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“Je suis Mina” Giocare a calcio da cristiani in Egitto Costretto a cambiare nome, Mina Bendary ha raccontato a Zeta la storia di Je suis, squadra nata per combattere i pregiudizi di natura religiosa EGITTO
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Bravura, impegno, un pizzico di fortuna. Per fare il calciatore sono imprescindibili, ma se si nasce in Egitto possono non bastare. È la storia di Mina Bendary, 24 anni, innamorato del pallone. Con un occhio alla fantasia di Ronaldinho e un altro alla classe di Cristiano Ronaldo, a giocare in terra di piramidi e faraoni ci ha provato. Non ci è riuscito. Per colpa di una religione, quella cristiana, e di «una storia che va avanti da oltre cinquant’anni». Talentuoso e determinato, dopo una lunga rincorsa e qualche rifiuto Mina approda all’Alessandrian Union Club nel 2015. Tanta felicità, ma un grande ostacolo. «Mi viene chiesto di giocare come Ibrahim. Mina è un nome cristiano, Ibrahim è musulmano e in Egitto puoi intuire la religione di una persona dal nome, senza troppe difficoltà. È un problema, perché nel nostro Paese i cristiani non sempre hanno avuto il diritto di giocare in club importanti o in Nazionale e quando lo hanno fatto hanno cambiato nome». Sei mesi da tesserato, i primi dubbi. I suoi colleghi e la chiesa lo accusano di aver accettato la situazione, senza ribellarsi. Mina medita, qualche giorno di Michele Antonelli
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di riflessioni serve a far scattare la scintilla. Niente più razzismo, niente più discriminazioni di natura religiosa: per dire “Basta”, la strada da seguire è quella del coraggio. Nasce allora “Je suis”, tradotto dal francese “Io sono”. Una speranza. Una squadra pronta ad accogliere e a sostenere persone che hanno incontrato i suoi stessi disagi nell’inseguire un sogno. «È un’opportunità – spiega Mina -. Il talento, anche se cristiano, ha bisogno di un posto per svilupparsi e per combattere i pregiudizi. La mia esperienza è il punto di partenza, ho vissuto un periodo triste. Il calcio è una cosa semplice, volevo solo giocare ma mi sono sentito escluso. Dopo aver conosciuto la sofferenza, ho deciso di voler aiutare gli altri. Siamo da sempre aperti a tutti e coerenti con un’idea di base, nella nostra famiglia c’è spazio anche per i musulmani. Ci sono giocatori che non meritano di essere rifiutati e diamo loro la possibilità di credere ancora nella loro grande passione». In un mondo del calcio in cui domina l’interesse economico, il club è un caso atipico. Una storia che viene dal basso, vicina alla gente. «Per adesso ci au-