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@ Diritto Mercato Tecnologia di Alberto M. Gambino - @ Diritto costituzionale telematico di Alfonso Celotto e Giovanna Pistorio - @ Privacy e Garante per la protezione dei dati personali di Bruno Inzitari con Valentina Piccinini - @ AGCom (Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni) di Mario Morcellini - @ AGID (Agenzia per l’Italia Digitale) di Alfonso Contaldo - @ AGCM (Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato) di Antonio Catricalà con Carlo Edoardo Cazzato - @ Data protection e data governance di Pierluigi Perri - @ Odio, cyberbullismo, cyberstalking e discriminazioni online di Giovanni Ziccardi - @ Contratti informatici di Lucilla Gatt e Ilaria Caggiano - @ Smart contract e negoziazione algoritmica di Francesco Di Ciommo - @ Consumatori di Giovanna Capilli e Massimiliano Dona - @ Intellectual property e digital rights di Giuseppe Cassano - @ Internet come strumento, occasione o contesto per nuove modalità di lesione (diritto civile) di Mariangela Ferrari - @ Gioco a distanza di Alessandro Orlandi - @ Cybercrime di Lorenzo Picotti con Roberto Flor - @ Reati in Internet di Vittorio Manes e Francesco Mazzacuva - @ Responsabilità penale dell’internet provider di Adelmo Manna - @ Digital evidence nel procedimento penale di Luca Lupària con Marco Pittiruti - @ Internet come strumento, occasione o contesto per nuove modalità di lesione (diritto penale) di Francesco G. Catullo - @ Amministrazione digitale di Fernanda Faini e Marco Mancarella - @ Appalti pubblici e informatica di Elio Guarnaccia - @ Diritto del lavoro e nuove tecnologie di Roberto Pessi e Raffaele Fabozzi - @ Diritto tributario digitale e fiscalità dell’economia digitale di Andrea Carinci - @ Diritto internazionale, europeo e comparato di Giovanni Maria Riccio - @ Legal Compliance Integrata di Nicola Tilli - @ Intelligenza artificiale e robotica di Bruno Tassone e Guido Scorza - @ Automazione di Stefano Pellegatta - @ Applicazione del GDPR di Vincenzo Colarocco - @ Big Data Management di Antonio Musio - @ Legal-Tech di Giuseppe Vaciago - @ Prova informatica di Donato Eugenio Caccavella - @ Informatica Giuridica di Michele Iaselli - @ Convegni, Recensioni, Spigolature

Il comitato dei Tecnici Luca Attias, Paolo Cellini, Massimo Chiriatti, Cosimo Comella, Gianni Dominici, Corrado Giustozzi, Giovanni Manca, Michele Melchionda, Luca Tomassini, Andrea Servida, Carlo Mochi Sismondi, Giuseppe Virgone

Il comitato editoriale Eleonora Addante, Denise Amram, Stefano Aterno, Livia Aulino, Fabio Baglivo, Francesca Bailo, Mauro Balestrieri, Elena Bassoli, Ernesto Belisario, Maria Letizia Bixio, Luca Bolognini, Chantal Bomprezzi, Simone Bonavita, Francesco Brugaletta, Leonardo Bugiolacchi, Luigi Buonanno, Donato Eugenio Caccavella, Giandomenico Caiazza, Luca Antonio Caloiaro, Alessia Camilleri, Stefano Capaccioli, Giovanna Capilli, Domenico Capra, Mario Capuano, Diana Maria Castano Vargas, Francesco Giuseppe Catullo, Aurora Cavo, Carlo Edoardo Cazzato, Francesco Celentano, Federico Cerqua, Celeste Chiariello, Antonio Cilento, Donatello Cimadomo, Giuseppe Colangelo, Vincenzo Colarocco, Alfonso Contaldo, Mariarosaria Coppola, Fabrizio Corona, Francesca Corrado, Gerardo Costabile, Stefano Crisci, Luca D’Agostino, Vittoria D’Agostino, Gaspare Dalia, Eugenio Dalmotto, Antonio Davola, Edoardo De Chiara, Maurizio De Giorgi, Paolo De Martinis, Maria Grazia Della Scala, Mattia Di Florio, Francesco Di Giorgi, Giovanni Di Lorenzo, Sandro Di Minco, Massimiliano Dona, Giulia Escurolle, Caterina Esposito, Alessandro Fabbi, Raffaele Fabozzi, Alessandra Fabrocini, Fernanda Faini, Pietro Falletta, Mariangela Ferrari, Roberto Flor, Federico Freni, Maria Cristina Gaeta, Fabrizio Galluzzo, Davide Gianti, Carmelo Giurdanella, Chiara Graziani, Raffaella Grimaldi, Paola Grimaldi, Elio Guarnaccia, Pierluigi Guercia, Ezio Guerinoni, Aldo Iannotti Della Valle, Michele Iaselli, Alessandro Iodice, Daniele Labianca, Luigi Lambo, Katia La Regina, Alessandro La Rosa, Jacopo Liguori, Andrea Lisi, Matteo Lupano, Armando Macrillò, Domenico Maffei, Angelo Maietta, Marco Mancarella, Amina Maneggia, Daniele Marongiu, Carmine Marrazzo, Silvia Martinelli, Marco Martorana, Corrado Marvasi, Dario Mastrelia, Francesco Mazzacuva, Antonino Mazza Laboccetta, Stefano Mele, Angela Mendola, Ludovica Molinario, Anita Mollo, Andrea Monti, Roberto Moro Visconti, Davide Mula, Simone Mulargia, Antonio Musio, Sandro Nardi, Gilberto Nava, Raffaella Nigro, Romano Oneda, Alessandro Orlandi, Angelo Giuseppe Orofino, Roberto Panetta, Giorgio Pedrazzi, Stefano Pellegatta, Flaviano Peluso, Pierluigi Perri, Alessio Persiani, Edoardo Pesce, Valentina Piccinini, Marco Pierani, Giovanna Pistorio, Marco Pittiruti, Federico Ponte, Francesco Posteraro, Eugenio Prosperetti, Ranieri Razzante, Maurizio Reale, Nicola Recchia, Federica Resta, Giovanni Maria Riccio, Alessandro Roiati, Angelo Maria Rovati, Rossella Sabia, Alessandra Salluce, Ivan Salvadori, Alessandro Sammarco, Alessandra Santangelo, Fulvio Sarzana di S.Ippolito, Emma Luce Scali, Roberto Scalia, Marco Schirripa, Marco Scialdone, Andrea Scirpa, Guido Scorza, Francesco Scutiero, Carla Secchieri, Massimo Serra, Serena Serravalle, Raffaele Servanzi, Irene Sigismondi, Giuseppe Silvestro, Matteo Siragusa, Rocchina Staiano, Samanta Stanco, Marcello Stella, Gabriele Suffia, Giancarlo Taddei Elmi, Bruno Tassone, Enzo Maria Tripodi, Luca Tormen, Giuseppe Trimarchi, Emilio Tucci, Giuseppe Vaciago, Matteo Verzaro, Luigi Viola, Valentina Viti, Giulio Votano, Raimondo Zagami, Alessandro Zagarella, Ignazio Zangara, Maria Zinno, Martino Zulberti, Antonio Dimitri Zumbo

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Gli osservatori on line <www.dirittodiinternet>

Direttore scientifico Giuseppe Cassano

Ettore Battelli, Maurizio Bellacosa, Alberto M. Benedetti, Giovanni Bruno, Alberto Cadoppi, Ilaria Caggiano, Stefano Canestrari, Giovanna Capilli, Giovanni Capo, Andrea Carinci, Alfonso Celotto, Sergio Chiarloni, Antonio Cilento, Donatello Cimadomo, Renato Clarizia, Giuseppe Colangelo, Giovanni Comandè, Claudio Consolo, Pasquale Costanzo, Gaspare Dalia, Eugenio Dalmotto, Enrico Del Prato, Astolfo Di Amato, Francesco Di Ciommo, Giovanni Di Lorenzo, Fabiana Di Porto, Ugo Draetta, Giovanni Duni, Alessandro Fabbi, Raffaele Fabozzi, Valeria Falce, Mariangela Ferrari, Francesco Fimmanò, Giusella Finocchiaro, Carlo Focarelli, Vincenzo Franceschelli, Massimo Franzoni, Federico Freni, Tommaso E. Frosini, Maria Gagliardi, Cesare Galli, Alberto M. Gambino, Lucilla Gatt, Aurelio Gentili, Stefania Giova, Andrea Guaccero, Antonio Gullo, Bruno Inzitari, Luigi Kalb, Luca Lupária, Amina Maneggia, Vittorio Manes, Adelmo Manna, Arturo Maresca, Ludovico Mazzarolli, Raffaella Messinetti, Pier Giuseppe Monateri, Mario Morcellini, Antonio Musio, Raffaella Nigro, Angelo Giuseppe Orofino, Nicola Palazzolo, Giovanni Pascuzzi, Roberto Pessi, Valentina Piccinini, Lorenzo Picotti, Dianora Poletti, Alessandro Sammarco, Giovanni Sartor, Filippo Satta, Paola Severino, Caterina Sganga, Pietro Sirena, Giorgio Spangher, Giovanni Maria Riccio, Francesco Rossi, Elisa Scaroina, Serena Serravalle, Marcello Stella, Paolo Stella Richter, Giancarlo Taddei Elmi, Bruno Tassone, Giuseppe Trimarchi, Luigi Carlo Ubertazzi, Paolo Urbani, Romano Vaccarella, Daniela Valentino, Giovanni Ziccardi, Andrea Zoppini, Martino Zulberti

Issn: 2612-4491

Il comitato di referaggio

Comitato scientifico Michele Ainis Maria A. Astone Alberto M. Benedetti Giovanni Bruno Alberto Cadoppi Michele Caianiello Stefano Canestrari Giovanni Capo Andrea Carinci Antonio Catricalà Sergio Chiarloni Renato Clarizia Alfonso Celotto Giovanni Comandè Claudio Consolo Giuseppe Corasaniti Pasquale Costanzo Enrico Del Prato Astolfo Di Amato Ugo Draetta Francesco Di Ciommo Giovanni Duni Valeria Falce Francesco Fimmanò Giusella Finocchiaro Carlo Focarelli Giorgio Floridia Vincenzo Franceschelli Massimo Franzoni Tommaso E. Frosini Cesare Galli Alberto M. Gambino Lucilla Gatt Aurelio Gentili Mitja Gialuz Andrea Guaccero Bruno Inzitari Luigi Kalb Luca Lupária Vittorio Manes Adelmo Manna Arturo Maresca Ludovico Mazzarolli Raffaella Messinetti Pier Giuseppe Monateri Mario Morcellini Nicola Palazzolo Giovanni Pascuzzi Roberto Pessi Lorenzo Picotti Nicola Pisani Francesco Pizzetti Dianora Poletti Giovanni Sartor Filippo Satta Paola Severino Pietro Sirena Antonello Soro Giorgio Spangher Paolo Stella Richter Luigi Carlo Ubertazzi Romano Vaccarella Daniela Valentino Giovanni Ziccardi Andrea Zoppini

Diritto di INTERNET

Digital Copyright e Data Protection RIVISTA TRIMESTRALE

2021 1 • Informazione politica ed esigenze di regolazione del Web • Pubblico e privato dei media-social-network • Il peer to peer lending • Contenzioso tra il Bundeskartellamt tedesco e Facebook in tema di abuso di posizione dominante

• La notifica a mezzo pec della cartella • Responsabilità del gestore del servizio di pagamento con strumenti elettronici

• La qualificazione del rapporto di lavoro svolto tramite piattaforma digitale

• Provvedimenti Agcom e lesione del diritto all’immagine • Regime per le comunicazioni tra persone all’estero intercettate da captatore informatico

• Offerte di criptoattività e abusivismo finanziario • Registrazioni ad opera di uno degli interlocutori • Sulla rilevanza scriminante della difesa da “pericolo informatico” (il caso del vip in atteggiamenti intimi)

• Emergenza Covid-19: il termine “non perentorio” nel processo amministrativo

• Profilazione e privacy: un confronto fra i modelli Google, Amazon e Facebook

Pacini



DIRITTO DI INTERNET • ANNO III

SOMMARIO ■ SAGGI PLURALISMO DELL’INFORMAZIONE POLITICA SUI MEDIA. CRITICITÀ ED ESIGENZE DI REGOLAZIONE DEL WEB di Brunella Bruno

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PUBBLICO E PRIVATO DEI MEDIA-SOCIAL-NETWORK. UN BREVE PROMEMORIA SULLE RESPONSABILITÀ di Enzo Maria Tripodi

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FINANZIAMENTO TRA “PRIVATI” SU PIATTAFORME WEB: IL PEER TO PEER LENDING di Giuseppe Cassano e Stefano Chiodi

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LA DIGITALIZZAZIONE E IL CONTRADDITTORIO CARTOLARE COATTO NEL PROCESSO TRIBUTARIO di Daniela Mendola

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■ GIURISPRUDENZA EUROPEA LA TUTELA DELLA PRIVACY DEL DOMICILIO INFORMATICO E IL DIRITTO D’AUTORE: UN DIFFICILE BILANCIAMENTO Corte di Giustizia dell’Unione Europea; quinta sezione; sentenza 9 luglio 2020, causa C-264/19 commento di Alfonso Contaldo

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COMPARATA “I VESTITI NUOVI DELL’IMPERATORE”: IL CONTENZIOSO TRA IL BUNDESKARTELLAMT TEDESCO E FACEBOOK IN TEMA DI ABUSO DI POSIZIONE DOMINANTE ALLA LUCE DEL PROGRESSIVO SNATURARSI DEL DIRITTO ANTITRUST Bundesgerichtshof; decisione del 23 giugno 2020 Olg Düsseldorf; decisione del 26 agosto 2019 Bundeskartellamt; decisione del 6 febbraio 2019 commento di Antonio Davola

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CIVILE LA NOTIFICA A MEZZO PEC DELLA CARTELLA: UN PROBLEMA ANCORA IN CERCA DI UNA SOLUZIONE Corte di Cassazione; sezione VI civile; ordinanza 27 novembre 2020, n. 27181 commento di Andrea Carinci

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L’INVARIANZA DELLA RESPONSABILITÀ CONTRATTUALE O DA ATTIVITÀ PERICOLOSA DEL GESTORE DEL SERVIZIO DI PAGAMENTO CON STRUMENTI ELETTRONICI Corte di Cassazione; sezione VI civile; ordinanza 26 novembre 2020, n. 26916 commento di Mariangela Ferrari

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L’ESPERIBILITÀ DEL RIMEDIO EX ART. 700 C.P.C. A SEGUITO DELLA DISATTIVAZIONE DELL’ACCOUNT SU FACEBOOK: L’ULTIMO EPISODIO DELLA SAGA CHIUDE (MA NON DEL TUTTO) LE PORTE ALLA CONCESSIONE DELLA TUTELA D’URGENZA Tribunale di Trieste; sezione civile; ordinanza 27 novembre 2020, n. 2032 commento di Pasquale Mazza

93 97

LA QUALIFICAZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO SVOLTO TRAMITE PIATTAFORMA DIGITALE Tribunale di Palermo; sezione lavoro; sentenza 24 novembre 2020, n. 3570 commento di Raffaele Fabozzi

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DIRITTO DI INTERNET • ANNO III LESIONE DEL DIRITTO ALL’IMMAGINE DELL’IMPRESA CAUSATA DA UN COMUNICATO STAMPA DIFFUSO ONLINE DELL’AGCM, GIURISDIZIONE ORDINARIA E DANNO IN RE IPSA Tribunale di Napoli Nord; ordinanza 30 luglio 2020, n. 6090 commento di Francesco Di Ciommo

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LA DEINDICIZZAZIONE: IL BILANCIAMENTO TRA IL DIRITTO ALL’OBLIO E IL DIRITTO DI CRONACA Tribunale di Milano; sezione I civile; sentenza 14 aprile 2020, n. 1416 commento di Antonfabio Morena

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PENALE QUALE REGIME PER LE COMUNICAZIONI TRA PERSONE ALL’ESTERO INTERCETTATE DAL CAPTATORE INFORMATICO? Corte di Cassazione; sezione II penale; sentenza 22 ottobre 2020, n. 29362 commento di Biagio Monzillo

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OFFERTE DI CRIPTOATTIVITÀ E ABUSIVISMO FINANZIARIO. I MARGINI DI RILEVANZA PENALE DELL’ESERCIZIO NON AUTORIZZATO DI SERVIZI DI INVESTIMENTO Corte di Cassazione; sezione II; sentenza 25 settembre 2020, n. 26807 commento di Luca D’Agostino commento di Marco Tullio Giordano

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LE REGISTRAZIONI DI COLLOQUI AD OPERA DI UNO DEGLI INTERLOCUTORI TRA CONTRASTI INTERPRETATIVI ED EVOLUZIONE TECNOLOGICA Corte di Cassazione; sezione II penale; sentenza 25 settembre 2020, n. 26766 commento di Alessandro Malacarne

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IMMAGINI INDEBITAMENTE CARPITE E DIFFUSIONE SUL WEB: SULLA RILEVANZA SCRIMINANTE DELLA DIFESA DA “PERICOLO INFORMATICO” Ufficio del G.I.P. di Latina; decreto di archiviazione 3 agosto 2020 commento di Alessandra Gualazzi

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AMMINISTRATIVA BANDA ULTRALARGA: IL TAR BOCCIA I RICORSI CONTRO IL PIANO VOUCHER T.a.r. Lazio; sezione terza ter; ordinanza 23 novembre 2020, n. 7239 commento di Gianluca Favaro

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EMERGENZA COVID-19: TERMINE “NON PERENTORIO” PER IL DEPOSITO DELL’ISTANZA DI DISCUSSIONE ORALE NEL PROCESSO AMMINISTRATIVO T.a.r. Emilia Romagna; sezione I; decreto 10 novembre 2020, n. 208 commento di Antonino Mazza Laboccetta

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■ PRASSI PROFILAZIONE E PRIVACY: UN CONFRONTO FRA I MODELLI GOOGLE, AMAZON E FACEBOOK di Flaviano Peluso e Michele Saporito

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SAGGI

Pluralismo dell’informazione politica sui media. Criticità ed esigenze di regolazione del web di Brunella Bruno Sommario: 1. Premessa: i recenti casi delle elezioni regionali italiane e delle elezioni USA. – 2. La situazione italiana. – 3. Dibattito USA. – 4. Emersione delle convergenze. – 5. Centralità del ruolo delle Istituzioni e delle Autorità nazionali ed europee. Il contributo si propone, muovendo da un’analisi empirica, di rilevare la crescente esigenza di definizione di un nuovo quadro regolatorio in materia di pubblicazione e rimozione dei contenuti su internet illustrando le iniziative avviate in altri contesti e, in specie, in quello statunitense, e la centralità, in ambito europeo, del ruolo dei Parlamenti, dei Governi e delle Autorità nazionali, investiti della responsabilità di predisporre, con tempestività, misure adeguate di tutela. Nella consapevolezza della rapida evoluzione che si registra sul tema in esame, il presente lavoro vuole costituire una preliminare analisi per l’avvio di successivi approfondimenti che favoriscano, nella trama delle iniziative più complessive e generali che vanno delineandosi a livello europeo, una più nitida individuazione delle misure di intervento a livello nazionale, necessariamente integrate, in quanto involgenti una pluralità di settori ordinamentali, e, quindi, connotate da una interdisciplinarità di approccio. The contribution is set out following an empiric analysis in order to highlight the increasing need for a better understanding for a new regulation for publication and application on Internet following the trend in the USA taking into account the European Parliament role of government and national authorities responsible for rapid implementation. In the awareness of the rapid evolution that is recorded on the topic under examination, this contribution, therefore, intends to constitute a preliminary analysis for the launch of subsequent in-depth studies that favor, in the plot of more comprehensive and general initiatives that are taking shape at European level clearer identification of intervention measures at national level, necessarily integrated, as they involve a plurality of legal sectors, and, therefore, characterized by an interdisciplinary approach.

1. Premessa: i recenti casi delle elezioni regionali italiane e delle elezioni USA

La pubblicazione dei dati da parte dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (AGCOM) sul monitoraggio dei telegiornali e dei programmi d’informazione durante l’ultima campagna elettorale (1) per l’elezione dei Presidenti di numerose Regioni, unitamente al dibattito statunitense sulla neutralità dei social media durante la recente campagna elettorale presidenziale, offrono lo spunto per alcune riflessioni sul delicato tema del pluralismo dell’informazione politica e sullo stato della relativa disciplina, con analisi comparata dei relativi approcci. Ripercorriamo in estrema sintesi i fatti: il 20 e 21 settembre 2020 i cittadini delle regioni Valle d’Aosta, Veneto, Liguria, Toscana, Marche, Campania e Puglia sono stati chiamati alle urne per il rinnovo dei rispettivi Consigli

regionali (2), mentre negli USA, con un procedimento elettorale articolato e differenziato nei tempi e nei modi anche tra singoli Stati, si sono confrontati i due candidati dei rispettivi partiti, Repubblicano e Democratico, che da oltre un secolo concorrono per l’elezione del Presidente degli Stati Uniti d’America. Il parallelismo tra elezioni regionali italiane e Presidenziali USA può sembrare fuori luogo, ma fornisce un utile spunto per focalizzare l’attenzione sulle problematiche emergenti nello svolgimento delle competizioni elettorali in sistemi pure caratterizzati da significative differenze.

2. La situazione italiana

L’importanza politica delle elezioni regionali è stata senza dubbio rilevante (3) e particolarmente intenso è stato

(2) Le 7 regioni interessate dalle elezioni hanno una popolazione complessiva di circa 24,5 milioni di abitanti.  (1) AGCOM, La campagna elettorale 2020. Elezioni regionali del 20 e 21 settembre 2020. Monitoraggio dei tg e dei programmi di informazione. Periodo: 6 agosto- 19 settembre 2020. Rinvenibile su <www.agcom. it>.

(3) È sufficiente, al riguardo, un esame della prima pagina dei quotidiani del 22 settembre 2020, ad esito elettorale acclarato, disponibili sul sito: <https://www.dire.it/22-09-2020/505808-prime-pagine-quotidiani-22-settembre-2020/>.

