Storie al sole 4
Dove stanno le storie?
Le storie stanno nelle parole cestini di fresche risate colorate, gioiose, ricercate.
Le storie stanno nelle parole gioielli preziosi delle fate.
Sogni di bambini, avventure, pirati. Le storie stanno in fondo al cuore ce ne sono tante per chi ne vuole.
Rosa Dattolico Rosa DattolicoVacanze Strepitose
Capitolo primo
– Sei stato promosso con ottimi voti, perciò andrai un po’ in montagna a casa dei nonni – mi disse il babbo, dandomi una pacca sulla spalla. – Si vede lontano un miglio che sei contento. Sembri così soddisfatto della mia scelta che quasi quasi ti manca il respiro, ma non devi ringraziarmi, caro – mi sorrise e i suoi baffetti di sorcio spelacchiato ebbero un guizzo.
–Vedrai che zio Umberto e zia Alice ti tratteranno bene e poi non mancheranno le coccole che riceverai dai nonni.
– Ti accompagnerà un collega del babbo, che raggiungerà alcuni suoi parenti che abitano in un paesino vicino a quello dei nonni e degli zii – mi annunciò la mamma.
Sei contento?
Rimasi muto, feci cenno di sì con la testa e poi mi chiusi in camera.
Una sorpresa simile avrebbe messo chiunque nella bara. Ho sempre detestato la montagna e ho sempre avuto il terrore di camminare nei boschi: l’idea di imbattermi in qualche animaletto mi metteva i brividi addosso. Una volta il nonno mi ci volle portare a tutti i costi. Ad un tratto scorsi un uccellaccio nero tra i rami di un albero, che mi fulminò con lo sguardo.
Indietreggiai bruscamente, il nonno inciampò e cadde come una pera cotta
tanto che per rialzarlo mi inzuppai di sudore:
«È un povero corvo» mi ripeteva, mentre io continuavo a strillare disperatamente. E, così, dopo aver rivissuto quel triste ricordo, mi addormentai con l’incubo della partenza. L’indomani il babbo mi accompagnò alla casa del suo collega: – Piero, ti presento mio figlio Marco – disse.
Io tesi la mano per presentarmi e l’energumeno me la strinse forte, a tal punto che le mie dita scricchiolarono spaventosamente.
“Ho le ossicine frantumante e la mano simile a una pappetta” pensai, muovendola appena.
Mi allontanai bruscamente e rimasi in attesa che lo stritolaossa salutasse la moglie e i figli.
Dopo un po’, apparve una giovane donna, alta come un lampione, con un collo da giraffa, due occhi grandi, i capelli
scarmigliati: sembrava una pazza appena uscita dal manicomio.
Vicino c’erano i suoi figli simili a due gatti selvatici, pronti a graffiarti. Dietro di me, vidi sbucare una specie di mano che si adagiò sulla mia spalla; non era quella di mio padre e neppure del suo amico, anzi non era nemmeno una mano: era una gigantesca zampa pelosa e apparteneva a Rudi un orribile cagnaccio nero, alto quanto un asinello.
– Gli sei simpatico – mi disse il collega di mio padre – di solito si avventa sugli estranei.
Subito dopo, Rudi mi si piazzò davanti e mi guardò fisso negli occhi: sentii una fitta allo stomaco che sicuramente si era ristretto, sino a raggiungere le dimensione di un cece.
Lui dorme con mio padre in quella camera in fondo al corridoio.
E dopo qualche minuto ecco apparire anche il nonno, il padre dell’energumeno che mi aveva poco prima frantumato le ossa della
mano, tentando persino di staccarmela. Era in vestaglia e pantofole, ma in testa aveva il cappello da capitano.
– Non riesco a separarmi da questo – disse – sono stato capitano di marina e il berretto lo porto sempre sulla zucca, persino quando vado a letto.
– E quando fate la doccia? – chiese il babbo.
– Non la faccio mai, proprio per non bagnarlo – rispose con orgoglio. – Questo berretto per me è sacro – esclamò, diventando tutto rosso, mentre le dita e le vene del collo diventavano improvvisamente blu.
Poi mi guardò e mi fissò con un occhio che si contraeva nervosamente: – Sei stato promosso, ragazzo? – mi chiese, continuando a strizzarlo.
Sì, con ottimi voti perciò il babbo mi manda in vacanza in montagna dai nonni.
– Anch’io sono stato promosso sempre con pieni voti a differenza di qualcun altro – e guardò il figlio, il signor Piero che abbassò la testa, arrossendo.
Se non portavo a casa pagelle eccellenti, mio padre mi avrebbe chiuso in cantina per una settimana o mi avrebbe legato ai binari, per aspettare l’espresso delle 7:30 che prendeva abitualmente per andare al lavoro.
– E vostra madre che cosa avrebbe fatto per evitare che vostro padre potesse macchiarsi di un simile crimine? – gli chiesi incuriosito.
– Mia madre si sarebbe strappata i capelli e, dalla vergogna, non sarebbe uscita di casa per tutto il resto della sua vita.
Rudi, nel frattempo, si era allungato a mo’ di tappeto sotto il tavolo del soggiorno, ma spiava ogni mossa.
Mentre stavamo per uscire di casa, la moglie del signor Piero si soffiò rumorosamente il naso e trattenne le lacrime, i figli gli volarono al collo, mentre il bestione gli leccò la guancia e si allungò sotto il tavolo, poi seguì il padre del signor Piero, che gli batté in testa per ben due volte la pipa, in segno di affetto.
