DANIELA FOLCO
i Supermangialibri
Daniela tra Folcoi Miti A spasso
a partire dagli
8
anni
A spasso tra i miti
Collana di narrativa per ragazzi diretta da Rosa
Dattolico
A spasso tra i Miti Illustrazioni: Giovanni Bellezza Responsabile editoriale: Roberto Capobianco Ideazione grafica, impaginazione e redazione: Studio X Design S.r.l. Prestampa e stampa: Arti Grafiche Italo Cernia © 2010 Ardea Editrice web s.r.l. • www.ardeaeditrice.it Via Capri, 67 • 80026 Casoria (Napoli) Tel. +39 081 7599674 • Fax. +39 081 2509571 E-mail: ardeaeditrice@tin.it Tutti i diritti riservati. È assolutamente vietata la riproduzione totale o parziale di questa pubblicazione, così come la sua trasmissione sotto qualsiasi forma o con qualunque mezzo, senza l’autorizzazione della casa editrice Ardea web. Ristampa 2011 1
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Indice Ade e Persefone. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Orfeo ed Euridice. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Eco e Narciso. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Filèmone e Bàuci. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Come Zeus punì Prometeo.. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Pandora e lo scrigno dei mali. . . . . . . . . . . . . . . . . . . Le dodici fatiche di Ercole.. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Re Mida. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Teseo, Arianna e il Minotauro. . . . . . . . . . . . . . . . . . . Bacco e Arianna. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Perseo e Medusa.. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Atlantide, l'isola misteriosa. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Teti, Peleo e la guerra di Troia. . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Laboratorio teatrale. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 126
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Ade e Persefone Devi sapere che tanto tempo fa c’era una dea che si chia-
mava Demetra. Era cara a tutti perché aveva insegnato agli uomini a far germogliare i semi. Ma non solo dei semi si era occupata Demetra, anche delle intere pianticelle: le foglioline tenere, appena nate, dovevano poi essere curate. La dea, allora, aveva dato un mare di consigli agli uomini affinché tutto andasse per il meglio e i raccolti fossero buoni. La dea proteggeva sia uomini che piante. Senza di lei i campi sarebbero stati aridi, secchi gli alberi, le colline e le pianure. Gli uomini avrebbero perciò sofferto la fame. Demetra aveva una figlia: la bellissima Persefone. Quando Persefone camminava nei prati, gli steli d’erba, i fiori in boccio, i rami degli alberi si piegavano. Da ogni parte giungeva un mormorio d’ammirazione: – Salve, bella Persefone. Sii felice oggi! La ragazza rispondeva, sussurrando al vento più o meno così: – Salve prati, campi e boschi, certo che sarò felice. Che giornata meravigliosa! Che tripudio di colori, qui tra voi! E la brezza le scompigliava i riccioli biondi. Talvolta, nelle sue passeggiate, l’accompagnavano le ninfe
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Oceanine, altrettanto graziose. Insieme coglievano fiori per intrecciarli e farne ghirlande. Rose e violette, giacinti e lillà avrebbero formato delicate coroncine. Ma un triste giorno, mentre Persefone e le ninfe coglievano fiori in un prato, all’improvviso sbocciarono mille e mille corolle di una pianticella sconosciuta. Sembravano dire: – Coglici! Coglici, Persefone… E la ragazza, vinta da quell’incanto, a passo di danza corse da loro e si chinò. Non l’avesse mai fatto! Aveva ancora le mani tese, Persefone, quando la terra si aprì e dall’abisso giunse un cocchio tutto d’oro, trainato da cavalli neri come la pece. Lo guidava un uomo bello e vigoroso. Ma il suo sguardo era gelido. – Persefone, ti porterò con me! – disse il giovane. – Chi sei? – domandò la giovinetta, impaurita. Subito lui spiegò: – Sono Ade, il signore dell’Averno. Ade aveva deciso di tornare nelle profondità degli Inferi fino
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a quando non avesse trovato moglie. Appena vide Persefone, se ne innamorò a tal punto da volerne fare la sua sposa a tutti i costi. La dolce fanciulla guardò lo sconosciuto e, dopo un attimo di esitazione, tentò una fuga disperata. Aveva fatto pochi passi, per fuggire via più in fretta, che Ade la strinse fra le braccia e la trascinò sul carro. – Aiuto! Aiutooooo! – gridò invano Persefone. Uno schiocco di frusta e già i cavalli si inabissavano in un inferno tenebroso.
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– Aiutooo! – continuò a implorare Persefone inutilmente. Il suo grido riecheggiò fra le cime dei monti, lungo i colli e negli abissi del mare. Anche Demetra lo sentì e comprese che la figlia era stata rapita. Allora, avvolta in uno scuro mantello, si mise a cercarla. Più chiedeva di lei, sia agli dei che agli uomini, più aumentava la sua disperazione. Nessuno, infatti, sapeva niente. – Prova a cercarla… – le dicevano indicando i posti più improbabili: in cima ai vulcani, tra le crepe dei ghiacciai, in mezzo al deserto.
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Per nove giorni Demetra vagò disperata, poi all’alba del decimo decise di rivolgersi al Sole: – Ti prego, Sole, tu che da lassù vedi tutto, aiutami a trovare Persefone. Qualcuno l’ha rapita. Se sai chi è stato, dimmi la verità! Il signore del cielo provò compassione per la sfortunata madre. – Sento tanta pena per te, Demetra, quindi non ti nasconderò nulla. È stato Ade a rapire Persefone. L’ha condotta nel suo regno per farne la sua sposa. Demetra si portò le mani al volto bagnato di lacrime. – Perché ti disperi così tanto? In fin dei conti Ade è uno sposo degno di tua figlia, non ti pare? – osservò il Sole. – Ade regna sull’oltretomba e non permetterò che mia figlia resti per sempre laggiù nel buio eterno – rispose Demetra, e se ne andò, inferocita, senza dar retta al Sole che cercava di consolarla dicendole di vedere i lati positivi della situazione. Da quel giorno evitò tutti: dei e uomini. Ed evitò anche di essere buona e gentile. Quindi, nessuna protezione per uomini, semi, germogli. Ci fu una terribile annata: a torrenti di pioggia e grandine se-
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guirono giorni di caldo torrido. Sembrava che i contadini avessero seminato sale nei campi: non davano più frutti! La disperazione di Demetra generava la disperazione di tutte le creature della terra. Vedendo la terra ricoperta di stoppie giallastre, Zeus, il padre degli dei, si inquietò. Intanto, gli uomini piangevano come fontane. Zeus, allora, si convinse che era suo dovere intervenire e richiamare Demetra. Se gli uomini morivano, chi avrebbe più omaggiato gli dei? A questo punto bisognava correre ai ripari, e in fretta. Zeus chiamò dunque Ermes, il messaggero degli dei, e ordinò: – Va’ da Demetra e dille di venire da me. Ma Demetra non ubbidì. Allora Zeus mandò, uno a uno, tutti gli dei a pregarla. Chi recava fiori, chi gioielli, chi abiti leggiadri. Tutto risultò invano, perché Demetra continuava a sostenere che non sarebbe tornata a vivere nell’Olimpo con le altre divinità e mai più avrebbe fatto rifiorire la terra, se prima non avesse riavuto sua figlia. Zeus strinse i pugni, aggrottò le sopracciglia e chiamò di nuovo il figlio Ermes a gran voce. Ermes, pallido come un lenzuolo, scese in fretta i gradini che portavano al mare di nubi che circondava l’Olimpo. Zeus con il braccio teso, barba fluente e capelli mossi dal vento, ordinò dalla soglia: – Non fallire, altrimenti… Mentre spiccava il volo, Ermes non capì bene la minaccia del padre. Però un brivido gli percorse la schiena. Ermes, giunto nel regno dei morti, incontrò Ade nella sala del trono.
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Ade e Persefone sedevano l’uno accanto all’altra su due imponenti seggi. Persefone aveva uno sguardo così triste che Ermes provò un grande dolore per lei. Allora, disse con tutto il coraggio che possedeva: – O Ade, potente sovrano delle ombre eterne, riporta alla luce tua moglie Persefone. È Zeus che te lo ordina. Rimandala sulla Terra. Ade rimase stupito. – Demetra, se non rivedrà la figlia, impedirà ai semi di crescere e gli uomini moriranno di fame – aggiunse Ermes.
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– Non rinuncerò mai alla mia sposa. Persefone rimarrà con me! Ermes si adirò: – Ascoltami bene, è Zeus che te lo ordina, non gli uomini. Non possono nulla gli uomini contro gli dei. Ma tu, Ade, non puoi disobbedire agli ordini di tuo padre. La minaccia risuonò lungo le pareti della sala. Il suolo tremò e il buio si fece più fitto. Ade si impaurì. Sussurrò: – Persefone tornerà da sua madre. E, allora, ci fu un lieve chiarore: una luce debole che veniva dagli occhi e dal sorriso di Persefone. – Tieni – le disse Ade, porgendole dei chicchi di melagrana. Era un tranello, naturalmente. Mangiando quei chicchi dolciastri Persefone sarebbe stata per sempre legata a quel regno tenebroso e non sarebbe potuta rimanere in eterno presso la madre, né in altro luogo. Infatti, con un sorriso malvagio, Ade dichiarò: – Ti lascio partire, Persefone, ma sappi che grazie ai chicchi che hai mangiato sarai costretta a tornare da me.
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I cavalli furono attaccati al cocchio d’oro, Ermes vi fece salire Persefone e, prese le briglie, li fece partire al galoppo. I destrieri correvano verso la luce. Si squarciarono le tenebre, la terra si aprì e il dolce sole accarezzò il viso di Persefone. Allora, furono boschi e vallate, mari e fiumi. Andavano e andavano, con la criniera al vento, i cavalli. La loro corsa sembrava non avere fine. All’improvviso, si fermarono davanti al tempio di Eleusi. Sugli scalini, avvolta in una veste scura, una donna piangeva cercando di trattenere i singhiozzi. Persefone corse da lei e l’abbracciò. – Sono qui, sono tornata! – le disse, mentre la stringeva a sé. Tanti furono gli abbracci e le carezze e tante le parole che le due donne si dissero. Le due donne si tennero strette e piansero di gioia. Persefone raccontò del rapimento e degli ordini di Zeus e anche dei chicchi di melagrana. Il viso di Demetra si rannuvolò, ma solo per poco perché Ermes le aveva raggiunte e riferì gli ordini di Zeus. – Demetra, Zeus ti invita a tornare fra gli dei, con tutti gli onori che desideri. Tua figlia trascorrerà nel regno del suo sposo solo sei mesi, il resto lo trascorrerà con te. Smetti di essere in collera e fa’ crescere i frutti necessari alla vita degli uomini. Demetra, felice, acconsentì: i semi si svilupparono e la terra si ricoprì di foglie e fiori. Nel mondo era tornata la vita. Questo mito narra dell’eterno avvicendarsi delle stagioni: quando Persefone è con il marito Ade, tutto è brullo e spoglio. Ma non appena lei torna sulla Terra, sboccia la primavera, i
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prati rinverdiscono, germogli e fiori spuntano dappertutto. Con l’autunno, quando lei torna nel regno dei morti, gli alberi perdono le foglie, i prati ingialliscono, l’intera natura sembra triste per la sua assenza.
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Rispondi. • Quali e quanti sono i personaggi? • Qual è il tema centrale del mito? • Che cosa ci vuol spiegare?
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Orfeo ed Euridice Nel bosco era tutto un fruscio di rami mossi dal vento. La
ninfa Euridice coglieva dei narcisi sulla riva di un ruscello. La vide Orfeo e la portò nel suo palazzo per sposarla. Euridice era felice in quel magnifico palazzo, ma ogni tanto si stancava della vita di corte. Allora fuggiva nei prati per incontrare le altre ninfe. Ai piedi degli imponenti castagni, raccontava della sua vita fra case di pietra e vie lastricate, dove le persone andavano e venivano. Al posto della pace dei campi, pieni di fiordalisi e papaveri, c’era sempre un gran chiasso in quelle strade e lei, allora, provava molta nostalgia per la quiete della campagna. Spesso anche Orfeo desiderava riposarsi sotto i verdi rami di querce e faggi. Ascoltava insieme alla moglie il mormorio del ruscello e suonava la lira. Le ninfe cantavano e ballavano al suono dalla sua musica. Altre volte, Euridice passeggiava da sola per i sentieri che serpeggiavano lungo i fianchi della montagna. In inverno, le piaceva guardare gli arabeschi che la brina ricamava sui rami degli alberi, ma come giungeva la primavera si divertiva a cogliere i fiori dei campi. D’estate, invece, segui-
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va ammirata i balzi di caprioli e stambecchi. Un giorno, stava osservando un cerbiatto che pascolava in un verde prato. D’improvviso, la bestiola rizzò le orecchie e fuggì via. Ad un tratto uscì dal bosco un uomo alto con arco e frecce in spalla. La raggiunse e subito le parlò: – Devi essere una ninfa, sei talmente bella. Euridice arrossì. Teneva gli occhi bassi e non vedeva l’ora che il cacciatore se ne andasse. Aveva uno sguardo crudele e proprio non le piaceva. Euridice prese a sistemare i fiori e i frutti nel cestino che aveva portato con sé. In verità, li aveva già messi in ordine: un tripudio di tinte. Alle rosse more seguivano i neri mirtilli, poi c’erano le fragoline di bosco, di un rosso vivo, con attorno foglie di felce verde scuro. Margherite gialle e lillà viola completavano l’insieme. Spostava fiori e frutti, Euridice, e si chiedeva se non fosse il caso di scappare come aveva fatto il cerbiatto. – Sei di poche parole, vedo – esclamò l’estraneo. Euridice non gli rispose. Lontano si udì il richiamo
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del cuculo e un gruppo di gazze attraversò in volo il cielo. Ali nere e chiazze bianche su dorso e collo, le bestiole stridevano per la gioia di sentirsi addosso la forza del vento e il calore del sole. L’uomo osservò la scena e annunciò deciso: – Non me ne andrò finché non mi dirai da che parte è scappato il cerbiatto. – Quale cerbiatto? – chiese Euridice. Aveva deciso di proteggere l’animale. “Troppo grazioso e gentile per finire ucciso da quell’energumeno” rifletté la ninfa.
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– Non puoi non averlo visto, lo stavo inseguendo ed è passato di qui… – l’uomo aveva allungato il braccio per afferrarla, ma Euridice con un balzo già fuggiva per il prato. Correva e correva, la poverina. Il cacciatore la inseguì urlando: – Non sfuggirai a un dio! Euridice aveva ormai raggiunto il bosco. I rami degli alberi si chiusero sopra di lei mentre l’uomo gridava: – Sono Aristeo, il dio dei cacciatori. Non mi sfuggirai! La ninfa aumentò la corsa nonostante i cespugli la ferissero e
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le strappassero le vesti. Ogni tanto Euridice si voltava e scorgeva in basso Aristeo che guadagnava terreno. Però era lento ad attraversare i ruscelli. Così Euridice se ne lasciò un paio alle spalle e salì su per il costone roccioso. Sulle rocce non rimanevano le impronte dei suoi piedi: Aristeo la perse di vista e rinunciò all’inseguimento. Con il cuore in gola, infine, Euridice si lasciò cadere su una roccia. Sotto di lei vedeva le chiome verdi dei pini e degli abeti. Il sole era caldo, il cielo di un azzurro cobalto con bianchi fiocchi di nuvole. Vinta dalla stanchezza, Euridice si addormentò. Aristeo non era riuscito a raggiungerla, ma lì ai suoi piedi un nemico ben più terribile strisciava nell’ombra. Con la lingua biforcuta fuori dalla bocca, una grossa vipera avanzava sui massi. Infine, trovò un ostacolo: la gamba di Euridice. Sibilò e morse il polpaccio. Ci volle poco perché il veleno facesse effetto. Scesa la notte, tutti nel palazzo di Orfeo iniziarono a chiedersi come mai Euridice non fosse ancora tornata. Se lo domandava soprattutto lui, Orfeo. Dopo averla aspettata a lungo,
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decise di cercarla nei boschi assieme alle guardie, ma vane furono le sue ricerche. Più il tempo passava, più nessun conforto gli davano le parole di parenti e amici. Finché un giorno decise di andare a riprenderla scendendo nel regno dei morti per riportarla in vita. – Sei pazzo! – esclamò il padre quando Orfeo gli comunicò la sua decisione. – Non puoi cambiare il destino e il volere degli dei. Chi entra nell’aldilà non può più tornare indietro.