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SAGGI l’impegno dell’AGCOM per garantire il rispetto del pluralismo d’informazione, come dimostra il monitoraggio pubblicato nel novembre scorso. È utile evidenziare quale sia, tuttavia, il “pluralismo” dell’informazione politica che la legge italiana tutela e quali sono i canali di comunicazione effettivamente monitorati. Senza approfondire, per necessaria sintesi, i numerosi richiami costituzionali al pluralismo e alla parità di opportunità, le fonti normative italiane sul pluralismo sono state essenzialmente prodotte nel quadriennio 1997-2000, determinando negli anni immediatamente successivi aggiustamenti e consolidamenti, ma in un quadro di sostanziale omogeneità. Con la legge n. 249 del 1997 (4), istitutiva dell’AGCOM, sono state attribuite all’Autorità vaste competenze, anche sanzionatorie, con riferimento, ai fini che in questa sede rilevano, all’osservanza delle norme in materia di equità di trattamento e di parità di accesso nelle pubblicazioni e nella trasmissione di informazione e di propaganda elettorale (5). Con la legge n. 28 del 2000 (6) sono state introdotte le disposizioni per la parità di accesso ai mezzi di informazione durante le campagne elettorali e referendarie e per la comunicazione politica. Con la legge n. 150 del 2000 (7) il Parlamento ha regolato il ruolo della pubblica amministrazione nell’attività di informazione e comunicazione, anche al fine di perimetrare l’ambito di intervento del Governo e delle amministrazioni statali. Il decreto legislativo n. 177 del 2005 (8) ha consolidato in un “Testo unico della radiotelevisione” la normazione intervenuta negli anni immediatamente successivi alle riforme sopra indicate. Il decreto legislativo n. 44 del 2010 (9), infine, è significativamente intervenuto sul predetto Testo unico per adeguarlo all’intervenuta normazione europea sia in

(4) Legge 31 luglio 1997, n. 249, recante Istituzione dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e norme sui sistemi delle telecomunicazioni e radiotelevisivo.  (5) Art. 1, comma 6, lett. b), n. 9, della legge 31 luglio 1997, n. 249.  (6) Legge 22 febbraio 2000, n. 28, recante “Disposizioni per la parità di accesso ai mezzi di informazione durante le campagne elettorali e referendarie e per la comunicazione politica”.  (7) Legge 7 giugno 2000, n. 150, recante “Disciplina delle attività di informazione e di comunicazione delle pubbliche amministrazioni”.

materia di televisioni che di fornitura di servizi via internet, mutando, tra l’altro, il titolo del testo normativo in “Testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici”. Il succinto elenco delle fonti introduce l’analisi del monitoraggio effettuato dall’AGCOM sulla predetta base normativa. Un primo elemento di riflessione riguarda la evidente prevalenza dell’attenzione italiana al sistema radiotelevisivo rispetto al mondo dei social media. Il monitoraggio è focalizzato sui canali informativi tradizionali, telegiornali e programmi di informazione, in linea con le prescrizioni normative. Prescrizioni, tuttavia, concentrate essenzialmente sulla Radio TV. Con ciò non dev’essere sottaciuto il ruolo tuttora decisivo nella pluralità d’informazione politica svolto dai media tradizionali; il monitoraggio AGCOM al riguardo è illuminante sul relativo peso: nel periodo elettorale considerato – 6 agosto 19 settembre 2020 - mediamente sono state in media giornalmente coinvolti circa 8,5 milioni di italiani, con punte di quasi 20 milioni in prima serata. Sotto il profilo dei contenuti, mediamente il 24,5% dei telegiornali (10) sono dedicati alla politica. Secondo il monitoraggio dell’AGCOM, nel periodo elettorale considerato, i due maggiori telegiornali italiani, Tg1 e Tg5, hanno assorbito circa il 43,5% dell’audience della prima serata, rivolgendosi direttamente a circa 7,5 milioni di persone a sera. Alla consuetudine informativa dei TG si affiancano i talk show aventi carattere di informazione politica, o comunque ospitanti personaggi politici, e classificati dall’AGCOM come programmi di approfondimento. Si tratta di programmi che riescono ad avere share rilevanti e che, dal monitoraggio AGCOM, per oltre la metà del tempo di trasmissione (52%) si occupano di argomenti e personaggi politici (11). I media tradizionali quindi, continuano a costituire asse portante della comunicazione politica italiana: il monitoraggio che da molti anni viene condotto dall’AGCOM è, dunque, un elemento di tutela dell’esercizio della democrazia e per il concreto attuarsi di quanto previsto dall’articolo 51 Cost.. La possibilità di poter “accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza” riguarda ovviamente anche la parità di opportunità che i media stessa devono poter offrire ai cittadini “dell’uno o dell’altro sesso”.

(8) Decreto legislativo 31 luglio 2005, n. 177, “Testo unico della radiotelevisione”, titolo poi mutato nel 2010 in “Testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici”.  (9) Decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 44, recante Attuazione della direttiva 2007/65/CE relativa al coordinamento di determinate disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri concernenti l’esercizio delle attività televisive.

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(10) Valore medio dei contenuti dei sei telegiornali di Rai e Mediaset. Fonte: nostra elaborazione su dati Monitoraggio AGCOM.  (11) Monitoraggio AGCOM, cit., 90.


SAGGI E il monitoraggio AGCOM evidenzia in questo campo i maggiori squilibri nell’informazione politica. Esaminando il tempo totale di parola offerto a soggetti politici e istituzionali nel corso dei telegiornali durante il predetto periodo elettorale, il monitoraggio AGCOM rileva la scarsa presenza delle candidate di sesso femminile: il 22% per i TG RAI e il 17% per i TG Mediaset, a testimonianza di un cammino ancora incompiuto per l’attuazione dell’art. 51 Cost.. L’azione di vigilanza nei confronti dei media tradizionali è dunque intensa e strutturata, grazie ad un assetto legislativo e organizzativo perfezionato nel corso dell’ultimo ventennio. Più complessa, invece, è la situazione del monitoraggio delle fonti informative attraverso i social media. Facebook, Twitter e Instagram, per citare i tre maggiori, ma anche la new entry Tik tok, costituiscono ancora un campo poco esplorato per la verifica delle condizioni di pari opportunità – in senso economico, sociale e di genere – per l’accesso alle cariche politiche. La legislazione italiana, come rilevato risalente a dieci anni fa nella sua più strutturata normazione, non ha finora affrontato in modo organico l’impiego massivo dei social nel corso di campagne elettorali. Il Testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici (di seguito TUSMAR) all’articolo 2, sembra escludere dalla definizione di “servizio di media audiovisivo” i maggiori social (12). Eppure la capacità di influenza dei social nelle competizioni elettorali è ormai da anni un dato, tanto da parlare del “sorpasso” dei nuovi canali di comunicazione – in primis i social network – su qualunque altro mezzo utilizzato in passato per conquistare il consenso degli elettori (13). Le campagne di consenso on line, mutuando modelli statunitensi, sono divenute strumenti cardine

(12) Sancisce l’art. 2 del decreto legislativo n. 177/05 e s.m.i.: “Non rientrano nella definizione di “servizio di media audiovisivo”: i servizi prestati nell’esercizio di attività precipuamente non economiche e che non sono in concorrenza con la radiodiffusione televisiva, quali i siti Internet privati e i servizi consistenti nella fornitura o distribuzione di contenuti audiovisivi generati da utenti privati a fini di condivisione o di scambio nell’ambito di comunità di interesse; ogni forma di corrispondenza privata, compresi i messaggi di posta elettronica; i servizi la cui finalità principale non è la fornitura di programmi; i servizi nei quali il contenuto audiovisivo è meramente incidentale e non ne costituisce la finalità principale, quali, a titolo esemplificativo: a) i siti internet che contengono elementi audiovisivi puramente accessori, come elementi grafici animati, brevi spot pubblicitari o informazioni relative a un prodotto o a un servizio non audiovisivo; b) i giochi in linea; c) i motori di ricerca; d) le versioni elettroniche di quotidiani e riviste; e) i servizi testuali autonomi; f) i giochi d’azzardo con posta in denaro, ad esclusione delle trasmissioni dedicate a giochi d’azzardo e di fortuna;”.  (13) Lezzi, Comunicazione social dei partiti e narrazione euroscettica nelle europee 2019, in Documenti IAI – Istituto Affari Internazionali, n. 15, ago-

per le competizioni elettorali e per il contatto diretto tra candidato ed elettore (14). La crescita esponenziale dell’importanza dei social è legata anche allo strumento di “visione”: lo smartphone ha sostituito da anni il televisore quale strumento di ricezione della comunicazione (15) ribaltando le gerarchie anche nelle fonti informative. Conseguentemente, l’importanza dei motori di ricerca, che il TUSMAR esclude dalla definizione di “servizio di media audiovisivo”, è aumentata a dismisura nel campo dell’informazione politica. L’Ordine dei Giornalisti italiani (16) ha stimato, nel 2019, che il 75% della pubblicità digitale era appannaggio di soli tre soggetti globali che nulla avevano a che fare con il mercato editoriale professionale, ma soprattutto che l’87 % di ogni query, ossia ricerca on line, veniva canalizzato da Google. E quando parliamo di ricerca on line inevitabilmente parliamo anche di accesso all’informazione politica. La carenza normativa in materia di pluralismo sui social è riscontrabile anche dalla ristretta operatività dell’AGCOM in tale settore. Sempre prendendo ad analisi l’ultima campagna elettorale regionale, che ha visto in concomitanza anche elezioni per i Sindaci di numerose città, l’intervento più significativo dell’AGCOM in tema di pluralismo e par condicio sui social ha riguardato la pagina Facebook del Sindaco di Venezia (17). La vicenda, in fatto, era la seguente. Il Sindaco di Venezia in carica, candidato alle elezioni comunali per essere riconfermato, pubblicava sul suo profilo facebook alcuni post relativi all’attività del Comune di Venezia durante il periodo di campagna elettorale, in violazione, secondo quanto contestato, della par condicio tra i candidati. Ciò in quanto il profilo facebook privato del Sindaco riportava la dicitura “Pagina ufficiale di L.B., Sindaco di Venezia”, pur essendo l’amministrazione comunale estranea al profilo in questione. Dall’esito dell’istruttoria è scaturita la Delibera AGCOM n. 543/20/cons. del 22 ottobre 2020, con

sto 2019, disponibile alla pagina web <https://www.iai.it/sites/default/ files/iai1915.pdf>.  (14) Cepernich, Le campagne elettorali al tempo della networked politics, Roma/Bari, 2017, 5.  (15) AdReaction, Marketing in a multiscreen world, 2014, disponibile alla pagina web: <http://boletines.prisadigital.com/Millward-Brown_AdReaction-2014_Global.pdf>.  (16) Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti, “Google: libertà di accesso su tutta l’informazione, a cominciare dagli algoritmi”, 9 gennaio 2019, disponibile alla pagina web: <https://www.odg.it/google-liberta-di-accesso-su-tutta-linformazione-a-cominciare-dagli-algoritmi/31734>.  (17) Delibera AGCOM n. 543/20/cons. del 22 ottobre 2020 - Ordine nei confronti del Comune di Venezia per la violazione dell’art. 9 della legge 22 febbraio 2000, n. 28.

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SAGGI cui l’AGCOM, riconoscendo la violazione della norma sulla par condicio – art. 9 della legge n. 28/2000 che prevede che “dalla data di convocazione dei comizi elettorali e fino alla chiusura delle operazioni di voto è fatto divieto a tutte le amministrazioni pubbliche di svolgere attività di comunicazione ad eccezione di quelle effettuate in forma impersonale ed indispensabili per l’efficace assolvimento delle proprie funzioni” –, ha imposto al Sindaco di Venezia di pubblicare sulla pagina facebook in questione un messaggio recante l’indicazione di non rispondenza a quanto previsto dall’articolo 9 della legge 22 febbraio 2000, n. 28 della comunicazione istituzionale realizzata durante la campagna elettorale. L’impegno argomentativo profuso dall’AGCOM nell’esplicitazione dei giustificativi alla base della determinazione adottata, il cui passaggio nodale è costituito dalla riferibilità della pubblicazione in contestazione al Sindaco nella sua veste istituzionale, con conseguente riconducibilità all’ambito applicativo della sopra indicata disposizione dell’art. 9 della l. n. 28 del 2000, rende evidente che, in assenza di una profonda revisione della disciplina normativa e procedurale, le potenzialità insite nei poteri di cui è attributaria la stessa Autorità faticano a trovare piena esplicazione nel contrasto delle fattispecie di informazione non corretta che si svolgono sui social. E l’efficacia degli interventi è determinata non solo dal perimetro della legittimazione all’esercizio di poteri di regolazione, vigilanza e sanzionatori ma anche dalla tempestività sia di intervento sia dell’ottemperanza alle misure disposte. L’attuazione dell’art. 51 della Costituzione sul terreno dei social media è, dunque, tutta da scrivere ed il legislatore nazionale sinora si è trovato nel dilemma, al pari del legislatore statunitense, di contemperare la libertà di espressione e indipendenza di internet – e quindi dei social – con la necessità di ottemperare al dettato costituzionale di pari opportunità di accesso alle cariche politiche (18).

portunità – dei social durante le competizioni elettorali è da anni un tema centrale del dibattito USA. Il 23 settembre 2020 il Dipartimento di Giustizia Statunitense ha inviato al Congresso la proposta di riforma del “Section 230 of the Communications Decency Act” del 1996 (19). La Section 230, nel regolare la responsabilità delle piattaforme on line in ordine ai contenuti da esse pubblicati, in appena 26 parole afferma che: “Nessun fornitore e nessun utilizzatore di servizi Internet può essere considerato responsabile, come editore o autore, di una qualsiasi informazione fornita da terzi”. Emanata nel 1996 per favorire il commercio on line attraverso lo sgravio delle responsabilità delle piattaforme dai reclami basati su contenuti di terze parti ospitati dalla piattaforma, negli anni la norma ha consentito alle piattaforme, e anche ai social come Facebook e Twitter, una vasta deresponsabilizzazione in molteplici aspetti, sottolineata nel famoso tweet del Presidente USA Trump (20). Colpisce l’essenzialità e il lessico lapidario della legislazione USA, che con una sola frase ha sancito che le piattaforme non sono responsabili di ciò che viene pubblicato su di esse, potendo, anzi, gestire con ampia discrezionalità la pubblicazione o la rimozione dei contenuti presenti sulle piattaforme, senza nessuna conseguenza giudiziaria. Pochi giorni dopo il Tweet, il Presidente USA ha emanato un “Executive Order on Preventing Online Censorship (21)” L’Order sottende allo scopo di promuovere e tutelare la diversità dei punti di vista espressi nello spazio comunicativo digitale, incoraggiando l’adozione di parametri e strumenti atti a garantire la libertà di espressione. Le attività delle piattaforme Internet di selezione delle espressioni visualizzabili e pubblicabili sono state ricondotte dall’Order ad attività di creazione di contenuti, e non di semplici “contenitori”, con conseguente

3. Dibattito USA

Si è citato non casualmente il legislatore USA perché il dilemma di garantire una neutralità – e quindi pari op-

(18) Le tematiche giuridiche connesse all’uso dei social network (e dei loro strumenti) si arricchiscono di un ulteriore elemento di interesse derivante dal recente decreto “Semplificazioni”. L’attività della pubblica amministrazione, attuata anche mediante i social network, finisce per generare anch’essa una forma di responsabilità. Sul punto cfr. il saggio che segue, Tripodi, Pubblico e privato dei Media-Social-Network. Un breve promemoria sulle responsabilità, in questa Rivista, 2021, 11. Più in generale, sul tema del diritto delle comunicazioni nell’era digitale, la bibliografia sarebbe sterminata. Si rinvia per un inquadramento del problema a G. Bruno, Principi fondamentali e sistema delle fonti, in G. Bruno (a cura di), Diritto delle comunicazioni, Torino, 2019, 1.

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(19) <https://www.justice.gov/opa/pr/justice-department-unveils-proposed-section-230-legislation>. Più in particolare la §230(c)(2) prevede che “nessun provider o utente di un servizio informatico interattivo può essere ritenuto responsabile per: (A) qualsiasi azione intrapresa volontariamente in buona fede per limitare l’accesso o la disponibilità di materiale che il provider o l’utente considera osceno, lascivo, turpe, eccessivamente violento, molesto o comunque discutibile, indipendente dal fatto che tale materiale sia costituzionalmente protetto o meno; o (B) qualsiasi azione intrapresa per consentire o rendere disponibile ai fornitori di contenuti informativi o ad altri i mezzi tecnici per limitare l’accesso al materiale descritto nel paragrafo (1)”. In tal modo è stata formalizzata la c.d. regola della protezione del buon samaritano (c.d. Good Samaritan protection).  (20) “REVOKE 230!” — Donald J. Trump (@realDonaldTrump) May 29, 2020  (21) Per il testo integrale dell’Order v. <https://www.whitehouse.gov/ presidential-actions/executive-order-preventing-onlinecensorship/>.


SAGGI esclusione della generalizzata immunità prevista dalla section230(c) (22). Con l’Order è stato, inoltre, richiesto all’Attorney General statunitense di formulare una bozza di legge limitativa delle tutele giuridiche approntate dalla section 230, bozza predisposta nel settembre 2020 e comunicata al Senato USA. Del pari, sono stati sollecitati gli interventi di due commissioni indipendenti, essendo stato richiesto alla Federal Communications Commission di formulare un regolamento per chiarire le condizioni in presenza delle quali le società informatiche perdono l’immunità predisposta dalla section230(c), ed alla Federal Trade Commission di avviare ricorsi in giudizio contro le società che dimostrano parzialità politica nel corso della moderazione dei contenuti pubblicati sui loro siti. La lettera dell’ Attorney General del Department of Justice al Presidente del Senato USA del 23 settembre 2020 (23) sulla necessità della riforma della Section 230 chiarisce esplicitamente le motivazioni dell’Amministrazione Trump sul tema: “The beneficial role Section 230 played in building today’s internet, by enabling innovations and new business models, is undisputed. It is equally undisputed, however, that the internet has drastically changed since I 996. Many of today’s online platforms are no longer nascent companies but have become titans of industry. Platforms have also changed how they operate. They no longer function as simple forums for posting third-party content, but use sophisticated algorithms to suggest and promote content and connect users. Platforms can use this power for good to promote free speech and the exchange of ideas, or platforms can abuse this power by censoring lawful speech and promoting certain ideas over others”. La Section 230 b) attualmente prevede che le piattaforme non devono “essere trattate come l’editore o il relatore di qualsiasi informazione fornita da [terze parti]”, mentre la Section 230 (c) protegge alcune decisioni di moderazione dei contenuti volontariamente assunte in buona fede. Secondo l’amministrazione proponente, la riforma consentirebbe alle piattaforme di moderare i contenuti ritenuti dalle stesse dannosi, senza essere automaticamente responsabili dei contenuti “censurati”. La riforma della Section 230 ha alimentato un intenso dibattito a livello anche di Congresso e Senato, con audizione, da parte di quest’ultimo, nel novembre 2020,  (22) Per un commento dell’Order, cfr. Corte costituzionale – Servizio studi, “Trump firma l’Executive Order on Preventing Online Censorship”, 29/05/2020, disponibile su <https://www.cortecostituzionale.it/ documenti/segnalazioni_corrente/Segnalazioni_1590750187396.pdf>.  (23) <https://www.justice.gov/file/1319346/download>.

di Mark Zuckerberg e Jack Dorsey, fondatori rispettivamente di Facebook e Twitter (24). Punto chiave della riforma del Section 230 è chiaramente la possibilità delle piattaforme internet, di censurare, senza responsabilità, contenuti dei social, nonché l’esistenza di potenziali pregiudizi nei loro algoritmi e nelle decisioni di moderazione dei contenuti. Su tali questioni Zuckerberg e Dorsey hanno sostanzialmente confermato la correttezza e la trasparenza dell’operato delle loro piattaforme, autoassolvendole dalle accuse di influire, anche solo indirettamente, sui comportamenti e sulle visualizzazioni degli utenti. La semplicità di approccio dei due CEO nel Senato USA, lontana dagli standard del dibattito italiano, è per alcuni versi giuridicamente disarmante: Dorsey, per esempio, ha sostenuto di dare agli utenti di Twitter una scelta più ampia negli algoritmi che decidono le visualizzazioni dei contenuti semplicemente consentendo agli utenti di scegliere di visualizzare i tweet in ordine cronologico, piuttosto che in base all’algoritmo di Twitter. Non va dimenticato che la customer satisfation è essenzialmente l’unica legge che guida le Company statunitensi e la semplicità d’uso dei social viene prima delle esigenze delle amministrazioni pubbliche. Il dibattito negli USA è tuttora aperto, anche sull’opportunità di intervenire normativamente sulla materia. Non v’è dubbio, tuttavia, che una modifica della Section 230 non potrà che avere effetti importanti ben oltre i confini statunitensi.

