Italia si stima vi siano oltre 500 varietà di ulivo, molte delle quali sono autoctone, cioè coltivate e ben adattate in specifiche micro aree della penisola. Le principali cultivar coltivate invece sono Leccino, Frantoio, Moraiolo, Nocellara del Belice e Pendolino. C’è comunque una netta differenza tra le produzioni di olio extravergine di oliva tra l’Italia del centro-sud e quella del nord: nel primo caso gli impianti sono per lo più di piccole dimensioni e spesso non costituiscono una cultura da reddito. Principalmente sono appassionati o piccolissimi produttori che lavorano per la produzione di oli davvero di nicchia. La situazione cambia al centro-sud dove oltre ad avere numerose produzioni hobbistiche, si affianca una produzione importante, data anche dalla maggiore produttività e, di conseguenza, di proporre oli di qualità, ma meno costosi. Al fianco degli oli di tipo industriale, vi sono molte alternative a lavorazione più o meno artigianale, ma che regalano una grande qualità e soddisfazione per il palato e, a differenza di quanto molti pensino, è un ottimo alleato in cucina, se scelto, utilizzato e conservato nella maniera corretta.

Il consiglio principale è quello di scegliere sempre oli extravergini di oliva che, per legge, sono ottenuti dalla spremitura esclusiva delle olive. Deve inoltre rientrare in parametri per la misurazione delle chimico-fisiche imposti dalla legge. Olio di oliva, di sansa e di semi sono oli sicuramente di qualità minore.

CRUDO O COTTO? Spesso si pensa che l’unico aspetto da considerare per la scelta dell’olio extravergine di oliva da utilizzare in cucina sia quello gustativo. Esistono oli più o meno delicati in relazione alla varietà, alla zona in cui viene coltivato e al grado di maturazione di raccolta e spremitura delle olive. Per questo motivo è possibile affermare con certezza che l’olio extravergine di oliva è un prodotto che esprime con forza il terroir, con un significato simile a quello utilizzato per il vino. Ma se è assodato che oli extravergini di oliva più delicati siano migliori per alimenti caratterizzati da aromi e sapori tenui, è bene sapere che i migliori oli per la nostra salute sono quelli ricchi di antiossidanti e polifenoli: in pratica quelli più amari, allappanti, quasi aggressivi al palato. La soluzione migliore a livello gustativo sta quindi nello scegliere oli extravergini di oliva che siano piacevoli da gustare e che non coprano le caratteristiche sensoriali dell’alimento a cui verranno abbinate. Ma quindi come sceglierlo per l’utilizzo in cucina sia casalinga che professionale? È risaputo che oli provenienti dalla frangitura di olive non troppo avanti nella maturazione porteranno a un maggiore contenuto polifenolico (questo dipende anche dalla cultivar). I polifenoli sono gli antiossidanti che proteggono l’olio, ma anche fanno bene alla salute di chi lo consuma. Man mano che l’olio “invecchia”, si ossida e la quantità di polifenoli diminuisce, fino all’esatto opposto: l’irrancidimento. In questo periodo però si sviluppano le caratteristiche aromatiche volatili piacevoli, come l’aroma di pomodoro, erba tagliata e molto altro ancora, anche se a differenza del modo del vino, non vengono ritrovati così tanti aromi. Ecco la soluzione: se l’olio deve essere sottoposto a cottura, come quando si preparano fondi per la cottura di carni, piuttosto che lo si utilizza in focacce, piadine o altro è meglio scegliere un olio prodotto con olive meno mature, che presenta una piccantezza e un amaro

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Piccoli produttori locali di qualità

A LOVERE, LA GIOVANE AZIENDA AGRICOLA ALBA L’azienda di Lovere è nata nel 2007 dalla passione di Renzo e da un’idea di Mauro Pedrinola ed è ormai famosa per il suo Olio di Renzo, venduto nella particolare confezione. Oggi gli uliveti vengono gestiti da Marco, nipote di Renzo e figlio di Mauro. L’azienda fa parte della Cooperativa olivicoltori bergamaschi e Marco, insieme agli altri due ragazzi, si dedica alle attività del frantoio della Cooperativa. L’azienda coltiva olivi delle varietà Leccino, Frantoio, Casaliva, Pendolino e Sbresa e sono utilizzate in blend per la produzione dell’Olio di Renzo, che

possiede la certificazione DOP Laghi Lombardi-Sebino stabilmente da 8 anni. Più recentemente è stato aggiunto un nuovo impianto di 70 esemplari di cultivar Don Carlo, per un obiettivo futuro: un olio mono cultivar.

A LE CORNE DI GRUMELLO DEL MONTE SI PRODUCE L’OLIO BIOLOGICO IL CASTELLETTO DI SCANZOROSCIATE: PATRIMONIO DI BIODIVERSITÀ L’azienda di Scanzorosciate è gestita dalla famiglia Lussana che, a partire dall’inizio degli anni ’60, ha iniziato con la produzione del vino. Grazie alla passione di Pietro, pian piano l’azienda impianta piante di olivo di diverso tipo, provenienti da tutto il mondo. Un grande patrimonio di biodiversità, da cui oggi vengono prodotti 4 tipologie di olio con olive provenienti dalle circa 2000 piante coltivate. Un mono varietale al 100% Sbresa, poi c’è Ginami, che comprende oltre 30 varietà, Alarico che è prodotto seguendo il disciplinare di produzione Laghi Lombardi DOP Sebino e infine, Astino, prodotto con l’uliveto piantato a Bergamo, nel contesto del progetto riguardante l’intera zona attorno all’omonimo Monastero. L’azienda fa parte della Cooperativa olivicoltori bergamaschi, che conta oggi più di 70 soci. Il nuovo frantoio della Cooperativa è ubicato proprio all’interno dell’azienda e gestito da tre giovani: Marco Pedrinola e gli agronomi Matteo Ghilardi e Luca Ferretti.

Sono 2000 le piante di olivo dell’azienda, coltivate in circa 2 ettari di terreno. Qui le sue caratteristiche sono un poco ostiche, infatti le piante crescono sulla roccia superficiale, che caratterizza

l’intera azienda e da cui ha origine anche il suo nome. Le piante hanno così una produzione molto bassa e una resa in olio altrettanto bassa, ma grazie alla corretta gestione dell’impianto oggi l’azienda produce un olio extravergine di oliva di alta qualità con certificazione biologica e con certificazione DOP Laghi Lombardi – Sebino. Le varietà coltivate sono Leccino, Frantoio e una piccolissima percentuale di Pendolino e viene imbottigliato in eleganti confezioni da mezzo litro.

L’OLIO EXTRAVERGINE D’OLIVA BIOLOGICO DI GIANFRANCO VISMARA Gli ulivi vengono coltivati nel territorio comunale di Scanzorosciate e le olive qui prodotte vengono spremute a freddo nell’impianto di Rodengo Saiano gestito dalla Cooperativa Clarabella. Un olio certificato biologico e che vanta anche la certificazione Laghi Lombardi DOP – Sebino. Le olive, di varietà Frantoio, Pendolino e Leccino, vengono coltivate in un ambiente caldo, riparato dai venti freddi del nord dal Monte Misma, in un terreno fresco e ricco di humus, poi raccolte a mano e accumulate all’interno di speciali cassette areate e spremute entro tre giorni dalla raccolta.

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importanti. Cuocendo, si ossiderà velocemente e queste caratteristiche sgradevoli lasceranno spazio ad aromi apprezzabili, regalando unicità al prodotto. Al contrario, se si utilizza un olio già in parte ossidato e perfetto per il consumo a crudo, questo si ossiderà ulteriormente e molto velocemente, fino al rischio di irrancidire. Peggio ancora quando si utilizza un olio già rancido: i palati più attenti percepiranno subito quest’aroma davvero sgradevole. Per ricapitolare, servono due tipologie di olio extravergine di oliva: una per cucinare, ricca di polifenoli con la caratteristica pungenza e amaricanza, e uno per l’utilizzo a freddo, in grado di regalare al palato aromi e profumi unici.

COME SI DEGUSTA L’assaggio dell’olio extravergine di oliva prevede passaggi simili a quello del vino, esclusa l’analisi visiva, che può seriamente ingannare le valutazioni successive. Dopo averlo messo in un bicchiere, è bene scaldare con le mani il grasso e avvicinarlo al naso. È possibile percepire pregi e difetti: tra i positivi, l’aroma di carciofo, di foglia di pomodoro, basilico, erbe aromatiche in genere, mandorla, erba verde, agrumi, ma anche mela o banana. Tra i negativi, la morchia, la muffa e il più famoso: il rancido. Purtroppo siamo talmente abituati a quest’aroma da non riconoscerlo come un difetto nei principali oli extravergini di oliva disponibili nelle cucine o al supermercato.

che dedicarsi alla migliore coltivazione per produrre olive di qualità, è davvero interessante scoprire come cultivar diverse diano oli mono cultivar profondamente diversi, soprattutto in relazione alle zone in cui vengono coltivate le olive. I blend sono invece utilizzati anche allo scopo di dar vita a oli extravergini di oliva di grande equilibrio, con risultato davvero inattesi.

LA CERTIFICAZIONE DOP LAGHI LOMBARDI Non tutto l’olio extravergine di oliva prodotto in zona appartiene alla denominazione di origine controllata. Questo perché ogni produttore effettua le proprie scelte. Ma è bene sapere che esiste la certificazione DOP Laghi Lombardi, che si suddivide nelle indicazioni territoriali Sebino e Lario. Sono oli accumunati dalla bassissima acidità, spesso è inferiore allo 0,1%. L’indicazione geografica Sebino è riservata all’olio ottenuto dalla varietà di olivo Leccino, in quantità non inferiore al 40% e dalle varietà Frantoio, Casaliva, Pendolino e Sbresa in misura non superiore al 60%. Alla produzione possono concorrere anche altre varietà in quantità non superiore al 20%. Per l’olio a denominazione geografica Lario devono essere utilizzate olive della varietà Casaliva, Frantoio e Leccino in quantità non inferiore all’80%; per il restante 20% possono essere utilizzate altre varietà. La denominazione d’origine a indicazione geografica Sebino comprende 24 comuni in provincia di Brescia e 24 comuni in provincia di Bergamo, tutti in prossimità del lago d'Iseo. La zona di produzione delle olive destinate alla produzione dell'Olio Extravergine d’Oliva dei Laghi Lombardi a indicazione geografica Lario comprende 33 comuni in provincia di Como e 12 comuni in provincia di Lecco, tutti in prossimità del lago di Como. L’olio extravergine di oliva prodotto sul lago di Garda invece possiede una certificazione d’origine diversa, che si chiama Garda DOP e comprende tutta l’area geografica che circonda l’omonimo lago. Nel disciplinare a tutela dell’olio extravergine prodotto nella zona del Sebino, compare anche la Sbresa. Si tratta di una cultivar autoctona recuperata a valorizzata negli ultimi anni, che merita davvero una particolare attenzione.

COME SI CONSERVA L’olio extravergine di oliva va conservato al fresco, al buio e lontano dalle fonti di calore. L’armadietto sopra il fornello diciamo che non è il luogo migliore dove conservarlo. Perché altri grassi come il burro o lo strutto abbiamo la premura di coprirli e conservarli in frigorifero? Perché alla conservazione dell’olio extravergine di oliva non viene data invece alcuna importanza, nonostante sia un grasso e, di conseguenza, soggetto anch’esso al processo di ossidazione e irrancidimento? Perché un salame o un formaggio rancido lo riconosciamo e scartiamo subito, mentre non abbiamo la stessa attenzione per l’olio?

MONOCULTIVAR O BLEND? Man mano che il settore viene approcciato sempre più da professionisti, è sempre più facile trovare oli sul mercato che sono il frutto di scelte qualitative ben precise. Un tempo negli uliveti vi erano molte varietà e le olive venivano frante tutte insieme, creando oli extravergini di oliva da varietà miste. Oggi, negli uliveti professionali, in fase di progettazione di impianto effettuano scelte ben precise in merito alla tipologia di varietà, in relazione all’olio che si vuole produrre e all’eventuale certificazione di origine. Per questo motivo esistono sul mercato due tipologie di olio, in relazione alle varietà: i monocultivar, cioè oli prodotti utilizzando esclusivamente una tipologia di oliva, e i blend, prodotti miscelando in quantità controllate due o più cultivar. Essendo l’olio extravergine di oliva un prodotto che esprime il proprio terroir in maniera decisa e dove l’uomo, a differenza del mondo del vino, non può far molto oltre

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Quel pizzico di brio in cucina e a tavola di Laura Bernardi Locatelli