Dopo qualche minuto, il signor Piero era al
volante della sua auto, mentre io gli sedevo accanto con le mani giunte.
“Come aveva potuto mio padre affidarmi nelle mani di uno squilibrato che andava a tutto gas, zigzagando, facendo sorpassi impossibili e manovre spericolate” mi dicevo.
Per tutto il viaggio, mi raccomandai l’anima a San Ignazio, il santo prediletto di mia nonna, e non feci che ripetere mentalmente queste parole: “Se ti trovi in mezzo ai guai e la fifa è proprio assai, batti due, batti tre, pensa sempre solo a te”.
Capitolo secondo
– Tra qualche ora potrai abbracciare i tuoi cari nonnini – disse lo squilibrato automobilista, fermandosi bruscamente. Entrammo per pochi minuti in uno squallido autogrill.
Un cliente masticava un panino e con la bocca piena gridò: – Per un tipo come il Sismondi ci vorrebbe la forca!
E l’altro: – Una scossa elettrica!
E il primo: – Meglio la forca, perché non sopporto l’odore di bruciato!
Intanto, il barista, un tipo strano, sciacquava i piattini, le tazze e ascoltava in silenzio i due clienti. Aveva due occhi grandi, sempre sgranati, un naso esagerato, una guancia gonfia e pochi capelli.
Seduta al tavolino c’era una signora con le lenti a mezzaluna, intenta a sfogliare un giornale; mentre sorseggiava una bevanda,
m’accorsi che, quando le arrivava in gola, cominciava a gorgogliare come un tubo intasato.
Dopo un po’ riprendemmo il viaggio. Il signor Piero schizzò come un razzo: io congiunsi le mani in segno di preghiera e invocai l’Arcangelo Gabriele, perché mi proteggesse durante gli ultimi quaranta chilometri, che mancavano per arrivare al paesino dei miei parenti.
Ci siamo – fece il signor Piero e poi fischiettò un motivetto che allentò la tensione.
Sapevo che ad attendermi c’erano i nonni e non vedevo l’ora di abbracciarli.
“Un po’ di serenità è quel che ci vuole” mi dissi e, pensando al mio pallore, convenni che la scelta del babbo non era stata del tutto sbagliata.
– Ancora cinque minuti ragazzo – esclamò il folle.
E, in effetti, dopo appena cinque minuti, eravamo dietro il cancello della villetta dei nonni, col cuore che mi batteva forte.
– Nonna, sono Marco – gridai. La porta si aprì e sull’uscio apparvero nonna Cecilia e nonno Bartolomeo: – È arrivato il pupo, il pupetto nostro – gridava nonna Cecilia, agitando le braccia mentre il nonno si affrettava ad aprire il cancello: – Bel
piccino, bello di nonno, bello mio! – mi disse, abbracciandomi e spettinandomi.
Fu una scena commovente proprio come quella che spesso si vede nei film.
Subito dopo apparve la sorella del babbo, zia Alice, che mi tempestò di baci e di abbracci, fino a togliermi il respiro.
– Ho gli occhi gonfi di lacrime, perciò non ti vedo bene – disse – però mi sembri più cresciuto e sei diventato bello come tuo padre. Immagina che quando le mie amiche lo incontravano gli facevano le labbra a cuoricino; tutte me lo invidiavano.
Poi è venuta tua madre dal sud e me l’ha portato via.
Dopo un po’, zia Alice incominciò a piangere, mentre i nonni a stento riuscivano a trattenere le lacrime.
La nonna azzardò una frase che mi lasciò di stucco, ma che mi fece a lungo pensare:
Quel figlio mio – rivolgendosi a mio padre
è stato dipinto da un angelo del cielo, tanto è bello.
In quel momento pensai al babbo e al suo aspetto.
“Sicuramente è stato un angelo molto miope per avergli lasciato un naso lungo e un paio di orecchie a sventola che,
quando fa freddo gli diventano più rosse del didietro di una scimmia” mi dissi e, poi, pensai alla mamma così sensibile e tenera quando, rivolgendosi a mio padre, gli dice a proposito delle sue orecchie che col tempo si restringeranno: «Vedrai, diventeranno quasi normali e, se ciò non dovesse accadere, te le sistemerà un chirurgo. Comunque, mi piaci così, perché sono state proprio le orecchie a farmi innamorare di te» e gli appioppa un bacio sulla fronte.
La mamma gli racconta queste balle grosse per evitare che il trauma possa peggiorare così che il babbo, in quei momenti, sembra quasi felice d’avere due orecchie da elefante.
A te la penna
* Immagina di essere il signor Piero e di raccontare a Marco le stranezze del suo cane.
Capitolo terzo
Da quella sera in poi, dormii nel letto che una volta era stato di mio padre. La prima notte, avevo appena chiuso gli occhi quando sentii dei passi lungo il corridoio che si fermavano nella mia cameretta.
Aprii appena le palpebre e vidi nonna Cecilia e nonno Bartolomeo che mi guardavano con infinito amore, c’erano ancora zia Alice con zio Umberto, mio cugino Matteo, tutti i vicini di casa e alcuni ragazzini della mia età.
– Domani sarà un giorno speciale – mi preannunciò il nonno, sorridendo.
– Ora dormi e fai tanti bei sogni, mio caro angioletto – disse la nonna, dandomi il bacio della buonanotte.