4. Emersione delle convergenze

Una limitazione negli USA dell’attuale completa indipendenza – rectius “impermeabilità” – delle piattaforme da ogni forma di controllo sui meccanismi di indicizzazione e di “censura” di contenuti non potrebbe non avere riflessi anche in altri contesti, incluso quello europeo. A livello nazionale sinora emerge l’impegno in sede giurisdizionale ad assicurare, con gli strumenti attualmente previsti, la tutela della libertà di contenuto delle piattaforme, ma inevitabilmente l’incidenza è riferita a singole fattispecie e con tempistiche non compatibili con le dinamiche di svolgimento dei rapporti in generale e con lo svolgimento delle competizioni elettorali in particolare (25).  (24) I due CEO erano stati già auditi in ottobre, in relazione a una controversia concernente su come, entrambe le piattaforme social, avessero gestito un articolo non verificato del New York Post sul presidente eletto Joe Biden e suo figlio, Hunter. Sull’audizione dei due Founders, e sulle ragioni fattuali del dibattito, cfr. anche <https://www.cnbc. com/2020/11/17/facebook-twitter-defend-election-moderation-practices-before-senate.html>.  (25) Si reputa sufficiente ricordare, a tale proposito, che proprio in considerazione dei rilevanti interessi implicati nelle competizioni elettorali, il legislatore ha delineato, relativamente al contenzioso sulle operazioni

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SAGGI Al riguardo, si ritiene di richiamare l’ordinanza del Tribunale di Roma, Sez. Impresa, 12 dicembre 2019 (26) sulla disattivazione del profilo Facebook dell’Associazione Casapound, di cui si riportano alcuni passi: “È evidente il rilievo preminente assunto dal servizio di Facebook (o di altri social network ad esso collegati) con riferimento all’attuazione di principi cardine essenziali dell’ordinamento come quello del pluralismo dei partiti politici (49 Cost.), al punto che il soggetto che non è presente su Facebook è di fatto escluso (o fortemente limitato) dal dibattito politico italiano, come testimoniato dal fatto che la quasi totalità degli esponenti politici italiani quotidianamente affida alla propria pagina Facebook i messaggi politici e la diffusione delle idee del proprio movimento. Ne deriva che il rapporto tra FACEBOOK e l’utente che intenda registrarsi al servizio (o con l’utente già abilitato al servizio) non è assimilabile al rapporto tra due soggetti privati qualsiasi in quanto una delle parti, appunto FACEBOOK, ricopre una speciale posizione: tale speciale posizione comporta che FACEBOOK, nella contrattazione con gli utenti, debba strettamente attenersi al rispetto dei principi costituzionali e ordinamentali finché non si dimostri (con accertamento da compiere attraverso una fase a cognizione piena) la loro violazione da parte dell’utente. Il rispetto dei principi costituzionali e ordinamentali costituisce per il soggetto FACEBOOK ad un tempo condizione e limite nel rapporto con gli utenti che chiedano l’accesso al proprio servizio. Non è possibile sostenere che la responsabilità (sotto il profilo civilistico) di eventi e di comportamenti (anche) penalmente illeciti da parte di aderenti all’associazione possa ricadere in modo automatico sull’Associazione stessa (che dovrebbe così farsene carico) e che per ciò solo ad essa possa essere interdetta la libera espressione

elettorali devoluto alla giurisdizione amministrativa, riti improntati ad un criterio di celerità, con introduzione di una tutela anticipata avverso gli atti di esclusione (art. 129 c.p.a.) e l’eccezionale dimezzamento del termine per proporre ricorso contro gli esiti delle elezioni (art. 130 c.p.a.), oltre che di tutti gli altri termini del procedimento; cfr. Cons. Stato, Sez. V, 22 marzo 2016, n. 1190; T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II bis, 18 maggio 2018, n. 555, entrambe reperibili sul sito istituzionale della Giustizia amministrativa.  (26) Tribunale di Roma, sez. spec. impresa, 12 dicembre 2019, in questa Rivista, 2020, 63 ss., con commento di Venanzoni, Pluralismo politico e dibattito pubblico alla prova dei social network, in Danno e resp., 2020, 487 ss., con nota di Quarta, Disattivazione della pagina Facebook. Il caso CasaPound tra diritto dei contratti e bilanciamento dei diritti, e in Foro it., 2020, I, 722 ss. Nell’ordinanza con chiarezza viene evidenziato che la disattivazione di una pagina Facebook può essere eseguita dal gestore del social network soltanto a seguito di un giudizio di piena cognizione che accerti l’illiceità dei contenuti memorizzati, pena la violazione del principio costituzionale del pluralismo politico e del diritto alla libertà di espressione.

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del pensiero politico su una piattaforma così rilevante come quella di FACEBOOK”. La decisione, di accoglimento del ricorso con ordine alla società di riattivazione della pagina dell’Associazione, è stata confermata, in esito al riesame proposto Facebook, con l’ordinanza collegiale della VII Sez. Civile del Tribunale di Roma (camera di consiglio del 29.04.2020) con la quale – disponendosi, tra l’altro, la correzione dell’iscrizione del procedimento come procedimento ordinario e non della sezione specializzata imprese –, è stato sottolineato che “se la posizione del gestore è riconducibile alla libertà di impresa tutelata dall’art. 41 della Costituzione, quella dell’utente è riconducibile, di fronte a contestazioni relative alle opinioni espresse sulla piattaforma, alla libertà di manifestazione del pensiero protetta dall’art. 21 e, di fronte a contestazioni relative alla natura ed agli scopi dell’associazione, all’art. 18 e quindi a valori che nella gerarchia costituzionale si collocano sicuramente ad un livello superiore”; ciò con la conseguenza che “la disciplina contrattuale non può lecitamente assumere quale causa di risoluzione del rapporto manifestazioni del pensiero protette dall’art. 21 né consentire l’esclusione di associazioni tutelate dall’art. 18” (27). A conclusioni opposte, e cioè, nel senso della legittimità della rimozione da parte di Facebook di profili di alcuni amministratori di numerose pagine riconducibili alle diverse articolazioni territoriali e non di un’organizzazione ritenuta particolarmente attiva nella propaganda razzista, xenofoba e antisemita, è addivenuto il medesimo Tribunale (28) – sezione diritti della persona  (27) Più in particolare, in sede di reclamo, il Tribunale di Roma, sez. XII, 29 aprile 2020, in questa Rivista (versione online), ha affermato la natura ordinaria del contratto con Facebook, pervenendo comunque al rigetto del ricorso giacché sarebbe preclusa all’autonomia privata la possibilità di comprimere l’esercizio di diritti costituzionalmente garantiti. Da tale assunto si è tratto che l’esercizio del recesso non può andare a detrimento della libertà di associazione e di espressione, dovendo altrimenti configurarsi – in assenza di una giustificazione oggettiva che in concreto non si è ravvisata – un recesso illegittimo, che dunque, similmente a quanto accade nell’ambito lavoristico, dà corso alla tutela manutentivo-ripristinatoria del rapporto contrattuale.  (28) Tribunale di Roma, sez. diritti della persona e immigrazione civile, 23 febbraio 2020, (e Tribunale di Siena, sez. unica civile, 19 gennaio 2020), in questa Rivista, 2020, 281 ss., con nota di Stella, Disattivazione ad nutum del profilo Faceboook: quale spazio per la tutela cautelare ex art. 700?. L’ordinanza romana è stata altresì pubblicata in Dir. dell’informazione e dell’informatica, 2020, 552 ss., con nota di Mazzolai, Hate speech e comportamenti d’odio in rete: il caso Forza Nuova c. Facebook. Sul punto di recente vedi Tribunale di Trieste; sezione civile; ordinanza 27 novembre 2020, n. 2032, in questa Rivista, 2021, 93, con nota di Mazza, Facebook: l’ultimo episodio della saga chiude (ma non del tutto) le porte alla concessione della tutela d’urgenza, così massimabile “L’istanza cautelare di riattivazione degli accounts Facebook, avanzata a norma dell’art. 700 c.p.c., va respinta in rito giacché, non essendo garantita una tutela reale al termine della cognizione piena, è carente in radice un presupposto indefettibile per la concessione del rimedio d’urgenza. Nondimeno, Facebook deve restituire agli utenti i contenuti pubblicati sulla piattaforma prima del recesso”.


SAGGI e immigrazione civile – attraverso puntuali riferimenti sia alla disciplina internazionale, europea e nazionale, (oltre che al Codice di Condotta UE del 2016 per contrastare l’illecito incitamento all’odio online, sottoscritto anche da Facebook, Microsoft, Twitter e YouTube, ai quali si sono aggiunti, dal 2018, Google+, Instagram, Snapchat e Dailymotion), sia alle plurime evidenze idonee a supportare la determinazione della piattaforma in ordine alla sussistenza dei presupposti per la rimozione dei contenuti dalla piattaforma. In sede giurisdizionale si riesce, tuttavia, allo stato, solo parzialmente a sopperire all’esigenza di un’evoluzione della normativa di riferimento, che impone anche un intervento “a monte” sulla stessa gestione dei motori di ricerca e delle connesse indicizzazioni, emergendo, come ineludibile, un impegno riformatore intersettoriale, di cui uno dei rilevanti tasselli è costituito dalla novellazione del Testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici.

5. Centralità del ruolo delle Istituzioni e delle Autorità nazionali ed europee

La conclusione del dibattito statunitense, che a seguito del cambio di Presidenza e di maggioranza in parlamento appare ora meno immediato, non costituisce una prospettiva soddisfacente, anche tenuto conto delle diverse sensibilità diffuse in quel contesto, evidenziate, del resto dalla circostanza che la Section 230 fu varata nel 1996 con il dichiarato scopo di far sviluppare il commercio on line. Occorrerà, inoltre, in quel contesto, attendere la stabilizzazione di un quadro di acceso fermento, al punto da avere indotto il fondatore di Facebook recentemente ad annunciare la drastica riduzione nel feed di notizie principali dei contenuti politici con eliminazione delle segnalazioni agli utenti delle pagine dei partiti e dei politici (29). In Europa Paesi come la Polonia hanno annunciato iniziative simili a quelle statunitensi per limitare l’impunibilità delle piattaforme in caso di censure o comportamenti che potrebbero intaccare la libertà di espressione (30), mentre il Governo tedesco ha espresso  (29) La nuova policy, allo stato pensata per il contesto statunitense, dovrebbe, poi, essere estesa a livello globale; cfr. <https://deadline. com/2021/01/facebook-ceo-mark-zuckerberg-politics-apple-regulation-and-virtual-reality-1234682078/>. Zuckerberg ha anche dichiarato: “On regulation overall, the point that I would to highlight is that it would be very helpful to us and the Internet sector for there to be clearer rules and expectations around some of these social issues, around how content should be handled, elections should be handled, what privacy norms the government wants to see in place. Because these questions all have tradeoffs”.  (30) La notizia ha avuto risalto sulle principali testate giornalistiche e da parte delle agenzie di informazione dalle quali emerge la previsione, nel progetto predisposto, oltre che di un rigoroso impianto sanzionatorio, della istituzione di un “consiglio per la libertà di espressione” composto

preoccupazioni per il comportamento avuto da social come Twitter nei recenti fatti USA sull’attacco al Congresso (31). La Commissione europea (32) ha avviato iniziative per promuovere una normativa organica sui servizi digitali, che porti chiarezza in merito alle responsabilità. Riconosce la stessa Commissione europea che l’esenzione di responsabilità per gli intermediari online è una pietra angolare della regolamentazione di internet: garantisce la possibilità di intervenire rapidamente contro i contenuti, i beni o i servizi illegali, ma fa anche sì che le piattaforme non siano incentivate a rimuovere contenuti legittimi e non siano obbligate a monitorare i propri utenti. Il nuovo intervento del legislatore europeo dovrebbe, in particolare mirare (33): - al rafforzamento ulteriore chiarimento delle condizioni per le esenzioni di responsabilità: le piattaforme e gli altri intermediari non sono responsabili del comportamento illecito degli utenti a meno che non siano a conoscenza di atti illeciti e non provvedano ad eliminarli; - all’armonizzazione delle norme relative all’eccezione di responsabilità, con uniformità in tutta l’UE, attraverso un regolamento direttamente applicabile; - a fornire nuovi chiarimenti sulle modalità di applicazione di tali condizioni alle regole concernenti la responsabilità per la tutela dei consumatori; - alla risoluzione del paradosso concernente le misure volontarie adottate dalle piattaforme di piccole dimensioni: le piattaforme conformi alla normativa non sono responsabili dei contenuti illeciti rilevati; - ad assicurare una maggiore certezza giuridica sull’interazione con le autorità: le ingiunzioni e gli ordini di accesso alle informazioni sugli utenti saranno sogda cinque membri, nominati per sei anni dal Parlamento tra personalità con requisiti di indipendenza, con il compito di esaminare, in tempi accelerati i reclami presentati dagli utenti; cfr. https://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/europa/2021/01/15/polonia-una-legge-per-limitare-il-potere-dei-social-media-_e842f1c8-227b-4c6b-85fc-7622883cd72e.html.  (31) <https://www.corriere.it/esteri/21_gennaio_11/merkel-trump-escluso-twitter-decisione-problematica-ba43cf5a-540a-11eb-ad41-ddad2172512f.shtml>. Da segnalare anche il rafforzamento dei poteri dell’autorità federale antitrust Bundes Netz Agentur (BNetzAg) secondo una linea di intervento che anticipa le misure previste da un’altra proposta della Commissione Ue, denominata Digital Markets Act. Tra le iniziative assunte dai singoli Stati, si evidenzia, sia pure con un più specifico scopo, quella avviata in Austria per l’approvazione di una legge nazionale contro l’hate speech.  (32) Proposal for a Regulation of the European Parliament and of the Council on a Single Market For Digital Services (Digital Services Act) and amending Directive 2000/31/EC COM/2020/825 final.  (33) Cfr. <https://ec.europa.eu/info/strategy/priorities-2019-2024/europe-fit-digital-age/digital-services-act-ensuring-safe-and-accountable-online-environment_it#quali-sono-le-prossime-tappe>.

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SAGGI getti a criteri minimi comuni, di modo che le piattaforme sappiano come comportarsi. I tempi di approvazione della legislazione europea appaiono, tuttavia, come spesso accade per questa materia, incompatibili con l’evoluzione del mercato digitale. Lo schema di regolamento dovrà infatti essere esaminato nei prossimi mesi da Parlamento europeo e Consiglio, seguendo la procedura legislativa ordinaria prevista dagli artt. 289 e 294 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea. Del pari, anche le recenti iniziative (34) di promozione ed illustrazione della Comunicazione COM(2020)790 sul “Piano di azione per la democrazia europea”, pubblicato il 3 dicembre 2020, se pure evidenziano la centralità che riveste un “nuovo slancio per la democrazia europea” quale priorità del programma 2019-2024 della Commissione europea, di cui la tutela dell’integrità delle elezioni e la promozione della partecipazione democratica costituiscono uno dei fondamentali obiettivi, non consente di preconizzare una tempestività di intervento. La stessa Commissione, infatti, ha pianificato una graduale attuazione del predetto Piano, incentrato su misure legislative e non, traguardando, in via prognostica, un completamento entro il 2023 ed è significativo anche evidenziare che lo stesso Piano individua, oltre che nelle Istituzioni UE, nei Governi e Parlamenti nazionali gli immediati destinatari in quanto ad essi spetta, in prima istanza, la responsabilità di garantire il buon funzionamento della democrazia, insieme ad altre autorità nazionali, partiti politici, società civile e piattaforme online. In attesa dell’attuazione dei sopra indicati processi, dunque, non solo non è esclusa ma dovrebbe essere perseguita una “via italiana” che, senza trascurare le linee in via di definizione e, allo stato, essenzialmente programmatiche dell’UE, in coerenza con il dettato costituzionale possa assicurare una più tempestiva risposta alle istanze illustrate: l’attuazione degli artt. 49 e 51 Cost. rimane, infatti, un elemento essenziale della nostra legislazione, al pari delle altre previsioni della Carta fondamentale implicate. Garantire pari opportunità a tutti i cittadini significa pure che le molteplici forme di intervento contenutistico, di profilazione e indicizzazione, che con velocità ormai quotidiana affiorano sui nostri smartphone, non possono essere decise automaticamente da algoritmi stabiliti oltreoceano, senza nessuna possibilità di intervento pubblico in caso di abuso.

(34) Il riferimento è, nello specifico, all’incontro che si è svolto in videoconferenza il 28 gennaio 2021, dei Presidenti delle Commissioni per gli affari europei dei Parlamenti nazionali e del Parlamento europeo con la Vicepresidente della Commissione europea responsabile per la materia “Valori e trasparenza”.

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Da ultimo, anche la Francia ha espresso una matura consapevolezza in ordine alla necessità di un tempestivo intervento attraverso un emendamento al disegno di legge sui principi repubblicani, allo stato in discussione a livello di commissione nell’Assemblea nazionale, che prevede l’introduzione di obblighi di moderazione dei contenuti per i social network. L’iniziativa, in previsione del Digital Service Act, ricalca sotto alcuni aspetti le misure prefigurate a livello europeo, concentrandosi sia su specifici obblighi delle piattaforme sia sulla predisposizione di un impianto sanzionatorio adeguato, con previsione della irrogazione fino al 6% del fatturato annuale globale per infrazioni ripetute. Si prevede, inoltre, trasparenza sul funzionamento degli algoritmi di moderazione dei contenuti, in modo che il Conseil supérieur de l’audiovisuel (CSA) possa valutarne l’efficacia. (35) L’ormai nitida emersione degli obiettivi da perseguire e dei rischi da sterilizzare in funzione di una tutela effettiva e piena, che nel settore considerato è inscindibilmente dipendente dalla tempestività, consente, nelle trame dell’impianto che si va delineando a livello europeo, di individuare le linee di un auspicato intervento del legislatore nazionale che, attraverso l’integrazione di profili civilistici e pubblicistici, con il ricorso ad un rafforzamento delle attribuzioni di tutte le istituzioni coinvolte, inclusa l’AGCM, fornisca una risposta immediata a garanzie della salvaguardia del pluralismo in generale e di quello nell’informazione politica in particolare, senza trascurare l’introduzione di adeguati strumenti di tutela giurisdizionale, necessariamente accelerati e mirati.

(35) Cfr. <https://www.lefigaro.fr/secteur/high-tech/loi-separatisme-ce-que-prevoit-le-gouvernement-contre-les-reseaux-sociaux-20210118>.


SAGGI

Pubblico e privato dei Media-Social-Network. Un breve promemoria sulle responsabilità di Enzo Maria Tripodi Sommario: 1. Premessa. – 2. I social network/social media: avanti a piccoli passi, con qualche incomprensione di fondo. – 3. Le regole per l’utilizzo dei social network da parte delle pubbliche amministrazioni. – 4. Segue: le regole per i dipendenti pubblici ed il “travaso” delle decisioni della giurisprudenza. – 4.1 L’utilizzo dei social network da parte della pubblica amministrazione. – 4.2 L’utilizzo dei social network da parte del lavoratore sul luogo di lavoro. – 4.3 L’utilizzo dei social network da parte del lavoratore fuori dall’ambito lavorativo. – 4.4. Il diritto di critica del lavoratore sui social network. – 4.5 Alcune fattispecie penali relative ai social network. – 5. Riannodando i fili: verso il legittimo affidamento e la responsabilità da social in ambito pubblico. Le tematiche giuridiche connesse all’uso dei social network (e dei loro strumenti) si arricchiscono di un ulteriore elemento di interesse derivante dal recente decreto “Semplificazioni”. Il nostro percorso assume, come paradigmatico, il comportamento della pubblica amministrazione e dei loro dipendenti, esaminato in stretta connessione con le poche indicazioni normative ed una breve rassegna delle più numerose pronunce dei giudici. La conclusione è che l’attività della pubblica amministrazione, attuata anche mediante i social network, finisce per generare una responsabilità di natura contrattuale. The legal issues related to the use of social networks (and their tools) are enriched by an additional element of interest deriving from the recent “Semplification” Decree. The path assumes, as paradigmatic, the behavior of the public administration and their employees, examined in close connection with the few regulatory indications and a brief review of the - most numerous - judges’ decisions. The conclusion is that the activity of the public administration, also implemented through social networks, ends up generating a contractual liability.

1. Premessa

Il Decreto c.d. “Semplificazioni”, tra le varie modifiche che contiene, ne prevede una che costituirebbe a pieno titolo la “cornice” (giuridica) di questo contributo (1). L’art. 3-bis della l. n. 241 del 1990 (2), prevedeva che «Per conseguire maggiore efficienza nella loro attività, le amministrazioni pubbliche incentivano l’uso della telematica, nei rapporti interni, tra le diverse amministrazioni e tra queste e i privati». Un “rinvio”, quasi timido, verso l’utilizzo di strumenti al passo con l’evoluzione tecnologica, benché la temporalmente coincidente emanazione del Codice dell’amministrazione digitale (d.lgs. n. 82 del 2005. Noto anche come “CAD”) avrebbe implicato, sin da subito, altra impostazione, nonostante si fosse messa mano ad una legge “storica” del nostro diritto amministrativo (3). Il passaggio alla modernità pare compiuto con la recente modifica che sposta decisamente il fuoco dall’incentivazione (riferita, peraltro, scorrettamente, alla sola telematica) ad una indicazione, all’insegna delle performative  (1) D.l. 16 luglio 2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla l. 11 settembre 2020, n. 120.  (2) Inserito dall’art. 3, comma 1, l. 11 febbraio 2005, n. 15, in sede di “revisione” della disciplina generale sul procedimento amministrativo.  (3) Per un bilancio recente, Contessa - Greco (a cura di), L’attività amministrativa e le sue regole (a trent’anni dalla Legge n. 241/1990), Piacenza, 2020.

utterances di Austiniana memoria, secondo la quale le pubbliche amministrazioni «agiscono mediante strumenti informatici e telematici». Un comando, quindi, non un mero ‘manifesto’ di intenzioni. Evidenti sembrano le implicazioni che, per un verso, rafforzano (e sostengono) il percorso in atto verso una compiuta amministrazione digitale e, per l’altro, spingono nella direzione di una amministrazione pubblica totalmente rinnovata. Si tratta, infatti, di strade – prima o poi confluenti – che, al momento, si atteggiano su piani affatto differenti. Un conto è, con palese evidenza, la (ormai ineludibile) necessità che la pubblica amministrazione gestisca le procedure e le risultanze della propria azione con gli strumenti più moderni che sono, semplicemente, al suo servizio; altro “ripensare” apparati per i quali l’innovazione diventa parte integrante e costitutiva del suo funzionamento, come sta avvenendo nelle prospettazioni – anche su questo versante – dell’Intelligenza artificiale (4).