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Orfeo non lo ascoltò. Partì con la lira sotto il braccio. Si diresse a Nord finché non raggiunse il fiume Stige che scorre tra il regno dei vivi e quello dei morti. Un vecchio spaventoso sopra una barca lo fermò con la mano alzata: – Dove vuoi andare, qui non c’è posto per te – e allargò il braccio, indicando una schiera di uomini e donne in lacrime che gremivano i sedili dell’imbarcazione.
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Orfeo, che voleva essere traghettato sull’altra sponda, prese la lira e iniziò a suonare. Sapeva bene che pochi erano in grado di resistere alla dolcezza di quella musica. Infatti, il viso di Caronte, così si chiamava l’orribile vecchio, si illuminò di un lieve sorriso. – Non posso negarti un passaggio, accompagnami con la tua musica durante il viaggio. Anche il cane mostruoso, Cerbero, il custode dell’altra sponda, non seppe resistere a quell’armonia e lo lasciò passare. E persino Persefone, la regina di quel regno di morti, non rimase indifferente a quella musica. Disse commossa: – Orfeo, l’amore ti ha portato qui e l’amore ti ridarà la tua sposa. Ma a un patto: non devi voltarti a guardarla prima di aver raggiunto la luce. Se ti volterai, lei ritornerà per sempre in questo mondo. Euridice arrivò raggiante di gioia. Si abbracciarono a lungo, lei e Orfeo. Poi Persefone li invitò a partire. Non ebbero problemi gli sposi ad attraversare il fiume Stige. Non rimaneva che lo stretto passaggio fino alla superficie della Terra. Orfeo era davanti e mai si era voltato perché sentiva dietro di sé i passi leggeri della bella Euridice. La gioia gli invadeva il petto: presto avrebbero ancora vissuto giorni e giorni felici. Li aspettavano tante ore serene. Insieme avrebbero camminato per i giardini in fiore o lungo gli argini scintillanti di freschi ruscelli. Insieme avrebbero condiviso tutti i momenti che la vita avrebbe loro offerto. Orfeo arrivò alla fine del cunicolo, il sole quasi l’accecò e la gioia lo tradì. Infatti, fu così forte da fargli dimenticare che non doveva voltarsi, invece per abbracciare Euridice si volse.
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Ma lei non era ancora uscita dalle tenebre, apparteneva ancora al mondo dei morti. Orfeo la vide allungare le braccia verso di lui, il viso stretto in una morsa di dolore. Cercò di afferrarla, ma strinse solo l’ombra. Euridice era scomparsa e persa per sempre.
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Rispondi. • Qual è il significato del mito? • Che cosa vuole raccontare? • C’è una morale? Racconta. Immagina un finale diverso: scrivilo e, poi, raccontalo a voce.
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Eco e Narciso Tanto tempo fa c’era, in un villaggio della Grecia, un ra-
gazzo così bello ma così bello che di sicuro non poteva essere figlio di comuni mortali. Infatti, aveva preso la grazia del corpo dal padre, il sacro fiume Céfiso, e il volto incantevole con i profondi occhi azzurri dalla madre, la ninfa Lirìope. Ed era stata Lirìope a portarlo ancora in fasce da Tirèsia, l’anziano del villaggio, che sapeva predire il destino degli uomini. Tirèsia, pensieroso, osservava il bimbo che sgambettava e si mordeva il pollice in braccio alla madre. – Allora? – chiese Lirìope, che aveva fretta di tornare a casa. Tirèsia osservava il piccolo e scuoteva la testa. – Qualcosa non va? – domandò ansiosa la ninfa, stringendo a sé il bimbo e accarezzandogli i biondi ricci. Poi, iniziò a cullarlo dolcemente fra le braccia. Intanto, non sollevava lo sguardo dai neri occhi di Tirèsia. “Dire o non dire il triste destino del bimbo?” si chiedeva angosciato il vecchio indovino. – Racconterò in giro che non sei più capace di rispondere a
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delle semplici domande – lo minacciò, a un tratto, Lirìope. Tirèsia tagliò corto: – Narciso potrà vivere a lungo, a patto che non conosca se stesso. E non aggiunse altro. – Ma che significa? – gridò Lirìope, mentre si allontanava a grandi passi con il bimbo. A sedici anni Narciso era il più bel ragazzo che si fosse mai visto. A caccia superava i compagni in agilità. In paese, quando suonava il flauto o danzava, non c’era donna che non sussurrasse: – Come è bello! Se solo si innamorasse di me… A Narciso, naturalmente, non sfuggivano le occhiate d’ammirazione, ma non era ancora giunto il tempo per lui di innamorarsi. In una splendida mattina di primavera, mentre sistemava nel bosco delle reti per catturare dei cervi, Narciso udì un rumore di passi leggeri sulle foglie e si incuriosì. Quando si volse, vide una bella ragazza, che lo stava spiando da dietro un pino. Si trattava della ninfa Eco, figlia dell’Aria e della Terra. La fanciulla era stata punita da Era, la moglie
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di Zeus. E la punizione era davvero strana: Eco non poteva più parlare, le era concesso solo di ripetere l’ultima parola pronunciata dagli altri. – Salve – disse Narciso. – Salve – rispose Eco. – Bella giornata non ti pare? – Pare? – Sì, mi pare. – Pare? A questo punto, Narciso pensò che la ninfa volesse prender-
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lo in giro. – Ehi, smettila di ripetere quello che dico! – Dico. Narciso, credendo di essere canzonato, aggredì la fanciulla: – Perché ti prendi gioco di me? – Me? – Se continui, te ne pentirai! – Pentirai – annunciò sorridendo Eco e già tentava di abbracciare Narciso. “Fossi matto!” pensò lui. “Non voglio avere a che fare con questa fanciulla” e si mise a correre nel bosco. Eco lo inseguiva, correndo a piedi nudi sugli aghi di pini. Tendeva le braccia e Narciso le gridò: – Lasciami in pace! – Pace! Pace! – gridava Eco con gli occhi pieni di lacrime. – Pace! Pace! – ripetè la sfortunata ninfa fino al mattino. Poi, per il dolore, si dissolse al sole e di lei rimase solo la voce: l’eco. La dea della caccia, Artemide, volle vendicarla. Perciò, passo dopo passo, guidò Narciso fino a un laghetto montano. L’acqua era limpida, mossa solo da qualche increspatura. E Narciso si chinò per dissetarsi. Si bagnò mani e viso, mentre cerchi concentrici si allargavano sempre più. Fra l’uno e l’altro Narciso scorse il viso di un giovane bellissimo. – Bello!– mormorò incantato e non si staccava dall’acqua e non smetteva di sussurrare giorno e notte, con voce sempre più debole quella parola. Siccome non aveva smesso neppure per un attimo di specchiarsi nell’acqua limpida crollò a terra e morì.
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La profezia di Tirèsia si era avverata: conoscendo se stesso, Narciso si era procurato la morte. Ma gli dei generosi non lo abbandonarono: dal suo corpo, per ordine di Zeus, nacque uno splendido fiore dalla gialla corolla: il narciso.
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Rispondi • Di chi è figlio Narciso? • A sedici anni Narciso che tipo di giovane è? • Un giorno Narciso chi incontra nel bosco? • Perché il giovane pensa di essere deriso dalla giovane fanciulla? • Narciso accetta o rifiuta l’amore di Eco? • Che cosa succede a Eco? • Narciso giunge nei pressi di un laghetto. Per opera di chi? • Che cosa gli accade? La parola “narcisismo” deriva appunto da Narciso. Indica con una X il significato esatto: amore per il prossimo adorazione nei confronti di sé disprezzo nei confronti di se stesso e degli altri
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Filèmone e Bàuci Tanti e tanti anni fa, in uno sperduto villaggio dell’Asia
Minore, vivevano sereni due arzilli vecchietti. Si chiamavano Filèmone e Bàuci. Benché fossero molto vecchi, continuavano a lavorare dal canto del gallo, la mattina, alla prima stella in cielo, la sera. Filèmone, il marito, coltivava tutto curvo il campo. Bàuci, la moglie, curava le faccende di casa e si occupava dell’orto. Poi, naturalmente, c’era da zappare, potare, raccogliere legna per l’inverno… allora si davano una mano a vicenda. Sui visi rugosi spiccava sempre un dolce sorriso perché Filèmone e Bàuci si volevano bene ed erano, perciò, contenti della loro vita semplice e felice. E ciò accadeva sulla Terra. Invece, nell’Olimpo, Zeus era sempre più infastidito dalle liti che scoppiavano di continuo fra gli dei. – Se non la smettete – aveva dichiarato a tutti loro – me ne vado. Un bel giorno, non potendone più, se ne andò davvero. – Ci prendiamo una bella vacanza, Ermes – disse al figlio che l’accompagnava.
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– Dove andiamo? – chiese Ermes, spalancando gli occhioni azzurri. Zeus gli rispose con un sorriso. Giunsero così, per caso, nel villaggio di Filèmone e Bàuci. Ormai si era fatta sera e i due dei crollavano dalla stanchezza: avevano preso le sembianze di due comuni mortali e, quindi, sentivano la fatica del lungo viaggio come tutti gli uomini. – Papà, chiediamo a qualcuno di ospitarci per la notte – suggerì Ermes. Detto fatto, Zeus bussò alla porta di un ricco mercante di tappeti. – Chi siete? – chiese il padrone di casa in un tono tutt’altro che gentile. Zeus rispose: – Siamo due creature stanche e affamate. Aiutaci, per favore. Abbiamo bisogno solo di un po’ di cibo e di un letto per la notte. Il mercante li osservò attraverso uno spioncino e decise di cacciarli via: – Andatevene! Ce ne sono già fin troppi di vagabondi in giro. Proprio non vi voglio in casa mia! – Non siamo vagabondi! – gridò Zeus infuriato. – Siamo uomini come te e abbiamo fame e sonno. Il mercante non si impietosì: – Andatevene o chiamo i servi. Zeus stava già per incenerire la casa del mercante villano con uno dei suoi fulmini, ma Ermes glielo impedì: – Troveremo senz’altro qualcuno più gentile… Ma nessuno volle accoglierli.
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– Ora lo incenerisco, questo villaggio! – dichiarò Zeus. – E il figlio subito glielo proibì: – Ci penserai dopo a vendicarti. – Dopo cosa? – chiese Zeus. – Dopo che avremo trovato qualcosa da mettere sotto i denti e un posto dove abbandonarci al sonno – osservò Ermes. Mentre parlava spinse lo sguardo verso la collina. C’era una sola casa, una casupola da quattro soldi, però il cortile era in ordine e una donnetta stava spingendo galline e caprette nella stalla. – Andiamo! – disse Ermes e in quattro falcate era già arrivato alla porta della casa di Filèmone e Bàuci. Il sole tramontava in quel momento dietro la grande montagna. Sui prati passò la carezza del vento. Sbirciando attraverso la finestra, Zeus ed Ermes videro una lanterna accesa e Bàuci che, con un mestolo di legno, rimestava la zuppa per la cena. Bussarono. Bàuci a passettini raggiunse la porta e l’aprì. Disse la donna: – Siate i benvenuti, forestieri. Noi siamo poveri, ma mio marito e io faremo di tutto per aiutarvi. Zeus rimase impalato sulla soglia per qualche istante. Non si aspettava un’accoglienza così calorosa. – Forza! Inizia a far freddo fuori – consigliò Filèmone, invitandoli con un gesto della mano a sedersi accanto al camino. Bàuci aggiunse: – Certo dovete accontentarvi, siamo poveri, ma quel che abbiamo lo divideremo con voi volentieri. Zeus, in piedi accanto al camino, si riscaldava mani e braccia. Ermes, invece, assaggiò con piacere il bicchiere di vino che Filèmone aveva messo in tavola.
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– Scalda più del fuoco – disse il dio soddisfatto e bevve un altro sorso. Bàuci portò un po’ di formaggio e del pane. – L’ho cotto stamani, prendetelo, non bevete a stomaco vuoto. Sembra leggero questo vino, ma dà alla testa. Anche Zeus assaggiò il vino, accompagnandolo con il pane: – Mi sento meglio – disse con un grosso sospiro di soddisfazione. Filèmone e Bàuci risero contenti. Avevano temuto di far brutta figura con gli ospiti inattesi. Pensavano, i vecchietti, che la casa fosse troppo misera per accogliere degli sconosciuti. Invece, Zeus ed Ermes ridevano e mangiavano di gusto i legumi e le uova, tolti dalla pentola sul fuoco. Poi ci furono anche i fichi secchi. Molte parole volarono da un lato all’altro della tavola. Il fuoco scoppiettava e l’ombra della lanterna si piegava sul muro. Zeus scuoteva la testa, continuando a ripetere: – Ci vuole una bella punizione, gli abitanti di questo villaggio non sono stati gentili come voi. Filèmone e Bàuci strizzavano gli occhietti e assentiva-
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no con il capo. Erano convinti che lo straniero fosse un po’ brillo. Si lanciavano occhiate, ridevano come due monelli che avevano combinato qualche guaio. Zeus li trascinò fuori. – Oooh! – esclamarono Filèmone e Bàuci. Erano abituati alla bellezza della notte. Ma mai, come in quel momento, il cielo era stato così fitto di stelle. Mai come in quella notte, là oltre le colline, il mare aveva mormorato la sua dolce canzone. Frusciavano le foglie degli ulivi illuminati dalla luna. La quiete regnava nel villaggio.
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– Voltatevi e chiudete gli occhi – ordinò il potente Zeus. Filèmone e Bàuci fecero come aveva comandato. Si udì un boato spaventoso e fu come se mille e mille cascate si fossero riversate sulla piana, dove stava il villaggio. Quando si volsero, Filèmone e Bàuci videro un lago maestoso. Là dove prima era il villaggio ora l’acqua s’increspava e rifletteva lo scintillio del cielo stellato. Filèmone e Bàuci tremavano, ma non per il freddo. – Non temete – disse Zeus – a voi non capiterà nulla. Benché rassicurati, i due non smisero di tremare. – Guardate – li invitò Zeus, indicando la loro casa. – Oooh! – fecero e si inginocchiarono mentre quella che era stata una catapecchia si trasformava in uno splendido tempio di marmo con statue d’oro puro. – Avrete capito – disse allora Zeus – che sono un dio – e chiese ai due vecchi di esprimere un desiderio. Prese la parola Filèmone mentre posava un braccio attorno alle spalle di Bàuci. – Vorrei continuare a vivere qui, assieme a mia moglie potremmo diventare i custodi di questo magnifico tempio. Bàuci lo interruppe: – Per quell’amore che ci ha unito tutta la vita, vorrei rimanere qui con mio marito fino agli ultimi istanti e anche oltre – sorrise mentre gli occhi le si inumidivano per la commozione. Anche Zeus si commosse e li accontentò. Una sera, tanti anni dopo, Filèmone e Bàuci ancora parlavano di quello straordinario incontro con Zeus ed Ermes. – Zeus manterrà la promessa e ci farà stare insieme in eterno? – chiese Bàuci, che si sentiva molto stanca.