– Ha bisogno di vitamine, è così pallido e fragile – diceva zia Alice, rivolgendosi alla nonna.
– Il latte di Guendalina gli darà subito forza e vigore – rispondeva il nonno.
– Bevendo le uova di Carlotta si riprenderà alla grande – ribadiva nonna Cecilia.
Poi, sentii alcuni suoni indistinti e finalmente mi addormentai.
Mi svegliai al canto del gallo. Filiberto, il re del pollaio, aveva cantato già tre volte
per annunciare il sorgere del sole, mentre io invece, gli avrei volentieri staccato le corde vocali, perché stavo dormendo saporitamente e stavo sognando prati e vallate verdi punteggiati di fiori colorati.
Poi sentii la voce del nonno che già trafficava in giardino: – Ti torcerei volentieri il becco. Smettila di cantare.
Marcolino ha bisogno di riposare ancora.
Mi riaddormentai, assaporando il profumo dei fiori e l’aria fresca del mattino.
Appena sveglio, aprii la finestra e rimasi
incantato: c’erano campi, alberi in fiore, cespugli di ginestre luminose, tetti rossi su case bianche.
Laggiù si scorgeva il bosco, in fondo le montagne e in alto il cielo turchino dove gli uccelli volavano spensierati. Il mio cuore all’improvviso si riempì di gioia e la felicità mi esplose dentro.
Poi sentii la voce dei vicini di casa, riconobbi i loro figli, quelli che erano venuti nella cameretta la sera precedente per salutarmi e che si erano messi ai piedi del mio letto,
come se stessero a piangere un morto.
– È ritornato a casa con la camicia strappata così gli ho dato cinque ceffoni – diceva una donna.
– Io gliene ho dati dieci, perché si è macchiato i pantaloni di more – diceva un’altra.
“Sarebbe stato meglio che i due sventurati si fossero rotti l’osso del collo piuttosto che ritornare a casa con i vestiti sporchi” mi dissi.
Mentre pensavo queste cose, vidi alle mie spalle nonna Cecilia: – La colazione è pronta – e mi appioppò un bacio.
In cucina c’era un profumo di cose buone: la marmellata di pere fatta dalla nonna, i suoi gustosi biscotti, il latte della mucca Guendalina e l’ovetto sodo di Carlotta; non mi lasciai pregare e mangiai tutto. Dopo un po’, sentii squillare il telefono: era la mia mamma.
– Tutto bene? Come stai? Ti piace stare con i nonni? Hai fatto colazione? Mi raccomando, mangia tutto e non cacciarti nei guai. Ora ti passo il babbo – e si allontanò, con la voce rotta dal pianto. E io per tranquillizzarli dissi alla mamma e al babbo che stavo benissimo, che avrei mangiato tutto e che mi sarei divertito un mondo, senza cacciarmi nei guai.
Appena abbassai il ricevitore, però, scoppiai a piangere. Mi mancava tanto la mamma; anche il babbo e persino le sue stranezze: sbuffare per un nonnulla, buttarmi giù dal letto o scaricarmi sul
divano, come un sacco di patate.
Quella mattina feci amicizia con Mario, Angelo e Bettina, tre ragazzini della mia
stessa età.
Bettina se ne stava in giardino, seduta a
cavalcioni sul tronco orizzontale di un vecchio albero.
Era stato reciso pochi giorni prima da suo nonno: – L’albero era malato, perciò il nonno ha deciso di ricavare la legna per il camino –mi disse, guardandomi con gli occhi scuri e muovendo le treccine rosse.
Era davvero buffa, per via delle lentiggini, che le costellavano il viso e per i denti un po’ lunghi, che notai quando mi sorrise.
Mario e Angelo, il primo alto e magro, il secondo, basso e tarchiato, formavano una coppia davvero ridicola.
Mi portarono dietro la loro casa.
Ognuno aveva una piccola fattoria, un orto e un frutteto.
– Quando entrai nelle rispettive stalle, un forte odore di letame mi fece tossire; subito mi tappai il naso e corsi all’aperto.
– Prima o poi ti abituerai – mi disse Angelo, sorridendo.
– E farai meno lo schizzinoso – precisò dopo un po’ Mario, uscendo dal suo pollaio e regalandomi un uovo di papera gigantesco, completamente sporco.
Quello stesso giorno ai mie amici venne
voglia di assaporare le fragole di bosco.
– Ti piacciono? – mi domandarono. Io feci cenno di sì con la testa, ma non rivelai la paura che provavo per quel luogo, così pieno di insidie.
– Vengo anch’io – disse Bettina, raggiungendoci con un mini cagnetto dal pelo arruffato. L’invisibile quadrupede mi venne vicino, mosse la coda e le orecchie e poi ringhiò, fino a farsi venire le lacrime agli occhi.
Allora pensai a Rudi, al gran bestione che mi aveva spaventato non poco e che avevo conosciuto nella casa del signor Piero e così scoppiai in un fragorosa risata.
Capitolo quarto
Bettina aveva con sé due cestini di vimini, in uno c’era il suo cagnetto, il cui nome era nientemeno che Maciste.
Appena mettemmo piede nel bosco, sentii un brivido di freddo.
I miei amici procedevano con sicurezza, mentre io facevo fatica a raggiungerli e arrancavo non poco.
– Fermatevi! – gridavo.