(4) Sulla pubblica amministrazione “digitale”, da ultimo, v. Cavallo Perin - Galetta (a cura di), Il diritto dell’amministrazione pubblica digitale, Torino, 2020 e, in sintesi, Notari, Il percorso della digitalizzazione delle amministrazioni pubbliche: ambiti normativi mobili e nuovi modelli di governance, in Giorn. dir. amm., 2020, 21 ss. Per una lettura diacronica dell’evoluzione, piace, tra una moltitudine, richiamare Ielo, L’agenda digitale: dalle parole ai fatti, Torino, 2015. L’argomento, in relazione alle derive dell’Intelligenza artificiale, comunque, sta diventando particolarmente fecondo di contributi, molti dei

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SAGGI

quali in colleganza con i dicta di C. Stato, Sez. VI, 4 febbraio 2020, n. 881, in Giur. it., 2020, 1738; C. Stato, Sez. VI, 8 aprile 2019, n. 2270 (in questa Rivista, 2019, 377 ss., seguita dal commento di Crisci, Evoluzione tecnologica e trasparenza nei procedimenti “algoritmici”); C. Stato, Sez. VI, 13 dicembre 2019, n. 8472 (in Nuova giur. civ. comm., 2020, 809) e C. Stato, Sez. VI, 13 dicembre 2019, n. 8474 (in questa Rivista, 2020, 333, con commento di Ferrari, La complessità della digitalizzazione e dell’uso degli algoritmi nella PA, ivi, 337). Ad ogni modo, con riferimento unicamente ai più recenti ed in mero ordine cronologico v.: Auby, Administrative Law Facing Digital Challenges, in Eur. Rev. of Digital Admin. & Law, 2020, 7 ss.; Cavallaro, Imputazione e responsabilità delle decisioni automatizzate, in Eur. Rev. of Digital Admin. & Law, 2020, 69 ss.; Orofino, The Implementation of the Transparency Principle In the Development of Electronic Administration, in Eur. Rev. of Digital Admin. & Law, 2020, 123 ss.; Mula - Maggio, Strumenti negoziali per l’utilizzo di dati pubblici, in Gambino - Stazi (a cura di), La circolazione dei dati, Pisa, 2020, 151 ss.; Cavallo Perin, Ragionando come se la digitalizzazione fosse data, in Dir. amm., 2020, 305 ss.; Sola, L’automatizzazione dell’azione amministrativa, in <www.federalismi.it>, 2020; Maglione, La Pubblica Amministrazione “al varco” dell’Industria 4.0: decisioni automatizzate e garanzie procedimentali in una prospettiva human oriented, in <www.federalismi.it>, 2020; Di Martino, Intelligenza artificiale, garanzie dei privati e decisioni amministrative: l’apporto umano è ancora necessario? Riflessioni a margine di Cons. Stato 8 aprile 2019, n. 2270, in Riv. internaz. studi eur., 2019, 48 ss.; Muselli, La decisione amministrativa nell’età degli algoritmi: primi spunti, in <http://www.astrid-online.it/static/upload/1-20/1-2020-musselli1.pdf>; Vernile, Verso la decisione amministrativa algoritmica, in Riv. dir. media, 2020, 2, 137 ss.; Raganelli, Decisioni pubbliche e algoritmi: modelli alternativi di dialogo tra forme di intelligenza diverse nell’assunzione di decisioni amministrative, in <www.federalismi.it>, 2020; Benettazzo, ICT e nuove forme di interazione tra cittadino e Pubblica Amministrazione, in Riv. dir. media, 2020, 2, 262 ss.; Pardolesi - Davola, Algorithmic legal decision making: la fine del mondo (del diritto) o il paese delle meraviglie?, in Quest. giust., 2020, 1, 104 ss.; Sola, La giurisprudenza e la sfida dell’utilizzo di algoritmi nel procedimento amministrativo, in <https://www.giustamm.it/ga/ id/2020/2/25828/g>; Civitarese Matteucci, Umano troppo umano. Decisioni amministrative automatizzate e principio di legalità, in Dir. pubbl., 2019, 5 ss.; Carloni, Algoritmi su carta. Politiche di digitalizzazione e trasformazione digitale delle amministrazioni, in Dir. pubbl., 2019, 363 ss.; Cavallaro - Smorto, Decisione pubblica e responsabilità dell’amministrazione nella società dell’algoritmo, in <www.federalismi.it>, 2019; Galetta - Corvalàn, Intelligenza Artificiale per una Pubblica Amministrazione 4.0? Potenzialità, rischi e sfide della rivoluzione tecnologica in atto, in <www.federalismi.it>, 2019; Mancarella, Algoritmo e atto amministrativo informatico: le basi nel CAD, in questa Rivista, 2019, 469 ss.; Delgado, Automazione, intelligenza artificiale e pubblica amministrazione: vecchie categorie concettuali per nuovi problemi?, in Istituz. del federalismo, 2019, 643 ss.; Simoncini, Profili costituzionali della amministrazione algoritmica, in Riv. trim. dir. pubbl., 2019, 1149 ss.; Vaccari, Note minime in tema di Intelligenza Artificiale e decisioni amministrative, in <www.giustamm.it>, 2019; Otranto, Decisione amministrativa e digitalizzazione della p.a., in <www.federalismi.it>, 2018. Per profili operativi v. Bacci - Frieri - Sparaco, Trasformazione digitale & smart working nella pubblica amministrazione. Visioni e pratiche, Rimini, 2020; Quattrone - Naccari Carlizzi, L’intelligenza artificiale nella Pubblica Amministrazione, un percorso verso il data management, in <https://www. ai4business.it/intelligenza-artificiale/lintelligenza-artificiale-nella-pubblica-amministrazione-un-percorso-verso-il-data-management/>. Sui temi dell’intelligenza artificiale, in termini più ampi, senza particolari approfondimenti tecnici, si possono inoltre consultare: Trezza, Diritto e intelligenza artificiale, Pisa, 2020; Faro - Frosini - Peruginelli (a cura di), Dati e algoritmi. Diritto e diritti nella società digitale, Bologna, 2020; Proietti, La responsabilità nell’intelligenza artificiale e nella robotica. Attuali e futuri scenari nella politica del diritto e nella responsabilità contrattuale, Milano, 2020; Alpa (a cura di), Diritto e intelligenza artificiale, Pisa, 2020; Taddei Elmi - Contaldo (a cura di), Intelligenza artificiale. Algoritmi giuridici. Ius condendum o “fantadiritto”?, Pisa, 2020 (ove Gorga, L’intelligenza Artificiale nella Pubblica Amministrazione, 137 ss.); Dorigo (a cura di), Il ragionamento

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In questa direzione – anche per quello che si dirà in seguito – appare degna di essere rimarcata un’altra previsione, sempre ad opera del citato Decreto, laddove si stabilisce che «I rapporti tra il cittadino e la pubblica amministrazione sono improntati ai principi della-collaborazione e della buona fede» (5). Un apparente “luogo comune” di portata ben superiore di quanto sembri ad una prima, disattenta, lettura. E i social network (e social media), di cui si parlerà di qui ad un presso, rientrano, a pieno titolo, in quell’humus tecnologico del quale necessariamente prendere atto, probabilmente quale ricaduta dell’impiego da parte delle pubbliche amministrazioni non solo del “diritto dei privati”, ma pure dei loro strumenti.

2. I social network/social media: avanti a piccoli passi, con qualche incomprensione di fondo

Secondo una definizione ad ampio spettro, i social network sono identificati come «un servizio informatico on line che permette la realizzazione di reti sociali virtuali. Si tratta di siti internet o tecnologie che consentono agli utenti di condividere contenuti testuali, immagini, video e audio e di interagire tra loro. Generalmente i social network prevedono una registrazione mediante la creazione di un profilo personale protetto da password e la possibilità di effettuare ricerche nel database della struttura informatica per localizzare altri utenti e organizzarli in gruppi e liste di contatti. Le informazioni condivise variano da servizio a servizio e possono includere dati personali, sensibili (credo religioso, opinioni politiche, inclinazioni sessuali ecc.) e professionali. Sui social network gli utenti non sono solo fruitori, ma anche cre-

giuridico nell’era dell’intelligenza artificiale, Pisa, 2020; Ruffolo (a cura di), Intelligenza artificiale. Il diritto, i diritti, l’etica, Milano, 2020 (ove Patroni Griffi, Intelligenza artificiale: amministrazione e giurisdizione, 475 ss.); Uricchio - Riccio - Ruffolo (a cura di), Intelligenza artificiale tra etica e diritti, Prime riflessioni a seguito del Libro bianco dell’Unione europea, Bari, 2020; Calzolaio, La decisione nel prisma dell’intelligenza artificiale, Milano, 2020; Avanzini, Decisioni amministrative e algoritmi informatici. Predeterminazione, analisi predittiva e nuove forme di intelligibilità, Napoli, 2018. Per una lettura illustrativa, è sufficiente Longo - Scorza, Intelligenza Artificiale, L’impatto sulle nostre vite, diritti e libertà, Milano, 2020. Si segnalano, infine, il Libro Bianco sull’Intelligenza Artificiale al servizio del cittadino, del marzo 2018, a cura della Task force sull’Intelligenza Artificiale dell’AgID, in <https://ia.italia.it/assets/librobianco.pdf> (sul quale v. Tresca, I primi passi verso l’Intelligenza Artificiale al servizio del cittadino: brevi note sul Libro Bianco dell’Agenzia per l’Italia digitale, in Riv. dir. media, 2018, 3, 240 ss.) e Gruppo di esperti MISE sull’intelligenza artificiale, Proposte per una strategia italiana per l’intelligenza artificiale, luglio 2019, in <www.mise.gov.it>. Si omettono, comprensibilmente, i riferimenti ad analoghe iniziative assunte in sede europea.  (5) Comma 2-bis dell’art. 1 della l. n. 241 del 1990, inserito dall’art. 12, comma 1, lett. 0a), del d.l. n. 76 del 2020, come convertito dalla l. n. 120 del 2020. Disposizione analoga è nell’art. 10 della l. n. 212 del 2000 (Statuto del contribuente).


SAGGI atori di contenuti. La rete sociale diventa un ipertesto interattivo tramite cui diffondere pensieri, idee, link e contenuti multimediali» (6). La definizione, proprio per il suo raggio d’azione estremamente allargato, consente di cogliere la differenza tra social network e social media. Questi ultimi consistono in mezzi di comunicazione – in genere su piattaforme  (7) – che rendono possibile l’interazione dei rispettivi utenti riguardo un determinato argomento; i social network, invece, costituiscono, anche se collegati ad una tematica specifica, una forma di (infra)struttura sociale (8). Nella loro dimensione di strumento di “dialogo” hanno consentito, quasi subito, di ‘ragionarli’ quale forma di “contatto” sia nell’ambito privatistico che in quello pubblicistico. Sul versante business, c’è ben poco che si possa aggiungere in queste righe che non sia già noto ai più. I social network costituiscono una delle maggiori forme di remunerazione (e di controllo) che i big players

(6) Treccani, Enciclopedia on line, Voce Social network, all’indirizzo: <http://www.treccani.it/enciclopedia/social-network>.  (7) Sulle “piattaforme” v. Canepa, I mercanti dell’era digitale. Un contributi allo studio delle piattaforme, Torino, 2020; Conti, Lineamenti di diritto delle piattaforme digitali, vol. I, Rimini, 2020. Considerazioni generali in Ammannati, Verso un diritto delle piattaforme digitali?, in <www.federalismi. it>, 2019.  (8) I social network /social media, sulla base di una loro classificazione per macro-aree rispetto all’offerta (vedi <http://en.wikipedia.org/wiki/ Social_networking_websites>), si distinguono nei seguenti ambiti generali: 1. Relazione Strumenti che permettono all’utente di relazionarsi con altri e per comunicare, raccogliere e divulgare informazioni ai componenti della propria community. Spesso utilizzata dalle aziende per la sola comunicazione. Tale tipologia di Social Media include: - portali di blogging e microblogging (Twitter, Tumblr); - reti sociali (Facebook; Badoo); - reti professionali (LinkedIn); - portali per l’organizzazione di eventi (Meetup, Evite). 2. Condivisione di interessi Strumenti che permettono all’utente di condividere informazioni e dati multimediali (musica, foto, video, etc.) in modo da garantire un’ampia divulgazione delle informazioni condivise. Le informazioni che tale tipologia di Social Media permette di condividere includono: - foto (Flickr, Instagram, Pinterest); - video (YouTube); - musica (Last.fm, Soundcloud; Pandora); - presentazioni (Slideshare); - geolocalizzazione (Foursquare); - navigazione (Waze). 3. Collaborazione Strumenti che permettono all’utente di collaborare con i membri della community e di coordinarsi. Tale tipologia di Social Media include: - piattaforme per la condivisione di informazioni (Wikis, Forum); - strumenti per la gestione documentale (Google Drive); - strumenti per le riunioni a distanza (Google Meet; Microsoft Teems; Zoom; Webex meet); - media per la gestione di informazioni provenienti da una varietà di fonti differenti (Delicious, Feed aggregator); - online gaming (World of Warcraft); - simulazione sociale (Second Life).

di Internet hanno a loro disposizione. Anche gli utenti “professionali” – cioè quelli che non li utilizzano per mero diletto – ne hanno colto le potenzialità, specie per poter realizzare, compiutamente, quella customers relationship che presuppone un effettivo dialogo one-toone per la personalizzazione di prodotti e servizi; ciò ha costituito, per molti anni, uno dei ‘feticci’ di Internet. L’obiettivo di una comunicazione ‘globale’, infatti, si scontrava con la materiale impossibilità per un soggetto (nel caso di specie una impresa) di poter realmente interagire con i suoi interlocutori, donde situazioni, più o meno efficacemente simulate, grazie ad aggregazioni statistiche, attraverso le quali si aveva l’idea – ma solo l’idea – di un contatto diretto. Sarà forse per la suggestione dell’agire iure privatorum della pubblica amministrazione che anche quest’ultima non solo ne acquisisce lo strumentario giuridico ma pure le ‘infrastrutture’ e lo stesso “ambiente” nel quale è immerso ora il mondo appannaggio dei soggetti privati. Questo mix tra pubblico e privato, mediato – è il caso di dire – dal social, va tenuto presente poiché genera delle ripercussioni nella compresenza, sullo stesso mezzo, di persone fisiche che ‘rappresentano’ una istituzione pubblica e le stesse persone che, in momenti temporali che possono anche sovrapporsi, rappresentano la rispettiva esperienza di vita, con dinamiche e conseguenze non del tutto perfettamente circoscrivibili. L’ambito pubblico, proprio a cagione di detta compresenza, si configura, quindi, quale sorta di “riassunto” delle problematiche con, in più, va da sé, l’assolvimento delle finalità dell’operare per interessi di livello più elevato di quelli, diciamo, connotati da un prevalente individualismo. L’operare con gli strumenti ‘privatistici’ – laddove consentito – non dovrebbe, infatti, far perdere di vista la matrice giuridica specifica del contesto pubblicistico, a cominciare dall’ovvio richiamo ai canoni del buon andamento e imparzialità dell’agire amministrativo, secondo lo stilema fondamentale di cui, in primis, all’art. 97 cost. Dacché è stato progressivamente avviato il “popolamento” dei social anche da parte delle pubbliche amministrazioni, innestando, ad una iniziale attività di tipo meramente “promozionale”, forme sempre più marcate di “dialogo” bidirezionale, funzionale alla stessa conduzione delle attività amministrative (9). Per la comunicazione monodirezionale – priva, fisiologicamente, di una possibile interazione ‘significativa’ – l’adeguamento alla telematica della pubblica amministra-

(9) Per le statistiche mondiali (con focus specifici sui singoli paesi) sull’uso di Internet e gli utenti di social network cfr. Digital 2020, realizzato da We are social e Hotsuite, in <https://wearesocial.com/digital-2020> (il Report sull’Italia è in <https://wearesocial.com/it/digital-2020-italia>).

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SAGGI zione ha fatto ricorso all’utilizzo dei siti web istituzionali che, pur mimando, in qualche misura, le logiche di tipo business, restano ancora oggi ancorati ad una sostanziale staticità (o, meglio, ad una ridotta variabilità), posto l’obiettivo “dichiarativo” dei loro contenuti. Ne è una riprova il livello medio (per non dire scadente) del loro aggiornamento che viene effettuato, senza particolare attenzione alla coerenza con il tessuto semantico complessivo, finendo per tradursi in un ‘patchwork’, fino al momento in cui viene decisa la periodica revisione integrale del sito. Revisione che, spesso, soggiace più alle regole dell’‘immagine’ e del ‘marketing’ (restiamo, cioè, nel citato ambito business) che non della sistematicità dell’impianto che, pur nella forma, resta pur sempre un’espressione del “potere pubblico” (10). Il marketing suggerisce un approccio friendly, per cui è stato tutto sommato scontato trasporre le indicazioni contenute nei paludati siti web istituzionali in una cornice “social”. I cittadini-utenti, pertanto, con limitate funzioni di reale “interlocuzione”, in un “ambiente” a loro conosciuto e frequentato, vi trovano le informazioni più recenti e la relativa documentazione (11). Come è stato giustamente osservato, alla progressiva proliferazione di pagine e profili “social” ufficialmente utilizzati come account istituzionali di PA ed Enti pubblici, non è seguita la predisposizione di adeguati meccanismi di ascolto e interazione in grado di completare il passaggio «passando da una tradizionale concezione “analogica”, basata su un sistema comunicativo autoreferenziale e verticale ad una moderna concezione “digitale”, espressione di una relazione dinamica e orizzontale con i cittadini, non più soltanto fruitori passivi di informazioni, ma, al contempo, co-creatori di contenuti distribuiti e accessibili in ambiente virtuale a tutta la comunità degli utenti» (12). In effetti, si constata che le pubbliche amministrazioni, seguono il flusso dei loro interlocutori, “mimando” le dinamiche web, senza che vi sia – alla base – una valutazione ponderata delle tipologie, delle modalità e delle conseguenze che comporta l’uso di social network. Ogni social, infatti, ha una sua ‘struttura’ ed una “idea” rappresentativa del ‘contatto’ che sviluppa con i propri  (10) Si pensi, ad esempio, al “vezzo” dei loghi adottati dalle pubbliche amministrazioni (cfr., di recente, quello dell’ANAC e del Garante privacy).  (11) Vale un mero richiamo all’abitudine dell’attuale Presidente del Consiglio di utilizzare i social (per esempio la sua pagina personale su Facebook), per le comunicazioni sull’emergenza da Coronavirus (abitudine, a ragione, stigmatizzata. Cfr., tra tanti, Zapponini, Tutti contro Conte (e la sua comunicazione). Cronaca di una debàcle, in < https://formiche. net/2020/03/conte-coronavirus-facebook-comunicazione/>).  (12) Guarnaccia - Alù, Pubblica amministrazione e social media. Criticità e prospettive future, in Cassano - Previti (a cura di), Il diritto di Internet nell’era digitale, Milano, 2020, 1003 ss.

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utenti. Facebook, non è uguale a Twitter, né entrambi assomigliano per nulla a YouTube. Andrebbe, pertanto, sviluppato un coerente codice comunicativo affinché quanto la pubblica amministrazione vuole ‘rappresentare’ sia coerente con lo strumento. Altrimenti lo strumento si riduce ad una forma senza alcuna sostanza. Al momento, invece, l’atteggiamento che si coglie e che si tratta di una mera presenza ‘statica’ in cui il solo incremento (se lo strumento è utilizzato correttamente) è di natura informativa. Per una social-pa si è ancora molto lontani, anche perché, se poi la logica dei social viene seguita fino in fondo, occorre tener conto accuratamente della gestione delle richieste ma anche del conseguente feedback (13). Non solo – come già accade – vanno ‘registrate’ le “domande” ma poi vanno anche valutate le “reazioni”. Un sistema di pa-advisor è molto distante dalle “faccine” che piacevano all’ex Ministro Brunetta e le conseguenze della web reputation potrebbero essere, neanche a dirlo, molto gravose. L’utilizzo dei social network ha tuttavia incrementato a dismisura le potenzialità di “dialogo” con gli interessati generando, altresì, una progressiva spinta verso la fornitura di servizi pubblici se (ancora) non propriamente on demand, di certo connotati da una maggiore possibilità di customizzazione. E’ il caso, per esempio, della sanità digitale, laddove – attraverso apposite app – si possono prenotare e pagare le visite, nonché gestire l’attesa, il videoconsulto e, infine, ricevere i relativi referti via web (14). Il riferimento alle app non è peregrino poiché queste spesso costituiscono – per gli smartphone – chiave di accesso ed elemento dei “servizi” dei social stessi. Due esempi, giustapposti, varranno ad illustrare, semmai servisse, quanto appena indicato. La nota app per il tracciamento dei soggetti risultati positivi al Coronavirus (l’app “Immuni”), deve molto del suo limitato successo – lasciando perdere altre questioni – alla sua mancata integrazione con il sistema sanitario nazionale (e, soprattutto, regionale), per cui risulta ‘scollegata’ alle piattaforme – anche social – di coloro che, poi, avrebbero dovuto materialmente “prendere in carico” l’utente positivo (o sospetto tale). La miscellanea

(13) Conti - Pietrangelo - Romano (a cura di), Social media e diritti. Diritto e social media, Napoli, 2018 e, più di recente, Lovari, Social media e pubblica amministrazione tra diritti e doveri: una prospettiva sociologica, in Riv. it. informat. e diritto, 2019, 87 ss.  (14) V., per esempio, Cosmai - Perrone, Digital Health - Come app, telemedicina, intelligenza artificiale stanno ridisegnando l’assistenza sanitaria, Milano, 2020. Per un quadro ufficiale più recente (si fa per dire, posta la risalenza del set dei dati di riferimento) della diffusione degli strumenti ICT in ambito pubblico cfr. ISTAT, Pubblica amministrazione locale e ICT – anno 2018, Report diffuso nell’aprile 2020, in <https://www.istat.it/it/files//2020/04/Report_Ict_AP_LOCALI_2018.pdf>.


SAGGI tra ‘on line’ (Immuni) e l’’off line’ (le telefonate da fare, con esiti approssimativi) è la prova di un discorso interrotto perché, ad un certo punto, si vorrebbe seguire una logica affatto diversa, segno evidente che si è dimenticata una occhiata, anche se distratta, al quadro d’insieme. Con il d.P.C.m. 18 ottobre 2020 e con il decreto c.d. “Ristori” si è, rispettivamente, ‘connessa’ detta app ai dipartimenti di prevenzione delle aziende sanitarie locali (Asl, Ats o Usl), nonché istituito «un servizio nazionale di supporto telefonico e telematico alle persone risultate positive al virus SARS-Cov-2, che hanno avuto contatti stretti o casuali con soggetti risultati positivi o che hanno ricevuto una notifica di allerta attraverso l’applicazione ‘Immuni’». Meglio tardi che mai. L’altrettanto nota app “Io”, spinta dalla promessa di un parziale cashback per gli acquisti effettuati con sistemi di pagamento digitali, forse avrà una sorte più rosea (15). Tacendo le difficoltà tecniche del sistema ed i problemi di privacy (16), questa ‘risorsa’ è stata concepita, ai sensi dell’art. 64-bis del CAD, per costituire l’accesso ai servizi resi disponibili, in chiave digitale, dalle pubbliche amministrazioni. In una logica, quindi, di più ampio respiro, in linea con gli obiettivi di digitalizzazione, semplificazione e qualità dei servizi della Pubblica amministrazione, slogan immancabile di ogni Governo degli ultimi venti anni (17).