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La risposta alla domanda giunse inaspettata. Le sue gambe si allungarono in radici e penetrarono giù giù nel terreno, mentre lo stesso succedeva a quelle di Filèmone. Poi furono le braccia a stendersi in rami. Molti rami ricoperti di foglie. Il busto di Filèmone divenne il tronco di una quercia, quello di Bàuci di un tiglio. E, come in vita spesso si erano abbracciati, anche come alberi non smisero di farlo: i rami delle due piante si intrecciarono così tanto che non si riusciva a distinguere dove iniziasse la quercia e dove finisse il tiglio.
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Rispondi. • Chi sono i personaggi della storia? • Quali ruoli hanno gli dei? • Qual è il significato del mito? Che cosa vuol raccontare? Filèmone e Bàuci hanno mostrato generosità nell’accogliere i loro ospiti. Nella tua realtà hai conosciuto episodi analoghi? Scrivi le tue riflessioni e confrontale con quelle dei tuoi compagni.
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Come Zeus punì Prometeo Un tempo, gli uomini abitavano nelle caverne e spesso pa-
tivano il freddo e la fame. Zeus, in visita sulla Terra, si impietosì di loro. “Come fanno, poverini, a vivere in queste condizioni?” si chiedeva. “Deve essere ben duro stare in queste grotte umide e dover cacciare per procurarsi un po’ di cibo”. Il padre degli dei si impietosì anche degli animali. Per porre rimedio alla situazione, chiamò Prometeo, che non muoveva un passo senza il fratello Epimeteo, un gran pasticcione. – Per gli uomini e gli animali è troppo dura la vita, aiutali in qualche modo – ordinò Zeus. – Sarà fatto – annunciarono Prometeo ed Epimeteo. Zeus li guardò e aggiunse: – Prometeo, sta’ attento che tuo fratello non combini guai. Appena Zeus se ne fu andato, Prometeo disse: – Non c’è giorno che Zeus non mi dia un incarico. Sono tanto stanco. Quanto vorrei addormentarmi sotto una quercia con la testa all’ombra e il corpo al sole! – Non hai che da farlo – gli suggerì Epimeteo.
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– Già, e poi cosa racconto a Zeus? – sottolineò Prometeo. – Non gli dici niente, perché tutto sarà fatto e per benino – annunciò sicuro il fratello. – Ah, davvero? – chiese Prometeo incredulo. Epimeteo gli strinse la guancia tra pollice e indice e lo guardò fisso negli occhi. – Che ci vuole? Una mezza giornata di lavoro e uomini e animali saranno sistemati. Lascia fare a me e schiaccia un pisolino dove più ti piace – e scomparve alla velocità del fulmine. Arrivato sulla Terra, Epimeteo chiamò gli animali e si mise a
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distribuire i doni che aveva portato con sé. Fu così che a molti diede la forza, ad altri l’astuzia, ad altri ancora la velocità, l’odorato e la vista acuta. Poi, regalò la grazia, zanne e artigli per difendersi, ali per fuggire, piume e pellicce per proteggersi dal freddo, gusci duri. D’un tratto, da dietro un grosso masso fecero capolino gli uomini. – E a noi cosa dai? – chiesero timorosi. Epimeteo sollevò il sacco che aveva contenuto i doni. Rovesciatolo, ne venne fuori solo un pulviscolo dorato. E il dio battendo le mani in preda alla disperazione disse: – Ho finito tutto. Non c’è più niente per voi! Gli uomini avevano levato le lance e l’avrebbero colpito, se Prometeo non l’avesse trascinato in fretta e furia in cielo. – Quando la smetterai di fare pasticci? – gli disse. Passarono alcuni mesi. Inutile dire che gli uomini stavano sempre peggio. Quando incontrava Prometeo, il grande Zeus fingeva di non vederlo. Il povero Prometeo non solo era addolorato per il modo con cui il padre degli dei lo
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trattava, ma anche per la condizione degli uomini. “Che posso fare per loro?” si chiedeva amareggiato, camminando lungo la riva del mare. “Cosa può scaldarli, come i raggi del sole che sento sulla pelle?” L’acqua andava e veniva sulla sabbia e i gabbiani stridevano. – Ho trovato! – urlò felice Prometeo. – Il fuoco aiuterà gli uomini! Il fuoco darà loro il calore negli inverni gelidi, servirà per cuocere il cibo, terrà lontane le belve feroci, e poi potranno fondere metalli, fabbricare armi e attrezzi per coltivare i campi e diventeranno i padroni della Terra – diceva ad alta voce. Questi pensieri li riferì a Zeus che si mostrò piuttosto dubbioso: – Forse è un po’ troppo. Non vorrei che gli uomini diventassero potenti, quasi quanto noi dei. Tanto fece e tanto pregò Prometeo che alla fine Zeus acconsentì: gli uomini avrebbero avuto il fuoco. Prometeo fu molto soddisfatto. Ovunque sulla Terra, le creature si inchinavano e l’omaggiavano: – Grazie, potente dio – dicevano le donne al fiume. – Grazie! – urlavano i fieri cacciatori nelle foreste. – Grazie – esclamavano i bimbi che giocavano al sole, gli correvano incontro e gli abbracciavano le ginocchia. Prometeo si inorgoglì a dismisura. Si sentiva forte, intelligente, bello, furbo. “Sì, sono senz’altro meglio di Zeus” si disse un giorno. “In fin dei conti è solo un vecchio brontolone, io sono molto più in gamba” mormorò. Ma a Epimeteo, che gli stava sempre vicino, quella frase non sfuggì. – Di chi sei più in gamba e chi è il vecchio brontolone? –
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chiese. Prometeo, allora, rispose: – Zeus è un vecchio brontolone e io sono più astuto di lui. Epimeteo si piegò in due dalle risate. Poi, affrontò deciso il fratello: – Dimostralo, se ne sei capace! Fu così che Prometeo si preparò un destino crudele con le sue mani. Avrebbe giocato un tiro a Zeus: era l’unico modo per
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dimostrare di essere più bravo di lui. Pensa e ripensa, decise di sottrarre al padre degli dei la parte migliore della carne di un bue che gli uomini gli avevano offerto. Dopo la scelta di Zeus, la carne restante sarebbe rimasta agli uomini. Cosa fece, dunque, Prometeo per beffare il grande Zeus? Avvolse ossa e grasso nella pelle dell’animale e nascose sotto le budella la carne migliore. Le parti erano disuguali e Zeus scelse quella più grossa. Portò via, quindi, ossa e grasso. Non appena il padre degli dei se ne accorse, montò su tutte le furie: – Me la pagherà! Prima però sistemo gli uomini! In men che non si dica, fece sparire dalla Terra il fuoco: le notti ritornarono fredde e buie e gli uomini ripresero a patire freddo e fame. Prometeo, comunque, non si dette per vinto. Se il potente Zeus si mostrava meschino e vendicativo, lui invece sarebbe stato generoso. Salì sulla cima dell’Olimpo e rubò al fiammeggiante carro del Sole qualche scintilla. Le portò sulla Terra e ridiede il fuoco agli uomini. Naturalmente Zeus se ne accorse quasi subito. Ogni sera aveva l’abitudine di affacciarsi dalla soglia del suo palazzo e gettare uno sguardo sulla Terra. Come la vide cosparsa di tremule luci, si arrabbiò davvero. E ancor più ira gli salì al cuore quando scorse gli uomini danzare felici attorno al fuoco. Chiamate a raduno le nubi, spense con una pioggia torrenziale i fuochi. Non ancora soddisfatto, fece incatenare Prometeo su un’alta roccia.
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Ogni giorno, un’aquila gli squarciava l’addome e gli divorava il fegato, che di notte ricresceva. Poi la ferita si rimarginava, ma di giorno ricominciava il martirio: tornava l’aquila e gli divorava di nuovo il fegato. Forse sarebbe durato in eterno quel martirio, se Ercole non avesse avuto pietà di Prometeo. Senza un attimo di esitazione, scoccò una freccia contro l’orribile aquila. Prometeo fu liberato e Zeus fece finta di niente: Ercole era uno dei suoi figli e aveva dimostrato di essere molto valoroso. Comunque, un ricordo di quella punizione Prometeo doveva conservarlo: avrebbe sempre portato un anello fatto con il ferro delle sue catene e con un pezzetto della roccia alla quale era stato legato.
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Rispondi. Epimeteo, il fratello di Prometeo, è un gran pasticcione: • Che cosa regala agli animali? In che cosa sbaglia? • Che cosa decide Prometeo di regalare agli uomini? • Perché Zeus non vorrebbe regalare il fuoco agli uomini? • Quale azione di Prometeo scatena l’ira di Zeus? • Quale circostanza induce Zeus a perdonare Prometeo? • Qual è la morale di questo mito?
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Pandora e lo scrigno dei mali Gli antichi Greci ci hanno lasciato vari miti, che narrano
le imprese di dei ed eroi. E spesso Zeus, il padre degli dei, è al centro del racconto. Da quanto sappiamo, doveva avere un caratterino davvero speciale: si adirava per un nonnulla. Ecco cosa combinò per punire gli uomini, a cui Prometeo aveva donato il fuoco. Zeus ordinò al figlio Efesto, dio del fuoco e fabbro degli dei, che modellasse una fanciulla con un po’ di creta e un po’ di acqua. Quest’ordine Efesto non se lo fece ripetere due volte. In breve tempo venne fuori dalla creta una giovinetta di una tale bellezza da far spalancare gli occhi per la meraviglia. Ma la fanciulla rimaneva impalata come una statua. – Parla, cara, di’ qualcosa! – la implorava il dio accarezzandole il capo. Quella rimaneva zitta come se avesse la bocca cucita con il fil di ferro: fissava l’orizzonte e non parlava. Dopo varie sollecitazioni Efesto, con grossi lacrimoni che gli rigavano il volto, la trattò con modi poco gentili. Per caso passava di lì Atena, dea della saggezza.
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– Che modi! Cosa ti ha fatto questa creatura? – e già la dea le accarezzava il viso. – Non vedi che è muta? – rispose, indispettito, Efesto. Atena passò una mano davanti agli occhi della fanciulla regalandole il soffio della vita che, attraverso il naso, arrivò ai polmoni e scaldò il cuore. Il sangue si mise in moto, occhi e bocca sorrisero e tutto fu vivo in quel corpo stupendo. Meravigliosa fu poi la voce che le usciva dalla bocca, dolce come il suono del flauto. Però la ragazza diceva un sacco di sciocchezze del tipo: – Ho due occhi, due braccia, due mani, due gambe, dieci dita in alto, dieci in basso. Insomma, non smetteva di contare. – Smettila! – gridarono insieme Atena ed Efesto. Guarda caso passava da lì Ermes, il messaggero degli dei. Subito disse: – Ma vi pare questo il modo di trattare una fanciulla così graziosa? Siete in due contro una creatura indifesa! – Certo che non ci pare un buon modo – risposero insieme Atena ed Efesto, – ma non vedi come è strana? Farebbe perdere la pazienza a chiunque! Ermes ascoltò per qualche minuto quello che diceva la giovinetta. Quindi disse: – E che ci vuole? Solo un po’ di intelligenza e astuzia ci voleva, e lui gliele diede. Però Pandora, questo il suo nome, si muoveva con poca grazia, senza rendersi conto della propria bellezza. Allora, intervenne la dea della bellezza e dell’amore, Afrodite, che le
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insegnò come far innamorare dei e uomini. Altre divinità le regalarono belle vesti e splendidi gioielli. Quando tutto era perfetto in lei, venne, infine, condotta da Zeus che rimase colpito dalla sua grazia. Si fregò le mani contento, il potente dio, e un sorriso crudele apparve sulle sue labbra. “Mi vendicherò tramite te, bellissima Pandora, non ci sarà mai vendetta più dolce!” pensò. Pandora lo fissava intimorita chiedendosi se sarebbe piaciuta a Zeus come agli altri dei. – Voglio premiarti – disse – sei così graziosa che meriti un dono speciale e fece portare uno scrigno meraviglioso: d’oro massiccio, tempestato di pietre preziose. Brillavano diamanti e smeraldi e Pandora ne rimase incantata. Zeus lo sollevò e glielo porse con un gesto solenne dicendole: – Prendi questo mio regalo: è per le tue nozze, cara, tutte le volte che lo vedrai ti ricorderai di me. Pandora iniziò a sorridere perché pensava che il cofanetto contenesse perle e rubini. Ma il sorriso morì sulle sue labbra non appena il padre degli dei aggiunse: – Lo devi tenere sempre con te, ma non aprirlo per nessun motivo altrimenti… ma non finì la frase. “Sono sicuro che questa sprovveduta cadrà nel tranello” pensava il grande dio. “E se non ci cade lei, ci cadrà quello sciocco del suo promesso sposo, Epimeteo, il fratello di Prometeo.” Ermes, ben presto, la condusse dal suo futuro sposo, e c’era anche Prometeo nella bella casa in riva al mare.
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Nel giro di poco tempo, si celebrarono le nozze con una festa solenne. E tutti furono felici, festeggiando gli sposi con un banchetto da sogno e, poi, con canti e balli fino a tarda notte. L’ultimo ad andarsene fu Prometeo. Tirò in disparte il fratello e gli mormorò all’orecchio: – Sta’ attento, fratello caro, Pandora ha portato con sé uno scrigno che, per volere di Zeus, non dovrà mai essere aperto.
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– Non ti preoccupare. Guarda, lo nascondo subito. So bene che a Zeus non si deve disobbedire, altrimenti… e fece un gesto significativo con la mano. Tolse quindi una pietra rettangolare dalla parete e pose lo scrigno in uno spazio vuoto. Poi risistemò la pietra. Ma Pandora aveva visto tutto. I primi tempi del matrimonio trascorsero felici per Pandora. Le mille faccende domestiche occuparono i suoi giorni; poi,
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poco alla volta, non ci furono novità nella sua vita e iniziò ad annoiarsi. Non che amasse di meno il marito, però non c’era mai nulla di nuovo e iniziò a pensare allo scrigno nascosto nel muro. Se fossero stati più ricchi, Epimeteo e lei forse avrebbero potuto fare grandi progetti. “Perché mai non dovrei aprirlo?” rifletté. “Forse scherzava Zeus quando mi ha detto che non avrei mai dovuto scoprire cosa contenesse. Che razza di regalo è allora questo cofanetto?” Mentre camminava a grandi passi nella sala dei banchetti le vennero in mente le parole di Prometeo. Ormai aveva deciso: avrebbe aperto lo scrigno. Salì una rampa di scale e tese l’orecchio. Dalla camera di fronte giungeva il suono del respiro affannoso di Epimeteo. Senza dubbio dormiva. “È il momento giusto” pensò Pandora correndo giù per gli scalini. Si guardò intorno, si fece coraggio e spostò senza far rumore la pietra. Prese lo scrigno, lo appoggiò sul tavolo e subito l’aprì. Si udì un sibilo straziante: veloci come il vento uscirono tutti i mali possibili e immaginabili. La fatica, la povertà, la malattia, il vizio, la gelosia, la perfidia, l’arroganza, la disonestà tutti sgomitarono per aprirsi un varco e diffondersi nel mondo. Spaventata, Pandora tentò di richiudere il cofanetto, ma era troppo tardi. La vendetta di Zeus si era compiuta: la vita degli uomini sarebbe diventata una lotta costante contro difficoltà di ogni genere.