Ad un tratto sparirono ed io, sopraffatto dalla paura, incominciai a tremare.
Tutto era silenzio e il verde cupo delle foglie creava zone d’ombra che mi misero in subbuglio il cuore.
– Siamo qui, lumacone! – gridò Bettina.
– Muoviti! – strillarono gli altri due, facendo capolino tra i rami di un albero.
Io, invece, rimasi immobile e aspettai che scendessero dall’albero.
Imboccammo un sentiero fiancheggiato da cespugli e passammo accanto ad alberi sottili, coperti di rampicanti. Il terreno a tratti era scivoloso e i ramoscelli secchi, caduti dagli alberi, scricchiolavano al nostro passaggio. Quel rumore mi trapassò il cervello e la paura prese su di me il sopravvento.
– Sono stanco – dissi. – Perché non ci riposiamo un po’?
Dobbiamo trovare le fragole, perciò diamoci una mossa, se vogliamo tornare a casa per l’ora di pranzo. In lontananza sentii il rumore dell’acqua.
– Laggiù c’è un torrente pescoso – disse Bettina, puntando l’indice in quella direzione.
– Domani allora, andremo a pescare – disse Angelo.
– Buona idea! – esclamò Mario, pregustando l’arrosto di pesce.
Capii subito che conoscevano il bosco come le loro tasche e che procedevano sicuri, proprio perché c’erano stati tante
volte, perciò mi sentii più tranquillo.
Ad un tratto i raggi del sole filtrarono tra il fitto fogliame, formando coni di luce.
In quel momento il bosco sembrava un luogo magico e la paura in parte mi stava passando.
All’improvviso, Bettina cacciò un grido: – Eccole, sono laggiù! – e indicò un cespuglio di fragole rosse e mature.
Mario e Bettina insieme al piccolo Maciste, saltavano da un sentierino all’altro, piluccando fragole qua e là. Io ero dietro di loro, senza mollarli nemmeno per un secondo, e con la bocca piena. Ad un tratto vidi un tronco pieno di formiche gigantesche e un grosso ramarro che correva tra l’erba; lanciai un grido, soffocato subito dalle risate dei miei amici.
– Più che un ramarro sembra un coccodrillo! – dissi candidamente. Allora quelli, per tutta risposta, si piegarono in due e ripresero a ridere. Anche il cagnetto rise, ma a modo suo, scodinzolando e mostrando i suoi denti di sarago. Dopo appena cinque minuti, Angelo scorse un piccolo scoiattolo, dal pelo fulvo, che saltellava tra i rami di un albero.
– Che tipo spericolato! – gridò Bettina, scoprendolo a dondolarsi a testa in giù.
Dopo un po’, i miei amici pendevano da un ramo anch’essi a testa in giù e si dondolavano, come faceva lo scoiattolo.
– Potrebbe arrivarvi tutto il sangue al
cervello – dissi loro – e rimanere per sempre con le idee confuse – aggiunsi, ma quelli continuarono ad andare su e giù finché lanciai un grido.
– La vostra testa si è gonfiata a dismisura e sta diventando molto strana.
– E poi? – mi chiesero.
E io: – Ora è più grande di prima e potrebbe scoppiare da un momento all’altro. BUM!
Fu così che si lanciarono dall’albero e mi vennero incontro, con la voglia pazza di suonarmele, ma non fecero in tempo, perché li contagiai con la mia risata.
A te la penna
* Maciste è un piccolo cagnetto sempre pronto a cacciarsi nei guai. Che cosa combinò durante la festa di compleanno della sua padroncina? Immagina e scrivi.
Capitolo quinto
Quando arrivai a casa dei nonni trovai zia
Alice e mio cugino Matteo con certe facce stravolte.
– Sono già quattro notti che faccio brutti sogni e all’alba mi sveglio puntualmente terrorizzato e corro da mia madre. Sogno un piccolo folletto che mi ripete sottovoce:
«Non ridere, oggi non è giorno: devi temere chi ti vola intorno, laggiù nella grotta e nel castello troverai qualcosa di bello».
– Sono tutte chiacchiere – intervenne zia
Alice – sei stato suggestionato dalle parole di Cosimino, l’ubriacone, che è convinto di trovare nella grotta, in fondo al bosco, o nel castello abbandonato, che apparteneva ai nobili De Vitis, chissà quale tesoro –
concluse, rivolgendosi a Matteo.
Nonna Cecilia ascoltava e scuoteva il capo;
evidentemente anche lei conosceva la storia.
Dopo un po’, mi resi conto che anche Angelo, Mario e Bettina erano convinti che in quei luoghi ci fossero presenze misteriose.
Bettina mi confidò che suo zio, una volta, era entrato nella grotta, in fondo al bosco, con un amico e ne era uscito sconvolto, perché l’amico gli aveva detto di aver visto per un attimo un tipetto piccolo con una
orribile faccia da rana e pupille rosso fuoco. Non aveva capelli, ma orecchie da gatto, una coda lunga e sottile, come una cordicella, e stringeva tra le mani una piccola lanterna.
– Mio padre è convinto che l’amico di mio zio, per via della moglie isterica, abbia le valvole del cervello un po’ fuse e perciò vede dappertutto strane cose – ci confidò Bettina.
– Mia madre, è convinta che nella grotta si nascondano i ladri che saccheggiano i nostri pollai e che il castello sia infestato dai fantasmi – intervenne Mario.