3. Le regole per l’utilizzo dei social network da parte delle pubbliche amministrazioni

Come spesso accade per le tematiche riguardanti Internet (e ciò che in esso vi ruota), è invalsa una (non) scelta (politica) di ‘riservare’ la disciplina regolatoria all’ambito contrattuale, lasciando fuori quadro la costruzione di un set di indicazioni giuridiche (18). La tecnica ha,

(15) Il progetto Cashback, è stato istituito dall’art. 1, commi 288 ss. della l. 27 dicembre 2019, n. 160 e successivamente emendato dai decreti “Rilancio” e “Agosto” (dd.ll. n. 34 del 2020 e n. 104 del 2020). Sono poi seguiti, da parte del Ministero dell’Economia e delle Finanze, il d.m. 24 novembre 2020, n 156 e la Comunicazione di avvio del 4 dicembre 2020.  (16) Sempre, tra tanti, v. Rapetto, Il masochismo di Stato: app Io e cashback meglio di un feroce bondage, in <https://www.infosec.news/2020/12/08/ editoriale/il-masochismo-di-stato-app-io-e-cashback-meglio-di-un-ferocebondage/>.  (17) Se ne parla, ovviamente, anche nel recente Piano nazionale italiano per la ripresa e la resilienza (PNRR), nonché nel Piano Triennale per l’informatica nella Pubblica Amministrazione 2020-2022, scaricabile da <https:// www.agid.gov.it/it/agenzia/piano-triennale>.  (18) Per i rapporti con i social network, in prima approssimazione, v. la sintetica ricostruzione di C. Perlingieri, Profili civilistici dei social networks, Napoli, 2014; Camilletti, Alcune considerazioni sui profili giuridici dei social network, in Contratti, 2017, 451 ss.; qualche osservazione anche da parte di Mariani, I social network, in Celentano (a cura di), Manuale breve di informatica del giurista, II ed., Pisa, 2020, 52 ss. Per le relazioni sui social v. Vittadini, Social media studies. I social media alla soglia della maturità: storia, teorie e temi, Milano, 2018.

per il momento, sopravanzato il diritto, lasciando campo libero alle (poche) grandi società che monopolizzano l’ambiente digitale in cui oggi tutti intendono agire (19). Anche per i social network, quindi, non si registra una regolamentazione specifica, almeno minimale, riguardante – per quello che qui interessa – il loro impiego da parte delle pubbliche amministrazioni (20). Esistono, tuttavia, delle disposizioni generali sulla pubblica amministrazione “digitale” che possono fornire, se non altro, alcuni principi base per un primo orientamento. Quando si parla di “pubblica amministrazione digitale” non può non sorgere un immediato collegamento con il già menzionato Codice dell’amministrazione digitale le cui modifiche più recenti (ad es. con il d.lgs. n. 217 del 2017) perseguono l’obiettivo di promuovere e rendere effettivi i diritti di cittadinanza digitale. Il Codice è stato quindi rafforzato – quale carta di cittadinanza digitale – con disposizioni volte ad attribuire a cittadini e imprese i diritti all’identità e al domicilio digitale, alla fruizione di servizi pubblici on line e mobile oriented, a partecipare effettivamente al procedimento amministrativo per via elettronica e a effettuare pagamenti on line. Ad es. per accedere ai servizi online dell’INPS, dal 1° ottobre 2020, è obbligatorio possedere un’identità digitale (lo SPID). La “conoscibilità” dell’operato della pubblica amministrazione, a parte quanto indicato nella l. n. 241 del 1990, è poi dettato dal d.lgs. n. 33 del 2013, recante il Riordino della disciplina riguardante il diritto di accesso civico e gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni (21). Ed appare evidente che anche la “presenza” strutturata sui social, così come quella attraverso siti istituzionali, sia parte integrante della comunicazione cui è fatto obbligo alle pubbliche amministrazioni, in quanto la conoscibilità delle loro attività (e la possibilità di partecipazione) appaiono ora ricondotti al rapporto tra Stato e cittadini, che prescinde dalla effettiva presenza di un rapporto “di servizio”, quale cittadino-utente (non è un caso che

(19) Com’è risaputo, le società che gestiscono piattaforme di social network capitalizzano enormemente la disponibilità dei dati personali resi fruibili gratuitamente dagli utilizzatori. Per ogni aspetto (critico) riferimenti scontati sono Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza, Roma, 2019; Sadin, Critica della ragione artificiale, Roma, 2019; Harari, Homo Deus. Breve storia del futuro, Firenze-Milano, 2017.  (20) Cfr. le osservazioni di Carotti, Algoritmi e poteri pubblici: un rapporto incendiario, in Giorn. dir. amm., 2020, 5 ss. Più in generale, per considerazioni critiche sul rapporto Internet/diritti, v. Celotto, I “non” diritti al tempo di internet, in questa Rivista, 2019, 235 ss.  (21) Faini, Tecnologie informatiche, pubblica amministrazione e cittadinanza digitale, in Cassano - Previti (a cura di), Il diritto di Internet nell’era digitale, op. cit., 1141 ss.

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SAGGI l’accesso civico, di cui al citato d.lgs. n. 33 del 2013, prescinda da un interesse specifico del richiedente) (22). Restando all’ambito puramente “comunicativo” viene considerato applicabile anche quanto previsto dalla l. n. 150 del 2000 che, nel dettare la Disciplina delle attività di informazione e di comunicazione delle pubbliche amministrazioni, con lungimiranza, non ha indicato un numero “chiuso” di possibili strumenti, lasciando lo spazio, per il perseguimento delle specifiche finalità di cui all’art. 1, comma 5, all’impiego di «ogni mezzo di trasmissione idoneo». Ne risultano compresi, pertanto, anche nuovi strumenti derivanti da applicazioni informatiche e telematiche (si pensi, per es., alle già menzionate app), tra i quali, per l’appunto, i social network (23). Al termine del nostro percorso si vedrà se la comunicazione sia destinata a restare tale.

4. Segue: le regole per i dipendenti pubblici ed il “travaso” delle decisioni della giurisprudenza

Se ora volgiamo lo sguardo all’uso dei social network da parte dei dipendenti pubblici, ci troviamo di fronte ad una situazione affatto variegata. Da una parte ci sono le norme contrattuali che regolamentano l’utilizzo delle diverse piattaforme ma, dall’altra parte, vi sono gli obblighi discendenti dalla condizione – che, per certe situazioni, può essere peculiare (come nel caso degli appartenenti alle forze dell’ordine o ai corpi militari) – derivante dalle regole applicabili al pubblico impiego. Tutto ciò è reso ancor più complesso dall’intrecciarsi di due situazioni che possono, reciprocamente, interrelarsi come già rappresentato: l’uso del social network relativo al ‘profilo’ dell’ente pubblico contrapposto (o, comunque, in potenziale contrasto) a quello del dipendente, impiegato nella sua vita privata. Ai social network possono accedere – come utenti – infatti anche i dipendenti pubblici che possono liberamente esprimere le proprie opinioni facendo attenzione a non violare il Codice di comportamento, di cui al d.P.R. n. 62 del 2013. La par-

(22) Rossa, Trasparenza e accesso all’epoca dell’amministrazione digitale, in Cavallo Perin - Galetta; Il diritto dell’amministrazione pubblica digitale, op. cit., 247 ss.; Tessaro - Bertin, Come cambia la trasparenza amministrativa dopo il GDPR e il nuovo Decreto Privacy, Rimini, 2019.  (23) Su tale uso si segnala – quale riferimento ormai “storico” – il Vademecum “Pubblica Amministrazione e social media”, realizzato dal Formez e pubblicato nel dicembre 2011 dal Ministero per la Pubblica Amministrazione e la Semplificazione che, senza alcun carattere vincolante, fornisce alcune raccomandazioni e suggerimenti (Il Vademecum è riportato in <https://docs.google.com/file/d/0B-9LwViHbVWkZXJCT0h5cXNMR3M/edit?pli=1>). Il Vademecum reputa positiva la presenza “social” in quanto, oltre agli aspetti comunicativi, risponde agli obiettivi di “cittadinanza digitale”, attuata per il tramite delle tecnologie (cfr. l’art. 3 e 9 del CAD). Il Vademecum è stato successivamente aggiornato in Talamo - Di Costanzo - Crudele (a cura di), Social media e PA, dalla formazione ai consigli per l’uso, Roma, 2018.

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tecipazione ai social – seppur come “soggetto privato” – avviene in uno spazio pubblico, per cui il dipendente è tenuto a mantenere il contegno ed un comportamento che non leda gli interessi ed il rispetto dell’Ente. La questione è stata ribadita, da ultimo, anche dall’ANAC, con la delib. n. 177 del 2020, relativa alle «Linee guida in materia di Codici di comportamento delle amministrazioni pubbliche» (24). Per la disciplina dell’utilizzo dei social network, quale ‘ambiente’ di lavoro, molte pubbliche amministrazioni si sono dotate di uno specifico strumento regolamentare, denominato “Social media policy” (25). Si tratta, per lo più di primi “modelli organizzativo-gestionali”, su una materia culturalmente (e giuridicamente) molto scivolosa, come comprovato, senza bisogno di ulteriori glosse, dalla nuova versione dell’art. 4 dello Statuto dei lavoratori, ad opera del Jobs Act, che ha indotto ad una comprensibile prudenza nel tagliare le gambe a strumenti che pur si vuole che siano utilizzati. Nel quadro sommariamente descritto diventa quindi giocoforza trasformare in “regole” (o, quantomeno, in “indirizzi”), le indicazioni di provenienza giurisprudenziale, restando nei limiti di una rassegna di mero orientamento (26). Non è questa la sede idonea per una disamina più articolata che richiederebbe di provare a ricondurre “a sistema” indicazioni che scontano, anche per i nostri giudici, i limiti di soluzioni a problemi contingenti, sulla base di un quadro particolarmente

(24) L’utilizzo dei social può inoltre generare dei rischi (in primis reputazionali) alla PA, per cui deve essere tenuto presente sia con riferimento ai temi della sicurezza telematica e del trattamento dei dati personali, sia di quelli inerenti il Piano anticorruzione e trasparenza. Sul fronte della sicurezza, in particolare, l’utilizzo dei social network, sia esso in ambito pubblico che privato, è particolarmente critico, specie quando ad accedere ai social è il dipendente attraverso suoi dispositivi personali. I principali rischi sono i seguenti: a) violazione dei profili di identificazione delle persone; b) profilazione dei “contatti” sui social; c) acquisizione di informazioni personali attraverso i dati personali ed altre informazioni ‘postate’ (es: la geolocalizzazione); d) divulgazione involontaria di notizie e documenti che dovrebbero restare riservati; e) reati digitali (stalking, furto di identità, frodi informatiche, etc.). CLUSIT, Rapporto 2020 sulla sicurezza ICT in Italia, in <https://clusit.it/ rapporto-clusit/>; CLUSIT, La sicurezza nei social media. Guida all’utilizzo sicuro dei Social Media per le aziende del Made in Italy, in <https://social. clusit.it/_files/download/sicurezza_social_media.pdf>. Vale la pena di osservare che tra i prodigi dell’Intelligenza artificiale vi sono proprio gli usi criminali, in particolare utilizzando l’IA secondo il modello Crime-as-a-Service (CaaS).  (25) Per un esempio v. la Social media policy del Ministero dello Sviluppo economico in <https://www.sviluppoeconomico.gov.it/index.php/it/ social-media-policy>, nonché quella del Ministero Affari Esteri, in <https://www.esteri.it/mae/resource/doc/2016/02/social_media_guidelines.pdf>.  (26) Indicazioni “ragionate” su altri precedenti sono fornite da Falletti, I social network: primi orientamenti giurisprudenziali, in Corr. giuridico, 2015, 992 ss.


SAGGI fluido. La ‘stratificazione’ degli orientamenti, in effetti, può celare delle incomprensioni di fondo, per le quali sembra ancora lontano un idoneo intervento regolamentare (27).

4.1. L’utilizzo dei social network da parte della pubblica amministrazione

Nell’ambito dell’utilizzo dei social network da parte delle pubbliche amministrazioni vi rientrano, tra le ipotesi più note, le seguenti situazioni: a) acquisizione di informazioni per ‘profilare’ i soggetti in vista di selezioni/colloqui di assunzione; b) uso dei social network quale mezzo di comunicazione tra i dipendenti e l’Ente; c) controlli sull’utilizzo da parte dei dipendenti di Internet/social. Rispetto al primo ambito è prassi consueta, per i responsabili del reclutamento di personale, compiere una verifica delle informazioni fornite dai candidati (per es. tramite il curriculum), controllando le loro attività “social”. Emergono, rispetto a questa forma di ‘controllo’, alcuni evidenti risvolti inerenti la tutela della personalità del candidato, più volte richiamati all’attenzione dal Garante. Sulla materia, l’art. 8 della l. n. 300 del 1970 (Statuto dei lavoratori) prevede il divieto per il datore di lavoro di compiere indagini, ai fini dell’assunzione – così come nel corso dello svolgimento del rapporto – sulle opinioni filosofiche, religiose, politiche o sindacali del lavoratore (che, tra l’altro costituiscono dati “particolari” ai sensi dell’art. 9 del Regolamento UE n. 679 del 2016 - GDPR), nonché su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale. Il sopra citato divieto di indagini per i datori di lavoro, richiamato dall’art. 113 del Codice privacy (d.lgs. n. 196 del 2003) (28), è confermato anche dall’art. 10 del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276 (c.d. Legge Biagi) ed esteso anche alle agenzie per il lavoro e altri soggetti pubblici e privati autorizzati o accreditati, che raccolgono e trattano dati dei candidati anche attraverso portali e siti Internet. Non mancano però le conseguenze anche a carico di colui che, su un social network “professionale”, inserisce un curriculum nel quale sono indicati dei requisiti soggettivi in realtà non posseduti ai fini di una selezione

(27) L’espressione va intesa cum grano salis, poiché innesterebbe tutto il dibattito, per nulla sopito, del rapporto tra le regole giuridiche e quelle tecniche (o tecnologiche). Per qualche spunto fecondo cfr. Irti, Il tessitore di Goethe (per la decisione robotica), in Riv. dir. proc., 2018, 1177 ss.  (28) L’articolo recita: «Resta fermo quanto disposto dall’articolo 8 della legge 20 maggio 1970, n. 300, nonché dall’articolo 10 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276».

per una assunzione a tempo determinato. Ne è seguito il recesso da parte datoriale, contestato con la richiesta di reintegrazione o di risarcimento del danno, richieste entrambe non accolte dal giudicante (29). Rispetto al secondo ambito, si segnala una decisione in cui un dipendente pubblico, in luogo di rappresentare le difficoltà emerse durante la prestazione lavorativa con i mezzi consueti, ha ‘esternato’ il suo disagio attraverso un ‘post’ sulla sua “bacheca Facebook” (30). Il TAR – nel confermare la sanzione disciplinare comminata – ha fatto presente come «i social network in particolare Facebook non possono essere considerati come siti privati, in quanto non solo accessibili ai soggetti non noti cui il titolare del sito consente l’accesso, ma altresì suscettibili di divulgazione dei contenuti anche in altri siti». Il dipendente può senz’altro manifestare il suo giudizio critico ma «ha utilizzato una modalità non consentita in quanto in grado di nuocere al prestigio dell’amministrazione» (31). Infine, l’argomento inerente i controlli delle amministrazioni sull’uso di Internet da parte dei dipendenti.

(29) Il ricorrente, mentendo, ha infatti violato il dovere di correttezza e buona fede durante le trattative. Trova applicazione, pertanto l’art. 1227 c.c.: «se si decurta dall’entità del risarcimento tutto l’ammontare di danno che sarebbe stato evitato se il ricorrente, comportandosi diligentemente e in modo corretto, avesse rispettato l’avviso di selezione (astenendosi dal partecipare a una gara che, palesemente, era rivolta ad altri soggetti, ovvero, facendo emergere sin da subito la mancanza del requisito richiesto nell’avviso), si giunge ad elidere completamente l’emolumento risarcitorio». Così, Trib. Trapani, sez. lav., 2 ottobre 2019, n. 522, in questa Rivista, 2020, 105 ss., con commento di Serrapica, Selezione per il reclutamento del personale delle società pubbliche e falso curriculum su LinkedIn, ivi, 108 ss.  (30) Nel caso di specie si trattava di un appartenente ad un corpo militare che, durante il servizio di vigilanza in occasione di Expo 2015 a Milano, aveva stigmatizzato la precaria situazione della tendopoli in cui era alloggiato il personale, allagatasi con la pioggia. La situazione deve, pertanto, tener conto della particolare situazione degli appartenenti alle forze miliari, soggetti ad alcuni più stringenti limiti riguardo alcuni diritti (come quello di espressione e di critica). Cfr. in particolare il d.lgs. n. 60 del 2010, ed il d.P.R. n. 90 del 2010.  (31) T.a.r. Friuli Venezia Giulia, 12 dicembre 2016, n. 562, in Dir. giust., 2016, 102, 15 ss., con nota di Milizia. In termini non dissimili, una sentenza della Suprema Corte che ha ribadito che «Il diritto alla libera manifestazione del pensiero, infatti, che dev’essere riconosciuto anche agli appartenenti alle forze armate, trova il suo limite giuridico nell’esigenza di tutela del decoro e del prestigio delle istituzioni, per cui la critica che trascenda nel gratuito oltraggio fine a se stesso integra gli estremi del vilipendio. Inoltre, l’inserimento della frase in questione in una bacheca Facebook è sufficiente ad integrare il requisito della pubblicità del messaggio vilipendioso, trattandosi di condotta potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o comunque elevato di persone» (Cass. pen., sez. I, 13 agosto 2019, n. 35988). Nel caso di specie, ad un ufficiale di marina è stata confermata la condanna per vilipendio della Repubblica, ex art. 81 c.p.m.p. La sentenza è pubblicata in questa Rivista, 2019, 765 ss., con commento di Crescioli, Il vilipendio commesso su Facebook tra vecchie e nuove problematiche, ivi, 767 ss.

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SAGGI La tematica è molto complessa poiché si trova in un crocevia tra l’“ordinario” impiego di strumenti telematici (compreso l’accesso ad Internet) per lo svolgimento della prestazione lavorativa, ed i controlli “a distanza” che sono consentiti, entro limiti divenuti incerti, a seguito della (malaccorta) revisione dell’art. 4 dello Statuto dei lavoratori, ad opera del c.d. Jobs Act. In via generale, il Garante – con le Linee guida per l’utilizzo della posta elettronica e internet nei luoghi di lavoro – ha suggerito l’adozione di un apposito disciplinare nel quale regolare, tra l’altro: - se e quando determinati comportamenti non sono tollerati rispetto alla navigazione in rete (ad esempio, download di software o di file musicali), oppure alla tenuta di file estranei all’attività lavorativa nella rete interna; - in quale misura è consentito utilizzare, anche per ragioni personali, servizi di posta elettronica o di rete, indicandone le modalità e l’arco temporale di utilizzo; - le disposizioni sull’utilizzo della posta elettronica “di servizio” ed i limiti al suo accesso da parte dell’amministrazione. Secondo la Suprema corte – indipendentemente dall’adozione di un codice disciplinare – è legittimo il licenziamento del dipendente che sul computer aziendale abbia installato un programma che consenta il download di foto e filmati pornografici (32). I controlli effettuati dal datore di lavoro – continua la Cassazione – non attengono al “controllo” dell’attività, quanto alla tutela del patrimonio aziendale, soprattutto se, nell’indagine, la verifica aveva riguardato il traffico dei dati di connessione, senza alcuna visione (o acquisizione) dei dati scaricati (33). Da ultimo, la Cassazione ha considerato legittimo il licenziamento di un dipendente che aveva effettuato interrogazioni su alcuni conti correnti dei clienti senza che tali operazioni risultassero giustificate da comprovate ragioni di servizio. La condotta contestata è stata rilevata mediante i controlli sugli strumenti IT ed i programmi software utilizzati dai lavoratori, che erano stati espressamente indicati dal datore di lavoro quale mezzo di verifica degli adempimenti in materia di tutela dei dati personali dei clienti (34). Di diverso avviso, invece, qualora l’accertamento degli accessi ad Internet ed alla posta elettronica sia avvenuto attraverso l’installazione di uno specifico programma informatico non autorizzato da un accordo sindacale o dall’Ispettorato del lavoro. In questo caso il licenziamen-

to disciplinare del lavoratore, accusato di avere reiteratamente visitato siti internet per fini extra lavorativi, è stato considerato illegittimo (35).

(32) Cass., sez. lav., 11 agosto 2014, n. 17859, in C.E.D. Cass., 2014.

(39) App. Ancona, 1 agosto 2003, in Lav. giur., 2004, 135 ss.

(33) Cass., sez. lav., 28 maggio 2018, n. 13266, in Foro it., 2018, I, 2357; Cass., sez. lav., 15 giugno 2017, n. 14862, in Leggi d’Italia, 2017.

(40) È il caso di un dipendente che si era connesso per fini personali ad Internet per 27 volte nell’arco di due mesi, restando collegato per 45 ore complessive (Cass., sez. lav., 13 giugno 2017, n. 14862, in Leggi d’Italia, 2017).

(34) Cass., 24 febbraio 2020, n. 4871.

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4.2. L’utilizzo dei social network da parte del lavoratore sul luogo di lavoro

Sul luogo di lavoro, la disponibilità di strumenti connessi ad Internet (per tacere dello smartphone), rendono possibile al dipendente utilizzare social network durante l’orario di servizio. Su questa problematica, la giurisprudenza oscilla tra una valutazione negativa ed una valutazione che cerca di tener in debito conto l’“ambiente” telematico in cui siamo tutti immersi (36). Sulla legittimità del licenziamento del dipendente troppo “connesso”, il Tribunale di Milano, fin dal 2001, aveva stabilito che il comportamento del lavoratore che si connette a Internet lungamente durante l’orario di lavoro e per un lungo periodo di tempo, qualora non dipenda da necessità lavorative, legittima il licenziamento per giusta causa, integrando tale comportamento un rilevante inadempimento degli obblighi contrattuali (37). Lo stesso collegio giudicante ha rigettato il ricorso di un dipendente licenziato per avere illegittimamente utilizzato Facebook ed Internet sul luogo di lavoro (38). Successivamente la Corte di Appello di Ancona ha rilevato l’illiceità del comportamento di un lavoratore che abbia trascorso del tempo per collegarsi per scopi personali ad Internet e a consultare i documenti scaricati con la rete telefonica pagata dall’azienda (39). Anche le decisioni di legittimità hanno ribadito, in più occasioni, come il continuo accesso ad Internet o alla propria pagina personale Facebook possa giustificare il licenziamento (40). Più di recente la Cassazione, con la sentenza 1 febbraio 2019, n. 3133, ha statuito che è legittimo il licenziamento di una impiegata part time che, nell’arco di soli

(35) Cass., sez. lav., 23 febbraio 2010, n. 4375, in Lav. giur., 2010, 992 ss., con nota di Barraco - Sitzia, Il problema dei “controlli difensivi” del datore di lavoro: estne saepe ius summum malitia?  (36) Seghezzi, I social network e le nuove frontiere dell’illecito disciplinare, in Lav. giur., 2018, 556 ss.  (37) Trib. Milano, 14 giugno 2001, in Not. giur. lav., 2001, 470 ss.  (38) Trib. Milano, ord., 1 agosto 2014. Nel caso di nella specie il lavoratore aveva scattato una foto all’interno dell’azienda per poi pubblicarla sul social network, condendola con frasi altamente offensive nei confronti del datore di lavoro, e aveva fatto più volte accesso a siti di carattere pornografico in giorni e orario di lavoro.