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Comunque, nel disastro generale, restò agli uomini una piccola risorsa: la speranza. Era rimasta, infatti, sul fondo dello scrigno. E, fino ai nostri giorni, è proprio la speranza che ci aiuta a lottare contro le avversità della vita.
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Rispondi. • Per ordine di chi viene creata Pandora? • Che cosa fa la dea Atena? • Dopo il matrimonio tra Epimeteo e Pandora che cosa rivela Prometeo a suo fratello Epimeteo? • Che cosa fa quest’ultimo? • Che cosa accade quando Pandora apre lo scrigno? • Grazie a che cosa il genere umano riesce a sopravvivere, pur fra tanti mali?
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Le dodici fatiche di Ercole Era, la moglie di Zeus, era molto adirata con Ercole. Non
era riuscita a ucciderlo, però gli aveva tolto la ragione. Lo aveva fatto impazzire perché lo odiava. Senza senno, Ercole iniziò a commettere pazzie di ogni genere. La più terribile fu l’uccisione della moglie e dei figli. Quando prese consapevolezza dell’accaduto, il grande eroe volle in qualche modo porre rimedio all’orrendo delitto. Ma non sapeva come. Allora, si recò dall’oracolo di Delfi che lo spedì a sua volta da Eurìsteo, re di Tirinto. In questa città greca Ercole raccontò le sue sciagure a Eurìsteo. Gli disse il re: – Vedi, Ercole, ciò che hai commesso non può essere facilmente perdonato. Ercole lo interruppe: – Ci sarà pure un modo per espiare la mia colpa? – e si strappava i capelli per la disperazione. – Mille e mille anni potresti piangere e disperarti, ma non basterebbe – osservò il saggio re. Accorsero i servi, le donne, la regina, le guardie; la gente
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uscì dalle case e si precipitò alla reggia. Eurìsteo non amava la confusione e, perciò, decise di liberarsi dello scomodo ospite. Disse, dunque: – Su su, animo! Mi è venuto in mente che qualcosa, tutto sommato, potresti fare. – Sono tutto orecchi – esclamò Ercole baldanzoso. – Niente di particolare, come ti dicevo, si tratta solo di andare nella cittadina di Nemea. Devi sapere che nei boschi che la circondano s’aggira una belva feroce, che ha corpo da leone e cento teste, con cento bocche che sputano fuori un fuoco micidiale. Portami la pelle di questo mostro e vedrò cosa si può fare affinché tu possa essere perdonato. L’impresa non sembrava facile. Salutò, comunque, il re promettendo che avrebbe ucciso il feroce mostro. Eurìsteo non stava nella pelle dalla gioia. Si era liberato finalmente di Ercole che sarebbe stato di certo ridotto a brandelli dalla belva! Ercole arrivò a Nemea in cerca del felino dalle cento teste. Non ci volle molto perché lo scovasse. Infatti, come l’animale orrendo avanzava per la foresta, si levava una nuvola di fumo e braci. Le zampe del leone battevano sul terreno, le bocche si aprivano e gli alberi, incendiati, cadevano al suolo come fiammiferi consumati. Per prima cosa, Ercole gli scagliò addosso tutte le frecce. Risultato: il leone mostruoso non fece nemmeno una piega, anzi chinò le cento teste e guardò l’eroe di sbieco. Poi gridò: – Non te l’hanno detto che le frecce mi fanno solo il solletico?
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Ercole allora abbandonò a terra arco e frecce. Intanto, il leone dalle cento teste se ne andò a dormire nella sua tana. Ercole lo seguì. La tana, un’enorme caverna, aveva due aperture, una per
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l’entrata e una per l’uscita. “Ora non mi sfuggirà più” pensò Ercole, mentre ne chiudeva una. Passo dopo passo, raggiunse la belva, che russava forte producendo il suono di mille tamburi. Ercole si chinò e gli strinse il collo, che era il punto debole dell’animale. Glielo strinse così forte che il mostro morì soffocato nel giro di pochi minuti. Quando Eurìsteo si vide davanti Ercole con in spalla la pelle del leone dalle cento teste, si morse il labbro dalla stizza. “Ma guarda cosa è riuscito a fare!” pensò irritato. Poi si avvicinò ad Ercole: – Bravo! – disse. – Però questa è solo la prima fatica, ti aspetta ben altro! Allora, il re annunciò in tono deciso: – Nella palude di Lerna c’è un mostro, un’Idra con nove teste. Otto mortali e una immortale. Devi uccidere l’orribile creatura, perché esce dall’acqua e fa strage di bestiame. “Questa volta non ce la farai…” pensò Eurìsteo, licenziando l’ospite. Ercole arrivò a Lerna e subito si diresse alla palude. Scrutò giorni e giorni l’acqua fangosa: non si vedeva niente! A questo punto, l’eroe decise di fare una mossa: avrebbe lanciato delle frecce infuocate per stanare il mostro. Infatti, dopo una ventina di dardi, l’Idra allungò il collo fuori dall’acqua per vedere chi l’importunava. Sgranò gli occhi, scorse Ercole e decise di sbranare lo scocciatore. Ercole, per nulla intimorito, iniziò a menar colpi di clava. E stacca una testa e poi un’altra, era un continuo colpire. Dal
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mattino al pomeriggio, l’eroe non smise di massacrare l’orrenda creatura. Rotolavano a terra i capi dell’Idra, ma subito sul collo del mostro ne spuntavano altri. Ercole era al colmo della rabbia. Poiché si sentiva un po’
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stanco, decise di porre fine al combattimento con un’altra astuzia. Incendiò dei rami e li passò dove rinascevano le teste. Così sulle ferite non potevano spuntarne altre. Cosa accadde, allora, alla testa immortale dell’Idra? Ercole troncò di netto anche quella e la mise per benino sotto un masso. – Di nuovo qui? – domandò Eurìsteo al servo che annunciava l’arrivo di Ercole. Stavolta il re eliminò ogni elogio. – Va’ a prendere la cerva Cerinìtide e portala qui, viva – comandò. Ercole ci mise un anno a darle la caccia perché questa cerva era davvero speciale: velocissima, tanto che nessuno riusciva mai a raggiungerla. Lui, però, la colpì con una freccia e così poté catturarla. Giunse al palazzo di Eurìsteo con la cerva viva in spalla. Il re non si fece neppure vedere. Comunque, gli fece dire che ora voleva vivo un cinghiale, che faceva strage di uomini nelle vicinanze. Anche quest’impresa riuscì a Ercole. E, così, Eurìsteo, per allontanarlo, gli chiese di aiutare il suo amico Augia. Questo re possedeva molte greggi, ma nessuno si occupava della pulizia delle stalle. Eurìsteo ordinò, dunque, a Ercole di ripulirle in un solo giorno. Questa volta Ercole agì d’astuzia e deviò un fiume, che spazzò via tutto il sudiciume dalle stalle. Saputo com’era andata la faccenda delle stalle, Euristèo diventò livido di rabbia.
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– Va’ nella città di Stinfalo, adesso, e stermina tutti gli uccellacci che hanno fatto il nido nei boschi dei dintorni. Ercole levò la clava e ruppe il piede di una statua. – Oh, perdona, grande re. Non l’ho fatto apposta – si scusò con un sorriso sulle labbra.
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– Cerca di sterminare tutte quelle bestie! – ordinò Eurìsteo, mentre due consiglieri lo trattenevano per impedirgli di avventarsi contro Ercole. Riuscì il nostro eroe a uccidere i fastidiosi uccellacci? Anche questa volta Ercole ebbe la meglio. Prima li stanò con un fracasso di campanelli insopportabile e, non appena i volatili si levarono in volo, li trafisse con le frecce. Eurìsteo ne sapeva una più del diavolo e non si dava facilmente per vinto. Voleva dare del filo da torcere a Ercole! Dopo averlo mandato in varie zone della Grecia, decise di spedirlo più lontano: a Creta. Anche lì il re aveva un amico, Minosse. E pure questo amico non se la passava bene. A Creta nessuno usciva di casa perché c’era un toro ferocissimo, che abbatteva uomini e donne. L’aveva fatto uscire dal mare il dio Nettuno, a cui Minosse aveva promesso di sacrificare ogni creatura giunta dalle acque. Il toro, però, era parso troppo bello a Minosse, che decise di risparmiargli la vita. E Nettuno si adirò. Fece inferocire l’animale così tanto che gli abitanti di Creta, se varcavano la porta di casa, lo facevano a loro rischio e pericolo. Anche il re, per timore, rimaneva chiuso nel suo palazzo. Ercole, in quattro e quattr’otto, domò il toro e condusse anche questo da Eurìsteo. La perfidia di Eurìsteo, però, non aveva limiti. Per farla breve, spedì Ercole a domare i feroci cavalli di Diomède, re della Tracia, e poi a rubare una cintura speciale che apparteneva a Ippolita, la famosa regina delle Amazzoni, che erano donne ferocissime. Ercole salpò con una nave assieme ad alcuni valorosi guer-
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rieri. Incontrò Ippolita e le chiese la cintura. A quella provocazione la valorosa regina incominciò a gonfiare i muscoli del braccio. – Allora, proprio non vuoi darmi la cintura che ti ha donato
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Marte? – ripeté Ercole. – Credi che io, la regina delle Amazzoni, mi metta a omaggiare chiunque? – Bada che sono Ercole, il possente eroe! – Torna sulla tua nave, Ercole, e non infastidirmi. A un cenno di Ippolita, le Amazzoni assalirono Ercole e i valorosi guerrieri. I cavalli nitrivano, volavano le frecce, fiumi di sangue scorrevano. La battaglia fu cruenta, ma alla fine Ercole ebbe la meglio. Tolse la vita a Ippolita e conquistò la cintura. Eurìsteo la gettò sul tavolo senza nemmeno guardarla e disse: – In un’isola lontana lontana, c’è un tizio, Geríone, che è brutto da far paura: è nato con tre corpi riuniti insieme. E più brutto di lui è il suo cane che ha due teste. Voglio che tu mi porti i suoi buoi rossi. Batté le mani il re, ed Ercole venne fatto uscire in fretta dalla sala reale. L’isola di Geríone sembrava introvabile, ma alla fine la scoprì, vicino all’Oceano, e non ci fu scampo per Geríone e il suo cagnaccio. Visto che con i mostri Ercole se la cavava bene, Eurìsteo passò alla frutta. Gli ordinò, infatti, di portargli tre mele d’oro dal giardino di certe ninfe, le Espèridi. Il giardino era ai confini del mondo, in un posto abitato dal popolo degli Iperbòrei. Pensi che tutto fosse normale in questo giardino? O piuttosto non sospetti che da un momento all’altro sbuchi fuori anche qui qualche strana creatura? I pomi, purtroppo, erano custoditi da un serpente con cento
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teste. E, per farsi aiutare nell’impresa, Ercole si rivolse ad un gigante che reggeva il mondo sulle spalle. Era un altro fratello di Prometeo, che si chiamava Atlante. – Ti aiuterei ben volentieri, Ercole, ma come vedi reggo il
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mondo – disse Atlante. – Fa’ scivolare sulle mie spalle il globo e va’ a prendere le dannatissime mele! – ribatté Ercole. Eurìsteo guardò con gli occhi sbarrati quei meravigliosi frutti. Tutti pensarono che facesse così per la meraviglia. Il re, invece, li sgranava perché aveva capito che Ercole era davvero invincibile. – Adesso ti spedisco nell’oltretomba! – ruggì Eurìsteo. Naturalmente, un mormorio di pietà sorse fra i presenti. Come poteva il sovrano decretare la morte di un eroe così valoroso? I tagliatori di teste sguainarono i pugnali. Le donne si coprirono gli occhi con le mani. Eurìsteo con il cuore gonfio d’ira per la grande forza dell’eroe e non ancora soddisfatto, ordinò ad Ercole di affrontare una nuova fatica. Nel silenzio assoluto il re continuò: – Va’ nel mondo dei morti e portami Cerbero, il cane con tre teste, coda di drago e serpenti sulla pelle. Cerbero, infatti, era un animale spaventoso e molto feroce. Ad ogni suo latrato i velenosissimi serpenti di cui era coperto si rizzavano, facendo sibilare le proprie lingue orrende. Ercole giunse alle porte del mondo sotterraneo. Cerbero era lì ad impedire ai vivi di entrare e ai morti di tornare indietro. Ercole affrontò il ferocissimo cane senza armi, ma con la sola forza delle mani. Ucciderlo per lui fu uno scherzo: gli strinse fortemente la gola. Cerbero rimase senza respiro e senza possibilità di fare resistenza, cadendo in potere dell’eroe. Quando Ercole arrivò al palazzo, Cerbero era ormai mezzo morto.
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– Ecco quanto mi hai chiesto – esclamò mostrandolo ad Eurìsteo. Abbandonato Cerbero, che sbavava sul tappeto davanti al trono, Ercole si precipitò fuori dal palazzo, senza nemmeno salutare, perché era stanco di uccidere o catturare mostri.
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Rispondi. Quali fatiche ha dovuto compiere Ercole per volere di Eurìsteo, re di Tirinto? Elencale... Che cosa intendiamo dire quando diciamo: “Quell’uomo è un Ercole?” Indica con una X la risposta esatta: straordinariamente saggio straordinariamente forte straordinariamente intelligente
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Re Mida Questa è la storia di un dio colmo di gioia di vivere e di un
re sciocco. Il dio si chiamava Dioniso e amava la musica e il vino. Il re, invece, amava solo il denaro e l’oro, e si chiamava Mida. La vita, si sa, è strana: un giorno Dioniso e Mida s’incontrarono. O meglio, fu il re Mida a recarsi dal dio. Era successo questo: il vecchio Sileno, un tempo il maestro di Dioniso, si era perso. Lo avevano trovato i contadini del re. Dopo avergli messo in capo ghirlande di fiori, lo avevano condotto a corte. Grandi furono le feste che re Mida gli tributò. Diede banchetti in suo onore e non lesinò musica, cibo, danze e, soprattutto, vino. Il tutto durò un bel pezzo, ma poi Mida pensò che fosse giunto il momento opportuno per farsi ricompensare da Dioniso. Caricò Sileno su un comodo carro e, in men che non si dica, raggiunse i boschi, dove si trovava Dioniso assieme a vari amici. Dioniso stava banchettando, e quale fu la sorpresa quando si vide davanti l’amato maestro, che aveva ormai dato per disperso?