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IL SALE PIÙ PURO D'ITALIA È DI UN'AZIENDA BERGAMASCA

pesso bandito dalle diete, quasi mai pesato nelle ricette, dove domina la dicitura qb, quanto basta, il sale è fondamentale per la nostra salute e sopravvivenza, oltre ad essere l'unico minerale che mangiamo. Il nostro corpo ne contiene in minima parte, 110 grammi per l'esattezza, ma ne perdiamo di continuo e dobbiamo assumerlo ogni giorno, con costanza. Esaurita l'era della caccia, quando lontani dallo scoprire fuoco e fornelli, assumevamo carne cruda (eccellente fonte di sale), abbiamo dovuto iniziare a produrlo. Da sempre al centro del commercio, ha segnato alcune rotte storiche, a partire dalla nostra via Salaria, alle porte di Roma, che parte proprio dalle saline di Ostia, alla foce del Tevere. Il rischio di non assumere abbastanza sale oggi, nell'era postindustriale, è estremamente ridotto, tanto che le campagne di riduzione del suo uso nella preparazione degli alimenti sono da anni all'ordine del giorno. Secondo l’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa) un consumo di 5 grammi di sale al giorno (equivalente a 2 grammi di sodio) è sufficiente sia a soddisfare i bisogni di sodio e cloruro, sia a ridurre il rischio di pressione alta e malattie cardiache. In altri termini, approssimativi ma concreti: mai superare il cucchiaino quotidiano. La cosa curiosa, contrariamente alle logiche economiche, è che il sale detiene oggi il massimo aumento della produzione associato alla più forte diminuzione di prezzo, nonostante lo si produca sostanzialmente con gli stessi metodi usati nell'antichità, quando era invece molto ricercato e costoso. Di qui la superstizione - dura a morire nonostante un chilo di sale costi pochi centesimi - che ogni spreco porti mali e disgrazie (nel dubbio, mai rovesciarlo a tavola). Evaporazione dell'acqua di mare, bollitura dell'acqua marina tratta da sorgenti salse ed estrazione di salgemma da miniere sono le tecniche sostanzialmente immutate che portano ancora oggi il sale sulle nostre tavole. Al sale comune, si aggiungono svariati sali gourmet, disponibili ormai in quasi tutti i negozi, caratteristici per aromi o colorazioni, dal blu di Persia al rosa dell'Himalaya al grigio di Bretagna al nero di Cipro, al rosso delle Hawaii. E poi fior di sale, le celebri scaglie Maldon e quelle di Bali e le varietà affumicate. Tra i sali spicca per purezza, con la concentrazione al 99,9% di sodiocloruro, con una particolare procedura di ricristallizzazione, quello della miniera di Volterra, unica in Italia a vantare questa caratteristica. Dal 2014 la proprietà delle miniere è bergamasca, della famiglia Locatelli di Locatelli Saline di Bolgare, che hanno ritirato lo stabilimento, ex Monopolio, poi privatizzato, riportando in auge un giacimento sfruttato fin dall'epoca etrusca, da qualche giorno anche Museo. Ecco qui una guida all'uso dei diversi sali in cucina, realizzata con lo chef Emanuele Poli, docente dell'Accademia del Gusto, e la storia di come, a centinaia di chilometri dal mare, Bergamo abbia rilanciato le saline più preziose del Paese.

Locatelli Saline, azienda bergamasca con sede a Bolgare, nasce nel 1985 specializzandosi nella produzione di pastiglie di sale per il trattamento delle acque. Nel 2007 viene avviata la linea di produzione del sale marino, lavorato in ogni tipo di granulometria. Nel 2014 si crea l'opportunità di acquisire le Saline di Volterra, da dove viene estratto il sale più puro d'Italia. La Locatelli Impianti diventa così Locatelli Saline di Volterra, con sede centrale a Volterra e il distaccamento della Raffineria di Bolgare. Il sale ricristallizzato o vacum (evaporato) viene estratto dalle storiche miniere sotterranee di Volterra, formatesi 5 milioni di anni fa, tra i 50 e i 1500 metri di profondità, inondando una cava con acqua dolce e riportandola in superficie fino a ricostruire per precipitazione il prezioso cristallo. Il sale di Volterra viene utilizzato dall'industria chimica e farmaceutica, che necessita di garantire la purezza più elevata del sale e dalle più grandi industrie alimentari italiane. «Esportiamo anche il nostro sale nei principali mercati esteri - spiega Luca Locatelli, responsabile marketing dell'azienda di famiglia - . In Giappone, Paese molto attento alla qualità nella scelta degli alimenti, nei supermercati si trova quasi esclusivamente il nostro sale». L'"oro bianco" di Volterra si acquista con facilità anche in Vietnam, Singapore, Indonesia, Oman, Qatar, Egitto, Tunisia, Grecia, Albania, Kosovo e Serbia, per citare alcuni Paesi. «Il mercato è molto competitivo e alla fine, nonostante il prodotto sia di elevata qualità, le quotazioni superano di non molto i cento euro a tonnellata - continua Luca Locatelli -. Per questo ci concentriamo nell'area mediterranea; il Nord Europa, per questioni logistiche e costi, è appannaggio dei nostri competitors». Il sale di Volterra, da sempre riserva di Papi e reali, è apprezzato per la sua elevata sapidità e concentrazione di gusto: in altre parola, sala più usandone meno. Tra i prodotti più innovativi le perle di sale, brevetto aziendale, che assicurano la salatura

AL SALE COMUNE SI AGGIUNGONO QUELLI GOURMET: BLU DI PERSIA ROSA DELL'HIMALAYA GRIGIO DI BRETAGNA NERO DI CIPRO ROSSO DELLE HAWAII

9 ottobre-novembre 2020


Saline al tramonto

perfetta senza sprechi e, soprattutto, eccessi pericolosi per la salute, seguendo le raccomandazioni del Ministero della Salute. Ogni perla sala alla perfezione un etto di pasta o riso ed è particolarmente indicato per chiunque voglia moderare e tenere sotto controllo il quantitativo giornaliero di sodio. A marchio sale di Volterra sono nati negli ultimi anni diversi prodotti, dal cioccolato al sale, nella versione fondente o al latte, alle confetture perfette per accompagnare formaggi o ricette creative, da quella al peperoncino alla cipolla rossa, alla cipolla rosa “ubriaca” al Brandy. È già sul mercato la birra salata, realizzata con il birrificio Otus e ora in azienda si sta lavorando alla ricetta di una nuova “bionda” al caramello (ovviamente salato). Da qualche giorno “Locatelli Saline” ha inaugurato con orgoglio il Museo della Salina di Volterra. Una cascata di sale e una sala cinematografica accolgono il visitatore e raccontano un'affascinante storia, tutta italiana. Il giacimento, sfruttato sin dall'età etrusca, ha portato in fretta alla creazione di un villaggio alle porte di Volterra. L’estrazione di sale, fiorente in epoca medioevale, ha garantito a queste zone un certo benessere. L'imperatore Ottone II di Sassonia nel 980 chiese aiuto ai mastri salinari volterrani per iniziare lo sfruttamento delle miniere di salgemma appena scoperte in Germania. Il nucleo abitativo è cresciuto nei secoli, fino all'età moderna, quando nel 1790 il Granduca di Toscana Pietro Leopoldo ammoderna lo stabilimento fino a trasformarlo in uno dei primi villaggi industriali, con la costruzione di abitazioni per gli operai, una chiesa, scuole, asili e altri servizi. Con l’Unità d’Italia la salina di Volterra divenne di proprietà regia, poi dei Monopoli di Stato. Durante la grande guerra lo stabilimento ribattezzato “Salina d'Italia” viene utilizzato anche per produrre chinino e contrastare così la malaria e altre malattie Nel 1990 venne privatizzata e dopo alterne vicende e difficoltà di gestione, viene acquisita dalla famiglia Locatelli nel 2014, che ha riportato in utile l'impresa, valorizzandone la storia con la creazione di un museo, che ha già iniziato ad attirare i primi turisti.

COTTURE A TUTTA SALUTE Lo chef Emanuele Poli, docente all'Accademia del Gusto, da diversi anni è specializzato nelle cotture alternative e salutari, aderendo al progetto “Eat” per una sana alimentazione

promosso dal San Raffaele di Milano. Alle cotture in crosta di sale, lo chef abbina cotture su piastra di sale dell'Himalaya, che assicurano anche una presentazione scenografica in tavola. Un blocco puro di sale, opportunamente riscaldato in forno a più di 200 gradi, si presta a cuocere carni rosse dalla cottura veloce (dallo struzzo al manzo), crostacei, cappesante, filetti sottili di pesce, frutta e verdura. «Riscuotono sempre un grande successo e rendono la mise en place curiosa» spiega lo chef bergamasco d'origine, ormai milanese d'adozione, responsabile della cucina dell'esclusivo circolo Clubino nella Casa degli Omenoni, palazzo del Seicento a due passi dalla Scala. «Le cotture al sale che avvengono in modo indiretto sono particolarmente indicate per tutti gli intolleranti a nichel e altri metalli, oltre che dietetiche, dato che non si impiegano grassi, e perfette per preservare ed esaltare al massimo le caratteristiche delle materie prime» aggiunge Poli. Per pesci interi, o roast-beef e altre Lo chef Emanuele Poli, pietanze, la cottura in docente all'Accademia del Gusto crosta di sale resta la migliore: «Per personalizzare la cottura si possono mixare diverse tipologie di sale e aggiungere anche del riso nero crudo per una marcia in più in aromaticità - svela lo chef -. Penso ad esempio ad un dentice rosa in crosta di sale di Cervia, sale nero e riso Venere». Tra le altre ricette, tra tradizione e innovazione, suggerite, il rognone con il suo grasso, carrè d'agnello e selvaggina. «Non amo aggiungere albume e aromatizzare il sale con erbe, alghe e agrumi, che invece utilizzo sempre ma direttamente su carne e pesce, mai nella crosta di sale per non rischiare che ad alte temperature rilascino note amare».

10 ottobre-novembre 2020


I SALI GOURMET Sale blu di Persia

Salgemma estratto in Iran, dalla colorazione dovuta alla silvinite, è il migliore nei piatti a base di tartufo. Perfetto per insaporire carne bianca, pesce, frutti di mare, verdure cotte e preparazioni a base di patate

Sale rosa dell'Himalaya

Sale non raffinato, ricco di minerali a partire da ferro e magnesio, come testimonia la colorazione caratteristica. Contiene 84 oligoelementi. Particolarmente indicato sulla carne, perfetto per sushi e sashimi e per tutti i piatti a base di verdure, si presta anche a cotture lente, alla brace o al forno.

Sale grigio di Bretagna

Raccolto secondo l'antico metodo celtico, dal colore caratteristico dovuto all'argilla che si deposita sui fondali delle saline, ha un sapore ricco ma non troppo pronunciato. Adatto a tutti i piatti di pesce e carne bianca, si può impiegare al pari del sale comune nella cucina di tutti i giorni.

Fior di sale

Non raffinato e raccolto ancora a mano, è apprezzatissimo dagli chef, specialmente il fleur de sal de Guèrande. È consigliato su carni rosse e selvaggina. È ideale anche per preparare cocktail particolari

Sale Maldon

Prodotto nel piccolo omonimo villaggio inglese, è stato il primo sale gourmet a essere commercializzato in Europa. Il granello friabile e la scioglievolezza esalta carne e pesce, ma dà una marcia in più anche ai dolci. Si accosta benissimo al cioccolato.

Black lava, sale nero

Estratto per evaporazione nelle Hawaii sull'isola di Molokai e a Cipro, dove invece si presenta in fiocchi piramidali, ha origine vulcanica e deve la sua colorazione al contenuto di carbone vegetale. Consigliato con il pesce, patate, carni bianche e uova, sa esaltare anche zuppe, salse e sughi.

Sale rosso delle Hawaii

Chiamato dai nativi Alaea rouge è caratterizzato da un elevato contenuto in ferro. È così beneaugurante che viene utilizzato per inaugurare case e templi. Il sapore ricco e robusto è perfetto per carni alla brace e arrosto e per decorare piatti d'alta cucina.

Sale affumicato

Nella tradizione scandinava viene affumicato con legno di abete o faggio, quercia o olmo rosso. Oggi prodotto in molti Paesi, anche nella regione di Yakima, nello stato di Washington, accompagna una vasta gamma di piatti. Da provare sulla pasta alla carbonara, nelle zuppe e su uova o nelle frittate per una nota affumicata.

11 ottobre-novembre 2020


Le conserve vanno in dispensa ESSICCAZIONE, SALAGIONE, FERMENTAZIONE I TENTATIVI DELL’UOMO DI FERMARE IL TEMPO di Lara Abrati

12 ottobre-novembre 2020


F

in dalle origini dell’umanità, l’uomo ha sempre combattuto contro lo scorrere del tempo. E la tendenza è ben confermata in quello che è successo nel mondo del cibo fresco. Il primo problema è sempre stato il reperire il cibo, ma subito dopo il conservarlo e il renderlo disponibile lungo tutto il corso dell’anno; questa era cosa fondamentale per la sopravvivenza nel periodo invernale, durante il quale si sa, non vi sono molte risorse fresche naturali a disposizione. Ecco che trattamento con il calore, o con il freddo, l’essiccazione o la salagione sono tra i primi e più semplici metodi che hanno trovato applicazione primaria per lo scopo. Conosciamo molti prodotti che in tempi più recenti hanno trovato spazio tra le produzioni più ricercate e famose, grazie alle peculiarità dei prodotti stessi e ai metodi utilizzati per la loro produzione. Pensiamo al baccalà, ma anche allo stoccafisso, alle acciughe sotto sale o alla famosa sarda di Monte Isola; al pesce affumicato, ma anche alla produzione dei salumi, che uniscono un metodo fisico, come l’utilizzo del sale, all’opera dei microrganismi, grazie alla fermentazione che subiscono le carni. Ecco che grazie proprio alle fermentazioni, sono nati prodotti che ad oggi diamo per scontato: vedi il vino, la birra, ma anche il formaggio. Le fermentazioni sono da sempre molto utilizzate nei paesi nordici, dove le stagioni fredde superano di gran lunga quelle calde. Si fermenta frutta, latte, verdura e molto altro ancora, tendenza gastronomica che sta arrivando sempre più anche nelle nostre cucine, sia domestiche che professionali. Altro modo utilizzato per la conservazione, soprattutto dei vegetali, è l’acidificazione che ne permette una conservazione direttamente in aceto oppure sott’olio. Tutto è nato in realtà per un’unica vera esigenza primaria: “fermare” il tempo e la putrefazione per garantire cibo in tutte le stagioni dell’anno. Tornando alla necessità di conservare verdure e produzioni orticole, non essendo più una necessità vitale, l‘obiettivo è quello di creare conserve che possano avere in caratteristiche di piacevolezza gastronomica: dalle tradizionali come la giardiniera di verdure fino alle più creative. Ecco che, oltre a proteggere la materia prima dalla putrefazione, sono davvero molte quindi le caratteristiche da conservare: il colore della nostra verdura, ma anche l’aroma, il sapore e la croccantezza divengono parametri importanti al fine di preparare conserve piacevoli da consumare. L’obiettivo delle tecniche di conservazione consiste nel togliere acqua all’alimento così da ridurre al massimo la possibilità che la materia prima si deteriori rapidamente.