Sono tutte chiacchiere che qualcuno ha messo in giro per spaventare chiunque tenti di visitare i due luoghi – ribatté Angelo.
La verità, secondo me, è che nel castello o nella grotta ci sia qualcuno o qualcosa che nessuno vuole che venga scoperto –concluse Bettina.
Mi accorsi che mio cugino Matteo fremeva e alla fine disse che dovevamo farci coraggio e fare un sopralluogo, sia nel castello che nella grotta.
Noi cinque, con Maciste e Sventola li visiteremo: così finirò, una buona volta, di avere quei maledetti incubi – disse Matteo accigliandosi.
Quella proposta ci colse impreparati: Bettina scosse il capo, Angelo e Mario aprirono la bocca e rimasero per alcuni secondi immobili per la paura; a me sicuramente venne la tipica espressione del pesce che ha appena abboccato all’amo.
Matteo aspettava che accettassimo la sua proposta, perciò ci passò in rassegna, senza
levarci gli occhi di dosso, neppure per un attimo.
D’accordo, visiteremo il castello e la grotta e porteremo con noi Sventola e Maciste – dissi a mio cugino.
Quello stesso giorno conobbi i nonni di Mario e di Angelo.
Le nonne avevano una crocchia di capelli grigi e un apparecchio acustico rosa, ficcato di traverso in un orecchio, per cui ci sentivano poco.
– Mi chiamo Marco – dissi alla nonna di Angelo, presentandomi. Lei, spalancando gli occhi, ripeté: – Sacco!?
– Marco, Marco! – ripetei più volte, lei mi sorrise e mi accarezzò, convinta che mi chiamassi Sacco.
– Mi chiamo Marco – dissi alla nonna di Mario.
E lei, spalancando gli occhi ripeté: –Pacco!?
– Marco, Marco! – ripetei più volte, lei mi sorrise e mi accarezzò, convinta che mi chiamassi Pacco.
I nonni dei miei amici chiacchieravano in giardino: erano piegati in due dai reumatismi, camminavano curvi appoggiati al bastone.
– Sei il nipote di Bartolomeo? Tuo nonno ci parla spesso di te, ci dice che sei davvero in gamba, come tuo padre, e che da grande diventerai un famoso chirurgo.
“Chirurgo!? Col cavolo!” mi dissi. E mi ricordai di quella volta quando, uscendo da scuola, caddi graffiandomi il ginocchio.
Appena vidi una goccia di sangue, mi sentii rimescolare tutto; rischiai persino di svenire se non fossi arrivato in tempo all’auto della mamma, che mi aspettava per riportarmi a casa.
Salutai i nonni dei miei amici e raggiunsi nonno Bartolomeo nel suo orto.
Dopo un po’, intravidi Angelo e Mario con Sventola. – Ci sono novità! È arrivato in paese uno speleologo – disse Mario – e ha intenzione di visitare la grotta. Mio padre ha appreso poco fa la notizia al bar della stazione e ora non si fa altro che parlare di questo tizio.
Prima di lui, ci andremo noi – disse Angelo, con voce ferma.
Potremmo smarrirci o cadere in una buca –esclamò Mario un po’ perplesso.
Porteremo torce, corde e bastoni di legno
ribadirono mentre sopraggiungevano
Bettina e Matteo.
Acqua in bocca e guai se vi fate sfuggire
qualcosa – concluse Angelo, accarezzando il suo cane Sventola, che sembrò apprezzare
quelle attenzioni.
Ci lasciammo con l’intento di organizzare il tutto. Intanto, io e mio cugino Matteo
andammo nel frutteto per raccogliere le pesche e le albicocche più mature.
Raccolsi i frutti che pendevano dai rami più bassi, mentre mio cugino sparì tra i rami più alti e ridiscese con due cestini
colmi fino all’orlo: – Sono saporite –disse, addentando prima una pesca e poi un’albicocca, divorandole in mezzo secondo.
Capitolo sesto
Dopo un po’ entrammo nel pollaio. Matteo aveva il compito di mettere le uova, appena calde, nel cestino: – Da oggi in poi le sistemerai tu, caro cugino – mi disse.
Ma alcune non riesco proprio a prenderle perché sono troppo sporche. E allora…
Mettile in lavatrice! – esclamò Matteo
aggrottando la fronte. – E fai attenzione a Penelope: lei non sopporta i maleducati. Se le dai il fondoschiena, quella te lo becca e te lo riduce ad un colabrodo.
Penelope era una gallina bella grassa e aveva il becco robusto e appuntito:
“Scommetto che lo usa a mo’ di trapano” mi dissi. Poi vidi le sue zampe e i suoi
unghioni, che mi fecero una certa impressione; scorsi anche Filiberto, il gallo tenore, con tanto di cresta e bargigli, che mi guardava con aria un po’ sospetta.
“Scommetto proprio che questo tipo ha
un bel caratterino!” pensai e ne ebbi la conferma, quando mi avvicinai ad una gallinella.
Il gallo mi raggiunse subito, allargò le ali e, agitandole, fece vento; poi, muovendo a scatti la testa, si gonfiò tutto: – Potresti esplodere, brutto pallone gonfiato! –esclamai. – Calmati e lasciami passare, se non vuoi finire in pentola con la cara Penelope.
Poi entrammo nella stalla dove c’erano
Guendalina e Serena che masticavano lentamente, affondando il muso in un sacco.