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– Grande Dioniso, permettimi di presentarmi: sono il re Mida e spero di averti fatto cosa gradita, restituendoti Sileno – esclamò, facendo un inchino fino a toccare il suolo. – Alzati, generoso re! – ordinò Dioniso. Ma l’altro sembrava sordo. – Ti prego, guardami e chiedi la giusta ricompensa per la tua buona azione – disse Dioniso. Il re Mida non si spostava di un millimetro perché era impegnato a decidere cosa dovesse chiedere al dio come ricompensa. Dioniso, che era di modi spicci, fece cenno a due arcieri. Questi sollevarono, senza tante cerimonie, Mida e, per essere sicuri che non si piegasse di nuovo in avanti, lo trattennero per le braccia. Disse con un filo di voce il re, che si credeva il più astuto degli uomini: – Non vorrei… non vorrei proprio importunarti, potente dio… – e guardava Sileno, che stava tracannando una coppa di vino. Sileno smise di bere e gli fece cenno con la mano di continuare. Per incoraggiarlo ancor di più, gli sorrise. Mida, allora, giocò il tutto
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per tutto: – Beh, una cosa ci sarebbe per rendermi felice. – Su, su, chiedi e ti sarà data – annunciò Dioniso con un largo sorriso sulle labbra. Allora il re continuò meno incerto: – Sì, mi darebbe grande gioia. – Cosa? – chiesero i presenti. – Un pizzico di magia – annunciò Mida. – Cioè? – chiesero di nuovo i presenti. – Vorrei che le mie mani trasformassero in oro puro tutto ciò
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che toccherò – concluse il sovrano. – Perbacco! – esclamò Dioniso. – È una cosa da niente, ti accontenterò subito! – e scoppiò in una fragorosa risata. Dioniso era un dio saggio e aveva subito intuito cosa sarebbe successo. Tutti risero, e Mida si affrettò a congedarsi. Non vedeva l’ora di mettere in pratica i poteri regalatigli dalla divinità. Così, in quella splendida giornata, si addentrò nel bosco. Non appena fu certo che nessuno lo seguiva, iniziò a toccare foglie e rametti. Sorpresa e grande gioia: si trasformavano in pure opere d’oreficeria! Ebbene sì, le foglioline tenere diventavano d’oro. D’oro divennero le gocce d’acqua del ruscello, d’oro mirtilli e fragoline, d’oro i sassolini del sentiero. Il re Mida si mise a correre, tanta era la gioia che provava. Poi, ordinò ai suoi uomini di riportarlo alla reggia. Giunto dopo pochi giorni al suo palazzo, decise che era ora di festeggiare con un pranzo sontuoso e ordinò ai cuochi i cibi più raffinati. Mentre attendeva che fosse pronto, si divertì a rivestire d’oro tutti gli oggetti che gli venivano a portata di mano. E iniziò a provare un certo disagio. La tovaglia, per esempio, non era più morbida come prima e il cuscino, su cui sedeva pareva duro come un macigno. Aveva sfiorato le rose nel vaso al centro della tavola per godere del loro profumo e se le era ritrovate fredde, dorate, senza profumo e soprattutto prive di vita. Il peggio doveva ancora accadere. Infatti, come gli portarono cibo e bevande, vide trasformarsi in oro ogni pietanza e ogni liquido. Non ci volle molto a capire che sarebbe morto di fame.
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Sarebbe davvero morto, se Dioniso non avesse avuto pietà di lui. Dopo qualche giorno, il re Mida, esausto perché non aveva potuto mangiar nulla, andò a implorare il dio di aiutarlo. Dioniso rise e lo prese in giro, ma poi alla fine lo liberò da quei malefici poteri, dopo avergli fatto trasformare in oro l’intero fiume Pattolo. Re Mida tornò al suo palazzo e pianse un fiume di lacrime. Singhiozzava per la gioia di essere di nuovo come prima, cioè senza alcun potere magico. Però, in fondo in fondo, piangeva anche perché aveva capito d’aver fatto la figura dello sciocco.
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Rispondi. • Da chi si reca re Mida in compagnia del vecchio e saggio Sileno? • Che cosa prova Dioniso nel vedere il suo vecchio maestro? • Che cosa ottiene re Mida come ricompensa? • Che cosa scopre, toccando le foglie e i rami degli alberi del bosco? • Che cosa succede quando giunge nel suo palazzo? E poi? Individua e scrivi il significato di questo mito.
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Teseo, Arianna e il Minotauro Un tempo, vi fu una guerra terribile fra Atene e Creta. Alla
fine Minosse, il re di Creta, costrinse gli Ateniesi a mandargli ogni anno sette giovani e sette fanciulle. – Cosa c’è di strano? – ti domanderai. In effetti, nei tempi antichi, non era affatto strano che venissero inviati doni a potenti re. In questo caso, comunque, c’era davvero da mettersi a piangere. Perché quei giovani ragazzi servivano da pasto a un mostro terribile: il Minotauro, che era una bestia per metà uomo e per metà toro. Tutte le volte che i giovani dovevano partire, un profondo silenzio cadeva su Atene e nel palazzo reale il re Egeo sprofondava nella tristezza più cupa. Di quella disperazione si accorse Teseo, il valoroso figlio del re. – Padre, perché sei così abbattuto? – chiese Teseo. – Figliolo, come si può non essere tristi in un giorno come questo? – Cosa succede di così terribile?– domandò pronto Teseo. – Ti sei scordato che sette ragazzi e sette ragazze devono partire alla volta di Creta e che il Minotauro li divorerà? – spie-
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gò il re. – Questa storia deve finire! – dichiarò Teseo, e aggiunse: – Partirò con loro, arriverò a Creta e ucciderò il mostro. – Non posso impedirtelo, caro figlio, anche se so che è un’impresa disperata: sono scarse le probabilità che tu riesca ad uccidere il Minotauro. Aspetterò il tuo ritorno col cuore inquieto. E spesso starò alla finestra ad attenderti. Promettimi che, se vincerai, farai mettere una vela bianca alla tua nave e, invece, nera se morirai, così saprò se gioire o disperarmi. Con la benedizione del padre, Teseo partì. Il vento era favorevole e il mare calmo. Giunto a Creta, venne ospitato nella reggia di Minosse. E subito lo notò la bellissima figlia del re, Arianna, che se ne innamorò perdutamente. “Poverino” si diceva Arianna “così giovane e bello e destinato a una fine così tremenda! Deve esserci un modo per aiutarlo!” Arianna finalmente lo trovò. – Teseo, sei troppo nobile e fiero perché il mostro ti uccida, permettimi di darti dei preziosi consigli – disse la principessa al giovane ateniese.
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– Bellissima Arianna, le tue parole sono dolci come il miele e mi danno il coraggio per affrontare il Minotauro – le rispose Teseo. E la principessa ribadì: – Il coraggio non basta. Troppo feroce è la bestia. E, anche se tu riuscissi a ucciderla, non potresti mai venir fuori dal labirinto di stanze, sale, corridoi, sotterranei, in cui si trova. Così dicendo, porse a Teseo un gomitolo di filo e un pugnale dalla lama avvelenata. – Appena entri nel labirinto, srotola il filo; solo così riuscirai
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a tornare indietro – aggiunse Arianna. Il giorno seguente, Teseo entrò nel luogo orribile dove stava il Minotauro. Se all’inizio Teseo era stato baldanzoso, poco alla volta si sentì invadere dall’inquietudine. Da un corridoio all’altro nulla cambiava, e su tutto regnava il silenzio. Poi ci fu un muggito spaventoso. Si udirono sul pavimento gli zoccoli, che producevano il fracasso di una mandria. All’improvviso, apparve un bestione con le narici dilatate, le fauci spalancate, gli occhi fiammeggianti. Il Minotauro si av-
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ventò contro Teseo, che aveva sguainato il pugnale. Fu questione di attimi: la lama avvelenata penetrò nel collo del mostro. Colpito a morte, il Minotauro urlò e sollevò le braccia per mantenere l’equilibrio. Poi stramazzò a terra, lanciando un’occhiata d’odio a Teseo. Dopo un paio di convulsioni, il veleno fece pieno effetto: il mostro rimase lungo disteso sul pavimento, che si colorava di rosso. – Evviva! – gridò Teseo. Si terse il sudore dalla fronte e iniziò a riavvolgere il filo: passo dopo passo riuscì a raggiungere
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l’uscita del labirinto. Due giorni dopo, il sole splendeva e il mare era solcato da mille scintillii. Si gonfiava la vela della nave di Teseo, i marinai erano allegri e allegrissimi i sette giovani e le sette giovinette che tornavano ad Atene sani e salvi. Tutti erano felici, tranne Arianna. Perché? ti chiederai. Perché Teseo l’aveva ingannata, abbandonandola sull’isola di Nasso. E a bordo qualcuno mormorava... – Non vorrei che Teseo venisse punito per la sua crudeltà e ingratitudine… – sussurrò una ragazza. Un’altra aggiunse: – Se non l’amava avrebbe dovuto impedirle di salpare con noi… sento che verrà punito. In effetti, all’orizzonte si profilava una nube scura, scura come la pece. Chi la spingeva verso la piccola barca in mezzo ai flutti? Qualche dio vendicativo, cui si era rivolto il Minotauro? Di sicuro si sa che la sorte stava per colpire Teseo e punirlo in un modo atroce. Il vento si mise a spazzare il mare e onde gigantesche si abbatterono sulle fiancate della nave. Il ponte era un fiume d’acqua e i marinai gridavano in preda al terrore. La vela si squarciò e la tempesta si portò via i brandelli. Quindi, la pioggia si riversò a torrenti sull’imbarcazione e ci furono lampi e tuoni a non finire. La tempesta durò giorni e giorni. Quando ormai tutti a bordo credevano in un imminente naufragio, giunse la bonaccia: calma piatta sul mare. Allora, si contarono i danni e il timoniere fece rapporto a
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Teseo. – Il guaio più grosso è la vela. Praticamente non c’è più. La tela rimasta può servire per far stracci – disse quest’ultimo. – Non ne abbiamo un’altra? – chiese Teseo. – Una ci sarebbe, ma è nera, molto vecchia – riferì il marinaio. – Non importa, useremo quella – decise Teseo, non ricordandosi della promessa fatta al padre. Come vide sul mare la vela scura, Egeo pensò che il figlio fosse morto. Disperato, si gettò da una roccia in quel mare, che da lui prese il nome di Egeo. Così Arianna, che tanto aveva pianto e tanto aveva maledetto Teseo, venne vendicata.
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Rispondi. • Che cosa scopre Teseo, rivolgendosi al padre? • Che cosa decide di fare? • Che cosa gli raccomanda il padre? • Da chi viene aiutato il coraggioso Teseo? • Come si conclude la vicenda? Prova a rappresentare il Minotauro così come te lo immagini.
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Bacco e Arianna Cosa successe alla povera Arianna abbandonata da Teseo
sull’isola di Nasso? Scompariva all’orizzonte la nave di Teseo e lei dormiva ancora. Le lunghe foglie delle palme la proteggevano dal sole e il loro fruscio accompagnava i suoi sogni. Stesa sulla sabbia, ai piedi delle palme, Arianna sognava di danzare con Teseo al suono di dolci arpe. Lui la stringeva fra le braccia e le dichiarava il suo amore. Quando si svegliò la principessa sorrideva. Era stato un sogno meraviglioso. Fu, invece, terribile il risveglio. Arianna si levò e scrutò la riva del mare. Spinse lo sguardo ovunque, ma della nave di Teseo non c’era più traccia. La bella fanciulla corse, quindi, con il cuore in gola da una parte all’altra della spiaggia e si spinse fino in cima a delle rocce che si affacciavano a picco sulle acque celesti. Da quel promontorio poteva scrutare il mare fino all’orizzonte: c’erano solo gabbiani in cielo e riccioli di spuma sulla distesa d’acqua. Arianna capì che lui, il bel principe tenebroso, l’aveva tradita. Era stata ricompensata, per l’aiuto datogli contro il Minotauro, non con l’amore ma con l’inganno: abbandonata su un’isola
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deserta, facile preda di belve feroci! La principessa pianse tanto, e poi si gettò sulla sabbia, stremata. Ad un tratto sentì degli strani rumori, là dentro il boschetto di palme. Le giungeva il suono di tamburelli, accompagnato dalle zampogne e dal canto allegro di uomini e donne. La fanciulla aveva appena fatto in tempo ad alzarsi che giunse un corteo di ninfe e di fauni: schiamazzavano allegri con il capo cinto da frutta, fiori e grappoli d’uva. Precedeva tutti un giovane con capelli neri e ricci. Sollevava
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le braccia come per dirigere i canti e il mantello rosso si spostava al ritmo della musica. Di colpo il ragazzo si fermò e chiese: – Chi sei? E cosa fai sola su quest’isola? La sfortunata Arianna rispose: – Sono la principessa Arianna, figlia del re di Creta, Minosse. Sono sola perché il perfido ateniese, Teseo, qui mi ha abbandonata. Il giovane, le ninfe e i fauni stettero ad ascoltarla con la massima attenzione e si impietosirono quando la fanciulla raccontò loro del Minotauro, di come avesse aiutato Teseo e di come quest’ultimo le avesse promesso di amarla per sempre. – Arianna, non disperarti. Io sono Bacco… Arianna sgranò gli occhi: – Bacco, il dio della vite e del vino? – chiese. – Certo – rispose la divinità ridendo. E aggiunse: – Smetti di piangere, la vita è troppo bella, perché non la si festeggi in modo adeguato. Le porse una coppa di vino: – Bevi e sii allegra! Sei così bella e gentile che sento di volerti bene. E, se vuoi,
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puoi diventare la mia sposa e seguirmi in tutto il mondo. – Non ti conosco, Bacco, raccontami di te – rispose la principessa. Bacco batté le mani e subito ninfe e fauni stesero sulla sabbia morbide stoffe, cuscini ricamati, brocche, coppe e ceste colme di frutta. – Vieni a sederti vicino a me – la pregò Bacco – ti racconterò della mia vita. E iniziò: – Devi sapere che sono figlio di Zeus e della principessa Semele. Ho trascorso i primi anni della mia vita a Tebe, ma poi un incendio distrusse la reggia e da allora sono cresciuto nei boschi. Mi ha allevato un caro vecchio fauno, Sileno. – Racconta del vino! – gridarono in coro i fauni. Bacco rise compiaciuto. – Amici, non è poi così importante – osservò. Risposero gli altri, sempre in coro: – Ci sono poche cose sulla Terra che rechino conforto agli uomini e tu ne hai inventata una davvero importante, importantissima! – Non esagerate! – si schermì Bacco. – Ho inventato il vino! – dichiarò. – Allora brindiamo per celebrarti! – e tutti presero le coppe e bevvero in allegria. Chiese Arianna: – Come hai fatto a inventare il vino? – Basta spremere degli acini d’uva – rispose Bacco. Le riempì la coppa e gliela porse. – Non è delizioso? – chiese. – Sì, riscalda il cuore – osservò la principessa sorridendo.
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– Raccontami ancora di te, Bacco – aggiunse. – Ti racconterò di quando mi hanno rapito. – Come è possibile? – domandò la fanciulla. – Possibilissimo, se ti trasformi in un comune mortale. Avevo preso le sembianze di un ragazzo. Camminavo al tramonto nel porto di una piccola cittadina. Il porto era gremito di molte persone, ma tra loro c’erano dei malfattori. La loro barca era ancorata vicino alla riva. Mi tennero d’occhio, quei furfanti, e al calar delle tenebre mi rapirono. Dalle loro parole capii che volevano vendermi come schiavo. E sai cosa feci? – Racconta – lo pregò Arianna. – Trasformai la loro nave in una specie di vigna con tralci di vite, che si arrampicavano dappertutto. Poi l’allagai con il vino. Li avessi visti! Che fifoni erano diventati! Si gettarono in mare per la paura e io li trasformai in delfini. Mi divertii da morire! – concluse Bacco e tutti, compresa Arianna, scoppiarono a ridere. Bacco, poi, si chinò verso Arianna e le mormorò all’orecchio: – Hai deciso? Verrai con me? Lei rispose di sì con un sussurro. E le ninfe le coronarono il capo con ghirlande di grappoli.