L’ESSICCAZIONE L'essiccazione è forse una delle preparazioni più antiche e semplici che, seppur si possa svolgere all’aperto grazie all’azione del sole, si può facilmente affrontare in ambito casalingo o professionale con un essiccatore. Gli ortaggi essiccati si conservano per mesi e possono essere la base di gustose ricette, visto che quando si essicca l‘alimento perde acqua e, di conseguenza, si concentrano le sostanze nutritive presenti così come aromi e sapori. È possibile essiccare, ad esempio, i pomodori, avendo cura di tagliarli a metà, altrimenti i tempi diventerebbero davvero lunghi, ma anche creare gustose

chips di melanzane, zucchine, patate e così via, da utilizzare tal quali oppure ad esempio da far rinvenire e condire a piacere con olio extra vergine di oliva, aglio e spezie. Ma anche da utilizzare per gustosi sughi invernali o, se tritate, per sfiziose creme per la preparazione di antipasti o aperitivi. Avete mai pensato di essiccare le verdure per il soffritto? Ideali non solo per preparare la base delle ricette, ma anche ad esempio per insaporire zuppe, minestre, minestroni o vellutate e regalare al piatto un bell’aspetto, perché si sa: prima si mangia con gli occhi.

LA FERMENTAZIONE La fermentazione casalinga è ancora una tecnica troppo poco utilizzata, eppure non necessita di grandi strumenti e permette di ottenere bontà perfette anche per mantenere un buon grado di benessere per il nostro corpo. A livello professionale invece è un’attività che sta destando molto interesse, entrata a far parte delle consuetudini di molte cucine anche di altissimo livello. Sono necessari semplicemente dei vasi richiudibili, ma che abbiano la possibilità di far fuoriuscire i gas prodotti durante la fermentazione. In genere si utilizzano vasi di vetro ben puliti con un tappo chiuso che presenta la possibilità di installare un gorgogliatore, uno strumento che elimina l'anidride carbonica che viene prodotta dalla fermentazione: se l’anidride carbonica non uscisse, il vaso esploderebbe (si chiama così perchè c'è dell'acqua che limita lo scambio tra interno ed esterno e quando fuoriesce "gorgoglia"). Quanto ai lieviti, è possibile utilizzarne di selezionati oppure lasciare che la fermentazione spontanea faccia il suo corso. Nel caso delle verdure è molto facile da stimolare, infatti c’è un vero e proprio mondo che popola gli alimenti, invisibile a occhio

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nudo. Questo è il vero fascino della fermentazione, unito a piccoli accorgimenti che permettono di controllarla per produrre alimenti sani, che fanno bene alla salute e assolutamente buoni, che si conservano per moltissimo tempo. Per ottenere i cibi fermentati serve tempo, una temperatura adeguata e nulla di più. Con l’inizio della produzione di gas la fermentazione è iniziata. Dopo alcune settimane l’alimento sarà pronto da consumare, basta assaggiare. Alimenti che diventano aciduli, sapidi e che fanno un gran bene alla flora intestinale di chi se ne nutre. Essenziale la pulizia dei contenitori, la temperatura adeguata (che va dai 12 ai 21°C) e l’utilizzo del sale che estrae i liquidi dal vegetale e permette un controllo naturale del processo.

SOTT’OLIO E SOTT’ACETO Queste sono le conserve più classiche: quelle a cui siamo abituati. Seppur siano facili da preparare, necessitano di alcuni accorgimenti nella loro preparazione, soprattutto se si tratta di verdure sott’olio. A livello industriale, ma anche nei piccoli laboratori professionali, ogni parametro viene misurato con precisione, al fine di produrre conserve buone a livello gustativo, ma anche sicure dal punto di vista salutare. Ecco che misurazione delle acidità, pastorizzazione e sterilizzazione sono metodi che garantiscono al prodotto conservabilità e sicurezza per il consumatore. La situazione cambia quando la preparazione è molto artigianale o addirittura casalinga. Rimanendo nella grande famiglia delle conserve vegetali, possiamo distinguerne due: i sott’aceti ed i sott’oli. L’obiettivo in entrambi i casi è creare una situazione sfavorevole per lo sviluppo di microrganismi patogeni, alcuni dei quali possono essere anche molto dannosi per la nostra salute, come il botulino. Innanzitutto è bene utilizzare verdura sana e fresca, avendo cura di pulire e sanificare i barattoli in cui verranno messe le conserve. Inoltre, se si è alle prime armi, meglio preparare sott’aceti piuttosto che sott’oli. Questo perché, nel primo caso, si assiste a una fermentazione acetica in assenza di ossigeno. L’aceto ha inoltre la capacità di distruggere la proliferazione anche degli organismi anaerobici come il botulino. Questo purtroppo non avviene per i sott’oli. L’olio infatti ha la capacità di proteggere l’alimento dall’aria, ma non di inibire lo sviluppo di batteri o tossine. Per la preparazione delle conserve sott’olio, partendo da verdura fresca, è bene quindi che vengano sbollentate in acqua e aceto per pochi minuti. Ovvio che il medesimo processo va effettuato con tutte le materie prime utilizzate fresche unite alla principale (aglio, erbe aromatiche e così via). Il tutto va lasciato asciugare bene e poi messo in olio, avendo cura di utilizzare un tappo nuovo e di effettuare un trattamento termico a bagnomaria per almeno 15-30 minuti, in relazione alla dimensione del vasetto. Per quanto riguarda invece i sott’aceti, basta eliminare parte dell’acqua contenuta dell’ortaggio con l’utilizzo del sale oppure previa cottura, sbollettandole per pochi minuti. Indispensabile è fare asciugare bene la verdura. Una volta ripulite dal sale e dall’acqua in eccesso, si dispongono nei vasi aggiungendo l’aceto. In entrambi i casi il consiglio è quello di consumare i prodotti nell’arco di alcuni mesi.

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LE PREPARAZIONI

LA GIARDINIERA È una delle conserve sott’aceto più classiche e conosciute del patrimonio gastronomico italiano, preparata con le verdure dell’orto che variano in relazione alla stagione in cui la si prepara. Non solo una questione di gusto, l’effetto cromatico che le verdure regalano è già di per sé fonte di soddisfazione gastronomica. Ecco perché è bene ritornare a preparare questo squisito contorno in conserva, con le verdure leggermente croccanti, dal sapore golosamente agrodolce. Prepariamo in una padella alta e capiente una soluzione di acqua e aceto in proporzioni uguali. Su una soluzione formata da 1 litro di acqua e 1 litro di aceto è bene scioglierci circa 25 g di sale e 25 di zucchero (e spezie a piacere, come ginepro e alloro). A questo punto tagliamo le verdure in pezzi non troppo piccoli e sbollentiamole per circa 4 minuti ognuna. Disponiamole nei vasetti a strati avendo cura di pressarle un poco e aggiungiamoci il liquido di cottura a coprirle. Ora pastorizziamo i vasetti a bagnomaria per almeno 30 minuti e facciamoli raffreddare a testa in giù per favorire il sottovuoto. Un modo gustoso per conservare le verdure disponibili in ogni periodo dell’anno.

I CRAUTI FATTI IN CASA I crauti sono un prodotto che non manca mai nella cucina d’oltralpe. Sono un ingrediente perfetto per accompagnare preparazioni a base di carne, più o meno grasse, soprattutto a base di maiale. Questo per la loro tipica acidità leggera e molto gradevole. Spesso si trovano in scatola, pronti per l’uso, ma se preparati in casa si possono ottenere risultati sorprendenti. Per quanto riguarda il materiale necessario, basta avere a disposizione un tagliere, un coltello, una gran-

de bacinella e un vaso con tappo e gorgogliatore. Iniziamo il procedimento tagliando a listarelle il cavolo cappuccio, avendo cura di salarlo con sale fino e schiacciarlo con forza con un pestello o con le mani. Inizierà a rilasciare acqua, che va scartata. Ripetiamo le operazioni, fino a quando il cavolo risulterà molto morbido e privo il più possibile di acqua. Ora aggiungiamo della mela grattugiata e, a piacere, dei semi di finocchietto o altre spezie. Mettiamo il tutto nel vaso pulito, disponiamo i pesi in dotazione con il vaso da fermentazione in maniera tale che il cavolo rimanga sempre coperto dal liquido e lasciamo fermentare. Dopo alcuni giorni possiamo assaggiare e procedere con la fermentazione secondo gusto personale. Al termine della fermentazione, invasiamo e mettiamo in frigorifero, possono durare anche un anno.

LA CONSERVA DI POMODORO Questa è in assoluto la conserva più preparata in ambito domestico. Importante sapere che, più il pomodoro è acido, più alta è la possibilità di conservazione della salsa prodotta. In genere si utilizzano i San Marzano o i pomodori ramati, che vengono puliti accuratamente e poi sbollentati in acqua fino a che le bucce si iniziano a staccare. Poi si passano al passaverdure per separare la polpa dalla buccia e dai semi: così facendo si elimina involontariamente anche una parte di acqua presente. Qui si può scegliere di invasare a passata, avendo cura di procedere poi a una pastorizzazione casalinga a bagnomaria per almeno 35 minuti a partire da quando l’acqua bolle. In alternativa, è possibile concentrare la salsa con una cottura lenta di almeno 2 o 3 ore e poi procedere a invasare a caldo e poi pastorizzare a bagnomaria, in questo caso partendo con l’acqua già in ebollizione. Verificare dopo 12-24 ore che i tappi siano chiusi ermeticamente.

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La scienza ai fornelli di Laura Bernardi Locatelli

© Barbara Torresan

In cucina prevale il mito della creatività, dell'estro dello chef, ma anche della sperimentazione. Eppure persiste una certa resistenza nell'abbandonare le proprie ricette e convinzioni, mentre si è decisamente più pronti a inseguire nuove tecniche di cottura e prodotti di tendenza, spesso senza interrogarsi sul perché e sui reali vantaggi. Abbiamo chiesto a due ricercatori universitari, al “chimico” per antonomasia Dario Bressanini, e alla neuroscienziata Anna D'Errico, esperta d'olfatto, impegnata anche nella ricerca internazionale sugli effetti del Covid-19 sulla perdita di sapore, anosmia e chemestesi, di sfatare alcuni falsi miti e pregiudizi legati al mondo dell'enogastronomia.

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DARIO BRESSANINI

«La cucina è un grande laboratorio»

Con la pandemia crede che sia cresciuta la fiducia nella scienza anche in cucina? Direi di no, almeno dal mio osservatorio sui social. Viene ancora vista con un certo scetticismo, specialmente nel comparto alimentare. La sensazione è che ci si appelli alla scienza per risolvere un problema imminente come ci insegna questa pandemia, ma sul fronte gastronomico alla fine ci si affida alla ricetta della nonna, che continua a essere inconfutabile o quasi. Quanto farebbe bene alla ristorazione un ripasso di chimica degli alimenti? Sarebbe davvero utilissimo. In molti Paesi l’attenzione è molto alta, a partire dalle scuole e grandi chef, come Heston Blumenthal, vantano collaborazioni scientifiche. Noto però con grande piacere un maggior interesse e una maggiore apertura nei giovani chef e nei ragazzi, meno prigionieri delle tradizioni. Rileva una carenza nella nostra scuola alberghiera? Il problema riguarda in generale la scuola italiana. Partiamo da un dato di fatto: in moltissimi istituti non ci sono nemmeno i laboratori. E dove ci sono si prepara troppa besciamella e si studia poco chimica? Guardi che preparare la besciamella perfetta è importante. Grazie anche all’aiuto della chimica. Il latte deve essere freddo e mai caldo per evitare i grumi, per esempio.

L

e reazioni e trasformazioni sono la base della cucina eppure c'è sempre una certa diffidenza verso la chimica, come per i prodotti di sintesi. Basti vedere lo stato di allerta di fronte alla dicitura in etichetta E300, che altro non è che la cara, buona, vecchia vitamina C. Stesso discorso per gli ogm, temuti e osteggiati e per l'olio di palma, da moderare sì, ma non tanto più del burro. Sono solo alcune delle convinzioni resistenti e dei falsi miti che il chimico più seguito d'Italia, Dario Bressanini, nonché ricercatore all'Università dell'Insubria, smonta a colpi di scienza, formule, provette e prove in diretta. Celebre la sua pasta senza fuoco, perché mostra- è inutile continuare a far bollire l'acqua dopo aver buttato i maccheroni: basta mescolare, mettere il coperchio e cuociono alla perfezione anche a fornello spento (e senza inutile spreco di gas). Il suo blog è il canale di divulgazione scientifico più seguito d'Italia, per non parlare dei numeri dei social, da super influencer. Grande anche il seguito dei suoi libri, da “Pane e bugie” alla prima enciclopedia scientifica culinaria, dall'esordio con “La scienza della pasticceria” al più recente, “La scienza delle verdure”, passando per la chimica della bistecca e dell'arrosto. Lo abbiamo intervistato al telefono, in una pausa tra un impegno accademico e l'altro: «Mi sto concentrando sulla ricerca universitaria- spiega-. Mi concedo sempre almeno un anno di stop tra un libro e l'altro».