Muggirono appena, nel vederci entrare.
“Forse hanno voluto salutarci” pensai. Ma continuarono placidamente a masticare, muovendo a tratti la coda.
Lì vicino c’era un secchio di latte appena munto, e un altro che era pieno a metà. – Bisogna riempirlo – mi disse Matteo e così sorpresi mio cugino a mungere. “Che schifo! E pensare che bevo quella roba che sta in quelle cose così esagerate” pensai rabbrividendo.
Guendalina e Serena mi fulminarono con un’occhiata, come se volessero dirmi che del loro latte così buono e prezioso ne avevo proprio bisogno.
I nonni ci aspettavano a tavola: zia Alice aveva preparato la minestra di capellini in brodo e lo spezzatino di maiale. La cucina era piena di odori. Dopo un po’ arrivò anche lo zio: – Ho una fame che vedo doppio – e si sedette a tavola. – Mangerei un rinoceronte intero, compreso il corno che ha sulla fronte – aggiunse, sistemandosi il tovagliolo intorno al collo.
Zia Alice sorrise e guardò zio Umberto che le fece gli occhi languidi. Matteo, intanto, aveva mandato giù il primo piatto di capellini e stava per svuotarne un altro.
Nonno Bartolomeo aveva anche lui finito la minestra, e si alzò per andare in cantina.
– Ci vado io! – disse zia Alice. – Venite con me! – e noi la seguimmo, ritrovandoci dopo un po’, in un luogo buio, umido e pieno di ragnatele.
Una lampadina fioca illuminava la cantina.
C’erano damigiane impolverate, alcune botti allineate e sulle mensole molte bottiglie di vino. In fondo vidi una vecchia credenza e un vecchio baule colmo di giocattoli.
Tuo padre e io ci divertivamo proprio con quelli – puntualizzò indicandoceli.
Accanto al baule c’era anche un cavalluccio a dondolo di legno: immaginai il mio babbo, bambino, seduto sul cavallo a dondolo e scoppiai a ridere.
Ma quella risata mi rimase in gola, strozzata dall’urlo disumano che cacciò mia zia. Due
occhietti spaventosi la fissarono famelici e, un attimo dopo, otto zampette pelose azzardarono alcuni passi sulla camicetta gialla di zia Alice.
Mia zia fece un brusco movimento e il ragno cadde davanti ai suoi piedi. Con una rapida mossa si arrampicò su per una ragnatela che pendeva dal soffitto e che dondolava come un’amaca, spinta dal venticello che entrava da una finestrella posta in alto.
– Mi sento prudere tra i capelli; scommetto che ne avrò ancora un altro – disse,
iniziando a fare sì-no con la testa, come fanno i muli quando si intestardiscono. – Aiutatemi! Fate qualcosa! – gridava zia Alice, scompigliandosi i capelli e tastandosi la testa comprese le orecchie. Poi, si guardò intorno e vide, appoggiato su una vecchia sedia, un battipanni: – Adesso ti sistemo per le feste brutto ragnaccio della malora – esclamò, assestandogli un colpo secco sull’addome.
Il ragno cadde intontito dal duro colpo, mosse appena le otto zampette pelose e rimase immobile: era passato a miglior vita!
Mia zia, intanto, era diventata pallida pallida e né io, né mio cugino riuscivamo a toglierle gli occhi di dosso. Zia Alice sembrava di pietra.
Presi dalla mensola la bottiglia di vino, mentre mio cugino Matteo cercò di rincuorare sua madre, ma a nulla valsero le sue parole e neppure quelle dei nonni e di zio Umberto, che prese la palla al balzo e ci disse che anche lui aveva una mira
infallibile. Se zia Alice era riuscita con un colpo di battipanni a liberarsi del ragno, lui riusciva di notte e al buio ad annientare le zanzare.
– L’altra notte ne ho uccise venti: le prime dieci le ho ammazzate a ciabattate e le altre dieci a colpi di giornale.
– Le zanzare sono insetti noiosi e secondo me, andrebbero catturate e rieducate –dissi e, alla mia battuta, tutti risero fuorché zia Alice, che era ancora pallida pallida per via del ragno.
A te la penna
* Immagina zio Umberto, di notte, mentre uccide le zanzare a colpi di ciabatte e di giornale e descrivi la scena.
Capitolo settimo
Una sera giocammo fin dopo il tramonto. Quando il buio ci sorprese in giardino, il cielo era trapunto di stelle e la luna splendeva bella, grande e magicamente rotonda.
Sventola e Maciste correvano per i vialetti, si nascondevano dietro i cespugli e, abbaiando festosamente, ci raggiunsero. Sventola, agitando le orecchie, si sollevò da terra di pochi centimetri, mentre Maciste, trotterellando come un ubriaco, si spiaccicò a pancia in giù con le orecchie dritte e la codina puntata verso di noi, in posizione di sparo.
Ma rimasi senza parole quando, al di là del giardino che circondava la casa dei nonni, vidi tante lucine che si muovevano verso la siepe.
– Sono le lucciole! – esclamarono Mario ed Angelo.
Rimasi in silenzio, non ne avevo mai viste così tante. Ne avevo sentito parlare a scuola qualche volta.
– Mi pare che utilizzino la luce per trovarsi fra maschi e femmine – dissi. –
Mi piacerebbe vederle da vicino queste moschine con dentro la lampadina. Si accendono e si spengono, come le luci
dell’albero di Natale.