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Rispondi. Di che cosa parla il mito? Racconta. Illustra la scena che ti è piaciuta di più.
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Perseo e Medusa Acrisio, re di Argo, era un uomo felice. Amava teneramen-
te la moglie e la figlia Danae e da loro era ricambiato con lo stesso affetto. Il regno prosperava: i contadini raccoglievano messi abbondanti; i commercianti divenivano ogni giorno sempre più ricchi: a corte si davano tante feste, in cui tutti si divertivano. Ma un giorno, un brutto giorno, capitò da quelle parti un indovino. E giunse come ospite al palazzo reale. Nel salone delle feste, la musica venne interrotta a un cenno del re. Le danze vennero sospese e gli invitati volsero lo sguardo verso il nuovo arrivato. – Mi hanno detto che nulla ti sfugge della sorte degli uomini, vecchio saggio – disse Acrisio. – Vero, mio signore – rispose l’anziano, abbozzando un inchino. – Svelami il mio destino! – ordinò il re. Nella sala si sparse un mormorio di sorpresa. Ora l’attenzione dei presenti era concentrata sulla bocca del vecchio. Quali parole stavano per pronunciare quelle labbra raggrinzite? L’indovino aveva già letto nel viso del re la triste sorte che
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l’attendeva. Perciò si schermì: – Non è bene voler indagare oltre il momento presente, mio sire. L’uomo saggio gode degli attimi felici e di altro non chiede. – Ehi, mi hai forse preso per uno sciocco? – chiese in tono irato il re. E aggiunse: – Non lo sai che compito di un eccellente sovrano è proteggere i propri cari e soprattutto il suo popolo? Deve essere accorto e prevedere, se possibile, il futuro per governare con saggezza. Quindi, ora tu mi risponderai, oppure…
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L’indovino si affrettò a dire: – Sarà come tu vuoi, magnanimo sovrano, però quale che sia il mio responso, lasciami salva la vita. – Sarà fatto – disse il re. Incrociò le braccia e attese. L’indovino si avvicinò alla porta della grande sala. Calcolò quanto ci avrebbe messo a scappare e adocchiò le guardie che, dall’altra parte della sala, affiancavano il trono del re. – Maestà, sta’ in guardia: sappi che tuo nipote un giorno ti ucciderà – gridò, precipitandosi per le scale. L’incidente venne dimenticato quasi da tutti. Tutti tranne uno: il re Acrisio. Poco alla volta un tarlo iniziò a rodergli la mente: quale espediente doveva adottare per non essere ucciso dal nipote, il figlio della sua amatissima figlia Danae? Alla fine, non trovò che una soluzione crudele. Avrebbe fatto imprigionare Danae in una torre, nella quale nessuno poteva entrare. Danae, così, non si sarebbe sposata e non avrebbe avuto figli e, quindi, lui non avrebbe avuto nipoti decisi a toglierlo di mezzo. Quanto si disperò Danae rinchiusa nella torre! Di lei ebbe pietà Zeus. Le tenne compagnia e le regalò un figlio, Perseo, per dimostrarle il suo amore. Qualcuno, comunque, fece la spia al re che seppe del bimbo. Acrisio, livido di collera, ordinò allora che madre e figlio fossero rinchiusi in una cassa e che questa venisse gettata in mare. Voleva farli annegare, ma Zeus non lo permise. Fece galleggiare la cassa fino all’isola di Serifo. Le onde gentili la spinsero a riva, dove la trovarono alcuni pescatori. – Apritela adagio! – ordinò il più anziano. I pescatori spostarono, così, la cassa con dolcezza e s’accor-
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sero che dall’interno giungevano dei rumori. – Ci sarà forse una belva feroce? – disse qualcuno. – E chi sarebbe lo sciocco che spedisce per il mondo tigri o leoni? – fece un altro. – Apriamola e facciamola finita! – gridarono in cinque o sei. Il coperchio venne sollevato con molta cautela e… meraviglia! Spuntarono i capelli, i visi, le spalle, le braccia di due creature umane: una donna e un bimbo. Il re Polidette, alla cui reggia i pescatori avevano condotto i naufraghi, accolse Danae e il figlio.
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Col tempo si innamorò della bella principessa e, poi, la sposò. Perseo crebbe nella reggia di Polidette e divenne un giovane valoroso. Comunque, Polidette mal sopportava la sua presenza a corte. Era geloso perché Danae mostrava un grande affetto per il figlio. Non vedeva l’ora di liberarsi di Perseo e quel momento giunse fin troppo presto. Era il compleanno del re. Tutti gli recavano doni. Anche Perseo gli si avvicinò, ma non reggeva nulla fra le mani. Così disse il prode giovane: – Voglio recarti omaggio anch’io, o re. Cosa desideri? Polidette mille e mille volte aveva pensato di cacciare dalla reggia Perseo e ora era giunta finalmente l’occasione per sbarazzarsene. Perciò rispose: – Voglio mettere alla prova il tuo coraggio, nobile principe. Desidero che tu mi porti la testa di Medusa! Ai cortigiani si piegarono le gambe: si trattava di un’impresa impossibile. Chiunque sapeva che Medusa era un orrendo mostro che viveva con le sorelle, Steno ed Euriale nelle Terre della Notte. Inoltre, era risaputo che Medusa pietrificava all’istante chi la guardava negli occhi. – Partirò oggi stesso – annunciò Perseo. Vagando di paese in paese, il giovane valoroso chiedeva informazioni su Medusa. – Rinuncia a trovarla, a centinaia sono periti i guerrieri che l’hanno incontrata sul loro cammino – rispondeva chiunque interrogasse. A poco a poco, il timore si fece strada nell’animo di Perseo e
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spesso si chiedeva: “Come farò a tornare vivo?”. – Ce la farai – gli disse un giorno il dio Ermes. Atena e io ti aiuteremo perché proteggiamo gli eroi coraggiosi. Perseo si rallegrò molto. Continuò il dio: – Prendi il mio elmo che ti renderà invisibile. E i miei calzari che ti permetteranno di volare. Poi gli tese lo scudo, lucido come uno specchio. – Non guardare mai Medusa, ma cogline l’immagine qui riflessa. Così non rimarrai pietrificato. Quindi, gli porse anche una spada: – Te la manda Atena, questa. Andiamo, ora sei invincibile! In un battibaleno i due giunsero alle Terre della Notte, vicine a quelle della Morte. Scesero sulla triste spiaggia, su cui si affacciava la caverna di Medusa e delle sue sorelle. Dormivano le tre mostruose creature, ma ben sveglie erano le serpi che Medusa aveva in testa al posto dei capelli. Si misero a sibilare minacciose, ma Perseo non si perse d’animo. Fissava nello scudo l’immagine di Medusa, camminando all’indietro. Fulmineo la raggiunse e le troncò di netto la testa, che mise in un sacco. Il pericolo era tuttavia in agguato; le altre due sorelle si destarono e s’accorsero di lui. Provvidenziali furono l’elmo e i calzari del dio Ermes: appena se li mise divenne invisibile e così Perseo sfuggì ad un atroce destino. Certo, Polidette non lo accolse come si conveniva. – Sei un bugiardo! – gridò. – Non puoi aver ucciso Medusa. – Guarda! – disse Perseo e trasse dal sacco la sua testa. Non appena Polidette fissò gli occhi sul groviglio di serpenti
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e sulle pupille dilatate di Medusa, si trasformò in una statua pietrificata, dalla cui bocca usciva un urlo strozzato. Giunse Atena e inserì la testa di Medusa al centro dello scudo di Perseo che, da allora in poi, fece strage di nemici.
• •
Rispondi. • Quali e quanti sono i personaggi? • Di che cosa parla il mito? • Che cosa ci vuol spiegare? I miti di oggi, ben lontani dai miti di un tempo, vengono identificati in uomini e donne che, in un determinato campo, sono simbolo di successo: quali personaggi del mondo del cinema, dello sport, della canzone, della cultura sono per te dei “miti” e perché?
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Atlantide, l’isola misteriosa Gli antichi greci sostenevano che tanto tempo fa, al di là
del Mediterraneo, c’era un’isola così vasta da sembrare un continente. L’avevano saputo dai loro padri, informati al riguardo dai figli dei figli… Insomma, oltre le Colonne d’Ercole, che corrispondono per noi allo stretto di Gibilterra, da qualche parte nell’immenso oceano sorgeva Atlantide, la terra delle meraviglie. E questa è la sua storia. Dovete sapere che Zeus, il padre degli dei, amava la bellezza. Perciò aveva arricchito la Terra con fiori, alberi, animali di una tale diversità e perfezione da lasciare sbalorditi. Ci aveva messo anche uomini e donne, pure loro diversi e belli nella loro diversità. Zeus, dall’Olimpo, il monte dove risiedevano gli dei, contemplava le proprie creature con occhio benevolo. Ma non lo fece a lungo. Ben presto egoismo, cupidigia, invidia, cattiveria ebbero il sopravvento fra gli uomini: scoppiarono guerre sanguinose e i bei prati verdi si colorarono di rosso. – Ecco come mi ringraziano, quegli ingrati! – disse, allora, Zeus agli dei, riuniti a banchetto nella sala con le pareti d’oro.
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– Cioè? – chiese la bella figlia, Afrodite. E Zeus continuò: – Gli uomini, invece di apprezzare quanto ho dato loro, non si accontentano, vogliono di più, e si strappano l’un l’altro i doni ricevuti. – Perché non li punisci, padre? – consigliò la splendida Atena, che in cuor suo gioiva per quanto succedeva in Terra. Lei, infatti, era la dea della guerra e non si lamentava affatto se nei campi non crescevano più i fiordalisi… – Oh! – commentò Zeus. – Preferisco scordare tutto, che si azzuffino pure quegli ingordi, assetati di ricchezze e potere!
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Intervenne a questo punto la saggia Era: – Ma come? Abbandoni a se stessa la Terra, che consideravi un gioiello, la tua opera più perfetta? – Che delusione! E tutto per colpa degli uomini! Ah, però adesso non solo li sistemo, ma mi diverto anche! – Come farai, potente Zeus? – chiesero in coro gli dei che banchettavano felici. Lo stettero ad ascoltare con il sorriso sulle labbra. – A tutto c’è rimedio, se un mondo si guasta, subito è possibile crearne un altro, ancora più bello. In un baleno, Zeus decise di creare l’universo più straordinario che fosse mai esistito: Atlantide. Dopo che gli dei lasciarono la sala per andare a dormire negli splendidi letti intarsiati con gemme preziose, Zeus si affacciò sul mondo. Fluiva nel vento la sua lunga barba, mentre dalla soglia guardava con tenerezza l’universo infinito. C’era Urano con il manto stellato che abbracciava Gea, la Terra. C’erano i monti ricoperti dalle nevi perenni, c’erano i mari e i laghi dove nuotavano le tante famiglie di pesci. Contemplò anche i deserti, il potente dio, senza di-
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menticare boschi, stagni, praterie e le terre dei ghiacci perenni. Ma, quando scorse gli uomini che anche di notte si scannavano, s’infiammò d’ira. – Basta, basta: qui ci vuole un altro mondo! – esclamò. Sollevò, quindi, lo sguardo nello spazio infinito dove si perdevano migliaia di galassie. Là si trovava il necessario per il nuovo mondo: ossigeno, idrogeno, ferro, oro e argento, nonché un’infinità di metalli; quindi, vapori e altri liquidi che si mischiavano in molteplici forme, simili a lembi di nubi. Zeus, con un soffio, ne fece cadere una minima quantità nel vasto oceano. I metalli divennero suolo; i vapori si trasformarono in acqua, assumendo la forma di fiumi e laghi; poi sorsero le montagne e le pianure. Zeus sorrise e mille fiori sbocciarono nei prati. Il profumo arrivò fin lì, sull’Olimpo. Da ultimo, Zeus lasciò nell’incantevole isola Clito, una fanciulla altrettanto incantevole. Passa un giorno e passa l’altro, le stagioni si susseguivano, i semi mettevano radici nel suolo, spuntavano i germogli e le tenere foglioline, poi venivano i fiori e i frutti che la bella Clito mangiava in riva al mare. Un giorno Poseidone, il dio del mare, passò davanti all’isola. Frenò il cocchio a forma di conchiglia, tirando le redini: gli ippocampi, mostri marini per metà cavallo, per metà serpenti, subito si fermarono. I capelli ricci del dio, bianchi come la spuma del mare, si sollevavano alla brezza, ma erano l’unica cosa che si muoveva perché Poseidone, vista Clito su uno scoglio, era rimasto come folgorato dalla sua bellezza. Impalato, con il tridente in mano,
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la guardava sbalordito. A Clito, intanto, non era sfuggito lo splendore del cocchio dorato e, siccome sull’isola non aveva compagnia, così gli parlò: – Straniero, fermati un po’ con me, vieni a riva! Il tridente cadde di colpo e gli ippocampi, che avevano sentito, ridendo portarono Poseidone in spiaggia, veloci come il lampo. Da quel giorno Poseidone non fece altro che andare a trovare Clito. Lasciava gli ippocampi a giocare nel mare con Naiadi e Tritoni, altre creature marine, mentre lui corteggiava la fan-
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ciulla. Spesso lei gli chiedeva: – Se mi ami, cosa farai per me? – Trasformerò quest’isola in un luogo ancor più delizioso: farò costruire una reggia degna di te e dei nostri figli, se acconsentirai a sposarmi. Proprio al centro, sorgerà una splendida città con palazzi e templi e giardini meravigliosi e teatri e biblioteche e piazze per i mercati e luoghi per gare e giochi. Poseidone pregò la fanciulla con tanta insistenza che alla fine Clito acconsentì alle nozze. Zeus, cui nulla sfuggiva, fu contento: quella splendida terra si sarebbe ben presto popolata. Così, infatti, avvenne. In alto, al centro dell’isola, si ergeva una città circondata da mura e da un triplice fossato. Più in basso, sgorgavano due sorgenti, l’una di acqua fredda e l’altra di acqua calda. Nei campi, a valle, crebbero piante rigogliose come magnolie, cedri, acacie, camelie, querce e sequoie. Dall’alto delle mura era delizioso contemplare quel mare di foglie. Poseidone e Clito vissero felici molti anni. La reggia risuonava delle grida di tanti bambini. Infatti, i due ebbero dieci figli, tutti maschi.