SAGGI 18 mesi, aveva effettuato circa 6.000 accessi ad Internet estranei all’ambito lavorativo, di cui almeno 4.500 circa sul suo profilo personale Facebook (41). Anche gli screenshot dei messaggi – relativi a “conversazioni” su Facebook con lo smartphone aziendale – sono stati considerati validi a provare la condotta del dipendente infedele che rivelava notizie aziendali e riservate ad imprese concorrenti (42). Non mancano tuttavia decisioni di segno opposto che tentano di effettuare un equilibrio tra l’uso di Internet e l’effettivo danno cagionato al datore di lavoro. Si consideri, infatti, che non è impossibile effettuare la prestazione lavorativa richiesta, sfruttando i fisiologici “tempi morti” per aprire le proprie connessioni. Il Tribunale di Firenze, per esempio, ha ritenuto illegittimo il licenziamento irrogato nei confronti di un dipendente che su 163 giorni nei quali ha effettuato almeno un collegamento a Internet in orario di lavoro, ha dedicato a tale attività mediamente circa 56 minuti giornalieri (43); il licenziamento è stato annullato anche sul presupposto che il datore di lavoro aveva sempre consentito un accesso alla rete Internet per motivi extra lavorativi, sia pure nei limiti della ragionevolezza e purché il sistema non fosse tenuto occupato per tempi eccessivi. Analogamente, la Corte di Cassazione, ha confermato l’illegittimità del licenziamento di un lavoratore che aveva dapprima scaricato sul computer aziendale alcuni file e poi utilizzato un programma di file sharing per condividerli con estranei, sul presupposto che il CCNL di riferimento, pur ricomprendendo tra i comportamenti passibili di sanzione disciplinare l’utilizzo improprio delle strumentazioni aziendali, vi riconduceva unicamente l’irrogazione di una sanzione conservativa; inoltre era stato valutato che dalla condotta del lavoratore non era emerso alcun danno per il datore di lavoro (44). Parimenti illegittimo è stato considerato il licenziamento di un lavoratore per l’uso del computer aziendale, delle reti informatiche aziendali e della casella di posta

(41) La sentenza è pubblicata in questa Rivista, 2019, 81 ss., seguita dal commento di Lanzara, Reiterati accessi a facebook, controlli del datore e licenziamento disciplinare, ivi, 83 ss., nonché in <https://www.altalex. com/documents/news/2019/02/07/social-network-licenziamento>, con commento di Romani, Troppo tempo su Facebook? Ok al licenziamento. Il precedente specifico è Trib. Brescia, 13 giugno 2016, n. 782.  (42) Trib. Bari, 10 giugno 2019, n. 2636, in <https://uniolex. com/wp-content/uploads/2019/06/Tribunale-di-Bari-sentenza-2636-del-10-giugno-2019.pdf>.  (43) Trib. Firenze, 7 gennaio 2008, n. 1218.  (44) Cass., sez. lav., 26 novembre 2013, n. 26397, in Prat. lav., 2014, 154 ss.; in Giur. it., 2014, 2523 ss., con nota di Foglia, Licenziamento disciplinare e sindacato giudiziale della proporzionalità.

elettronica se il datore di lavoro non prova un danno ulteriore (45).

4.3. L’utilizzo dei social network da parte del lavoratore fuori dall’ambito lavorativo

Un lavoratore dipendente – specie se pubblico – deve prestare attenzione anche ai suoi comportamenti fuori dell’orario di servizio, poiché può realizzare delle condotte contrarie all’immagine del datore di lavoro (46). Il licenziamento è stato considerato legittimo, per esempio, nelle seguenti fattispecie: - esercizio della prostituzione su siti Internet da parte di un dipendente pubblico (47); - inserimento nel proprio profilo personale Facebook di una foto nella quale il dipendente è ritratto mentre impugna un’arma (48); - inserimento su siti Internet, da parte della dipendente di una compagnia aerea, di foto pornografiche e di annunci contenenti offerte di prestazioni sessuali che identifichino la propria qualità di hostess e la compagnia datrice di lavoro (49). La Cassazione ha poi ravvisato gli estremi della diffamazione nella diffusione di un messaggio offensivo attraverso l’uso di Facebook per la potenziale capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone e, di conseguenza, integrando giusta causa di licenziamento (50).

(45) Cass., sez. lav., 2 novembre 2015, n. 22353, in Leggi d’Italia, 2015. Nello specifico, non era risultato in giudizio che la navigazione in Internet del dipendente avesse determinato una significativa sottrazione di tempo all’attività di lavoro.  (46) Alcune amministrazioni hanno fornito specifiche istruzioni ai dipendenti. V., per es., la circolare del Ministero dell’Interno, 24 ottobre 2019, n. 555DOC/C/SPEC/SPMAS/5428/19, recante «Utilizzo dei social network e di applicazioni di messaggistica da parte degli operatori della Polizia di Stato» (scaricabile dall’indirizzo: <https://www.asaps. it/68240-_ministero_dellinterno_utilizzo_dei_social_network_e_di_applicazioni_di_messaggi.html>) e, in precedenza, la circolare del Ministero della Giustizia, 20 febbraio 2015, n. 3660/6110, contenente «Precisazioni sull’uso dei social network da parte del personale dell’Amministrazione» (in <https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_8_1.wp?facetNode_1=0_28&facetNode_2=4_10&previsiousPage=mg_1_8&contentId=SDC1122254>).  (47) Cass., sez. lav, 22 giugno 2016, n. 12898, in Foro it., 2016, I, 2746.  (48) Trib. Bergamo, 24 dicembre 2015, in Lav. giur., 2016, 474 ss., con nota critica di Cosattini, I comportamenti extralavorativi al tempo dei social media: “postare” foto costa caro. Sullo stesso tema, Trib. Bergamo, 14 settembre 2016, in Arg. dir. lav., 2017, 493 ss. con commento di Cusumano, Rilevanza disciplinare dei comportamenti extralavorativi e diffusione di immagini a mezzo ‘ social network’.  (49) Trib. Roma, 28 gennaio 2009, in Riv. it. dir. lav., 2010, II, 32 ss.  (50) Cass., sez. lav., 27 aprile 2018, n. 10280, in Foro it., 2018, I, 2424; in Giur. it., 2018, 1956 ss., con nota di Tosi - Puccetti, Post denigratorio su Facebook, la leggerezza che per pubblicità diventa giusta causa. Nello stesso senso è anche Trib. Ivrea, 28 gennaio 2015, in Lav. giur., 2015, 837 ss.

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SAGGI L’”amicizia” su Facebook non è stata però considerata legittima causa di astensione in un concorso pubblico (51).

4.4. Il diritto di critica del lavoratore sui social network

L’esercizio del diritto di critica rispetto al datore di lavoro – soprattutto se connesso a rivendicazioni sindacali – è ammesso, per cui appare “ritorsivo” il licenziamento del lavoratore. Nel caso di specie si trattava di una chat non aperta a tutti  (52). E’ stato poi ritenuto illegittimo anche il licenziamento per condotte diffamatorie nei confronti di un dipendente, eletto nella rappresentanza sindacale aziendale, che in una chat su Facebook, riservata agli iscritti al sindacato, aveva espresso giudizi pesanti sul suo datore di lavoro, in quanto il contenuto di queste conversazioni deve essere considerato come corrispondenza privata (53). Diversa la situazione in cui le critiche su Facebook sono consistite in una «gratuita ed esorbitante denigrazione», e sarebbero state caratterizzate dalla «precisa intenzione di ledere, con l’attribuzione di un fatto oggettivamente

Trib. Milano 1° agosto 2014 (in Riv. it. dir. lav., 2015, II, 75 ss., con nota di Iaquinta - Ingrao), ha stabilito che: «È legittimo il licenziamento per giusta causa intimato al lavoratore che abbia insultato il proprio datore di lavoro su Facebook in quanto l’insulto non può essere considerato uno sfogo inelegante o intercalare di routine, ma una condotta idonea ad incrinare il vincolo di fiducia tra le parti del rapporto, soprattutto quando, data la pubblicità del profilo Facebook, lo stesso risulti visibile ad un numero significativo di contatti e senz’altro a tutti coloro che, conoscendo il lavoratore, siano in grado di comprendere a chi sia rivolto il turpiloquio». Diversamente, è stata dichiarata l’illegittimità, per violazione del principio di proporzionalità, del licenziamento per giusta causa intimato ad un lavoratore per aver pubblicato sulla propria pagina Facebook una critica alla clientela del proprio datore di lavoro che è rimasta visibile soltanto ad un numero ristretto di persone e per un breve periodo (Trib. Ascoli Piceno, 19 novembre 2013, in Riv. it. dir. lav., 2015, II, 75 ss.).  (51) Nel caso di specie – riguardante un concorso scolastico – il T.a.r. ha stabilito che «il funzionamento di Facebook consente di entrare in contatto con persone che nella vita quotidiana sono del tutto sconosciute»; inoltre, « non è chi non veda che nell’odierno modo di comunicare, qualunque occasione conviviale, anche del tutto episodica, può essere “catturata” con il telefono cellulare e repentinamente pubblicata sul social network». Pertanto – conclude la sentenza – laddove il riferimento alla “abitualità” della commensalità esclude, per pura logica, l’occasionalità della stessa, non è certo Facebook in sé che può concretizzare una delle cause di incompatibilità previste dall’art. 51 c.p.c., né, tanto meno, l’amicizia su Facebook può essere considerata indice di commensalità abituale (T.a.r. Cagliari, sez. I, 3 maggio 2017, n. 281, in Guida dir., 2017, 22, 42 ss.; in precedenza, con analoghe conclusioni, cfr. T.a.r. Genova, sez. II, 3 settembre 2014, n. 1330, in Foro amm., Il, 2014, 2382 ss.).  (52) Cass., sez. lav., 31 gennaio 2017, n. 2499, in Arg. dir. lav., 2017, 762 ss., con commento di Matarese.  (53) Cass., sez. lav., ord., 10 settembre 2018, n. 21965, in Foro it., 2018, I, 3927 ss.; in Giur. it., 2019, 137 ss., con nota di Tosi - Puccetti, Chat Facebook: se la riservatezza legittima la denigrazione del datore di lavoro.

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diffamatorio, la reputazione del proprio datore di lavoro» (54). Anche i “post” e i “like” possono generare delle conseguenze, come nel caso di un magistrato che aveva commentato, in termini non lusinghieri il Sindaco (55). Sui “like”, invece, si segnala una decisione che ha rilevato la valenza negativa del commento “mi piace” ad una notizia pubblicata su Facebook che «può ben comportare un danno all’immagine dell’amministrazione, e pertanto assume rilevanza disciplinare» (56).

4.5. Alcune fattispecie penali relative ai social network  (57)

Alcune fattispecie alle quali si riconnettono responsabilità penali valgono anche per i comportamenti tenuti sui social network. Tra questi meritano una menzione, quanto a ricorrenza, ad eccezione dell’ultimo, almeno quelli di seguito descritti. A) Il reato di diffamazione (art. 595 cod. pen.). L’offesa all’altrui reputazione – comunicando con più persone (è il caso dei “post” su Facebook) – è anche aggravata se l’offesa consiste nell’attribuzione di un determinato fatto, e se l’offesa è diffusa col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità (58). Sulla questione, la

(54) Cass., sez. lav., 31 maggio 2017, n. 13799, in Guida dir., 2017, 26, 69 ss. In termini analoghi il comportamento del dipendente che ha postato sulla propria “bacheca” su Facebook frasi ingiuriose nei confronti dell’azienda per cui lavorava e nei confronti del datore di lavoro che – seppur non aperta a tutti – ha conosciuto l’accaduto in quanto inserito nella cerchia di “amici” del dipendente (Cass., sez. lav., 27 aprile 2018, n. 10280, in Foro it., 2018, I, 2424 ss.; in Giur. it., 2018, 1956 ss., con commento di Tosi - Puccetti.  (55) Cass., sez. un., 31 luglio 2017, n. 18987, in Quod. giur., 2017. Ciò che conta – hanno ribadito i giudici – è l’immagine del magistrato, proprio in quanto dipendente del Ministero della Giustizia, immagine che risulta lesa dalla sua condotta, e ciò a prescindere dal fatto che il post non sia stato percepito come diffamatorio dal destinatario.  (56) T.a.r. Milano, Sez. III, ord., 3 marzo 2016, n. 246, in Foro it., 2016, 9, III, 504 ss.; in Lav. giur., 2017, 381 ss., con nota di Cottone, Social network: limiti alla libertà d’espressione e riflessi sul rapporto di lavoro (il “like”).  (57) Per una trattazione esaustiva dei crimini informatici v. il Trattato AA.VV., Cybercrime, a cura di Cadoppi - Canestrari - Manna - Papa, Torino, 2019, cui adde Iaselli (a cura di), Investigazioni digitali, Milano, 2020. In sintesi si può consultare Amato Mangiameli - Saraceni, I reati informatici. Elementi di teoria generale e principali figure criminose, II ed., Torino, 2019; Picotti, I diritti fondamentali nell’uso ed abuso dei “social network”: aspetti penali, in Giur. mer., 2012, 2522 ss. Qualche notazione anche in Mainini, Diritto penale web e social network, in Dir. ind., 2019, 183 ss.  (58) Cass. pen., sez. I, 28 aprile 2015, n. 24431, in Foro it., 2015, II, 691 ss. Più di recente v. Cass. pen., sez. V., 23 luglio 2020, n. 22049, in questa Rivista, 2020, 701 ss., con commento di Crescioli, Profili penali della creazione di un falso profilo Facebook a scopo diffamatorio, ivi, 703. La questione si presenta singolare in virtù del fatto che, per la “sostituzione”, non sia sta utilizzata una fotografia (o comunque una immagine) del dan-


SAGGI Suprema Corte ha affermato che: «la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca Facebook integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595 terzo comma del codice penale, poiché trattasi di condotta potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone; l’aggravante dell’uso di un mezzo di pubblicità, nel reato di diffamazione, trova, infatti, la sua ratio nell’idoneità del mezzo utilizzato a coinvolgere e raggiungere una vasta platea di soggetti, ampliando – e aggravando – in tal modo la capacità diffusiva del messaggio lesivo della reputazione della persona offesa, come si verifica ordinariamente attraverso le bacheche del social network, destinate per comune esperienza ad essere consultate da un numero potenzialmente indeterminato di persone, secondo la logica e la funzione propria dello strumento di comunicazione e condivisione telematica» (59). Successivamente è stato ribadito che: «Il legislatore, pur mostrando di aver preso in considerazione la esistenza di nuovi strumenti di comunicazione, telematici ed informatici, non ha ritenuto di dover mutuare o integrare la lettera della legge con riferimento a reati (e, tra questi certamente quelli contro l’onore la cui condotta consiste nella (o presuppone la) comunicazione dell’agente con terze persone). E tuttavia, che i reati previsti dagli

neggiato, quanto una sua caricatura, evidentemente sufficiente a consentirne comunque l’identificazione (sebbene dalla decisione questo non sia chiaro). Diverso sarebbe giungere alla conseguenza che in “profilo” sui social una persona non possa impiegare una immagine di “fantasia” che lo rappresenti, senza con ciò danneggiare alcuno. Cass. pen., sez. V, 22 gennaio 2019, n. 2823, ha ritenuto che il blogger risponda a titolo di concorso, ex art. 110 c.p., nella diffamazione aggravata commessa dal terzo per non aver opportunamente filtrato i commenti degli utenti omettendo di provvedere alla cancellazione dei post ingiuriosi. La sentenza è pubblicata in questa Rivista, 2019, 155 ss., con il commento di Benevento, L’apposizione di filtri ai commenti degli utenti non esclude il concorso del blogger nella diffamazione, ivi, 157 ss. Su questa impostazione esprime perplessità Cass. pen., sez. V., 20 marzo 2019, n. 12546, in questa Rivista, 2019, 575, seguita dal commento di Guercia, Responsabilità del blogger per fatto illecito altrui: la Suprema Corte percorre la “via” della pluralità di reati.  (59) Cass. pen., sez. I, 2 gennaio 2017, n. 50, in <https://www.altalex. com/documents/news/2017/01/03/facebook-social-network>, con commento di Iaselli, Facebook: l’offesa in bacheca è diffamazione aggravata. Nella stessa occasione, la Suprema Corte ha posto l’accento sul fatto che la circostanza secondo cui l’accesso al social network richieda all’utente una procedura di registrazione «non esclude la natura di “altro mezzo di pubblicità” richiesta dalla norma penale per l’integrazione dell’aggravante, che discende dalla potenzialità diffusiva dello strumento di comunicazione telematica utilizzato per veicolare il messaggio diffamatorio, e non dall’indiscriminata libertà di accesso al contenitore della notizia (come si verifica nel caso della stampa, che integra un’autonoma ipotesi di diffamazione aggravata), in puntuale conformità all’elaborazione giurisprudenziale di questa Corte che ha ritenuto la sussistenza dell’aggravante di cui al terzo comma dell’art. 595 c.p. nella diffusione della comunicazione diffamatoria col mezzo del fax e della posta elettronica indirizzata a una pluralità di destinatari».

articoli 594 e 595 c.p. possono essere commessi anche per via telematica o informatica, è addirittura intuitivo; basterebbe pensare alla cosiddetta trasmissione via e-mail, per rendersi conto che è certamente possibile che un agente, inviando a più persone messaggi atti ad offendere un soggetto, realizzi la condotta tipica del delitto di ingiuria (se il destinatario è lo stesso soggetto offeso) o di diffamazione (se i destinatari sono persone diverse)» (60). Quanto al danno risarcibile, un giudice di merito, non ha ritenuto che la diffamazione, attraverso un ‘post’, determini un automatico insorgere del danno non patrimoniale da lesione dell’immagine e della reputazione della persona offesa: «la sussistenza del danno non patrimoniale, quale conseguenza pregiudizievole (ossia, una perdita ai sensi dell’art. 1223 cod. civ., quale norma richiamata dall’art. 2056 c.c.) di una lesione suscettibile di essere risarcita, deve essere oggetto di allegazione e di prova, sebbene, a tale ultimo fine, possano ben utilizzarsi anche le presunzioni semplici, là dove, proprio in materia di danno causato da diffamazione, idonei parametri di riferimento possono rinvenirsi, tra gli altri, dalla diffusione dello scritto, dalla rilevanza dell’offesa e dalla posizione sociale della vittima» (61). B) La sostituzione di persona (art. 494 cod. pen.). E’ il caso dei profili personali fake che su Internet abbondano. Non si tratta tuttavia di quelle misure funzionali a mantenere l’anonimato (con l’utilizzo di nomi e dati non veritieri), quanto della situazione in cui un soggetto si spacci per altro, creando un profilo con i dati personali di quest’ultimo. La sostituzione di persona si configura quale reato se si induce qualcuno in errore, al fine di procurare a sé o ad altri un vantaggio o di arrecare ad altri  (60) Cass. pen., sez. V, 27 dicembre 2000, n. 4741, in Danno e resp., 2001, 602 ss., con commento di Saravalle; in Cass. pen., 2001, 1832 ss., con nota di Perusia. Per una delle prime decisioni di risarcimento danni per diffamazione compiuta attraverso Facebook v. Trib. Monza, sez. IV, 2 marzo 2010, n. 770 (in Giur. merito, 2010, 2443 ss.) secondo cui l’utente del social network destinatario di un messaggio lesivo della propria reputazione, dell’onore e del decoro, ha diritto al risarcimento del danno morale o non patrimoniale da porre a carico dell’autore del messaggio medesimo.  (61) Trib. Bologna, sez. III, 5 luglio 2019, n. 1605, in questa Rivista, 2019, 743 ss., seguita dalla nota di Tormen, La diffamazione a mezzo Facebook e i danni risarcibili. In tema di quantificazione del danno, App. L’Aquila, 13 novembre 2019, n. 1888 (in questa Rivista, 2020, 53 ss., con commento di Peron, Applicazione dei parametri adottati dalle Tabelle di Milano per il risarcimento del danno da diffamazione tramite Facebook): «L’attore ha, quindi, diritto al risarcimento del danno alla reputazione, di natura non patrimoniale e come tale richiesto, non essendo dubitabile la portata diffamatoria della pubblicazione sul social Facebook delle suddette espressioni lesive. In tal senso la Corte reputa di fare governo di quanto contenuto nelle Tabelle dell’Osservatorio sulla Giustizia Civile di Milano, aggiornate al 2018, per la liquidazione di siffatta tipologia di danno ove la diffamazione sia avvenuta a mezzo stampa e con altri mezzi di comunicazione di massa, tra questi ultimi figurando evidentemente il social Facebook».