Bettina e Matteo ne catturarono alcune e poi le vidi svanire in un soffio d’oro.
Nel frattempo sentimmo ciò che riferiva nonno Bartolomeo a mio zio Umberto: – Che ne diresti se facessimo una capatina?
Tanto non è profonda e non ci sono buche. “Parlano in codice” pensai. “Nella frase manca il soggetto che è la caverna”. Infatti, zio Umberto aveva avuto la brillante idea di esplorarla: – Anche se odio gli ambienti umidi e bui e detesto i pipistrelli, e lì ne troveremo tanti, sarebbe opportuno darle un’occhiata.
– Il babbo e il nonno hanno deciso di esplorare la grotta, ma noi dobbiamo andarci prima di loro – disse Matteo, augurando la buonanotte a tutti.
Quella sera dormii a casa dei miei zii.
Dall’altra stanza sentivamo le voci di zio Umberto e di zia Alice, ovvero di “Salice
piangente”: così l’avevano soprannominata in famiglia per via del pianto facile. Infatti, nei momenti di paura e di gioia, zia Alice versava sempre tante lacrime e mio zio, puntualmente, cercava di consolarla con certe frasi incredibilmente buffe, ma che
non sortivano alcun
affetto, perché lei continuava a piangere. Ad un tratto sentimmo un tonfo e, subito dopo tanti rumori: mi misi a sedere sul letto e aguzzai l’udito.
– È il babbo, si sta sfilando i pantaloni e ogni sera, quando se li toglie, piombano regolarmente sul pavimento chiavi e monete. Ora mio padre reciterà alla mamma alcune frasi che ci faranno morire dal ridere – disse Matteo.
Se continui a lacrimare nel tuo bel pianto potrei navigare. Io sono un marito non sono un pirata, non piangere, testa di rapa!
Matteo e io ridemmo a crepapelle, immaginammo l’espressione di zia Alice, che continuava a lamentarsi, cacciando
certi miagolii che avrebbero intenerito chiunque all’infuori di zio Umberto, che riprese a canzonarla senza pietà.
Mia zia singhiozzò ancora per un po’ e poi la sentimmo finalmente russare.
– Stanotte ho dormito proprio male – disse zio Umberto l’indomani mattina.
– Si vede! – esclamò acida zia Alice.
– Ho gli occhi gonfi di sonno, e…
– … il pullover a rovescio, la camicia che esce dai pantaloni e il cappello schiacciato come una focaccia – puntualizzò Matteo.
– Sei davvero uno zio speciale – intervenni per addolcire la pillola.
Sono un po’ sottosopra anche con i pensieri – confessò, facendosi improvvisamente serio.
Mio cugino mi diede una gomitata e sollevò le sopracciglia: – La caverna! – mormorò con un fil di voce.
Salutammo e ci dirigemmo verso la casa dei nonni.
Nonno Bartolomeo era entrato proprio in quel momento nella stalla e sentimmo la
sua voce: parlava con Serena e Guendalina, così sgattaiolammo nel capanno degli attrezzi e prendemmo torce e corde.
– Prendi anche la zappa, potrebbe servirci per scavare – mi disse Matteo, indicandomela.
Dobbiamo affrettarci. Sono sicuro che il babbo e il nonno faranno un sopralluogo nella grotta e credo proprio che non saranno i soli. L’arrivo dello speleologo ha scatenato tanta curiosità in tutti gli abitanti – concluse Matteo, sistemando le corde e le torce in uno zainetto.
Andammo prima da Angelo e poi da Mario. In casa di quest’ultimo c’era aria di bufera.
Quel demonio di mio fratello una ne pensa e mille ne fa.
Entrammo in casa e vedemmo la mamma del mio amico con le braccia ai fianchi e la faccia verde: – Mi farai scoppiare la bile – disse, rivolgendosi al marmocchio, che correva con un vaso di porcellana bianco a fiori, ficcato in testa.
Voleva fare il capitano! – disse Mario ed ha deciso di usare il vaso a mo’ di cappello. Ed ora la testa gli è rimasta incastrata.
È un piccolo demonio! – esclamò la mamma. – Il mio bel vaso a fiori, il mio bel vaso a fiori! – ripeteva, disperandosi.
Intanto il marmocchio incominciò a strillare
e, facendosi venire le convulsioni, ripeteva: – Levatemi questo coso dalla testa! La mamma ci aveva provato più volte senza riuscirci; poi, esasperata, afferrò il vaso e lo sollevò energicamente. Ma il risultato fu disastroso: il marmocchio rimase sospeso a scalciare e a urlare come un maiale scannato. – Calmati! – prima o poi troveremo la soluzione – diceva Mario, guardando il fratellino con il vaso in testa.
La mamma, allora, propose di spaccarlo con l’attizzatoio, ma la piccola peste incominciò a strepitare di brutto.
Capitolo ottavo
Dopo un po’, in casa di Mario, arrivò anche sua nonna e, quando vide il piccolo col vaso incastrato in testa e capì la gravità dell’accaduto, si portò le mani nei capelli e iniziò a brontolare, indispettita: – Questo vaso mi è costato una cifra, perciò lo tieni in testa a mo’ di cappello, ti dona pure e con questo caldo eviterai di prenderti una insolazione – e continuò a brontolare facendo la voce grossa.
– Ma mi scende troppo sugli occhi e non vedo niente – piagnucolò la peste, battendo i piedi e strepitando.