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Quando raggiunsero la maggiore età, Poseidone, serio, fece loro questo discorso: – Dividerò questa terra fra voi in modo giusto. Inizio con te, Atlante. Tu avrai la parte centrale. A lungo Poseidone parlò ai figli. Tutto sembrava sistemato per il meglio. Atlante fu anche nominato re: perciò, quell’isola da lui si chiamò Atlantide. Il saggio re continuò l’opera del padre, innalzando sontuosi palazzi circondati da stupendi giardini. Fece poi arrivare, da terre lontane, elefanti, gazzelle, giraffe e ippopotami che sistemò nei tanti parchi dell’isola. Insomma, di generazione in generazione, gli abitanti di Atlantide divennero sempre più ricchi e sembravano i più felici della Terra. Ma era vero? Bastavano loro i palazzi di marmo, con vasti saloni arredati da mobili d’oro e avorio? Bastavano le città con così tante botteghe da far invidia ai visitatori che giungevano da paesi lontani? Bastavano forse i campi fertili che donavano messi in abbondanza e quel mare con così tanti pesci che era sufficiente immergervi le mani per pescarli? Sembravano felici gli Atlantidi, ma non lo furono a lungo, perché a poco a poco divennero incontentabili. Ebbene, tutti quei doni che avevano ricevuto di colpo non bastarono più. Uomini e donne camminavano per strada e se il mattino si presentava limpido e caldo dicevano: – Che tempo! Sempre uguale, mai che ci sia una bella tempesta che scoperchi le case o faccia crollare qualche albero centenario! Agli stranieri che ammiravano le loro città confidavano: – Sì, i palazzi sono belli, però ci vorrebbe più oro all’interno,
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più affreschi, più colonne di marmo. L’insoddisfazione serpeggiava nell’animo di chi aveva ogni bene, senza fatica. Qualcuno iniziò ad armare delle navi per compiere delle scorribande in altre parti della Terra. Molti tornavano con gli animali più strani, con casse zeppe di pietre preziose, bauli con le stoffe più pregiate. E ci fu chi provò una tale invidia da decidere di rubare agli altri le ricchezze accumulate. In breve, ad Atlantide si passò dalla pace a uno stato di guerra perenne. Ci si assassinava per un pugno di monete d’oro. E si desiderava sempre più la roba altrui. Più si aveva e più si desiderava possedere. Accecati dalla follia del
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possesso, gli Atlantidi infine, con una flotta così vasta da oscurare l’orizzonte, varcarono le Colonne d’Ercole per dare l’assalto ai popoli del Mediterraneo. Volevano spogliarli di ogni bene. – No, non è possibile che io tolleri la vostra ingordigia! – urlò Zeus. – Che siate dannati, Atlantidi! Di voi, a cui avevo regalato una vita felice, cancellerò ogni traccia! All’improvviso il cielo si oscurò. Lampi squarciarono le nubi, mentre i tuoni facevano tremare la Terra. I venti del Nord sollevarono ondate gigantesche. Dalla prua delle navi i comandanti avvistarono un muro d’acqua che correva verso di loro. – Ammainate le vele! – fecero appena in tempo a ordinare ai marinai prima che l’onda gigantesca li investisse. Per un attimo, comandanti ed equipaggi videro la schiuma sulla cresta dell’onda e poi l’abisso verde che si chiudeva sopra i loro capi. L’urlo del vento e il fragore delle onde sovrastarono le voci disperate degli uomini. Nessuno si salvò, l’oceano inghiottì anche i legni e le vele. E ad Atlantide cosa stava succedendo? Anche là il cielo si oscurò. Uomini, donne e bambini guardarono in alto, portando le mani agli occhi, stupiti. – È la prima volta che vedo il cielo così nero – disse un bambino alla sua mamma. – Non è niente – rispose un uomo, che era stato al mercato per vendere le sue stoffe. Aveva fretta di tornare al magazzino e la gente non lo lasciava passare. – Se fossi in lei, lascerei il carro e mi rifugerei al coperto – suggerì la donna che teneva per mano il bambino. Irritato, il
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mercante le rispose: – Devi essere una straniera, non sai che qui ad Atlantide non c’è mai brutto tempo? Voleva ribattere la donna, ma non poté: di colpo la città venne inghiottita da un buio spaventoso. Si udì un boato e il suolo incominciò a tremare. Prima crollarono le colonne di marmo, poi le facciate dei palazzi si accartocciarono su se stesse. Si aprirono voragini nelle strade, inghiottendo i passanti. Si squarciarono i muri della reggia; crollarono i soffitti d’oro; sugli affreschi si aprirono vaste crepe prima che i dipinti si sbriciolassero; i mosaici vennero spazzati via perché ormai le crepe correvano anche lungo i pavimenti. Quindi, caddero le statue che adornavano i ponti e si frantumarono in mille pezzi. Anche le potenti mura della città crollarono e le fontane gonfie d’acqua sommersero i parchi. Un fiume d’acqua iniziò a scendere dal cielo, mentre tutti correvano disperati in cerca della salvezza. Ma nessuno venne risparmiato. Chi si rifugiava nei templi morì travolto dai blocchi di marmo che cadevano dall’alto; chi rimaneva nella propria casa scivolava con essa nelle viscere della terra; chi si rifugiava nei campi veniva calpestato dagli animali impazziti; chi correva al porto annegava in mare perché le banchine si spaccavano. I boschi si trasformarono in paludi, tanta fu la pioggia che cadde dalla volta celeste: i fiori marcirono, gli alberi crollarono. Ovunque si udivano lamenti, i primi giorni forti, poi sempre più deboli. Una fitta nebbia avvolse ogni cosa, mentre non smetteva di piovere. Di giorno non si scorgeva il sole, di notte non si vedeva la luna. Li coprivano nubi perenni. Quando iniziarono a
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sgretolarsi le montagne, i pochi sopravvissuti non se ne accorsero, perché da giorni il suolo rimbombava di un suono spaventoso. Vennero distrutti anche i villaggi degli altopiani. Poi il mare prese ad avanzare, un’onda dietro l’altra. Guadagnava terreno di ora in ora, o forse era la terra che sprofondava. In breve l’acqua marina arrivò fino alla reggia di Poseidone e Clito. Le macerie dell’antico palazzo si inabissarono con un gorgoglio, l’ultimo suono di Atlantide, che scompariva per sempre.
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Rispondi. • Di che cosa parla il mito? • Che tipo di divinità è Zeus? È buono, disponibile, attento ai bisogni degli uomini, oppure è anche lui vittima dei propri sentimenti? • Qual è la morale di questo mito? Immagina che Poseidone, dio del mare, scriva una lettera al potente Zeus e lo convinca a placare la sua ira nei confronti degli Atlantidi.
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Teti, Peleo e la guerra di Troia Tanto tempo fa in Tessaglia, una zona montuosa della Gre-
cia, esisteva una dea bellissima di nome Teti. Peleo, re della città di Ftia, se ne innamorò perdutamente anche se sapeva che molti avevano tentato invano di conquistarla. I nobili principi che le avevano dichiarato eterno amore tornavano a casa scoraggiati, quindi raccontavano: – Mi sorrideva e io l’abbracciavo quando all’improvviso si è trasformata in un cinghiale; l’ho tenuta stretta e allora è diventata una sirena, poi un leone, un’aquila, un delfino e, infine, tra le mani avevo solo fiamme o limpida acqua. Era chiaro che Teti, figlia del vecchio Nereo, signore del mare, possedeva poteri straordinari. Anche gli dei si erano invaghiti di lei, ma sia Zeus che Poseidone rinunciarono all’impresa di ottenerla in sposa, perché si diceva che il figlio da lei generato avrebbe procurato al padre grandi disgrazie. – Lasciamola a un mortale – decisero i due, brindando con un calice d’ambrosia, la bevanda degli dei. Fu così che di tanti pretendenti rimase solo Peleo. Su ordine di Zeus, Ermes, il messaggero degli dei, si recò
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dal re tessalo e gli confidò: – C’è un solo modo per ottenere l’amore di Teti: devi tenerla stretta a te e non lasciarla mai, costi quel che costi! Con in mente quel prezioso consiglio, l’eroico re lasciò Ftia, in cerca di Teti e finalmente la trovò intenta a raccogliere more e lamponi in un bosco. – Salve – le disse Peleo rimanendo in groppa al suo destriero. – Salve – rispose Teti sorridendogli. Fu cortese con lui perché gli aveva fatto una buona impressione: il re aveva degli splendidi occhi verdi e il corpo di un atleta. Poi era gentile, le parlava tenendosi a distanza, pronto ad andarsene a un suo cenno. Quel giorno Peleo si fermò pochi minuti, mentre il seguente stette con lei mezz’ora. Dopo una settimana iniziò a scendere da cavallo e a passeggiare per il pomeriggio intero. Le parlava a lungo, ma più che le parole erano gli sguardi che dicevano quanto fosse innamorato. Lei, comunque, sorrideva, chinava timida gli occhi, e non si pronunciava. Non gli diceva mai che avrebbe potuto volergli bene. Stava soprattutto attenta a non
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lasciarsi avvicinare troppo. E Peleo badava a non insospettirla perché aveva architettato un piano, che avrebbe attuato presto. Infatti, un mattino, allo scadere di sei mesi di assiduo corteggiamento, Peleo decise che era giunto il momento di tentare la sorte. “Ora o mai più!” si disse e, mentre Teti coglieva un fiore, l’abbracciò forte forte. Il gesto era stato così improvviso che Teti rimase sbalordita. Però si riprese subito e si trasformò in una tigre feroce. Ringhiava, graffiava l’aria con gli artigli, rizzava il pelo sulla schiena, lo frustava con la coda e gli sbavava in faccia.
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Peleo la strinse ancora più forte. Lo stupore di Teti crebbe a dismisura. Allora divenne fuoco ardente con l’intenzione di bruciarlo vivo. Lasciò andare la presa il re? Nient’affatto, perché il suo amore lo bruciava più della fiamma. La dea spalancò gli occhi: nessuno mai si era rivelato così audace. Scelse di trasformarsi in uno zampillo d’acqua. Scivolavano via le gocce, ma il magico cerchio delle braccia di Peleo non si scioglieva. Alla fine, dopo tante trasformazioni, Teti si arrese e ridiventò la splendida ragazza che era e accettò l’amore di Peleo. In seguito, Teti e Peleo decisero di celebrare le nozze sul Pelio, un monte vicino all’Olimpo, dove risiedevano gli dei. Fu così che quasi tutte le divinità parteciparono alle nozze. Per l’occasione Dioniso, il dio del vino, arrivò su un cocchio dorato; quindi, giunse Ares con in dono uno scudo e splendide lance; poi comparvero Zeus, sua moglie Era e i figli: Artemide, Atena e Apollo con una lira. Il dio avrebbe allietato gli ospiti con la sua musica. Non mancarono all’appuntamento Efesto e Afrodite, la quale, come sempre, catturò gli sguardi per la sua bellezza. Demetra e la figlia Persefone, accompagnate da Ade, che aveva abbandonato per un giorno il regno dei morti, giunsero subito dopo. Non fu invitato invece Elio, il dio Sole, perché doveva continuare a far risplendere il giorno. Anche Eris, la dea della discordia non fu convocata; certo, Teti e Peleo non desideravano che scoppiassero liti in quelle ore felici. Ed Eris decise di vendicarsi. Come osavano festeggiare senza di lei? Mentre gli sposi e gli invitati banchettavano lieti, Eris si presentò avvolta da un nero mantello, con un’espressione tetra in
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viso. Sul capo aveva una specie di corona che mandava sinistri bagliori. Li guardò tutti, uno a uno; intanto i corvi che aveva sulle spalle si misero a svolazzare per l’ampia sala. Ci fu un mormorio fra i presenti: molti provarono un brivido di paura. Le ancelle scapparono rifugiandosi nelle cucine. Gli dei si scambiarono occhiate preoccupate. Poi, tutti trassero un sospiro di sollievo appena lei fece scintillare i denti aguzzi in una smorfia: – Cari Teti e Peleo, giungo qui da lontano per portarvi un
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dono. Non le staccavano gli occhi di dosso, gli dei. Erano piuttosto incuriositi perché le mani adunche di Eris non stringevano nulla. Dove era mai il regalo? Avanzava adagio nella sala la dea della vendetta e sogghignava. Giunta di fronte alla tavola imbandita, infilò la destra in un’ampia tasca nascosta tra le pieghe del mantello, ne trasse… – Oh! – fecero tutti. Eris aveva lanciato proprio davanti a Teti e Peleo un pomo d’oro, che sfolgorava ai raggi del sole. Eris li guardò con cattiveria e sparì. I corvi volarono via tra una colonna e l’altra. Un vento gelido s’insinuò nella sala. Peleo allora disse: – Dimentichiamo lo spiacevole incidente e riprendiamo i festeggiamenti, amici cari. Abbracciò Teti con trasporto. Apollo prese la cetra e cantò dolci melodie. Dato che ormai anche i dolci e la frutta erano stati gustati, qualcuno iniziò a danzare. Si danzava, dunque, si rideva, si mangiavano fichi ricoperti di miele, e si beveva molta
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ambrosia. Afrodite, d’un tratto, si sciolse dalle braccia di chi l’accompagnava nella danza. Si chinò sulla tavola del pranzo nuziale, accostò al viso il pomo d’oro, e lesse ad alta voce cosa c’era scritto sopra la mela dorata: – Alla più bella! Naturalmente le coppie smisero di danzare e anche quelli che ancora sedevano a tavola si volsero verso la dea. Lei disse: – Ma, forse non è un dono per te, Teti! – Pare di sì – rispose la sposa e aggiunse: – Occorre che qualcuno decida chi è la più bella fra le presenti. Chi vuole farlo? Zeus subito si fece da parte. Pensava, infatti: “Ci mancherebbe altro! Se non dovessi scegliere lei, mia moglie Era mi porterebbe il broncio per un’eternità”. Apollo pose la cetra e uscì nel patio a piccoli passi. “Fossi matto!” rifletteva, “Mai impegolarsi con le dee: sono capricciose e vendicative. Proprio non posso permettermi grane”. Ares si limitò a dire che aveva bevuto troppo e gli girava la testa. Le dee, nel frattempo, strillavano: – O vi decidete a scegliere oppure… La velata minaccia pesava sul capo di Zeus come un macigno. Aggrottò le sopracciglia e si rivolse al suo vicino. – Che dobbiamo fare? – chiese a Dioniso che gli sedeva accanto, allegro come non mai. – Quante storie! – rispose Dioniso con la voce impastata sbattendo gli occhi per riuscire a focalizzare la sala. – Dividia-
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mo il pomo in parti uguali e accontentiamole tutte. Zeus soppesò nel palmo il pomo. – Mi spieghi come facciamo a tagliare questo pezzo d’oro? – gridò infuriato. – Calmati! – gli rispose l’altro. – Affidiamo l’incarico a un mortale e facciamola finita. Afrodite, Era e Atena, che li avevano ascoltati attentamente, urlarono con gioia: – Accettiamo! Sarà un uomo comune a scegliere la più bella!