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SAGGI un danno. La fattispecie, riguardando anche la dichiarazione di un falso stato, ovvero una qualità a cui la legge attribuisce effetti giuridici, fa salva l’applicazione delle sanzioni previste dagli altri delitti contro la fede pubblica. Notazione, quest’ultima, di particolare rilievo nel caso di dipendenti pubblici. La Cassazione ha sottolineato la valenza pubblica della fattispecie, in quanto «si tratta di inganni che possono superare la ristretta cerchia di un determinato destinatario, così come il legislatore ha ravvisato in essi una costante insidia alla fede pubblica e non soltanto alla fede privata e alla tutela civilistica del diritto al nome»  (62). In questa direzione sono stati ravvisati gli estremi oggettivi della “sostituzione di persona” nel caso in cui l’imputato aveva creato un profilo sul social network “Badoo” riproducente l’effige della persona offesa, con una descrizione tutt’altro che lusinghiera e con tale falsa identità usufruiva dei servizi del sito, consistenti essenzialmente nella possibilità di comunicazione in rete con gli altri iscritti (indotti in errore sulla sua identità) e di condivisione di contenuti. Quanto all’elemento soggettivo (ossia al dolo specifico richiesto dalla norma), questo è stato riscontrato poiché da «un lato era sussistente il fine di ottenere dei vantaggi di natura non patrimoniale, ritraibili dall’attribuzione di una diversa identità, che l’imputato utilizzava per intrattenere rapporti con altre persone (essenzialmente ragazze) o per soddisfacimento di una propria vanità; dall’altro la condotta era idonea a ledere l’immagine e la dignità della persona offesa» (63). Più di recente la Suprema corte ha inquadrato la fattispecie della creazione di un falso account, diffondendo i dati di altra persona, proprio nell’ambito dell’illecito trattamento di dati personali di cui all’art. 167 del Co (62) Cass. pen., sez. V., 8 novembre 2007, n. 46674, in Dir. Internet, 2008, 249 ss., con commento di Catullo, Rilevanza penale dell’identità virtuale.  (63) Cass. pen., sez. V., 23 aprile 2014, n. 25774, in Dir. pen. e processo, 2014, 810 ss., con nota di Corbetta. Per altre ipotesi di sostituzione di persona collegate ad attività “digitali” v. Cass. pen., sez. V, 29 aprile 2013, n. 18826, in Altalex, 2013; Cass. pen., sez. V, 28 novembre 2012, n. 18826, in Dir. pen e processo, 2013, 648 ss.; Cass. pen., sez. III, 15 dicembre 2011, n. 12479, Armellini, in C.E.D. Cass., 2012. Per un quadro del tema v. Cipolla, Social network, furto di identità e reati contro il patrimonio, in Giur. merito, 2012, 2672 ss. Sulla questione si segnala una decisione in decisa controtendenza. La Suprema corte ha ritenuto legittima la condotta di un datore di lavoro che ha creato un falso profilo con il quale ha tratto in inganno il lavoratore al fine di provare l’abuso degli strumenti informatici messi a sua disposizione. Nel caso di specie, con un falso profilo femminile, sono state intrattenute lunghe conversazioni su Facebook, durante l’orario di lavoro al fine di provare lo svolgimento di attività non ammessa durante l’orario di servizio (Cass., sez. lav., 27 maggio 2015, n. 10955, in Lav. giur., 2015, 896 ss., con commento di Amato, Legittimità del controllo difensivo occulto attraverso i social networks; in Arg. dir. lav., 2015, 1303 ss., con nota di Olivelli, Lo “stratagemma” di Facebook come controllo difensivo occulto: provocazione o tutela del patrimonio aziendale?).

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dice privacy. Si tratterebbe, inoltre – rimarca il collegio – di un reato di natura permanente «caratterizzandosi per la continuità dell’offesa arrecata dalla condotta volontaria dell’agente, il quale ha la possibilità di far cessare in ogni momento la propagazione lesiva dei dati medesimi» (64). C) Pubblicare (‘postare’) immagini altrui. La pubblicazione di immagini altrui – che si configura quale dato personale (65) – può contrastare, oltre al GDPR, anche con altre normative, tra le quali il diritto di autore (l. n. 633 del 1941) e le privative industriali (per es. il marchio, di cui al d.lgs. n. 30 del 2005) (66). Il consenso alla pubblicazione (che per la disciplina sul diritto di autore è comunemente indicato come “liberatoria”), non è necessario in alcune situazioni, connaturate da un interesse generale alla conoscenza (67), a condizione che l’esposizione o la messa in commercio  (64) Cass. pen., sez. III, 17 ottobre 2019, n. 42565, in questa Rivista, 2020, 135 ss., con nota di De Lia, Della rilevanza penale della creazione abusiva dell’account e del successivo inserimento di dati personali altrui su un social network, ivi, 137 ss.  (65) Dato personale il cui utilizzo può generare particolari situazioni (si pensi ai minori), ovvero quando rappresenta situazioni “particolari” (esempio: portatori di handicap). Per la diffusione di immagini di minori v. Trib. Rieti, ord., 7 marzo 2019, in Fam. e dir., 2019, 591 ss., con commento di Forciniti, Tutela cautelare e d’urgenza e diffusione di immagini di soggetti minori sui social networks; Trib. Mantova, ord., 19 settembre 2017 e Trib. Roma, ord., 23 dicembre 2017, in Fam. e dir., 2018, 380 ss., con nota di Nitti, La pubblicazione di foto di minori sui social network tra tutela della riservatezza e individuazione dei confini della responsabilità genitoriale; Trib. Roma, Sez. I, 23 dicembre 2017, in Resp. civ. 2018, 589 ss., con commento di Peron, Sul divieto di diffusione sui social network delle fotografie e di altri dati personali dei figli; C. Perlingieri, La tutela dei minori di età nei “social networks”, in Rass. dir. civ., 2016, 1324 ss. Si ricorda che l’art. 2-quinquies del D.Lgs. n. 196/2003 (introdotto dal d.lgs. n. 101 del 2018, per l’adeguamento al GDPR) prevede che i minori, possano validamente prestare il loro consenso al trattamento dei dati personali solo a partire dai 14 anni, in attuazione dell’art. 8, par. 1 del Regolamento, mutando l’orientamento precedente che confermava la soglia minima dei 16 anni. La norma aggiunge, altresì, che il trattamento dei dati personali del minore di età inferiore a 14 anni è lecito, a condizione che sia prestato da chi esercita la responsabilità genitoriale (Cfr. Trib. Bari, sez. II, ord. 7 novembre 2019, in questa Rivista, 2020, 87 ss., con nota di Maggi, Consenso e tutela del diritto all’immagine del minore: tra diritto della personalità e protezione dei dati personali. In dottrina v. anche Caggiano, “Privacy” e minori nell’era digitale. Il consenso al trattamento dei dati dei minori all’indomani del Regolamento UE 2016/679, tra diritto e tecno-regolazione, in Familia, 2018, 3 ss.; Naddeo, Il consenso al trattamento dei dati personali del minore, in Dir. inf., 2018, 27 ss.).  (66) Per un esempio, riferito al linking (abusivo) effettuato da un social network v. Trib. Roma, sez. spec. imprese, 15 febbraio 2019, in questa Rivista, 2019, 315 ss., con nota di Cassano, Un precedente di responsabilità del social network per attività abusiva di linking, ivi, 321 ss.  (67) Secondo l’art. 97, della l. n. 633 del 1941, il consenso non è richiesto quando: a) il soggetto è ripreso in virtù di qualche ufficio pubblico che ricopre; b) se è ripreso per ragioni di giustizia o di polizia, oppure per scopi scientifici, didattici, culturali; c) se la riproduzione è legata a fatti, avvenimenti, cerimonie di pubblico interesse o che comunque si sono svolte in pubblico.


SAGGI delle immagini non arrechi danno alla reputazione ed al decoro della persona ritratta (art. 97, comma 2) (68). A parte i “rimedi” previsti dalle discipline speciali, anche il trattamento illecito di dati personali è soggetto alle sanzioni penali, di cui al citato art. 167 del d.lgs. n. 196 del 2003 (69). D) Violenza sessuale attraverso social. Considerato che, al momento, si tratta di un unicum, non si può tralasciare di menzionare una recente sentenza con la quale la Suprema Corte ha applicato la nozione di “atto sessuale” – e quindi ravvisare il reato di violenza sessuale aggravata – anche all’ipotesi in cui tra l’autore del reato e la vittima vi sia stato il solo scambio, via whats app, di immagini e messaggi a contenuto erotico. Secondo la Corte, data la minore età della persona offesa, l’offesa si è compiutamente realizzata con riferimento al bene giuridico della libertà sessuale ed in specie del diritto ad uno sviluppo libero ed equilibrato in questa delicata sfera della persona (70).

5. Riannodando i fili: verso il legittimo affidamento e la responsabilità da Social in ambito pubblico

Il percorso sin qui disordinatamente condotto – tanti e tali sono gli stimoli e le deviazioni che probabilmente andavano assecondati – si conclude riannodando i fili dipanati in premessa. In un clima denso di strumenti “social”, in cui anche la pubblica amministrazione prova

Sul tema v. Montaldo, Il ritratto fotografico digitale tra diritto d’autore, diritti della persona e tutela della privacy, in Resp. civ., 2010, 2369 ss. In termini più generali Dell’Arte, Diritto della comunicazione e dell’informazione, Milano, 2020, 35 ss.  (68) Cfr. anche l’art. 10 c.c., nonché Trotta, Social network e tutela dell’immagine, in Dir. ind., 2010, 282 ss. Le immagini, se evidenti del comportamento tenuto, possono peraltro essere utilizzate quale prova per l’addebito della separazione coniugale. Un esempio di mancata prova (non particolarmente convincente, dato che il presunto amante si trovava nudo sul letto della moglie del ricorrente) è fornito da App. L’Aquila, 16 dicembre 2019, n. 2060, in questa Rivista, 2020, 273 ss., con commento di Aulino, Le immagini estratte dai social network quali prove dell’infedeltà coniugale ai fini della domanda di addebito.  (69) Sul tema v. Massaro (a cura di), Diritto penale e privacy, Pisa, 2020; Brizzi, Privacy. La tutela penale dei dati personali, Milano, 2020. Una prima applicazione dei nostri giudici è quella di Trib. Bologna, sez. pen., 10 gennaio 2019, in questa Rivista, 2019, 365 ss., con commento di Santangelo, Il trattamento illecito di dati all’indomani del Regolamento privacy. Prime ipotesi applicative, ivi, 370 ss.  (70) La massima è la seguente: «Il delitto di violenza sessuale può essere realizzato anche tramite minacce che costringano una minore ad uno scambio di selfie e messaggi sessualmente espliciti via whats app, senza contatto fisico con la vittima, poiché integrano atti che ne coinvolgono la corporeità sessuale e sono idonei a compromettere il bene primario della sua libertà individuale nella prospettiva di soddisfare od eccitare l’istinto sessuale dell’agente». Così Cass. pen., sez. III, 8 settembre 2020, n. 25266, in questa Rivista, 2020, 683, seguita dal commento di Picotti, La violenza sessuale via Whats App, ivi, 685 ss.

in qualche modo a misurarsi, come devono essere intesi i principi della «collaborazione e della buona fede»? Perché se è vero che la direzione normativamente indicata – e quindi giuridicamente doverosa – è verso una adozione ‘ordinaria’ di tali strumenti (e, qui, vale il richiamo, in veste segnaletica, alle app “Immuni” ed “Io”), allora occorre chiedersi se il “dialogo” non generi ulteriori considerazioni, in cui le parti del medesimo debbano essere chiaramente edotte che lo strumento utilizzato si sposta da logiche più o meno di marketing a logiche provvedimentali o, al meno, di informazioni e dichiarazioni di intendimenti (dal lato pubblico), ovvero di istanze e dichiarazioni (dal lato privato). I principi di collaborazione e di buona fede (ora, come detto, contenuti nell’art. 1, comma 2-bis, della l. n. 241 del 1990) sono il portato di un percorso giurisprudenziale che si snoda attorno ad uno dei temi tipici del rapporto tra la pubblica amministrazione ed il privato, ossia non tanto quello del silenzio (o dell’inerzia), quanto quello di un ‘movimentismo’ istruttorio, in cui il “dialogo” (esempio: la richiesta di chiarimenti ed ulteriori documenti), non arriva al “dunque”, lasciando l’interessato, per così dire, in ‘sospeso’. L’effetto evidente è quello di ricondurlo, scientemente o meno, alla condizione di “sottoposto” e non a quella se non di partner, almeno di cliente. Tutto ciò nonostante la sbandierata configurazione dell’esercizio dell’azione amministrativa nell’alveo delle regole del diritto “comune”, cioè del diritto civile. La conclusione di detto percorso – prima dell’approdo alla modifica legislativa – è suggellato dalla decisione 28 aprile 2020, n. 8236, con la quale le Sezioni unite della Cassazione hanno compiutamente esplicitato i termini della responsabilità della pubblica amministrazione per l’affidamento che questa ha ingenerato nel soggetto privato (71). La sentenza ha chiarito la natura giuridica della responsabilità e la giurisdizione alla quale spetti la relativa valutazione. Quanto alla natura giuridica, richiamando i principi espressi nelle ordinanze gemelle nn. 6594, 6595 e 6596 del 2011 (72), l’affidamento del privato nella correttezza della condotta della pubblica amministrazione «è una

(71) Per primi commenti v. Comporti, La responsabilità relazionale a tutela degli affidamenti dei cittadini, in Giur. it., 2020, 2530 ss.; Bontempi, La lesione dell’affidamento incolpevole radica (sempre) la giurisdizione ordinaria, in Giorn. dir. amm., 2020, 805 ss.; Scognamiglio, Sulla natura della responsabilità della pubblica amministrazione da lesione dell’affidamento del privato sorto a seguito di un comportamento della medesima, in Corr. giuridico, 2020, 1025 ss.  (72) Cass., sez. un., ordd., 23 marzo 2011, n. 6594, 6595 e 6596, in Foro it., 2011, I, 2387; in Corr. giuridico, 2011, 933, con nota di Di Majo; in Giur. it., 2012, 192, con commento di Comporti, La concentrazione delle tutele alla prova dell’effettività. La decisione n. 6595/2011 è altresì commentata da Masera, in Urb e app., 2011, 915 ss.

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SAGGI situazione autonoma, tutelata in sé, e non nel suo collegamento con l’interesse pubblico, come affidamento incolpevole di natura civilistica, che si sostanzia (…), nella delusione della fiducia e nel danno subito a causa della condotta dettata dalla fiducia mal riposta; si tratta, in sostanza, di un’aspettativa di coerenza e non contraddittorietà del comportamento dell’amministrazione fondata sulla buona fede». La buona fede finisce quindi per essere in stretta correlazione con l’art. 97 cost., per cui la posizione “di forza” in cui si trova la pubblica amministrazione deve essere mitigata dalla consapevolezza «dell’impatto che l’azione amministrativa produce sempre sulla sfera dei cittadini e delle imprese ed orientato al confronto leale e rispettoso della libertà di determinazione negoziale dei privati» (73). In un modello di pubblica amministrazione “paritaria” – in cui le parti concorrono, ciascuna secondo i rispettivi diritti e doveri, alla gestione di una “funzione” di interesse della (e per la) collettività – trovano applicazioni gli stessi canoni, di matrice civilistica, concernenti la correttezza e la buona fede «la cui violazione fonda una responsabilità da lesione dell’affidamento del privato che prescinde dalla valutazione di legittimità o illegittimità (ed anche dalla stessa esistenza) di un atto di esercizio del potere amministrativo». Si tratta – continua il ragionamento delle Sezioni unite – di una responsabilità da contatto sociale qualificato (74), in cui il danno si è creato tra soggetti che hanno stabilito una relazione tra loro, regolata dall’ordinamento giuridico e che trova un caposaldo fondante nell’art. 2 cost. (75). Se questa norma implica un generale dovere di solidarietà sociale a carico di tutti i consociati, a maggior ragione grava più intensamente su quei soggetti investiti

Le tre ordinanze sono state confermate dalle seguenti pronunce, richiamate in motivazione: Cass., sez. un., ord., 4 settembre 2015, n. 17586 (in Danno e resp., 2015, 1083); Cass., sez. un., ord., 22 maggio 2017, n. 12799 (in C.E.D. Cass., 2017); Cass., sez. un., ord., 22 giugno 2017, n. 15640 (in C.E.D. Cass., 2017); Cass., sez. un., ord., 2 agosto 2017, n. 19171 (in Leggi d’Italia, 2018); Cass., sez. un., ord., 23 gennaio 2018, n. 1654 (in C.E.D. Cass., 2018); Cass., sez. un., ord., 2 marzo 2018, n. 4996 (in Corr. giuridico, 2018, 568); Cass., sez. un., ord., 24 settembre 2018, n. 22435 (in Leggi d’Italia, 2019); Cass., sez. un., ord., 13 dicembre 2018, n. 32365 (in Leggi d’Italia, 2019); Cass., sez. un., ord., 19 febbraio 2019, n. 4889 (in Foro it., 2019, I, 4066); Cass., sez. un., ord., 8 marzo 2019, n. 6885 (in C.E.D. Cass., 2019); Cass., sez. un., ord., 13 maggio 2019, n. 12635 (in C.E.D. Cass., 2019).  (73) Così C. Stato, Sez. VI, 6 marzo 2018, n. 1457, punto 9.2. della motivazione (in Leggi d’Italia, 2018).  (74) Per una ricostruzione del tema v. Ravasio, Principi e regole di azione non scritti. L’obbligo di buona fede e la responsabilità da contatto sociale qualificato, in Contessa - Greco (a cura di), L’attività amministrativa e le sue regole, cit., 59 ss.  (75) Per il valore della ‘relazione’ v. Castronovo, La “civilizzazione” della pubblica amministrazione, in Europa e dir. priv., 2013, 639.

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di particolari “prerogative” (76): «Vi è quindi un quid pluris rispetto al generale precetto del neminem laedere; non si tratta della generica “responsabilità del passante”, ma della responsabilità che sorge tra soggetti che si conoscono reciprocamente già prima che si verifichi un danno; danno che consegue non alla violazione di un dovere di prestazione ma alla violazione di un dovere di protezione, il quale sorge non da un contratto ma dalla relazione che si instaura tra l’amministrazione ed il cittadino nel momento in cui quest’ultimo entra in contatto con la prima». Il “contatto” va inteso come fatto idoneo a produrre obbligazioni ai sensi dell’art. 1173 c.c. dal quale derivano, a carico delle parti, non obblighi di prestazione, bensì reciproci obblighi di buona fede, di protezione e di informazione (secondo quanto indicato agli artt. 1175, 1176 e 1337 c.c.) (77). Posto che si tratta di un contatto “qualificato” e che la responsabilità aquiliana cede il posto alla responsabilità di tipo contrattuale, si conclude – riaffermando i principi enunciati da due recenti precedenti  (78) – «che la responsabilità che grava sulla pubblica amministrazione per il danno prodotto al privato a causa delle violazione dell’affidamento dal medesimo riposto nella correttezza dell’azione amministrativa non sorge in assenza di rapporto, come la responsabilità aquiliana, ma sorge da un rapporto tra soggetti – la pubblica amministrazione e il privato che con questa sia entrato in relazione – che nasce prima e a prescindere dal danno e nel cui ambito il privato non può non fare affidamento nella correttezza della pubblica amministrazione. Si tratta, allora, di una responsabilità che prende la forma dalla violazione degli obblighi derivanti da detto rapporto e che, pertanto, va ricondotta allo schema della responsabilità relazionale,

(76) La Cassazione rinvia al Consiglio di Stato: «(…) da chi esercita una funzione amministrativa, costituzionalmente sottoposta ai principi di imparzialità e di buon andamento (art. 97 Cost.), il cittadino si aspetta uno sforzo maggiore, in termini di correttezza, lealtà, protezione e tutela dell’affidamento, rispetto a quello che si attenderebbe dal quisque de populo». Così C. Stato, ad. plen., 4 maggio 2018, n. 5, in Foro it., 2018, III, 453; in Giur. it., 2018, 1983, con nota di Comporti. Regole di comportamento per un ripensamento della responsabilità dell’amministrazione; in Corr. giuridico, 2018, 1547, con commento di Trimarchi Banfi, La responsabilità dell’amministrazione per il danno da affidamento nella sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 5 del 2018 e in Urb. e app., 2018, 639, con nota di Giagnoni.  (77) Cass. 6 ottobre 2015, n. 19883 (in Foro it., 2016, I, 604), ritiene applicabili anche alla pubblica amministrazione i criteri di cui all’art. 1176, comma 2, c.c.  (78) Si tratta di Cass. 12 luglio 2016, n. 14188 (in Notariato, 2016, 477; in Corr. giuridico, 2016, 1504, con nota di Cicero, La responsabilità (pre) contrattuale come responsabilità da contatto sociale; in Nuova giur. civ. comm., 2016, 1451, con commento di Iuliani, La Cassazione riafferma la natura contrattuale della responsabilità precontrattuale; in Giur. it., 2016, 2565, con nota di Di Majo, La culpa in contrahendo tra contratto e torto; in Danno e resp., 2016, 1051, con osservazioni di Carbone; in Contratti, 2017, 35, con nota di Piraino), poi ripresa anche da Cass. 27 ottobre 2017, n. 25644 (in Foro it., 2018, I, 998).


SAGGI o da contatto sociale qualificato, da inquadrare nell’ambito della responsabilità contrattuale; con l’avvertenza che tale inquadramento, come segnalato da autorevole dottrina, non si riferisce al contratto come atto ma al rapporto obbligatorio, pur quando esso non abbia fonte in un contratto» (79).. Quanto al riparto della giurisdizione, la Suprema Corte effettua una conseguente evoluzione. Il danno di cui si tratta non è generato da un provvedimento amministrativo (che può anche mancare) ma è causato dal comportamento tenuto dalla pubblica amministrazione che ha leso l’affidamento del privato a seguito del contatto sociale qualificato intercorso tra le parti. La legittimità (o illegittimità) del provvedimento – qualora esistente – è posta su un altro piano: nel “contatto sociale” l’amministrazione non ha ancora posto in essere alcun atto di esercizio del potere amministrativo ed il “rapporto” è retto dalle regole civilistiche. Corollario inevitabile, l’affermazione della giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria. A questo punto è agevole conferire un diverso significato all’utilizzo di social network, social media, app e dintorni. Se prima – a vario “spessore” – le conseguenze circa il loro utilizzo erano individuate nell’ambito di disposizioni o fattispecie specifiche, ora la situazione è destinata a cambiare, facendo cadere l’alibi che trova nel “provvedimento” l’unico strumento di “dialogo” della pubblica amministrazione. Alla luce di quanto detto, probabilmente anche il Consiglio di Stato, non sottovaluterebbe gli effetti del twitter con il quale il Ministro dei Beni e delle attività e del turismo ha dichiarato la sospensione dei lavori di ristrutturazione di una piazza storica nel Comune di La Spezia (80).

Resta, per chiudere, almeno una domanda in sospeso. Siamo proprio certi che vi sia stata una reale consapevolezza di questi potenziali effetti?