Quali sono i vantaggi di un'alleanza tra scienza e cucina? Sappiamo che ha migliorato il purè della Bowerman e che dietro ad altre ricette c'è il suo zampino. Ho collaborato con Cristina Bowerman per alleggerire il suo purè esaltando sapore e consistenza, lavorando sulla gelificazione degli amidi e con il pasticciere Gianluca Fusto. A volte basta qualche piccolo consiglio per ottimizzare il procedimento. Ma soprattutto bisogna provare e riprovare. La cucina è un'attività sperimentale, un fantastico laboratorio di chimica, un grande esperimento scientifico quotidiano. A volte mi scrivono chef, ponendo dei quesiti particolari, cui mi limito a rispondere a livello teorico. Ma il mio invito è a sperimentare, ovviamente in modo scientifico. E qui sta la difficoltà principale. Da dove si parte? Si va per tentativi, ma mai a casaccio. Contano solo l'evidenza scientifica, le prove, i fatti. Con lo stesso rigore da laboratorio si affrontano bistecche, meringhe, verdure e soufflè. Mi è capitato di tenere una lezione di pasticceria nella scuola d'Alta cucina Alma. Abbiamo provato e riprovato la realizzazione di biscotti di frolla tradizionali. E ho mostrato agli studenti cosa succede, attraverso errori e modifiche al procedimento. Le viene in mente il nome di uno chef particolarmente rigoroso? O c'è qualche modello da seguire? Mi piace seguire in tv le dimostrazioni di Heston Blumenthal: ricordo una puntata dedicata alla realizzazione delle patate arrosto perfette, cambiando tipologia di patate e modificando temperature e procedure. Perché una cosa è certa: le ricette sono sempre perfettibili e i grandi chef lo sanno.

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Quali sono i pregiudizi e falsi miti più resistenti in cucina? L’idea che se una ricetta è sempre stata fatta in un certo modo questo sia anche il metodo migliore è una convinzione resistente. Ricordo il putiferio scatenato sui social dalla mia ricetta del limoncello veloce. Il limone dà il massimo dell’estrazione in un giorno, massimo due di infusione in alcool. Si è aperto l’inferno: mi scrivevano dalla costiera amalfitana che il tempo minimo di infusione è di 30 giorni per tradizione. C'è poi chi ha provato la mia ricetta e ne è rimasto sorpreso. E c’è chi ha tenuto a dirmi che perfino la nonna di Sorrento ha apprezzato la mia versione. Chissà poi se seguirà la mia di ricetta o andrà avanti a realizzare la sua. Ci sono tecniche di cottura che vanno di moda. C'è il momento in cui si cuoce tutto a bassa temperatura, l'era della vasocottura, il trionfo della fermentazione. Cosa ne pensa? La cottura la fa la temperatura e non il metodo. Il microonde ha senso per ortaggi e verdure ricchi d’acqua che normalmente farei bollire come asparagi, zucca, peperone e cavolfiori. Cuocere a bassa temperatura una carota non ha senso, è una tecnica eccellente per le proteine, ma non ha alcun vantaggio per gli ortaggi. Il punto è che per moda si fa qualsiasi cosa. Senza interrogarsi sul perché e sui vantaggi si finisce col seguire la corrente. Quanto alla fermentazione, sempre più in voga, credo che fermentare a caso senza una certa tradizione e cultura per farlo, come accade invece nei paesi asiatici, possa anche essere pericoloso. Ma ahimè c'è ancora chi si vanta di utilizzare acqua di mare per cucinare. A livello casalingo quali errori si fanno più di frequente? Le uova vanno tenute in frigorifero, checché ne dica Alessandro Borghese. Melanzane e peperoni sono frutti tropicali che soffrono a temperature basse. Le patate e le cipolle non vanno mai in frigo. E poi - a costo di ripetermi - bisognerebbe accantonare una volta per tutte la convinzione per cui il procedimento di una ricetta tradizionale o di famiglia sia sempre il migliore. Eppure la cucina tradizionale è stata tramandata, come ha sempre sostenuto Bocuse, dalle Mère, donne di casa diventate ristoratrici stellate. La nostra è ancora una cucina casalinga? Sono d'accordo con quanto ha sempre affermato Bocuse: il patrimonio culinario casalingo è un valore insostituibile. Quando ero negli Stati Uniti per il dottorato, mi facevo spedire da mia mamma alcune ricette e così ho iniziato a mettermi ai fornelli. Però nulla vieta di migliorare anche le ricette tradizionali di casa. È così che nasce, ad esempio, la mia versione scientifica del ragù alla bolognese (pubblicata sul suo blog "Scienza in cucina", ndr). Quanto agli italiani, credo che in pochi dedichino tempo alla cucina. Non crede che il lockdown abbia portato a una riscoperta di piatti tradizionali? No. C'è stata la rincorsa al lievito e tutti a panificare in casa. Ma la panificazione è un'arte che richiede tanta preparazione e tecnica, infatti credo che in molti abbiano gettato la spugna. Le vecchie ricette si stanno perdendo. Alla fine si porta in ta-

vola una pasta veloce, magari con un sugo già pronto, e delle fettine di carne, cotte frettolosamente. Siamo messi così male? Manca l'alfabetizzazione. La distanza tra produzione e consumo è sempre più marcata. Non si conoscono nemmeno i tagli di carne perché si compra tanto confezionato, si va meno dal macellaio e non si è più abituati a vedere le mezzene appese... Se chiedo cosa sia il caglio o come nascano i formaggi, beh credo siano in pochi a rispondermi correttamente. Eppure l'attenzione per la cucina non è mai stata così alta, a partire dai media. È un fenomeno a cui ho già assistito negli Stati Uniti negli anni Novanta. Si parla di cibo, si guardano trasmissioni in tv come show, intrattenimento, ma credo che alla fine siano ben pochi a mettersi ai fornelli. E poi non credo neppure che Masterchef e dintorni insegnino molto: ho assistito ad una spiegazione errata della reazione di Maillard. Molti la confondono con la caramellizzazione, che è tutta un'altra storia. Ecco, spieghiamo la madre delle reazioni chimiche in cucina in estrema sintesi. Avviene ad alte temperature, tra gli amminoacidi delle proteine e gli zuccheri. La carne di manzo contiene zuccheri a sufficienza per sviluppare la reazione di Maillard. Altre richiedono l’aggiunta di vino, marinature, limone, anche arancia, o miele per glassare. La reazione accelera anche con un elemento alcalino, come il bicarbonato di sodio. Ha un grande seguito su blog e social, per non parlare dei suoi libri di cucina. Possibile che la tv non le abbia proposto uno spazio? La divulgazione scientifica in Italia non ha spazio mediatico, a differenza di quanto accade ad esempio nel Regno Unito sulla BBC. In Italia è particolarmente in voga il vecchio format con uno show di cucina o uno chef “prima donna”. Mi sono anche proposto per una trasmissione in tv, ma sui grandi media la scienza in cucina non sembra essere d'interesse.

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ANNA D'ERRICO

«L'enogastronomia è una questione di naso» La perdita di olfatto (anosmia), sapore (ageusia) e chemestesi, tra gli effetti rilevati del Covid-19, si è rivelata una privazione sensoriale disabilitante, che ha mostrato per assenza l'importanza dell'olfatto nella degustazione di piatti, vini e bevande. Su questo aspetto, con un pool di scienziati internazionali del Global Consortium for Chemosensory Research, si sta concentrando anche la neuroscienziata bergamasca Anna D'Errico, ricercatrice alla Goethe Universitat di Francoforte. L'esperta in olfatto, studia da sempre, dentro e fuori dal laboratorio, l'uso degli odori, dal ruolo dei feromoni alla Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati di Trieste ai meccanismi con cui il cervello decifra stimoli olfattivi al Max-Planck Institute of Biophysics di Francoforte. È autrice de “Il senso perfetto”, selezionato quest'anno tra i finalisti del premio Galileo per la divulgazione scientifica, libro che segue all'omonimo blog attivo da anni, dedicato a odori improbabili e puzze (im)possibili (perfectsenseblog.com). La scienziata, che adora il soffritto d'aglio e cipolla ma si lascia sedurre dalla profumeria d'autore, sottolinea l'importanza di aprire le narici per riappropriarsi di una sensibilità poco ascoltata e lasciarsi guidare dal senso più sensuale che la natura ci abbia donato. Non senza sfatare alcuni miti: «Il sommelier e il degustatore hanno nasi normali, allenati con training specifici, che durano anni e portano ad arrivare a cogliere e distinguere centinaia di odori». Anche ai nasi migliori capita d'essere tratti in inganno: «Sono stati condotti diversi esperimenti scientifici curiosi. È stata proposta in degustazione una verticale di vini bianchi, colorati però ad hoc come vini rossi. Ebbene, il risultato delle schede di degustazioni è stata l'associazione di caratteristiche e descrittori tipici di vini rossi per vini che in realtà non lo erano affatto». Di contro, anche i descrittori influenzano la degustazione: «L'acido caprilico e butirrico dei formaggi portano a odori caratteristici, che ricordano anche quello dei calzini sporchi o del sudore. La reazione di fronte all'etichetta “calzino sporco” è stata diversa rispetto a quella “cheddar cheese”, eppure in entrambi i casi stavano annusando lo stesso odore». Ultimamente sono di gran moda i cocktail aromatizzati con profumi, ultima frontiera della mixology: «Il fragrance pairing crea un'esperienza sensoriale olfattiva di confronto tra essenze, memorie odorose e degustazione. Mandy Aftel, la capostipite della corrente indie della profumeria d'autore negli Usa, ha sviluppato fragranze usate dagli chef per esaltare le caratteristiche dei piatti. Essenze naturali che non vanno a sostituire ingredienti, ma che esaltano le ricette». L'industria alimentare sta testando un'atmosfera modificata da utilizzare all'interno delle confezioni di carne: «L'aroma di rosmarino, utilizzato nell’atmosfera interna delle confezioni, migliorerebbe, come

mostrano i test effettuati, l'esperienza del consumo di carne». Esiste anche un galateo per i fiori da mettere in tavola, come insegnano i giapponesi: «I narcisi e altri mazzi particolarmente odorosi sono banditi dalle tavole. In generale, nonostante la grande tradizione di incensi e profumazioni, in Oriente prevale il rispetto e non vi sono mai profumazioni invadenti». Puzze e profumi non esistono, ma vi sono semmai odori e aromi da interpretare e ciò è influenzato da fattori individuali, psicologici, sociali e culturali. «Ciò che per qualcuno è un aroma piacevole, per altri può essere un odore sgradevole. Per esempio, noi in occidente non siamo abituati al sentore di carne cruda dei mercati asiatici, dove tra mezzene appese, pollame e frattaglie domina un odore che a noi sa di cane bagnato». Per non parlare della colazione coreana e giapponese: «Piatti fermentati come il kimchi coreano e il natto nipponico, mangiati per tradizione a colazione, provocano in Occidente reazioni di disgusto, nausea e fastidio, viceversa i formaggi che noi apprezziamo hanno spesso in Asia un odore troppo forte». Anche la memoria gioca un ruolo chiave: non è solo un “topos” letterario, come nella Recerche di Proust con le famose madeleine: «Gli odori cui associamo ricordi positivi si imprimono più a lungo nella memoria».

«GLI ODORI CUI ASSOCIAMO RICORDI POSITIVI SI IMPRIMONO PIÙ A LUNGO NELLA MEMORIA»

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La neuroscienziata Anna D'Errico


Il pane di una volta SENATORE CAPPELLI, GENTIL ROSSO, MENTANA, FUNO E FRASSINETO SONO SOLO ALCUNE DELLE VARIETÀ DI GRANI RISCOPERTI di Rosanna Scardi

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I

l pane di una volta è ricco di sapori e profumi. Si va dal retrogusto di pane cotto a legna del Senatore Cappelli fino al profumo intenso del Mentana e alle note di vaniglia del Gentil Rosso. Queste varietà di grani donano al pane un gusto rotondo e aromatico. Ecco alcuni esempi.

ASTA DEL SERIO I GRANI COLTIVATI SULL'ALTOPIANO In Val Seriana, Andrea Messa, di Nasolino, manager per oltre 40 anni presso multinazionali, ha girato il mondo e parla cinque lingue, ma una volta conquistata la pensione ha deciso di tornare al mestiere della sua famiglia, riportando i vecchi cereali in montagna, coltivandoli tra gli 800 e i 1.000 metri. Suo nonno Antonio, nel 1936, aveva vinto la medaglia d’oro della battaglia del grano di mussoliniana memoria come miglior produttore per qualità e quantità. Messa si è informato con gli anziani del luogo su quali fossero le varietà d’un tempo, scoprendo che fino agli anni ’50 si coltivavano Ardito, Balilla, Andrea Messa San Pastore e Mentana, grani ibridati dal 1932 al 1938. Zappa e aratro, ha deciso di ripiantarli insieme a segale alpina, orzo, grano saraceno, mais. Nel 2015 è nata l’associazione culturale “Grani Asta del Serio”: le coltivazioni sono sull’altopiano di Clusone, a Valbondione, Gandellino, Piario, Oltressenda Alta, Ardesio, Gromo, Villa d’Ogna e Fiume Nero. A Expo, il progetto è stato presentato più volte, di cui due in inglese e francese. La filiera è controllatissima, in ogni passaggio, dal campo fino alla tavola: la macinatura dei cereali avviene a pietra all’antico mulino Giudici azionato ancora ad acqua a Cerete Basso, mentre la vendita di farine, gallette, pane e altri prodotti da forno è nel negozio Valzella di Ardesio, gestito da tre soci. «Le nostre vallate sono state sempre autosufficienti nella produzione di grano per il loro sostentamento – spiega Messa -. Lo scopo dell’associazione è quello di riscoprire e valorizzare elementi culturali e colturali del nostro territorio».