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In fretta e furia Ermes venne inviato a Troia, presso la reggia di Priamo. – Non sarò io a decidere, ma mio figlio Paride – annunciò il re. Dovete sapere che questo Paride era stato un bambino sfortunato: da piccolo il re Priamo l’aveva abbandonato in un bosco perché gli indovini di corte gli avevano predetto che grandi sciagure gli avrebbe recato quel bimbo. In un primo tempo il re aveva pensato di farlo uccidere, ma poi si era limitato ad abbandonarlo. Paride era stato allattato da un’orsa e si era salvato. Come raggiunse la maggiore età, aveva potuto far ritorno alla reggia. Gli chiese, dunque, il padre: – Te la senti di impegnarti in un giudizio così difficile? Paride aveva superato prove ben più ardue: – Vengano le dee nei fitti boschi del monte Ida, là sceglierò la più bella – annunciò e se ne andò a caccia. Cantavano le allodole e mormoravano le acque del torrente. Afrodite, Atena ed Era si lisciavano i capelli e si
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specchiavano nella corrente limpida. Naturalmente ognuna di loro sosteneva che sarebbe stata lei la vincitrice di quella strana gara. Come videro Paride, gli corsero incontro. – Ti regalerò l’Asia intera con tutte le sue ricchezze, diventerai l’uomo più potente della Terra – disse Era. – Non ascoltarla! – la interruppe Atena. – Io farò di te l’uomo più saggio dell’universo. Afrodite gli accarezzò il braccio e, lanciandogli un languido sorriso, gli mormorò all’orecchio: – Se scegli me, avrai la donna più bella del mondo: Elena di Sparta. Le tre dee lo accerchiarono, facendogli mille moine e mille promesse, ma Paride, in cuor suo, aveva già deciso. Le ricchezze, l’intelligenza, la saggezza non l’interessavano. Lui desiderava la creatura più bella che esistesse sulla faccia della Terra e poco importava se era già sposata con Menelao, fratello di Agamennone, re di Sparta. Afrodite avrebbe mantenuto la parola e gliela avrebbe concessa. Soppesava il pomo d’oro Paride, le dee lo guardavano incerte, ognuna credendo di essere la prescelta. Tutte e tre avevano un sorriso radioso sulle labbra. Il sole al tramonto colpì il pomo che si illuminò di un’aureola dorata. Paride lo lanciò. – Scelgo te, tu sei la più bella! – gridò mentre le dee levavano le braccia in alto. Sui visi di Era e Atena si spense il sorriso. Paride aveva lanciato la mela d’oro ad Afrodite. In seguito il principe troiano andò a Sparta ed Elena si innamorò di lui fino al punto di decidere di seguirlo a Troia. Ma i
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Greci sostennero che la donna era stata rapita. Era e Atena giurarono odio eterno a Paride e a tutti i Troiani. Furono ben contente quando Menelao, Agamennone e i principi greci decisero di vendicare il torto subìto, cioè il rapimento di Elena, con una guerra contro Troia.
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Rispondi. Elenca gli avvenimenti secondo l’ordine cronologico e racconta a voce. • Ci sono indicazioni relative al tempo e al luogo in cui si svolge il mito? • Chi sono i protagonisti? • Quali divinità compaiono? • Qual è il significato del mito? Scrivi anche tu un mito per spiegare l’origine delle stelle.
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LABORATORIO TEATRALE Bacco e Arianna contro il re Mida a cura di Daniela Folco
BACCO, ARIANNA E IL RE MIDA.
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ECCO LE ISTRUZIONI PER OPERARE AL MEGLIO Leggi con attenzione il copione, cerca di capire a fondo la personalità di ogni personaggio, immagina i gesti che compie e il tono di voce che usa, impara le battute mediante molte prove. Per ottenere un buon effetto comico cerca di esagerare i gesti suggeriti. L’insegnante-regista ti correggerà finché non ti muoverai sul palcoscenico con scioltezza.
PERSONAGGI Narratore Bacco Arianna Re Mida Ercole Ade Il cagnaccio Cerbero Drago Mansueto Draghi, fauni, ninfe, zampognari, un albero
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SCENA 1 (Luce, musica. Un grande ranocchio saltellante entra in scena. È il narratore)
Narratore Un saluto a tutti. Iniziamo subito lo spettacolo, ma attenti, mi raccomando, perché ci vuole molta fantasia per seguire la storia che sto per narrarvi. Dovete sapere che… c’era una volta… un re… che si chiamava Mida. Questo Mida era un gran testone, pensava solo ai soldi e a come diventare sempre più ricco. Nient’altro gli importava. Un bel giorno, il re Mida incontrò un dio e questo dio gli diede la magia di trasformare in oro quello che toccava. Tutto andò bene i primi tempi, ma fu un vero disastro poi, come andiamo a dimostrare. Infatti, un giorno re Mida incontrò il dio Bacco e la bellissima Arianna in un bosco. Ssss! Guardiamo cosa succede. (suoni di zampogne o musica gioiosa. Mida avanza sul palcoscenico, a destra. Arrivano anche Bacco e Arianna e si mettono a sinistra, il narratore esce di scena) SCENA 2 Bacco (molto sorpreso) – Guarda! Foglie d’oro! (ne porge una ad Arianna)
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Arianna – Che meraviglia! Mida (va loro incontro) – Modestamente è tutta opera mia! Bacco e Arianna (insieme) – Opera sua? (indicano entrambi re Mida) Mida – E sì, modestamente ho il tocco magico. Bacco (pensa che Mida sia un gioielliere) – Oh! Che bravo gioielliere, un artigiano fantastico! Mida (con arie da pallone gonfiato) – Modestamente, come le dicevo. Arianna (con atteggiamento da gran dama) – Bacco, caro, dobbiamo invitare il qui presente…
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Mida (interrompendola) – Mida, re Mida, a vostra disposizione. (fa un inchino esagerato) Arianna – Dobbiamo invitare l’orefice a pranzo. Bacco – Certo, sicuro. Potrà così mostrarci altri gioielli. Mida – Beh, non c’è che l’imbarazzo della scelta… però non è che io sia proprio un orefice… (escono di scena) SCENA 3 (si vede un tavolo, ninfe servono cibi e frutta)
Bacco (versa il vino nella coppa di re Mida) – Assaggi questo nettare!
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Mida – C’è qualcuno che lo può portare alle mie labbra? Arianna (preoccupata) – Ha perso l’uso delle braccia? Mida (imbarazzato) – No, vede è che… è un difettuccio da poco, intendiamoci, però tutto quello che tocco con le mani… ehm… ehm... diventa oro. Bacco (in tono autoritario) – Ah, a proposito di oro, mi dimenticavo i gioielli. Ce li mostra? Mida (con fare ossequioso) – Li faccio all’istante, ma non mi sembra il caso… Se qualcuno volesse imboccarmi… devono essere deliziosi quella porchetta e quei salami… uhm, uhm. (si lecca le labbra e trangugia) Bacco – No, no, non si mangia se prima non si vedono i gioielli.
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Mida (fa cenno a una ninfa di portargli alla bocca la coppa di vino. Beve avidamente) Bacco – Allora questi gioielli? Mida (servile) – Beh, se la mette così. (dalle mani della ninfa prende la coppa che diventa d’oro, poi solleva un salame, il pane, la frutta… che subiscono la stessa sorte) Bacco (arrabbiato, si getta contro Re Mida, gli stringe il collo e lo scuote) – Cosa fa? Dov’è finito il vino? I salami!? La frutta? Mida (tentando di liberarsi tocca la tovaglia, il tavolo, una ninfa e trasforma tutto in oro) Bacco (infuriato) – Miseriaccia! La tovaglia, il tavolo, il cibo: tutto è duro come sassi e d’oro! E anche la ninfa è diventata una statua d’oro!
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Arianna (come una furia) – Presto! Presto portatelo via. Dategli delle belle legnate sul groppone! Mida (prende un sacco di legnate da ninfe e fauni) – Ahi! Ohi! Ahimè! Ahi! (fino a che scompare dietro il sipario inseguito da tutti) SCENA 4 Arianna (scuotendo la ninfa) – Ahimè! Ahimè! Povera Starnizia, chi ci racconterà più le storie dei bei tempi antichi? Chi ci allieterà con l’arpa? Chi verserà il vino? Bacco (arrabbiato, si mette le mani sopra le orecchie, batte i piedi) – Smettila di lamentarti come un’oca spennata. Arianna – Oca spennata a me!? Bada a come parli, gran cervellone! Sei così stupido che hai permesso all’orefice di devastare tutto. E non sai prendere alcun provvedimento per liberarti di quell’uomo. Guarda! (ampio gesto del braccio)
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Ha trasformato in oro colato anche il laghetto, dove facciamo il bagno! E ha ricoperto d’oro il frutteto e la vigna! Bacco – Ah no! Non è possibile, che mascalzone! Arianna – Sai dire solo questo? Bacco (si porta le mani alla bocca e urla a perdifiato) – Ercole! Eeeeercooooleeee! Eeeeeeeercooooooleee! Ercole (indossa una finta pelle di leopardo o maglietta e calzoncini leopardati, clava sotto il braccio) – Chi mi chiama? Chi chiama il più nobile dei guerrieri, l’invincibile eroe di tutti i tempi, il campione più gettonato… Bacco – Il più presuntuoso di tutti i presuntuosi… Ercole – Bacco, perbacco! Sii gentile!
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Bacco – Bando alle ciance, bello! Devo liberarmi di un essere ignobile… Ercole – Un mostro? Bacco – Peggio, molto peggio. Ercole – Un drago dalle cento teste? Bacco – Peggio, molto peggio. Ercole – Un Minotauro sanguinario? Bacco – Peggio, molto peggio.
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Ercole – Un dentista? Bacco – Peggio, molto peggio… un orefice con il tocco magico! Ercole – Ma è una bazzecola! Dimmi come è fatto e lo spedisco dove vuoi. Bacco – All’inferno! Ercole – Va bene, ma descrivilo affinché non possa sbagliarmi. Bacco – Beh, se vedi uno che trasforma in oro tutto quello che tocca è lui di sicuro. (escono a braccetto, fischiettando. Arianna li segue)
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SCENA 5 Narratore (si muove al rallentatore e pronuncia adagio le battute, musica di sottofondo che crei suspense). Siamo nel mondo dei morti, nell’oltretomba dove regna Ade. Qui Ercole ha trascinato Mida ed è sparito in un battibaleno, lasciando ad Ade l’ospite sgradito. Sentiamo cosa dice il re degli Inferi al fedele Cerbero, il cagnaccio che fa la guardia al regno. Ade (in tuta mimetica e con elmetto in testa) – Cerbero, ho visto gente di tutti i tipi, ma un gaglioffo come questo non era mai capitato da queste parti. Cerbero (indossa un vestito da mostro canino ed emette degli ululati prima di parlare) – Parla, o signore, e io te ne libererò. Anzi lo sbranerò all’istante. Mida (accovacciato in un angolo, capelli ritti mediante gel sulla testa) – Pietà! Pietà! (si rotola sul pavimento, striscia e continua a implorare pietà) Ade – Anche se mi ha trasformato il materasso di piume in marmo dorato, mi sembra un tantino eccessivo farlo sbranare
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da te. (passeggia con aria pensierosa). Riportalo sulla Terra! E la prossima volta mordi Ercole… (Cerbero trascina fuori dal palco Mida, subito dopo esce anche Ade, musica solenne) SCENA 6 Narratore (entra in scena saltellando) Corro, corro perché ci sono delle importanti novità: Bacco e Arianna hanno di nuovo incontrato il re Mida. Un disastro! Un vero disastro! Mida ha trasformato in statue d’oro un fauno, uno zampognaro, un’altra ninfa e, udite, udite, il vecchio maestro di Bacco, Sileno! Allora, Bacco ha richiamato Ercole e l’ha mandato in un posto che si chiama Dragonia… (avanza a passettini verso il bordo del palcoscenico e dice con fare misterioso) sembra che lì ci sia Drago Mansueto, che è in grado di risolvere ogni problema. (esce ed entra Ercole) Ercole (piange e si lamenta, ha il costume annerito e a brandelli in modo da dare l’impressione che sia bruciacchiato; il viso rosso, ustionato) – Miseriaccia! Miseriaccia! In questo posto sono tutti draghi e non smettono di sputar fuoco! Però, ogni tanto, cantano. Anche bene, bisogna dirlo… Draghi canterini (entrano in scena tenendosi per mano. Sono mascherati da drago. Cantano, scelta della canzone a
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piacere del regista) Drago Mansueto (lunga veste verde con disegni che ricordano una pelle a scaglie) – Chi piange? Ercole – Chi parla? Drago Mansueto – Chi sei? Ercole – Chi sei? Drago Mansueto ed Ercole (insieme) – Io, sono io! Draghi canterini (in coro) – Oh mamma mia quanta saggezza! E se incenerissimo il nuovo arrivato?
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Ercole – Per carità, ditemi dove posso trovare Drago Mansueto e me ne vado subito. Drago Mansueto – Sono io Drago Mansueto. Cosa vuoi? Ercole – C’è un tizio che raggela, fa morire, solidifica ogni cosa che tocca: trasforma tutto in oro. Si dice in giro che sei così saggio da risolvere ogni problema… Ebbene, mi hanno mandato da te perché quel tale la smetta di fare guai! Drago Mansueto – Ma certo, caro. Vediamo un po’… dunque, raggela, toglie la vita… trasforma in oro… Semplice: basta applicare la legge del contrario… e il pasticcione smetterà di far danni. Ercole e i draghi (in coro) – Cioè? Drago Mansueto – C’è un piccolo talismano nella vita di tutte le creature: l’amore.
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Ercole (ride in modo sguaiato) – E ho girato il mondo per venire qui a sentire questa sciocchezza? Drago Mansueto (dà segni di nervosismo) – L’amore ripara ogni cosa. Torna da dove sei giunto e fai baciare il tizio che trasforma tutto in oro, vedrai... accadrà un vero miracolo! (si allontana ed esce accompagnato dal coro dei draghetti) SCENA 7 Narratore (avanza con in mano papaveri e fiordalisi) È estate. I prati sono pieni di papaveri e fiordalisi. In un prato Bacco, Arianna, ninfe e fauni danzano. Il re Mida è legato al tronco di un albero. Albero (indicando con un ramo Mida) – Portatelo via! Mi ha già fatto seccare mezzo tronco che, diventato giallo, attira le gazze di tutta la zona. Ercole (arriva correndo, molto ansante) – Ecco ho il rimedio, me l’ha dato Drago Mansueto… (Bacco e Arianna gli si avvicinano)
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Ercole (rivolgendosi ad Arianna in tono solenne) – Devi baciare il re Mida e l’incantesimo si scioglierà. Bacco (aria minacciosa, stringe i pugni) – Neanche per sogno! Stai lontana, Arianna, da quell’orribile creatura. Guai se la mia sposa si dovesse mettere a baciare chiunque a destra e a manca. Che figura ci farei? Ercole (rivolgendosi a tutti. Arrivano Cerbero e un paio di draghi) – Dovete baciare il re Mida, altrimenti continuerà a ridurre tutto in oro. Cerbero (ululati) – Inizio io. Mida (forte urlo del re Mida che si copre il viso con le mani) – Noooooo! Un draghetto (appioppa un grosso bacio a Mida, urla disperate di quest’ultimo) – E… continuo io… continuo io… (tutti i personaggi baciano uno a uno Mida, gesti esagerati)
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Narratore Tutti: fauni, ninfe, mostri e draghetti hanno baciato Mida, dicendogli “ti voglio bene”… Cosa accadrà ora? Mida (a pezzi, tono molto lamentoso) – Stavo meglio da Ade. (si tocca il petto, molto sorpreso) C’è qualcosa che si sta sciogliendo qui dentro, batte, fa toc toc… Tutti (in coro) – Ma è il cuore! (qualcuno l’abbraccia) Mida (urla a squarciagola) – Ho perso i poteri magici! Non trasformo più uomini e cose in oro. Evviva! Evviva! (viene portato trionfalmente fuori dal palcoscenico. Suoni di zampogne o musica gioiosa) Narratore (saltella felice; poi si ferma al centro del palcoscenico) Avete capito, carissimi amici? È l’amore che libera da ogni male, l’amore che è il più grande talismano per tutte le creature di questa Terra. Non scordatelo! (Grande inchino e - si spera - molti applausi, mentre tornano sul palcoscenico tutti gli attori)
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Le mille avventure di Ulisse
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