Poi incominciò a sudare. Mi avvicinai, inclinai il capo e lo guardai: toccai il vaso e lo girai appena, prima verso destra e poi verso sinistra.
Tutti gli occhi erano puntati sul sottoscritto. Mi accorsi che le orecchie del marmocchio erano piegate a metà; allora, con un
movimento preciso, le tirai fuori, ma il vaso non si mosse. Lo afferrai con le due mani e lo sollevai con un gesto rapido. Finalmente si scollò dalla testa del bimbetto.
La mamma e la nonna tirarono un profondo respiro di sollievo, il marmocchio batté le mani e incominciò a saltare come un grillo e io, con immensa soddisfazione, appoggiai il vaso sul tavolo.
Dopo qualche ora, eravamo pronti ad esplorare la grotta. Imboccammo, così, il sentiero che portava nella parte più fitta
del bosco; per la prima volta camminavo spedito accanto ai miei amici, non avevo paura, anzi quel verde intenso, cominciava a piacermi.
Un’ora più tardi eravamo tutti e cinque nei pressi della grotta. Nessuno mancava all’appello, c’erano anche i due cani Sventola e Maciste, che ci girellavano intorno, annusando le foglie dei cespugli.
Sorpresi Maciste a fare pipì dietro il tronco di una grande quercia e più tardi anche Sventola svuotò la vescica dietro un giovane pioppo.
– Ci siamo, la grotta è laggiù in fondo, nascosta da quegli arbusti – esclamarono Angelo e Matteo.
– Lì dentro non ci sono mai entrato – disse Mario, balbettando un po’ per l’agitazione.
– Facciamoci coraggio – disse Bettina – siamo in cinque e Sventola e Maciste con la loro grinta e il loro coraggio metterebbero in fuga chiunque osasse farci del male. Sventola abbassò la coda e le orecchie e Maciste si fece piccolo piccolo e incominciò a tremare come una foglia di lattuga mossa dal vento.
Entrammo nella grotta e, poiché era tutto buio, avanzammo a tentoni. Appoggiai la mano alla parete, ma la ritrassi subito perché era umida e viscida e quella sensazione mi mise addosso i brividi.
– Accendiamo le torce – ordinò mio cugino Matteo – e facciamo attenzione a non cadere.
Potrebbero esserci delle buche – disse
Bettina, sollevando Maciste e stringendolo a sé come un pupazzetto. – Se ci casca
ci rimane per sempre – aggiunse, accarezzandolo teneramente.
Anche Angelo sollevò il suo cane: – Senza Sventola la mia vita non avrebbe più senso – disse, appioppandogli un bacio sulla testa.
Continuammo a camminare. Le torce accese facevano un bel fascio di luce, abbastanza per scrutare ogni angolo della grotta. Ad un tratto puntai la torcia verso l’alto e in un anfratto scoprii due occhi gialli che ci guardavano dall’alto: era un grosso e spaventoso gufo.
All’infuori di quell’uccellaccio lassù, in questa grotta non c’è niente per cui valga la pena di rimanere un attimo di più –esclamò Angelo, mollando il suo cane.
– Anch’io penso la stessa cosa – ribatté
Bettina, mollando Maciste. Avevamo tutti certe facce dipinte dalla delusione.
Sento che dobbiamo scavare da qualche
parte – dissi. – Il terreno qui è più morbido e, così dicendo, diedi il primo colpo con la zappa. A quello ne seguirono altri.
I miei amici mi guardarono in silenzio.
– È solo tempo perso – disse Mario. –Avremmo potuto visitare il castello abbandonato e sorprendere qualche fantasma…
– Sotto la doccia! – esclamò Matteo.
– C’è qualcosa di duro qui sotto – strillai.
– Ci stai prendendo in giro – esclamò
Angelo.
Continuai ancora a scavare: Sventola e Maciste mi dettero una mano, smuovendo il terreno con le zampe.
– Che vi dicevo? Qui sotto c’è qualcosa –ma mi ero sbagliato perché lì sotto c’era qualcuno che attendeva di farsi conoscere. Dopo appena pochi minuti, apparvero prima le ossa delle gambe e dei piedi, poi tutto il resto.
– Mamma quanto è spaventoso! – strillò Bettina, indietreggiando.
Matteo, Angelo e Mario sbiancarono di colpo, solo i due cani sembrarono apprezzare quella scoperta. Sventola si allontanò stringendo tra i denti un osso della gamba e Maciste quello di un braccio.
– Venite subito qui e riportate il bottino – strillarono Angelo e Bettina e quelli ubbidirono, ritornando a razzo e lasciando a malincuore le ossa.
Saputa la notizia, arrivarono nel paesino un archeologo e alcuni studiosi e
scoprirono che lo scheletro apparteneva a un antichissimo antenato vissuto nel Paleolitico.
Avevo scoperto un tizio della preistoria, anche se un po’ malconcio, divenuto famoso grazie al sottoscritto.
A te la penna
* Quale scoperta faranno i quattro ragazzini, con l’aiuto di Sventola e Maciste, quando visiteranno il castello abbandonato? Immagina e scrivi.
Responsabile editoriale: Antonio Riccio
Redazione: Roberto Capobianco
Progetto grafico: Stefano Guarracino
Impaginazione: Michele Digregorio
Illustrazioni: Stefano Mandolese
Colorazioni: Giovanni Abeille
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