David Midali - © Foto Lorenzo Magitteri

popoli balcanici nel 400, è la Saragolla: si producono delle pagnottelle sane, digeribili e bilanciate, ha poco glutine e un alto contenuto di selenio e beta carotene, eccellenti antiossidanti». Una farina di questo tipo può costare 1,8 euro al chilo, mentre il Senatore Cappelli, così chiamato in onore del senatore abruzzese Raffaele Cappelli, che l’ha promossa nei primi anni del ‘900, usato sempre da Midali, anche 2 euro. «Sono farine difficili da usare, dalla lievitazione più veloce e delicata», aggiunge. Avviato nel 1974 dai genitori di Baldovino e dal fratello, il panificio ha introdotto i grani fuori dal grande commercio rifornendo i ristoranti macrobiotici con il pane realizzato dal Pandas, una farina integrale e un’altra di tipo 2. Sono Punto Natura a Bergamo, la Tavernetta a Zogno, Un Cerro a Treviglio e Ca’ Al Del Mas a Serina. «Ai panificatori dico di aprire gli occhi, essere responsabili, di non comprare prodotti che costano poco e rendono solo gonfio il pane. E al cliente, che se una pagnotta non sa di nulla, di non mangiarla. Oltre a non essere buona, non gli farà bene», tiene a precisare Midali.

TILDE PREMIATO DAL GAMBERO ROSSO

Nella guida “Pane & Panettieri d’Italia 2021” c’è un’eccellenza bergamasca, Tilde, a Castel Cerreto, frazione di Treviglio. Il forno artigiano, con annessa bottega per la vendita diretta, è gestito da Simone Conti con la moglie Marisol Malatesta,

MIDALI USA "IL GRANO DEL FARAONE"

Usa grani di una volta anche lo storico panificio Midali di Branzi, gestito da Baldovino, conosciuto anche come fotografo e documentarista naturalista, dalla moglie Karin e dal figlio David, che serve la Brembana, scendendo fino a San Pellegrino. Una di queste varietà è la Khorasan, che prende il nome della regione iraniana, dove venne descritto per la prima volta nel 1921, ma conosciuto già nell’antico Egitto. «Erroneamente questa farina di grano duro è chiamata Kamut in realtà è un marchio registrato di una società americana che lo commercializza – spiega Baldovino -. È stato coltivato per secoli in Anatolia, Egitto, era anche conosciuto come “grano del Faraone” (il fondatore della Kamut prese il nome dal suono di un geroglifico) e in Mesopotamia. Una sua varietà coltivata in Abruzzo e Irpinia, dove fu introdotta dai

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La raccolta del grano di Tilde


pittrice peruviana. Tilde è il simbolo dell’infinito, impresso nel loro pane, usato in spagnolo e, fin dal Medioevo, dagli amanuensi per abbreviare risparmiando carta e inchiostro. La tradizione è di famiglia: il nonno paterno era agricoltore e aveva un banco al mercato di Treviglio. Il padre, Pino Conti, con la sua storica gastronomia a Treviglio, li ha ispirati e guidati. Da Tilde Simone e Marisol lavorano un pane certificato biologico, in grandi pezzature, risultato di lunghe fermentazioni naturali e alte idratazioni. Nel loro pane si trovano una serie di vecchie varietà recuperate come la Mentana, profumata e morbida, coltivata dall’azienda agricola biologica Coste del Sole nelle Marche. «Al momento lavoriamo soprattutto con popolazioni evolutive di vecchie varietà di grano tenero, come la Solibam, coltivata e macinata dall’azienda agricola biologica Floriddia, situata in Toscana tra le colline pisane della Valdera – spiega Simone, che ha due lauree, una in lingue, l’altra in editoria, una parentesi di master in Gastronomia e Turismo Culturale all’Università di Scienze Gastronomiche e tanta esperienza tra Bristol e Londra, dove si è innamorato della panificazione -. La lavorazione avviene sempre con pasta madre viva, ovvero farina e acqua fermentata per molte ore in modo da rendere il prodotto il più duraturo e digeribile possibile. Il processo di lavorazione di 24 ore permette di valorizzare il sapore e le caratteristiche di questi grani». Segreti e tecniche che Simone ha imparato frequentando un master a Bra nel 2010. Tornato a Londra, ha preso spunto da ciò che accadeva a Hackney, il quartiere dove viveva con Marisol, dalla riscoperta delle botteghe e del cibo a chilometro zero. A Bristol, al Bordeaux Quay, ristorante all’avanguardia dal punto di vista della sostenibilità, ne ha appreso l’importanza, mentre all’E5 Bake House di Londra l’arte della panificazione, impastando ogni giorno a mano.

ASTINO, IL PANE CON 130 VARIETÀ DI FRUMENTO È il pane della iperbiodiverità per eccellenza. Sarà prodotto, per la seconda volta, in autunno con 130 varietà di frumento, tra cui Senatore Cappelli, San Pastore, Farro, Spelta, Monococco, Gentil Bianco, Ardito, Mentana, coltivate nella Valle della Biodiversità, sezione di Astino dell’Orto Botanico “Lorenzo Rota” di Bergamo. Il progetto ha uno scopo divulgativo ed è realizzato in collaborazione con il Crea, Centro di ricerca cerealicoltura e colture industriali: le spighe vengono raccolte e trebbiate per ottenere la granella. L'Associazione Amici Orto Botanico di Bergamo e l’Istituto Politecnico di Fondazione Ikaros insieme all’Associazione “Grani Asta del Serio” si occupano della molitura per ottenere la farina. Infine, con il supporto di Aspan - Associazione Panificatori Artigiani della Provincia di Bergamo, gli allievi dell’Istituto Politecnico di Fondazione Ikaros panificano il prodotto. Le varietà sono state messe a dimora nell’inverno del 2019, coltivate biologicamente e raccolte nell’estate successiva. «Sono soddisfatto del risultato e delle adesioni: ottenere un pane con ben 130 varietà di frumento è qualcosa di straordinario. Ogni farina dà il proprio contributo alla lievitazione e al sapore - commenta Gabriele Rinaldi, direttore dell’Orto Botanico -. È un lavoro di squadra che vede la partecipazione di tanti volontari e professionisti. La biodiversità è un valore irrinunciabile, è questo il grande messaggio che intendiamo comunicare».

22 ottobre-novembre 2020


TRADIZIONI di Leonardo Bloch

Mestüra, inferigno e melgòt Le ricette della storia

N

ella storia del cibo i drastici capovolgimenti del gusto sono all’ordine del giorno. Se oggi la benché minima striatura di grasso in una fettina è da molti esecrata, durante il medioevo il pregio delle carni era tanto più elevato quanto più pervasiva era la loro marezzatura. La cultura del chilometro zero, ai nostri giorni saldamente in voga, in passato era invece aborrita per via del suo profondo radicamento negli usi alimentari degli zotici. Il più emblematico tra questi sovvertimenti ha probabilmente avuto luogo nel dominio della panificazione. È nozione comune che attualmente il prezzo dei prodotti da forno ottenuti con l’impiego di sfarinati integrali o di cereali minori, spesso aulicamente denominati grani antichi (segale, sorgo, miglio), sopravanzi considerevolmente quello del pane bianco di frumento. Eppure sino a non più di un secolo fa questa gerarchia di valore e di gradimento era perfettamente invertita. Le pagnotte dalle molliche candide e soffici, fatte di fior di farina, rappresentavano un articolo del tutto elitario, tanto da venir designate nel vocabolario vernacolare del Tiraboschi come pa de lüsso, ed erano esclusivo appannaggio dei ceti più abbienti. La plebe urbana doveva invece contentarsi del pa de mestüra, nel cui impasto erano commisti poco frumento e parecchia segale, o del pane inferigno, ricco di cruschello.

Le rare pagnotte che finivano nei forni del contado, laddove imperava la polenta, venivano per lo più elaborate partendo dalla farina di granoturco (pa de melgòt), mentre in montagna e nelle valli si utilizzava la farina di castagne (pa de farina d’castegne). A riprova di quanto fosse ambito nel medioevo il pane bianco, le cronache riportano casi di giovani che prendevano i voti solo per potersene cibare nei monasteri, dato che altrimenti mai avrebbero potuto nemmeno assaggiarlo. Oltre alla segale, la cui coltivazione era assai diffusa sin da tempi antichi nella bergamasca, altri cereali minori - che secoli fa erano denominati biade in quanto principalmente destinati all’alimentazione del bestiame - trovavano in passato impiego nella panificazione soprattutto in circostanze emergenziali. Tra questi vanno annoverati il miglio ed il panìco, dai quali si ottenevano prodotti di qualità non disprezzabile ma da consumarsi appena estratti dal forno, dato che l’assenza di glutine con il raffreddamento li induriva sino a renderli incommestibili. Alla farina di sorgo, seme della saggina, si ricorreva solo durante le carestie più severe. E nei periodi di più aspra penuria assieme alle graminacee veniva mietuta e passata alla macina anche la zizzania, la cui compresenza nelle pagnotte era tutt’altro che disdegnata dai villici in virtù dei suoi effetti allucinogeni.

23 ottobre-novembre 2020


© P.Bruni

L’INTERVISTA

Giorgio Marchesi

«Il mio cuore è a Bergamo» di Rosanna Scardi

24 ottobre-novembre 2020


È

il volto bergamasco di tante fiction di successo. Cresciuto nel quartiere Carnovali, Giorgio Marchesi ha frequentato il liceo Mascheroni, alternando l’università alle prime esperienze lavorative. Interprete sul palco, al cinema e in tv, vive a Roma insieme alla compagna, la collega Simonetta Solder, e i loro due figli, Giacomo, 14 anni, e Pietro Leone, 7. Nel 2011 è entrato a far parte di “Un medico in famiglia”, recitando dalla settima alla decima stagione. Nello stesso anno ha partecipato a tre lungometraggi per il cinema, “Acab - All cops are bastards” di Stefano Sollima, “Magnifica presenza” di Ferzan Ozpetek e “Romanzo di una strage” di Marco Tullio Giordana, che lo chiamerà anche a teatro per “The coast of Utopia di Tom Stoppard”. Nella pellicola sulla strage di piazza Fontana, Marchesi ha interpretato il ruolo del neofascista, oggi editore, Franco Freda. Il grande pubblico è stato conquistato dal ruolo di Raoul, nella commedia all’italiana di Rai Uno “Una grande famiglia” del 2012, dove ha affiancato Stefania Rocca e Alessandro Gassman. Da due anni lo ritroviamo, invece, nella serie di Raiuno “L’allieva”: la messa in onda della terza stagione è iniziata a fine settembre e proseguirà, ogni domenica, per un totale di sei serate (dodici episodi). La fiction è tratta dai fortunati romanzi della scrittrice messinese Alessia Gazzola. La protagonista è Alice Allevi, una specializzanda in Medicina Legale, impersonata da Alessandra Mastronardi, alle prese con le difficoltà in ambito lavorativo e sentimentale. La studentessa è infatuata del suo superiore, alias Lino Guanciale. Marchesi indossa, invece, i panni dell’affascinante pm Sergio Einardi che, provando stima nei confronti di Alice, riesce ad avvicinarsi a lei anche attraverso vie sentimentali, creando parecchio scompiglio.

segue le sue intuizioni, ha un bel rapporto con lei e cerca di aiutarla dandole sicurezza affinché possa ricoprire il suo ruolo effettivo. I telespettatori si chiedono se ci sarà una storia d’amore tra lei e Alice… Non posso assolutamente svelare nulla (sorride).

«L'ENERGIA DEI BERGAMASCHI PORTA A NON FERMARSI MAI

Il set de “L’allieva” è uno dei tanti che è stato sospeso a causa dell’emergenza Covid. Come siete riusciti a ultimare le riprese? Il ciak era iniziato a novembre, a Roma, poi l’emergenza sanitaria ci ha costretto allo stop. Eravamo tutti molto tesi e preoccupati, temevamo che non si potesse più ripartire. Riprendere a girare a giugno è stato sorprendente, una grande vittoria. La produzione ha gestito la sicurezza in modo molto oculato: appena la macchina si è messa in moto, noi attori siamo stati monitorati con il tampone, in modo da lavorare in sicurezza. Gli operatori sono stati sottoposti tutti al test sierologico e hanno lavorato sempre con la mascherina. All’inizio sembra una difficoltà insormontabile, ma poi si trova un equilibrio. La speranza è che accada lo stesso con le scuole. L’importante, per ogni situazione, è ripartire e arrivare a conquistare una nuova normalità.

IMPOSSIBILE PER NOI STARE FERMI. È UN’ABITUDINE, UNO STILE DI VITA»

Marchesi, nonostante “L’allieva” sia una serie di successo, si vocifera che sia l’ultima stagione, è così? Non si può sapere, molto dipenderà dagli ascolti, dalla disponibilità degli attori e dalle intenzioni dei produttori. Si fanno tante affermazioni. Di certo è una serie molto attesa. Ci sono tutti i presupposti perché sia riconfermato il suo successo. Sappiamo che il suo personaggio si salverà dall’attentato mafioso di cui è stato vittima nell’ultima puntata. Ci può svelare qualche anticipazione? Per fortuna, l’ho scampata. In realtà, avevo sempre mantenuto il dubbio, anche a chi sapeva che ero sul set. In molti mi chiedevano se ci fossi ancora e rispondevo, scherzando: chissà, forse, appaio solo nei flashback. Il mio ruolo, questa volta, è limitato, rispetto alle due precedenti stagioni, per impegni miei durante le riprese. Il pm Einardi serviva soprattutto su una macrostoria, resta legato a un caso importante e chiamerà Alice come medico legale, che per la prima volta non sarà solo l’allieva. Lui la stima molto,

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Giorgio Marchesi con Alessandra Mastronardi, sul set de "L'allieva" © P.BRUNI


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Parliamo della pandemia. Da Roma ha assistito a cosa stava accadendo nella sua Bergamo. Come ha vissuto la situazione da lontano? Ero in contatto telefonico costante con parenti e amici. Ero sbigottito, è impossibile spiegare a parole cosa avete vissuto. Per me è stato frustrante, provavo un senso d’impossibilità. Del resto, ci chiedevano di non fare nulla. Mi ha colpito il fatto che nessuno capisse cosa stesse accadendo: risposte e spiegazioni sono arrivate dopo. I bergamaschi sono stati molto sfortunati, hanno commesso errori, come è inevitabile, nel tentativo di fare del bene. La loro energia li porta a non fermarsi mai: corrono, girano, fanno, disfano e lavorano come matti. Impossibile per noi stare fermi. La nostra operatività e mobilità hanno sicuramente aumentato la diffusione del contagio. So, per esperienza, che non si mollava, neanche in azienda. Stare a casa, da noi, è più difficile che in qualsiasi altra parte, è un’abitudine, uno stile di vita.

