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Una nuova sfida per il Mezzogiorno: le Zone Economiche Speciali I fondi comunitari per il 2021-2027 e il Recovery Fund potrebbero anche essere canali per arricchire gli incentivi e la dotazione di risorse e rendere ancor più conveniente investire nel Sud di quanto non lo sia già di Alessandro Panaro Capo Dipartimento Trasporti Marittimi e Logistica, SRM www.srm-maritimeconomy.com
U
n interessante studio elaborato da SRM presentato alla Conferenza “Il Mezzogiorno d’Italia: chiave di rilancio per l’economia italiana?” di Aspen Institute Italia a fine 2020 ha fornito la fotografia dello stato di attuazione delle ZES in Italia. Le ZES, si ricorda, sono state concepite dal legislatore italiano nella legge 123/17. Questo strumento ha il fondamentale compito di mettere “a sistema” l’industria manifatturiera di un territorio con il porto/i porti di riferimento. Ciò dovrebbe avvenire rendendo disponibili per gli investitori (italiani o esteri) una serie di incentivi, finanziari, burocratici e creditizi, tesi a rendere più appetibile il territorio. Tali incentivi vanno a sommarsi con la presenza di un porto e di una logistica (ferroviaria, aerea e stradale) efficiente ed efficace e di un tessuto che possa offrire asset come centri di ricerca, università, altre imprese con cui fare business e, non ultimo, un aeroporto per facilitare ancor di più le connessioni cargo e passeggeri. L’elemento di innovazione della ZES è stato proprio quello di concepire il porto come “perno” che guida un sistema di sviluppo territoriale; tutti gli investimenti realizzati e tutta la strategia devono, infatti essere disegnati per favorire la crescita dello scalo,
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del suo traffico, dell’import-export e, contestualmente, delle imprese. Per fornire qualche dato, secondo le ultime rilevazioni dell’Unctad, nel 1997 il numero di ZES era pari a circa 845 in 93 Paesi, tale valore è salito nel 2018 a 5.383 e coinvolge circa 147 Paesi. Il 75% delle Free Zone nel mondo è concentrata in Asia (il 47% in Cina); l’Europa ha 105 zone, il Nord-America 262. Nella Cina, a titolo di esempio, occupano oltre 50 milioni di persone e generano 145 milioni di dollari di interscambio. L’impatto economico totale generato ammonta a oltre 68,4 milioni di lavoratori diretti e un valore aggiunto, derivante dagli scambi, di poco più di 850 miliardi di dollari. In Europa esistono diversi casi di free zone a diversi livelli di operatività (più che altro si tratta di punti franchi doganali individuati all’interno di aree portuali); se ne contano ad esempio 10 in Danimarca, 8 in Germania, 3 in Grecia, 5 in Spagna (tra cui la famosa ZAL-Zona ad Attività Logistica di Barcellona). In Italia la Zona Franca Doganale più conosciuta è quella del porto di Trieste. Da aprile 2020 anche Taranto ha una zona franca doganale interclusa.Uno dei casi più noti in Europa è rappresentato dalle 14 ZES della Polonia che hanno creato circa 296.000 nuovi posti di lavoro; esse
coprono una superficie di oltre 18mila ettari e interessano 162 città e 232 Comuni del Paese. Secondo gli ultimi dati disponibili, nelle ZES polacche sono localizzate anche circa 80 imprese Italiane di vari settori. Una delle Free Zone più importanti dell’area MENA è a ridosso del porto di Tanger Med in Marocco. L’area logistico portuale e l’area “franca” ospitano complessivamente circa 600 imprese di tutti i settori produttivi che realizzano un totale export di oltre 4 miliardi di euro. È una zona fondata su ingenti investimenti nel settore automotive (Renault) ma anche di altri comparti manifatturieri; le imprese possono contare sulla presenza di uno dei porti più efficienti del Mediterraneo che movimenta circa 3 milioni di container l’anno e di aziende logistiche di livello internazionale che gestiscono i terminal dello scalo (APM; Eurogate, Marsa Maroc). In Italia sono state definite al momento 8 ZES, di cui una in Campania. La strategia sulla quale si è inteso muovere il legislatore è stata quella di definire, mappandole in un Piano di Sviluppo Strategico (PSS), una serie di aree nelle regioni, facilmente collegate al porto, in cui favorire insediamenti o nuovi investimenti industriali; il PSS deve definire anche l’impatto economico-sociale della