È un buon bevitore? Diciamo che il coniglio con la polenta senza un buon bicchiere di rosso non potrei neanche concepirlo. E, poi, non ho mai capito gli astemi. Della cucina romana quale piatto l’ha conquistata? Mi piacciono la pasta con i carciofi e le puntarelle, un tipico contorno della tradizione romana, germoglio di quello che a Roma si chiama cicorione, ovvero cicoria catalogna. Apprezzo anche gli involtini al sugo rosso, carbonara e amatriciana, ottimi al ristorante Roma Sparita. Contano molto gli ingredienti, la materia prima: carne poca, ma di ottima scelta, pesce freschissimo, frutta e verdura di stagione. Come commensale chi vorrebbe? Sean Penn, sarebbe una cena curiosa, per il suo essere attore, regista e politico. Si considera un salutista? Abbastanza, anche se ho il vizio di qualche sigaretta. Non sono un fanatico dello sport. E poi, non essendo più giovanissimo, lascio gli addominali alla Ronaldo ai giovani.

«AMO LE PUNTARELLE, IL CICORIONE, L'AMATRICIANA E LA CARBONARA MA PROVO UNA PASSIONE FOLLE PER IL CONIGLIO CON LA POLENTA E I CASONCELLI»

Cosa ci ha insegnato questa esperienza? Che va bene mantenere la nostra energia, ma se prima correvi a 150 chilometri orari, ora puoi fare leggermente meno. Anche se sappiamo che la nostra forza è questa, tanto che ci rende tra le province più floride d’Europa. Una marcia in più e una carica superiore perfino a quella dei paesi nordici.

Veniamo a una sua grande passione, l’Atalanta. Una delusione i quarti di Champions? Relativa. Siamo arrivati al match contro il Saint Germain un po’ scoppiati, ma la maglia sudata è sempre un grandissimo orgoglio. Se fossimo andati ai supplementari saremmo crollati peggio. Resterà la storia epica dell’essere rimasti davanti per 89 minuti. Ora vedremo, recuperare Ilicic sul piano umano sarebbe una grande conquista.

Dove ha seguito la partita? Ero in vacanza in Austria, davanti alla tv con i miei figli. Al gol di Pasalic siamo impazziti, disturbando non poco il vicinato.

La rinascita avviene anche a tavola. Qual è il suo piatto irrinunciabile? Provo una passione folle per il coniglio con la polenta. Cucinato in casa è meraviglioso, ma lo gusto anche fuori. In particolare, trovo di una bontà clamorosa quello che preparano all’Albergo della Salute a Olmo al Brembo. A Bergamo mi piace molto alla trattoria La Colombina, a Borgo Canale, in Città Alta, accanto alla casa natale di Donizetti, e giù alla Taverna Valtellinese. Poi mi fanno impazzire anche il brasato e i casoncelli.

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© Mirta Lispi

Anche il suo tour teatrale (una trentina di date) di “Mine vaganti” per la regia di Ferzan Ozpetek e che la vede protagonista era stato sospeso. È stato un duro colpo. Il set è freddo, perdere il pubblico dal vivo significa, invece, non avere il piacere assoluto della risata, dell’applauso, dell’incontrarsi e chiacchierare a fine spettacolo, è l’aspetto umano, che è più difficile da instaurare attraverso il piccolo schermo anche se c’è chi ti scrive sui social. Quest’estate ho portato, in alcune serate, le pagine di Italo Calvino tratte dal romanzo “Se una notte d’inverno un viaggiatore”. Alla fine del reading mi incontravo con i professori delle scuole. Un confronto che ho apprezzato moltissimo. In libreria e in digitale, invece, dal primo ottobre, è disponibile il nuovo audiolibro "Il Partigiano Jhonny" di Fenoglio, letto da me e definito da Calvino il libro dei libri sulla Guerra.


Erbe aromatiche

non solo salvia e rosmarino di Marco Offredi

F

resche, in polvere, essiccate per le tisane o già trasformate in salse o confetture, indispensabili nelle marinature ma anche in abbinamento a qualsiasi ricetta, ottime per arricchire di sapore in ogni stagione e perfino per decorare i piatti. Che le erbe aromatiche (officinali) siano protagoniste in cucina non c'è da stupirsi e se basilico, salvia, rosmarino e prezzemolo sono quelle da non farsi mai mancare ci sono tante altre varietà da riscoprire per dare un tocco in più ai nostri piatti. La tavolozza delle essenze aromatiche è infatti composta da generi molto vari e comprende specie arboree, arbustive, erbacee, annuali e bulbose, con foglie, fiori, semi o radici dai molteplici usi, e non solo culinari: erbe come timo, menta, maggiorana, dragoncello, spinacio selvatico di montagna (paruch in dialetto bergamasco), aglio orsino, rabarbaro sono tutte erbe che la terra ci ha sempre offerto e che possono essere consumate a crudo, al vapore o lessate, in insalate e minestre o incorporate in ricette più elaborate. Ma al di là dei personalissimi abbinamenti, l'uso delle erbe spontanee e aromatiche in cucina è anche un'occasione per andare alla riscoperta di sapori autentici: basti pensare alle carote e agli asparagi selvatici, a cicoria, tarassaco, sambuco, silene, ma anche a lavanda, finocchio, melissa, passiflora. Insomma ce ne è per tutti i gusti e per farsi un'idea della vastità del settore basta sfogliare l’elenco delle piante officinali realizzato dalla Fippo (Federazione Italiana Produttori Piante Officinali), Assoerbe (Associazione che rappresenta i Coltivatori, Raccoglitori,

ph. Selva dei Funghù

PRESENTATO AL MACFRUT L’OSSERVATORIO PER FAR LUCE SU UN TREND IN CRESCITA DOVE LA RICERCA E LA COLTIVAZIONE DI ERBE SPONTANEE, DA UTILIZZARE IN CUCINA O TRASFORMATE IN AMARI, SALSE E CONFETTURE, SI LEGA ALLA VOGLIA DI RISCOPRIRE VARIETÀ STORICHE

dragoncello

menta

rabarbaro

santoreggia

28 ottobre-novembre 2020

timo

origano


Il bosco dell'azienda agricola Della Fara

Trasformatori, Importatori, Esportatori, Grossisti) e Siste (Società Italiana Scienze applicate alle piante officinali e ai prodotti per la salute) che passa in rassegna 296 specie provenienti da tutto il mondo utilizzate come piante officinali in Italia, anche per usi non alimentari. Per ciascuna specie sono riportate nome botanico e nome in italiano, habitat, area di produzione, indicazione se la specie è coltivata oppure se è raccolta in natura (spontanea), gli impieghi principali e le parti della pianta utilizzate. Su questa «miniera» verde ha puntato i fari anche Macfrut, la fiera internazionale dell'ortofrutta di Rimini, che nell’edizione 2020 ha ospitato Spices & Herbs Global Expo, il primo salone in Europa interamente dedicato al mondo delle spezie, delle erbe officinali e aromatiche, con tanto di lancio di un Osservatorio dedicato e con il supporto tecnico-scientifico dell'Ismea (Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare) E proprio Ismea ha realizzato uno degli studi recenti più importanti sulle officinali con lo scopo di ricostruire il quadro economico e strutturale di un settore estremamente articolato e il cui perimetro di attività si rivela sfumato e difficile da definire. Sfumature a parte, i numeri parlano chiaro: il nostro è il 4° Paese nell'Ue per superfici coltivate a piante aromatiche medicinali e condimenti (Pamc), con un mercato che produce 25 milioni di chili, oltre 6 mila aziende e più di 24mila ettari coltivati (con una crescita del 110% in tre anni) che coprono il 70% dell'intero fabbisogno nazionale. Più che una nuova tendenza, il boom delle Pmac va di fatto letto come un ritorno alle origini, abbinato alla voglia di riscoprire (e coltivare) varietà storiche dalla cui trasformazione nascono prodotti di nicchia che prevedono la salvaguardia della biodiversità, sostenibilità, multifunzionalità, oltre naturalmente a rappresentare per gli agricoltori un'opportunità di mercato molto promettente, proprio come la scommessa imprenditoriale vinta dall'azienda agricola Della Fara di San Giovanni Bianco che conta oltre 2 ettari (20 mila mq) dedicati alla coltivazione di erbe spontanee tipiche del territorio: dall'erba del buon Enrico (spinacio selvatico di montagna, anche «paruch»), all’aglio orsino, dalla silene al rabarbaro, passando per la rosa canina e il sambuco. «Da quando abbiamo avviato l’attività nel 2012 abbiamo deciso di puntare sul recupero delle tipicità locali e quindi di coltivare in montagna e non in pianura - spiega Italo Della Fara fondatore dell'azienda oggi guidata dalla figlia

Paola -. Partendo dalle nostre erbe spontanee e coltivate ci siamo sbizzarriti nella creazione di salse, confetture, sciroppi e liquori, con l'intento di mantenere inalterati quei sapori che sono parte della tradizione gastronomica del nostro territorio, rendendoli però, allo stesso tempo, innovativi». I terreni soleggiati di montagna e la scelta di aree piccole rendono superfluo l’uso di prodotti chimici: tutto concime organico, pochissimi trattamenti. «La raccolta è tutta a mano, con una media di 10 kg al giorno a seconda dell’erba - conferma Paola -. La coltivazione avviene prima in piccoli vasi e poi nei campi, con l’obiettivo di rendere nobile ogni erba spontanea a cominciare dalla sua trasformazione in prodotti innovativi e ancora poco conosciuti come l'agrodolce e il pesto di paruch, ottimo con i bolliti e i formaggi, la cimetta di paruch sott’olio e il rabarbaro semicandito in sciroppo, una mostarda non piccante che si abbina bene a salumi e dolci». Valorizzare prodotti che possano contrastare l’omologazione del gusto è anche l’obiettivo dell'azienda agricola Valpredina a Cenate, all’interno dell’oasi WWF, che alla produzione di olio e miele bio ha affiancato anche quella di erbe officinali come calendula, lavanda, timo, Menta e melissa. Tutte a uso alimentare: «Le piantine sono ottenute da semi di origine biologica certificata e vengono essiccate per tisane e infusi o per insaporire i piatti - spiega il titolare Matteo Mauri -. La raccolta di fiori e foglie avviene esclusivamente a mano e all’anno non superiamo i 30 kg in totale. Ma non è questione di quantità: l’importante è ridare valore a queste erbe e farle conoscere. In quest’ottica organizziamo anche degustazioni aperte ai ristoratori della Val Cavallina con l’intendo di aprire nuovi orizzonti in L'issopo dell'azienda agricola Valpredina cucina. Penso al risotto a base di calendula, oppure ai piatti in cui è protagonista l’issopo, un’erba spontanea della famiglia della lavanda, facile da coltivare e che si sposa benissimo con minestre, insalate e carni». Più tradizionalista, invece, l'approccio della Selva dei Funghu a Sant'Omobono come spiega Fiorenzo Cavagnera, titolare dell’azienda fondata dai genitori Franco e Daniela: «Trasformiamo gli aromi classici da utilizzare in cucina come l'alloro, il timo, la santoreggia, la melissa, la maggiorana e il dragoncello, in parte spontanee e in parte coltivate. Le facciamo essiccare e le uniamo al sale iodato per creare condimenti aromatici in vasetti e bustine per tisane. La menta, invece, la utilizziamo per dare un tocco di freschezza in più alle nostre confetture. Anche se marginale rispetto alla produzione di confetture, quella delle erbe aromatiche è un’attività a cui teniamo particolarmente perché è un modo per portare avanti la tradizione di una volta. Certo la coltivazione non è facile: la raccolta a mano e l'essicazione naturale, senza ventilazione forzata, aiutano a mantenere autentico il sapore ma dobbiamo fare i conti con le condizioni meteo che possono rovinare l’intero raccolto».

29 ottobre-novembre 2020


Viaggio tra le bionde bergamasche di Rosanna Scardi

NELLA “GUIDA ALLE BIRRE D’ITALIA” DI SLOW FOOD DUE CHIOCCIOLE RICONFERMATE, UN’ECCELLENZA E ALTRI CINQUE BIRRIFICI SEGNALATI

L’

associazione no profit fondata da Carlo Petrini, impegnata a valorizzare le eccellenze enogastronomiche del nostro Paese, prodotte nel rispetto del territorio e dei lavoratori, è andata a esplorare il mondo brassicolo italiano elaborando una nuova lista per gli appassionati di “bionde”. Giunta alla sua settima edizione biennale e con un totale di 1.866 birre e 387 birrifici segnalati, la guida è curata da Luca Giaccone e Eugenio Signoroni che hanno diretto un gruppo di 90 collaboratori.

ELAV: DA OTTOBRE ORZO MADE IN BG Sono 34 le chiocciole, ovvero i birrifici riconosciuti per la qualità, per il ruolo svolto nel settore birrario nazionale, per l’identità e per l’atten-

30 ottobre-novembre 2020


zione al territorio e all’ambiente. Tra questi ritroviamo Elav di Comun Nuovo che “con una politica dei piccoli passi, è riuscito a consolidarsi e a crescere pur restando profondamente legato al proprio territorio”, si legge nella motivazione degli esperti. Il brand nasce nel 2003 come beerfirm, facendosi produrre le birre in Germania. Nel 2010 Antonio Terzi, birraio e proprietario insieme a Valentina Ardemagni, acquista un primo impianto che viene ampliato pochi anni dopo per assecondare una domanda sempre più vasta. Una quarantina le birre prodotte, dai nomi particolarissimi. La prima serie è stata la musicale. Proprio come i diversi generi, ognuna ha un gusto suo: sono la Punks Do It Bitter, Techno Double Ipa, Grunge Ipa, Dark Metal, Progressive Barley Wine, Free Jazz Blanche, Beat Weizen Generation. Le sperimentazioni avvengono inserendo, per esempio, la frutta, come per la Karenina, birra scura in stile belga con l’aggiunta di more nella fase di bollitura, la Raskolnikov, birra salata ai lamponi, la Dark Chocolate con fave di cacao, e la Punk’s Canapa dall’aroma forte, piacevole, erbaceo. «Mi piace l’innovazione, usare ingredienti non comuni, ma anche la tradizione, uso pesche e altra frutta bergamasca, a ottobre pianteremo il nostro orzo per creare una birra legata al territorio, anche nella materia prima, attraverso contratti di rete con i contadini anticipa Terzi -: produrremo l’80 per cento dell’orzo che ci servirà, coinvolgendo più agricoltori possibili, creando una community attorno alla birra. Il primo raccolto sarà a giugno del 2021, inizieremo a produrre nella seconda parte del prossimo anno». Il progetto Elav comprende anche una serie di locali: il Clock Tower a Treviglio, Elav Circus a Bergamo, Elav Kitchen & Beer in Città Alta e Cascina Elav che è anche azienda agricola.

dell’allora birraio Marco Valeriani. A raccoglierne l’eredità è stato, poi, Matteo Palmisano grazie anche alla qualità delle apparecchiature, della sala cotte e della cantina. Il birrificio è conosciuto per la produzione di ispirazione americana che gioca gran parte delle caratteristiche sulle luppolature. La gamma annovera però anche etichette di ispirazione belga, tedesca e inglese. Presente la taproom all’americana per le degustazioni. «L’iniziativa è nata per mia pura passione, l’ho proposta a mio fratello e poi è diventata una vera fabbrica che va avanti parallelamente», dice Fausto Brigati. La birra più premiata è la Wave Runner, un’american Ipa, cavallo di battaglia del birrificio: è caratterizzata dal colore ambrato e dalla schiuma persistente, la percezione al naso di note di frutta tropicale e di agrumi dai luppoli. Il finale amaro e secco la rendono gradevole per ogni momento. Una ventina le etichette fisse, a cui si aggiungono altre a rotazione. Diverse le varietà, dalla bassa fermentazione alle birre scure con pochissimo luppolo, la Blanche di frumento, tipica del nord Europa. La novità, appena lanciata, è una Doppelbock, intensa e dal sapore deciso, che si rifà allo stile inventato dai monaci produttori della Paulaner a Monaco di Baviera.

HOP SKIN, I VOLTI DEI CLIENTI NELLE ETICHETTE Nuovo il riconoscimento delle Eccellenze per i birrifici che esprimono un’elevata qualità media su tutta la produzione: nel volume sono 73, tra cui Hop Skin a Curno, che produce birre non filtrate, né pastorizzate, incentrate sul luppolo di stampo anglosassone, ma la gamma contempla però anche prodotti che fanno riferimento alla scuola belga o tedesca. La produzione è cominciata nel 2013 con un piccolo impianto da 300 litri (adesso è da 1.500) per volontà di Gioia Ravasio e Paolo Algeri. «All’inizio producevamo a casa, eravamo poco più che ventenni e facevamo già piccoli esperimenti homemade, eravamo stanchi di degustare, volevamo creare una nostra birra artigianale», racconta Gioia. Nel tempo i due birrai hanno ampliato il birrificio, portandolo ad avere un impianto da 12 ettolitri, una cantina da tre serbatoi unitank troncoconici da 12 ettolitri e quattro tank da 10 ettolitri.

HAMMER, UNA PASSIONE TRASFORMATA IN AZIENDA Chiocciola anche per Hammer di Villa d’Adda per “la capacità di costruire una struttura e un progetto solido e resiliente a cambiamenti interni ed esterni. È un esempio non solo per chi voglia produrre birre di grande carattere, ma anche per coloro che desiderano capire come si costruisce un’impresa di successo”, si legge nella motivazione. Hammer nasce cinque anni fa dalla decisione di fratelli Fausto e Roberto Brigati di intraprendere una nuova attività che si affiancasse a quella principale del Mollificio Bergamasco. La fama del birrificio è cresciuta presto grazie alla bravura

Lo stile americano si ritrova nella taproom, pub antistante l’impianto produttivo, che serve le freschissime bionde, analcolici, una selezione di whisky e cibo di qualità. L'obiettivo è avere un riscontro diretto. Ma i clienti contano talmente tanto che i volti degli habitué che si ritrovano fissi dietro al bancone

31 ottobre-novembre 2020


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sono stampati nelle etichette, come nella B(r)ad Peter, una Keller, dunque a bassa fermentazione. In tutto sono 50 le birre della gamma, alcune dei must, altre proposte one shot. “Abbiamo appena ampliato il locale, nel futuro prevediamo altri investimenti nel birrificio”, conclude la titolare.

LA BIRRA AGRICOLA DI PAGUS Nella guida compare anche Pagus (parola che in latino indica le circoscrizioni rurali) a Rogno che produce birre agricole con ingredienti locali. L'avventura è iniziata cinque anni fa dall’idea di due amici, Gabriele Fontana e Stefano Visinoni, con la passione per la produzione di birra. Il primo anno sono state avviate le coltivazioni delle materie prime. «Abbiamo intrapreso prima un percorso didattico professionale poi abbiamo lanciato la nostra birra agricola con un impianto da 200 litri, oggi da 10.000 - racconta Fontana -. La particolarità è che siamo azienda agricola e coltiviamo la materia prima su 10 ettari di terreno: abbiamo 400 piantine di luppolo cascade e chinook, orzo, frumento e farro. I nostri ingredienti si ritrovano per l’80 per cento in tre delle quattro birre che produciamo, ovvero Blonde Ale, Belgian Blond Ale, Red American Ipa, mentre la Weissbier arriva a essere prodotta con le nostre materie prime al 100 per cento». L'attaccamento al territorio si ritrova anche nelle etichette con il simbolo del cervo, animale venerato dagli antichi come un dio, come dimostrano le incisioni celtiche ritrovate nelle rocce delle valli camune. A settembre è iniziata la fermentazione di una birra con il luppolo appena raccolto, mentre ne saranno prodotte una speciale per le festività natalizie e una scura a gennaio con il mais spinoso nero della Valle Camonica, tipico di Piancogno, nel Bresciano, anticamente chiamato “melga negra spinusa”. La gamma di Pagus prevede birre ad alta fermentazione e rifermentate in bottiglia. L’obiettivo è affermarsi anche fuori dal territorio.

LE SLOW CHE EMOZIONANO E LE IMPERDIBILI Sono 127 le Birre Slow che, oltre a essere eccellenti per valore organolettico, sono in grado di emozionare, essere un riferimento per la categoria o esemplari per un birrificio. Tra

queste: Punks Do It Bitter di Elav dagli aromi agrumati, con la predominanza del pompelmo, che rendono già all’olfatto, e poi al gusto, l’idea di quanto sia fresca e dissetante, e Wave Runner, cavallo di battaglia di Hammer, dal colore dorato chiaro, la schiuma fine, aromi tropicali e agrumati. Le Birre Imperdibili, ovvero notevoli per le caratteristiche organolettiche, sono 358. Tra queste, la Humulus Black Ipa caratterizzata dall’abbondante luppolatura con il singolo luppolo americano (Cascade) e la No War Rye Ipa, birra di segale dall’aroma speziato e colore giallo intenso di Elav. Ci sono anche la Crazy Paul, tripudio di frutta bianca e note citriche di cedro e kumquat, Minou dalle note di zucchero candito e cereale accostate al fruttato e Tsunami, travolgente per le note calde e tropicali, tutte di Hop Skin. La guida riporta anche la Dark Side, birra corposa, ad alta fermentazione, e la pluripremiata Sun Flower dall’aroma tropicale, entrambe del birrificio Valcavallina a Endine Gaiano. Particolare la Caliban di Endorama a Grassobbio: combina aromi dolci di miele e biscotto agli aromi della frutta matura. Imperdibili anche due prodotti di Via Priula a San Pellegrino Terme: Camoz, dal lunghissimo retrogusto, dedicata a un amico del fondatore, un climber scomparso tragicamente, e Morosa, prodotta con le more. Da provare anche Ambranera, scurissima, quasi nera, con note aromatiche tostate di caffè, cioccolato e liquerizia di Otus a Seriate, Daarbulah con aromi di caffè, cacao, melassa, Killer Queen con note agrumate, tropicali e floreali e Mini di Hammer, con note di frutta tropicale e di agrumi dai luppoli. Oltre ai birrifici e alle birre più meritevoli, la Guida alle birre d’Italia 2021 di Slow Food propone una nuova sezione sui locali che servono o vendono soprattutto birra artigianale italiana in chiusura di ogni capitolo dedicato a una specifica regione. Sono oltre 600 i pub, i beershop, le enoteche e i bar dove acquistare e bere i prodotti segnalati, 15 sono nel territorio bergamasco.

33 ottobre-novembre 2020


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OSTERIA MEDÌ LA VIA DEL MARE NEL CUORE DI CITTÀ ALTA

© PHOTO Yuri Colleoni

La grande città nata sull’acqua e il suo avamposto adagiato sui colli: Venezia e Bergamo sono legate sin dal 1400. Tra le loro strette vie si respira la stessa aria. E se a Venezia è normale entrare in un “bacaro” per un bicchiere di prosecco, gustandosi delle sarde in saor, ora lo sarà anche in Città Alta. In via Colleoni, al civico 17, la famiglia Amaddeo ha aperto Medì - La via del mare, un’osteria dove gustare pesce abbinato a un buon calice di vino. O dove far meta per un aperitivo veloce, o meglio un “cicheto”. Il locale sorge nel complesso “Casazza”, storico palazzo costruito da Baldino Suardi nel 1357, un tempo sede della compagnia di corrieri veneziani, che proprio qui stabilì la sede del servizio postale. Oggi la “Casazza” interpreta in chiave moderna l'idea di ospitalità antica, dai tempi della Serenissima: «L'”Osteria” completa l'offerta di “Casa Mimmo”, dallo storico ristorante pizzeria di famiglia “Da Mimmo”, alla Trattoria e gastronomia “Mimì”, alla nostra “Locanda”, con cinque stanze, inaugurata nel 2018- spiega Roberto Amaddeo- . È con questo spirito, attraverso la diversificazione dell'offerta, che cerchiamo di battere il fast-food a colpi di tipicità e qualità. Grazie all'apertura del nostro laboratorio a Redona, possiamo farci davvero in quattro, grazie a una sorta di dark-kitchen». La proposta, incentrata sulla qualità delle materie prime, a partire dalla provenienza del pesce da Adriatico e Mediterraneo, ruota attorno al baccalà, allo stoccafisso che ha fatto la fortuna di Venezia dai mitici tempi del mercante Pietro Guerini. Non mancano la polenta con i moscardini, le zuppe di pesce, le alici marinate e i fritti. In menù anche piccoli roll di sushi all'italiana. Il locale serve aperitivi, pranzi e cene agli appassionati di cucina di mare, abbinati ad una buona scelta di vini. E una ricca carta dei dolci promette di soddisfare anche i più golosi.

da sinistra Mattia Saturno, Orianna Pellicori e Oliviero Pezzoli

UNO “START UP CAFÈ” TRA BIBLIOTECA E UNIVERSITÀ È una vera e propria start up come recita l'insegna del nuovo locale, inaugurato da qualche giorno, il 17 settembre, di fronte alla Biblioteca Tiraboschi, in Via San Bernardino, a due passi dalla sede di Via dei Caniana dell'Università. "Start up cafè" nasce nei locali della storica “Latteria”, gestita per oltre trent'anni da Bortolo Gatti, per tutti Lino, con la sorella Rina. L'attività è stata rilevata da Orianna Pellicori e dal figlio Mattia Saturno, che a soli 17 anni ha deciso di lasciare gli studi e di intraprendere un'attività tutta sua. Ad affiancare madre e figlio, l'esperienza di Oliviero Pezzoli, che da oltre vent'anni gestisce caffetteria, cocktail e american- bar, dal “Bar H” a “L'opera buffa”, per citarne alcuni. Il locale è stato completamente ristrutturato, a partire dal bancone di acciaio lavorato e resine: arredi e stampe omaggiano gli anni del rock americano, da Elvis a Marylin Monroe. La proposta è incentrata sulla caffetteria, con una selezione di brioche e dolci di pasticceria per le prime colazioni e su aperitivi e pranzi. In carta spiccano panini in versione gourmet: verdure grigliate, funghi, pomodori secchi, patè e salse ed emulsioni si abbinano a salmone affumicato e salumi di qualità; non manca una proposta veg e una golosa con tartine alla nutella, abbinate a mele, noci e Southern Comfort o pera, sambuca e cannella. In programma, oltre alla proposta di piatti freddi e panini, l'introduzione di tavola calda e il servizio d'asporto. Il locale organizza inoltre feste di laurea e compleanno. A breve – giusto i tempi tecnici di realizzazione - il bar potrà contare anche su un piccolo dehor esterno. Start Up Cafè Via San Bernardino, 67/a Bergamo tel. 035.0632137

Osteria Medì Via Colleoni, 17 Bergamo tel. 035.3097160

34 ottobre-novembre 2020


DA RADO, LA NUOVA GESTIONE DELLO STORICO RITROVO DI SAN PELLEGRINO Lo storico ritrovo di San Pellegrino Terme, l'ex “Bar Zanchi”, sta vivendo un nuovo momento di popolarità grazie alla nuova, giovane gestione di Radoslaw Zaloga. Il patròn-barman, che ha ribattezzato il locale “Bar Caffetteria Da Rado”, a 32 anni vanta un lungo curriculum nei locali di tutta Europa, a partire dalla sua Polonia, da Zamosc, città lasciata a 18 anni per inseguire i suoi sogni dalla Germania, all'Italia. A Rimini durante la stagione estiva conosce la sua futura moglie, Raissa Monzani, e così per amore si trasferisce a San Pellegrino Terme, dove lavora come bar-man. A fine febbraio, alla vigilia del lockdown, si licenzia per cogliere l'opportunità di rilevare l'ex Zanchi e diventare imprenditore di se stesso. Il locale, tra stop per decreto e lavori di ammodernamento, fatti in grande misura dallo stesso patròn, ha inaugurato a fine maggio. Il locale, dalla proposta giornaliera, è un punto di riferimento dalla colazione all'aperitivo, dalla pausa pranzo alla merenda. Riscuotono particolare successo gli aperitivi a tema e i menù tipici nei week-end: «Abbiniamo piatti di pesce a vino per aperitivi ricercati e non manca una proposta di cocktail - spiega Rado Zaloga -. Particolare successo lo riscuote sempre il classico pane e cotechino preparato al momento il sabato». Particolarmente gettonato il dehor, in riva al fiume, sulla passeggiata che porta in centro, che raddoppia negli spazi i tavoli interni, da 25 a 50 posti a sedere.

da sinistra Radoslaw Zaloga e Raissa Monzani

Bar Da Rado Via Aldo Moro, 52 San Pellegrino Terme (Bg) tel. 327.0130484

È DI SAN GIOVANNI BIANCO IL SECONDO PANETTONE D'ITALIA Il panettone del pasticcere Mauro Milesi della “Pasticceria Ruffoni” di San Giovanni Bianco ha conquistato il maestro Iginio Massari e si è aggiudicato il secondo posto alla finale del Panettone Day 2020, nella categoria tradizionale della ottava edizione del concorso nazionale Panettone Day. La finale del concorso, nato per celebrare l’artigianalità di questo dolce lievitato protagonista nel panorama della pasticceria italiana, si è svolta nell’esclusiva Sala Mengoni di “Cracco Bistrò” in Galleria Vittorio Emanuele, un vero simbolo e omaggio alla città dove il panettone affonda le proprie origini. La creazione Mauro Milesi ha conquistato il parere unanime dei giurati, grazie alla qualità della sua raffinata interpretazione della ricetta tradizionale. «È un riconoscimento importante, che arriva in un momento particolarmente difficile - spiega Mauro Milesi -. La scelta di partecipare al concorso è maturata durante la chiusura del locale per l'emergenza sanitaria, ed è una soddisfazione doppia portare un premio a Bergamo, nella provincia più colpita dal coronavirus». Se la ricetta resta top secret, non mancano alcuni indizi, a partire dalle materie prime: «Uova, burro, farina e frutta candita sono accuratamente selezionati. Cura nell'impasto e lunghi tempi di lievitazione fanno il resto». Tra i fiori all'occhiello della pasticceria, rilevata nel 1995 e portata avanti con la sorella Lara, il “Giovannino”, lievitato con golosa glassatura di mandorle, che rende omaggio al territorio e a San Giovanni Bianco. Si tratta di un goloso bauletto, disponibile tutto l'anno, proposto in due versioni: pere e noci e pere e cioccolato. L'effetto premio si sta già facendo sentire e stanno iniziando le prime prenotazioni per Natale. Il panettone da podio viene venduto (a 28 euro al chilo) nei formati classici da mezzo chilo e chilo e anche, su richiesta, in pezzature più grandi.

35 ottobre-novembre 2020

Igino Massari e Mauro Milesi

Pasticceria Ruffoni Via Pozzolo, 8 San Giovanni Bianco (Bg) Tel. 0345.41533


Fermentazioni spontanee e vini “naturali” ECCO QUALCHE SPUNTO PER INIZIARE A MUOVERSI IN QUESTO CAMPO DELL'ENOLOGIA di Lara Abrati

36 ottobre-novembre 2020


I

l concetto di naturale, in contrapposizione all’artificiale, è un qualcosa che la società in cui viviamo attualmente ricerca sempre più e con più forza. Quando si raggiungono gli estremi in ciò che si ritiene artefatto scatta la ricerca verso un qualcosa percepito come autentico, essenziale, naturale. È così ormai in tutto il comparto enogastronomico, infatti dopo decenni passati a enfatizzare il cibo industriale, standardizzato e omologato, c’è stato un forte focus attorno al concetto di tradizione, di natura. Necessità che non si sarebbe mai palesata se la percezione di artificiale non si fosse mai avvertita. In realtà nessun cibo o vino è artificiale, quindi è forte l’esigenza di dare un significato vero a ciò che descriviamo come “naturale”. Tutti sappiamo che il vino è il frutto della fermentazione alcolica del mosto d’uva che avviene grazie all’instancabile lavoro di alcuni particolari lieviti. In natura esistono tantissime tipologie di lieviti e diviene difficile selezionare solo uno o più ceppi: nel mosto, qualora la fermentazione non venisse gestita al meglio, si svilupperebbero fermentazioni di altro tipo, ad opera di lieviti diversi da quelli responsabili della fermentazione alcolica. Il risultato? Un vino che presenta grossi difetti. Dall’eccesso di acido acetico, che regala al vino uno spunto acido importante che si avvicina all’aceto, ma anche altri aromi e odori sgradevoli. Per ovviare a ciò, da decenni in cantina si utilizzano lieviti selezionati in grado di opporsi allo sviluppo dei lieviti non necessari, a fine di guidare la fermentazione nella direzione corretta. Questo porta però alla produzione di vini definiti standard, percepiti come artificiali. Questa è una semplificazione estrema per cercare di raccontare il motivo che sta portando sempre più vignaioli, ma anche grandi cantine, alla produzione di vini senza l’utilizzo di lieviti selezionati, ma prodotti essenzialmente gestendo e guidando il lavoro dei lieviti presenti naturalmente in cantina. Ecco che si entra nel mondo della fermentazione spontanea e dei vini “naturali”, che necessitano di un lavoro ottimale in vigneto,

in cantina, ma anche di grandi conoscenze rispetto ai processi chimici naturali che avvengono durante ogni fase della produzione di un vino. Questa è la grande differenza tra ciò che probabilmente succedeva nelle anfore e nelle cantine secoli fa e quello che accade oggi: un tempo il risultato era affidato al caso, oggi alla conoscenza. Il mosto viene trasformato in vino senza aggiungere i lieviti selezionati. Un po’ come avviene nel mondo del formaggio quando lo si produce da latte crudo, i lieviti e i batteri naturalmente presenti nelle uve e in cantina lavorano instancabilmente, guidati dall’uomo e da tutta una serie di cure, per la produzione di un vino unico perché si sa, ogni cantina e ogni ambiente è da considerarsi unico. Uve coltivate rispettando la pianta in grado di raccontare il territorio e intervento minimo e mirato in cantina permettono di produrre vini di terroir: in grado cioè di rappresentare a tutto tondo le interazioni tra ambiente e uomo nella produzione di un vino irripetibile altrove. In passato, alcuni produttori di vini naturali con idee estreme, erano convinti che fosse sufficiente produrre delle buone uve. Una volta arrivati in cantina, il vino si sarebbe “fatto da solo”. Ecco, questo ha portato nelle fasi di approccio alle fermentazioni spontanee al proporre vini che spesso mancavano di piacevolezza, poco interessanti se non difettosi. Ovviamente una vinificazione non interventista (con fermentazioni spontanee, senza lieviti selezionati, anidride solforosa o altri additivi) deve essere condotta con la consapevolezza della necessità di maggiori e puntuali cure da dedicare ai mosti. Partendo da questo presupposto, le fermentazioni spontanee rappresentano una grande opportunità per esaltare l’unicità e l’irripetibilità di un determinato vino, che si potrà fare solamente in una determinata vigna. Ciò non vuol dire che bisogna accettare risultati casuali, ma valorizzare chi ha intrapreso questa strada in maniera consapevole e con le dovute conoscenze. Una vera manna per stimolare sempre più la curiosità consumatori e appassionati, nonostante i vini così prodotti rappresentino ancora una piccola nicchia.

LIEVITI E BATTERI, NATURALMENTE PRESENTI NELLE UVE E IN CANTINA, LAVORANO INSTANCABILMENTE, UN PO’ COME AVVIENE NEL FORMAGGIO QUANDO LO SI PRODUCE DA LATTE CRUDO

37 ottobre-novembre 2020


Š Matteo Zanardi

Enti BilatErali a sostEgno di imprEsE E lavoratori Lavoratori

Imprese

Assistenza per figli disabili, Concorso spese libri di testo/app didattiche, mensa scolastica Concorso spese asili nido

Incentivi alle imprese per l’assunzione di giovani disoccupati (solo sett.commercio) Formazione e apprendistato Corsi sostitutivi libretto sanitario Concorso spese alle aziende che adottano welfare

Per informazioni e per conoscere tutti i sussidi: tel. 035 4120140 - 035.4120116 | info@entebilcombg.it - info@entebilturbg.it | www.entibilateralibg.it

38 ottobre-novembre 2020 B E R G A M O


LEGGERE DI GUSTO

BAR, UN’OASI DI SERENITÀ E UN RIFUGIO PER IL CUORE

Un’antologia composta da 22 racconti scritti da 25 autori che si confrontano con il luogo principe dello svago, punto di incontro e teatro di avvenimenti e situazioni. Nel volume c’è anche un bar bergamasco: “Da Alex”, oggi “Da Gina & Lollo”, in via Broseta 76. Il locale è lo scenario per “Belli capelli”, testo di Massimo Laganà. Protagonista è un papà separato, in preda a paure e difficoltà. E il bar diventa il suo rifugio quotidiano, la sua oasi di serenità, sei mattine su sette, solo perché la domenica è chiuso. Il giornalista di “Oggi”, reggino e fiero della sua bergamaschità d’adozione, mescola autobiografia a parti romanzate. Nella fase post separazione trova conforto nel locale gestito dal signor Luigi che, nel testo, è la signora Marisa: al di là del cappuccino e del cornetto, la figura di Luigi/Marisa, dai “belli capelli” bianchi, che rimandano alla canzone di De Gregori, emblema di saggezza, è quella di chi ti dà calore, calmandoti con un sorriso, una pacca o un biscotto alla nutella. E facendoti sentire a casa.

E POI CI RITROVEREMO COME LE STAR. STORIE, RACCONTI, EPOPEA E MITI DI BAR ITALIANI DI MARTINI E PANZACCHI – MORELLINI EDITORE – COLLANA I MINOLLI - 2020 16,90 EURO

Nel suo manuale la foodblogger Rosella Errante, punto di riferimento per la vasocottura casalinga in Italia, spiega come preparare centinaia di piatti in pochissimi minuti, dall’antipasto al dolce, cuocendoli in vasi di vetro ermetici nel microonde, nel forno tradizionale o a bagnomaria. Un polpo agli aromi mediterranei, per esempio, è pronto in 8 minuti. Le preparazioni sono ideali da gustare all’aperto o in ufficio. Vasocottura facile di Rosella Errante Gribaudo 2020 16,90 euro

A inizio ‘900, il genetista Nikolaj Vavilov girò il mondo e studiò metodi per produrre nuove varietà di piante che rendessero di più e fossero adatte ai diversi climi dell’Unione Sovietica. Nel racconto, che ripercorre alcune tappe dei viaggi di Vavilov, gli autori sono andati a conoscere gli agricoltori che hanno imparato la sua lezione, dal Senegal all’Iran, dall’Indonesia agli Stati Uniti.

L’imprenditore Primo Franco, tra i protagonisti del successo del Prosecco, ne racconta la storia e l’evoluzione nel centesimo anniversario dalla fondazione della sua azienda tra le colline di Valdobbiadene. La narrazione, divertente e dal passo di un’autobiografia, permette al lettore di scoprire le peculiarità di uno tra i vini italiani più amati nel mondo. Libro imperdibile per gli appassionati.

Semi ritrovati. Viaggio alla scoperta della biodiversità agricola di Boscolo e Tola Codice edizioni -2020 16 euro

Prosecco way of life di Primo Franco Cinquesensi -2019 18 euro

39 ottobre-novembre 2020

Eleonora Cozzella racconta storia e curiosità legate al piatto simbolo della cucina italiana. Attraverso i ricettari dal 1700 ad oggi tratta l’evoluzione di una ricetta fluida che fa capolino sui quotidiani e nei film d’epoca all’improvviso, imponendosi nei gusti di un paese, anzi di due, perché conquista i palati americani. Prefazione di Joe Bastianich. Nella seconda parte, l’interpretazione di 33 chef con il loro magistrale tocco. La carbonara perfetta. Origini ed evoluzione di un piatto culto di Eleonora Cozzella Cinquesensi - 2020 30 euro

a cura di Rosanna Scardi


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