(79) Si farebbe torto al lettore indicare le conseguenze del passaggio da una responsabilità di tipo extracontrattuale ad una di tipo contrattuale. Questo passaggio – patrocinato dalla formula “contatto sociale qualificato” – è letto criticamente da quanti vi vedono null’altro che un modo attraverso il quale i giudici civili hanno creato un sistema di tutela ‘parallelo’ a quello dell’illecito aquiliano, aggirandone le strettoie in termini di limiti probatori e di prescrizione. Per tutti, cfr. Zaccaria, Der aufhaltsame Aufstieg des sozialen Knotakts (la resistibile ascesa del “contatto sociale”), in Riv. dir. civ., 2013, 107.  (80) I giudici di Palazzo Spada, seppur riconosciuta l’importanza delle nuove tecnologie per comunicare l’attività amministrativa, hanno ribadito la centralità dei principi di tipicità degli atti della pubblica amministrazione e del legittimo affidamento del cittadino nella cui sfera giuridica si producono gli effetti dell’attività amministrativa. Le attività di comunicazione sono, pertanto, di diverso valore rispetto a quelle relative all’esercizio della funzione amministrativa (C. Stato, sez. VI, 12 febbraio 2015, n. 769, in Giorn. dir. amm., 2015, 523 ss., con nota di Sgueo, La comunicazione di un Ministro attraverso un social network integra gli estremi di un atto amministrativo?). Attestato sulla responsabilità aquiliana, invece, T.a.r. Liguria, sez. I, 3 gennaio 2019, n. 11, in questa Rivista, 2019, 203 ss., seguita dal commento di Pellegatta, Responsabilità civile per il danno da tweet: sospensione dei lavori e inadempimento contrattuale indotti da dichiarazioni su social network rese da parte di un Ministro della Repubblica, ivi, 205 ss.

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SAGGI

Finanziamento tra “privati” su piattaforme web: il peer to peer lending di Giuseppe Cassano e Stefano Chiodi Sommario: 1. Il credito disintermediato: il finanziamento su piattaforma. – 2. Tipi di finanziamento. – 3. Quadro normativo. – 3.1. Il problema dei flussi finanziari: l’Istituto di pagamento. – 3.1.1. La vigilanza sugli Istituti di pagamento. – 3.2. La riserva di legge e la raccolta di risparmio presso il pubblico. – 3.3. La normativa europea. – 4. Conclusione. Dall’esperienza anglosassone anche in Italia si sta diffondendo, con qualche difficoltà, il P2P lending. Si tratta di finanziamenti erogati ad opera di soggetti non bancari: mutui a medio periodo o rapporti di factoring, di importo contenuto, erogati mediante piattaforme web specializzate. Il risparmio di costi dovuto alla disintermediazione, parametri meno severi e la velocità di erogazione, sono i principali fattori competitivi. L’assenza, nel nostro Paese, di una normativa specifica, tuttavia, pone tutta una serie di difficoltà che rischiano di minarne lo sviluppo. From the Anglo-Saxon experience, P2P lending is spreading in Italy too, with some difficulty. These are loans disbursed by entities other than anks: medium-term loans or factoring relationships, of limited amount, disbursed through specialized web platforms. The main competitive factors are costs savings due to disintermediation, less stringent parameters and delivery speed. The absence, in our country, of a specific piece of legislation, however, poses a whole series of difficulties that risk to undermine its development.

1. Il credito disintermediato: il finanziamento su piattaforma

In epoca moderna l’attività di concessione del credito è divenuta pressoché appannaggio esclusivo delle istituzioni bancarie che, nel perdurare della ben nota (ed ancora attuale) crisi finanziaria, a causa del credit crunch, hanno lasciato insoddisfatta una fetta di mercato “marginale”. La concessione del credito, infatti, è divenuta particolarmente difficoltosa per certi cluster di clientela a causa del crescente rischio di insolvenza (indotto dalla stessa crisi) e dalla necessità degli intermediari di rivedere la propria struttura organizzativa, rendendola più snella e profittevole, circostanza quest’ultima che poco risulta compatibile con una clientela di piccola dimensione, indipendentemente che si tratti di privati in cerca di soddisfare le proprie esigenze di consumo o di micro/ piccole imprese. Gli strumenti tecnologici del web, che nel frattempo si sono fatti sempre più diffusi ed efficaci, hanno permesso l’avvento di modalità di raccolta di risparmio indirizzate alla massa mediante l’utilizzo di piattaforme online a ciò deputate: è così nato il c.d. crowdfunding mediante il quale la massa indistinta di risparmiatori in cerca di una remunerazione per i propri capitali, diviene direttamente prestatore di denaro avviando un processo di disintermediazione “affascinante” per il pensiero comune di quest’epoca, per il quale l’emancipazione da istituzioni “ingombranti” (e le banche ne sono un esempio) può divenire appagante a prescindere, una sorta di ribellione (ma, molto spesso, una “ultima spiaggia”). Il crowdfunding non trova una definizione univoca, o meglio, una univoca modalità di realizzazione, pur essendo

solitamente identificato con la raccolta di risparmio da investire nel capitale di rischio di aziende innovative, le tanto famose start-up. In realtà si sono sviluppati, soprattutto nei paesi anglosassoni, più modelli, che qui si elencano per dare una veloce visione di insieme: donation, reward, lending ed equity crowdfunding. I primi due sono “socialmente-orientati”: il donation crowdfunding è una raccolta con scopi filantropici umanitari, una colletta vera e propria, dove l’aspetto umano è predominante (ne è esempio la “colletta” indetta in Facebook a favore di una iniziativa lodevole, lanciata da chi festeggia il compleanno, una versione moderna di “niente regali, ma opere di bene”). Il reward crowdfunding è animato dallo spirito partecipativo, magari in un progetto all’avanguardia, dal quale non si attende un ritorno economico (tutt’al più l’oggetto o servizio così lanciato), bensì la soddisfazione di poter dire “io c’ero!” (classico esempio di finanziamento di una start-up innovativa) (1). Infine, escluso da questo breve scritto, l’equity crowdfunding, finalizzato al finanziamento del capitale di rischio di un’azienda, focalizzeremo qui quello che solitamente e semplicemente viene definito “peer-to-peer lending” (finanziamenti su piattaforme), anche definito social lending: si tratta di un prestito di denaro erogato in un contesto di disintermediazione che, come anticipato, ha preso forza nei mercati anglosassoni quale risposta al credit crunch che colpì particolarmente le esigenze dei privati e delle P.M.I. a cavallo del 2008-2009 e tuttora  (1) Di Lorenzo, Crowdfunding e start up innovative: tecnica redazionale, in Notariato, 2016, 437 ss.

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SAGGI perdurante. La caratteristica principale è che rappresenta una alternativa al tradizionale canale bancario, agevolato da piattaforme web specializzate nel mettere in contatto i soggetti interessati che nel caso dei prestatori, dovranno essere soggetti che operano al di fuori della attività professionale. Come anticipato, risponde in pieno alla tendenza affascinante di soverchiare una delle meno fidate architetture sociali, per l’appunto la “banca” che oltreché essersi resa responsabile della crisi finanziaria (poi divenuta economica e globale) si è anche macchiata di aver “chiuso i rubinetti del credito” (credit crunch) gettando nella disperazione famiglie e distruggendo P.M.I.. Non bastasse questa tendenza populista contro “strutture accentrate di potere” (governativo o economico-aziendale), il sistema bancario e finanziario deve scontare una profonda disaffezione, un rapporto fiduciario lacerato non solo da quegli eventi straordinari ed epocali, ma da un rapporto insano con la clientela di cui il contenzioso bancario è cruda rappresentazione (rectius: conseguenza). Cosicché questo processo di disintermediazione viene vissuto da molti soggetti che vi partecipano percependone i caratteri in modo più o meno distorto, a seconda del “coinvolgimento emotivo o ideale”. Vediamo, quindi, di tratteggiare le caratteristiche salienti del peer-to-peer lending (2). La prima, fondamentale: gli investitori vanteranno una posizione creditoria direttamente nei confronti del soggetto finanziato  (3). Le piattaforme per agevolare l’incontro tra domanda ed offerta di denaro, si occupano di attribuire un rating ai richiedenti in base ai dati presenti nelle centrali rischi come normalmente avviene nei mercati creditizi: dal livello di rating, ovviamente, dipenderà il livello di tasso in coerenza con una logica di rapporto tra rischio e rendimento che non può che contraddistinguere anche questa modalità di erogazione  (4).

(2) AA.VV., Peer-to-peer lending: mito o realtà?, a cura di Filotto, Milano, 2016.  (3) Minneci, Equity crowdfunding: gli strumenti a tutela dell’investitore, in Riv. dir. civ., 2019, 509 ss.  (4) Altomare, “FinTech” e Fisco: le agevolazioni per il “peer to peer lending”, in Corr. trib., 2018, 1242 ss.; Biferali, “Big data” e valutazione del merito creditizio per l’accesso al “peer to peer lending” (“Big data” and creditworthiness assessment for access to “peer to peer lending”), in Dir. inf. e inform., 2018, 487 ss.; De Stasio, Verso un concetto europeo di moneta legale: valute virtuali, monete complementari e regole di adempimento, Relazione a Intervento al Convegno “Bitcoin, cryptocurrencies, crowdfunding, peer-to-peer lending. Finteeh e disintermediazione”, Bergamo, 8 giugno 2018, in Banca, borsa e tit. cred., 2018, I, 747 ss.; Macchiavello, Peer-to-peer lending ed informazione: la tutela dell’utente online tra innovazione finanziaria, disintermediazione e limiti cognitivi, in Diritto della banca e del mercato finanziario, 2015, 221 ss.; Macchiavello, Una nuova frontiera del settore finanziario solidale: Microfinanza e “Peer-to-peer lending” (A New Frontier of Socially Responsible Financial Sector:

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La velocità è fuori di dubbio l’aspetto cui i prenditori di denaro danno maggiore risalto nel giudicare l’efficacia di una piattaforma, ancor più del livello di prezzo (tasso di interesse) che comunque risulterà competitivo rispetto ai canali tradizionali. Per i lenders (prestatori del credito) fondamentale, invece, sarà la capacità di istruire le pratiche con l’attribuzione di un rating tale da stimare correttamente il merito creditizio del soggetto richiedente e di permettere il contenimento delle insolvenze, fattore sul quale, come vedremo, alcune piattaforme hanno agito “direttamente”. Tra le varie forme di social lending si sono delineate più modalità tra cui al peer-to-peer lending propriamente inteso si sono affiancate modalità quali il peer-to-business (prestito a favore solo di aziende o professionisti), il microlending (offerto a soggetti di fatto esclusi dal credito) e l’invoice trading che per le similitudini al factoring è, evidentemente, è indirizzato solo a categorie aziendalistiche di richiedenti di denaro. Nel corso di questo breve scritto si tratteranno tutte le forme di prestito per i privati e per le società che possono avvenire attraverso piattaforme web e che non corrispondano alla diversa casistica data dal crowdfunding propriamente inteso. Le piattaforme che si occupano di questa forma di concessione del credito, hanno lo scopo di raccogliere le informazioni e di verificare il merito creditizio dei richiedenti e di clusterizzarli in fasce di rischio e corrispondente tasso di interesse. Evidentemente l’inserimento di queste domande è preordinato all’incontro (matching) con i prestatori di denaro ma la trattativa dovrà essere condotta direttamente dalle parti per non incorrere nei divieti posti dalla normativa nazionale. Compito della piattaforma sarà anche quello di curare il passaggio dei flussi finanziari nei conti di pagamento e di curare il recupero del credito nei casi di insolvenze. Alcune piattaforme, più evolute, offrono anche un servizio di garanzia per il rischio insoluto e la facoltà degli utenti di smobilizzare gli impieghi di denaro mediante la cessione del credito  (5). L’attività istruttoria che la piattaforma deve compiere è momento alquanto delicato, in quanto la corretta attribuzione di un giudizio di merito creditizio e corrispondente rating, sarà fondamentale per addivenire ad un’offerta competitiva in termini di costo del denaro ma anche, se non soprattutto, di giungere ad un contenimento del rischio di insolvenza. Non si dimentichi, infatti, che questa nuova frontiera del credito è sicuramente esplorata dalle fasce meno appetibili per i canali tradizionali e che

Microfinance and Peer-to-peer Lending), in Banca impresa società, 2013, 277 ss..  (5) Borello De Crescenzo, Pichler, Le piattaforme di Financial return crowdfunding nell’Unione europea, in Bancaria, 2014, 77 ss.


SAGGI di sovente costituisce l’ultima spiaggia cui approdare in cerca di denaro per le vie legali. Una quota parte rilevante dei potenziali prenditori che si approcciano alle piattaforme, sono ad altissimo rischio e, pertanto, per i lenders sarà fondamentale la capacità di selezione palesata dalla piattaforma. A tal fine alcune piattaforme si sono strutturate internamente degli uffici a ciò preposti, altre, invece, si sono affidate a credit bureau esterni specializzati in questo tipo di valutazioni. La questione è particolarmente delicata in quanto mentre per il settore bancario dall’avvento dei parametri Basilea, le regole di profilazione del rischio dei clienti si sono uniformate a parametri oggettivi, in questo ambito in assenza di un quadro regolamentare di riferimento non vi sono degli standard da rispettare che diano ai lenders delle tutele minime. La valutazione delle capacità, della singola piattaforma, di scremare la clientela, diviene pertanto di fondamentale importanza. Criteri severi di selezione saranno controproducenti in termini di appeal sul mercato dei prenditori: assimilare il giudizio sul merito creditizio a quello del settore bancario, appare evidente che assottiglierebbe talmente le contrattazioni da rendere davvero incerto l’avvenire di tali piattaforme. Vero è che a parità di trattazione del rischio la disintermediazione lascerebbe posto alla possibilità di rendere appetibile l’erogazione per entrambe le parti grazie alla spartizione del maggiore costo del credito bancario che a causa degli elevati costi strutturali, dovrà essere coperto da maggiori margini operativi. Il sistema bancario e finanziario sta facendo ricorso, quanto alla profilazione della clientela ed al matching (prevalentemente con i servizi offerti), ai sistemi di business analytics ed intelligenza artificiale. Nel comparto creditizio tali tecnologie afferiscono anche alla valutazione del merito creditizio, dinamica che non potrà che coinvolgere anche le piattaforme peer-to-peer lending che proprio nella standardizzazione del processo trovano la propria competitività. Tali sistemi non potranno che coinvolgere sia le persone fisiche che le attività economiche prescindendo dalla forma giuridica con cui verranno esercitate, ovviamente con le dovute differenze. Gli algoritmi di credit scoring combinano informazioni provenienti da diverse fonti ed utilizzano tecniche di machine learning  (6) e intelligenza artificiale che dovrebbero meglio stimare la probabilità di default del soggetto finanziato. L’esperienza dimostra le grandi potenzialità,

(6) A differenza dei modelli di regressione che mettono in relazione la probabilità di default con una serie di variabili predittive e basate su modelli teorici, le tecniche di machine learning svolgono attività di data mining per identificare relazioni complesse e non lineari tra variabili a prescindere dalle relazioni teoriche attese. Per applicazioni di machine learning nel campo aziendale e finanziario si rimanda a: J. Hull, Machine Learning in Business: An Introduction to Data Science, 2019.

in termini di maggiore efficacia di questi modelli innovativi. La capacità di svilupparli al meglio e la forza di sostenerne gli investimenti, potranno svolgere un ruolo determinante nella continua rincorsa a margini di competitività tra aziende bancarie/finanziarie ma influenzerà anche la coesistenza con le piattaforme on-line di cui qui si tratta. L’accesso di informazioni contenute in Big Data applicati allo scoring creditizio di una realtà aziendale, può risultare estremamente efficace per prevedere potenziali criticità a cui rispondere con contromisure adeguate e ad individuare le aziende meritevoli di sostegno. La grande disponibilità di informazioni e la capacità di rielaborazione fanno sì che sia possibile pervenire alle c.d. “matrici di migrazione”, tecnicismo con il quale viene espresso il livello di probabilità che un soggetto clusterizzato/profilato possa cambiare il proprio scoring di rischio nel corso del tempo, “migrando” pertanto da una classe di rating ad un’altra, denunciando, di conseguenza, la crescente probabilità di subire eventi pregiudizievoli dal cliente. Lo scopo, pertanto, è quello di monitorare costantemente il rischio migrazione del cliente, dando un tempestivo segnale al gestore: qui l’intervento umano ci si augura non venga sostituito e non si arrivi ad una gestione automatizzata delle criticità se non anche delle contromisure al default della linea di credito. Se per lo scoring aziendale le informazioni sono molteplici, nell’ipotesi di un potenziale cliente persona fisica non esercente attività professionale o di impresa, insomma, nell’ipotesi di profilazione del rischio del c.d. consumatore, sino a pochi anni fa questo avveniva solo sulla scorta della sua “storia creditizia” oltre che sui dati reddituali e patrimoniali oggettivi. Oggigiorno, per la valutazione del merito creditizio di un consumatore, un numero crescente di Istituti si basa su dati provenienti anche dai Social Network e raccolti su Big Data. Adottata come metodica nei mercati emergenti, dove i dati e le informazioni disponibili non erano all’altezza degli standard consueti, grazie ai risultati ottenuti in termini di affidabilità, sta prendendo piede per tutta la clientela privata. I modelli predittivi basati sui dati dei Social Network si basano sul principio di omofilia, secondo il quale le persone hanno la tendenza a formare e sviluppare contatti e rapporti sociali con consimili. L’affidabilità del modello dipende dall’ampiezza del network dell’utente, dai contenuti generati e dal livello di feedback. Partendo dall’analisi delle relazioni digitali e applicando tecniche finanziarie, l’erogatore (o potenzialmente la piattaforma P2P) arriverà a stimare il grado di affidabilità al prestito. Le informazioni in fase di istruttoria, come sempre avvenuto, sono fornite spontaneamente dai clienti: quel che più conta, in questi casi, e che ciò che rileva veramente sono i contatti presenti su Facebook, Linkedin e Twitter che non verranno “carpiti” ma alla cui acquisizione ver-

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SAGGI rà data autorizzazione dal consumatore stesso: il buon esito della domanda di erogazione dipenderà allora dalla qualità dei contatti, insomma, “dimmi con chi vai e ti dirò chi sei” (i vecchi adagi sovvengono in aiuto) (7). Altro fattore di interesse per i prenditori, di sovente rimproverato alle banche, è la lentezza delle procedure di erogazione. Le piattaforme stanno puntando molto su questo fattore competitivo per allettare la clientela: circostanza questa davvero molto apprezzata. Sul punto si menziona appena, ma merita approfondimento in altra sede (8), l’applicazione/applicabilità al settore dei c.d. smart contract, con ciò intendendosi che l’operazione di finanziamento, o parte di questa, pur coinvolgendo più parti, possa realizzarsi concretamente e produrre i suoi effetti, indipendentemente dall’intervento umano, sulla scorta di un insieme di regole impartite al sistema e delle informazioni esterne acquisite autonomamente dal software. Dunque, è sulla base dell’accertamento automatico che il relativo software compie circa l’avverarsi, o meno, di determinate condizioni, che fa seguito l’automatica esecuzione delle azioni collegate a detto accertamento. Naturalmente ne consegue che quando il contratto di finanziamento si conclude esclusivamente attraverso l’attività di uno o più software, le “regole del gioco” dell’accertamento automatizzato dei presupposti fattuali di perfezionamento dello stesso, dovrà essere diretta conseguenza di parametri prefissati dalle parti in un contratto quadro o, comunque, in un regolamento contrattuale della piattaforma cui si aderisce (con effetto istantaneo o destinato ad operare per un certo periodo o sequenza di operazioni a seconda del servizio richiesto). Tale regolamento contrattuale darà prova della comune volontà delle parti di pervenire alla conclusione dei contratti ad opera dei sistemi automatizzati, in presenza di presupposti convenuti: tali aspetti valgono tanto per l’erogazione di un normale finanziamento (c.d. mutuo) che di un contratto di factoring con le ripetute operazioni conseguenti. Insomma, la gestione del (maggiore) rischio rispetto ai canoni bancari, qualora accettato, dovrà essere sapientemente bilanciato e l’offerta dovrà trovare in altri fattori il motivo della propria competitività. Si tenga conto che solitamente il credito concesso non è assistito da garanzie del richiedente e che solo poche piattaforme si spingono a condividere (anche solo in parte) il rischio (mediante un fondo di garanzia o compartecipazione in quote sul capitale concesso a credito): il più delle volte,  (7) Lin, Prabhala, Viswanathan, Judging Borrowers by the Company They Keep: Friendship Networks and Information Asymmetry in Online Peer-to-Peer Lending, in Management Science, 2009, 17 ss.  (8) Cassano, Di Ciommo, Rubino De Ritis, Banche, intermediari e fintech, Milano, 2020.

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per la piattaforma la questione è relegata all’aspetto reputazionale (questione che non paia trascurabile). Il mancato presidio normativo, di tali aspetti, suggerisce grande attenzione nell’accedere ai servizi di matching per i lenders: se è indiscutibile che la trattativa deve essere diretta e che la piattaforma dovrebbe limitare il proprio intervento alla prestazione di servizi di pagamento e, come detto, di matching, altrettanto è innegabile che la policy (non presidiata) di profilazione del rischio non è immune da conflitto di interessi. Risulta innegabile che maggiormente stringenti saranno i parametri di valutazione di merito creditizio e minori potrebbero essere le entrate dovute ai diritti sui singoli contratti conclusi. Il fattore reputazionale pare essere il principale presidio della buona gestione di tali piattaforme, aspetto sul quale anche alla luce delle recenti novità ci si sarebbe attesi un qualche intervento legislativo. Profilato il rischio del cliente e definito il tasso adeguato all’operazione, l’incontro con l’eventuale offerta avverrà mediante l’inserimento in forma anonima nella piattaforma corredandola di informazioni più o meno dettagliate a seconda dello standard adottato da ogni singola piattaforma. Date le preferenze dei prestatori riguardanti i principali caratteri (durata, classe di rischio, rendimento ecc.) le piattaforme il più delle volte hanno implementato una funzione preziosa ai fini della gestione del rischio di insoluti frazionando le operazioni al fine di condivisione del rischio mediante una percentuale massima investibile in unica operazione, funzione meramente “organizzativa” che non ha comportato per il gestore alcun sacrificio economico che possa minare i propri equilibri economico finanziari, oggetto di severo controllo da parte dell’organo di vigilanza. Le possibilità sono molteplici ed andranno esplorate in funzione della singola fattispecie concreta. Non mancheranno nemmeno casi di guaranteed return model nei quali opererà la garanzia di un fondo finanziato dai versamenti commissionali degli aderenti rimanendo anche in questo caso “salvo” il patrimonio della società gerente la piattaforma. Come si è avuto modo di appurare, la piattaforma agisce come un istituto di pagamento e le deroghe alla riserva di legge previste per la raccolta di risparmio delimitano l’ambito di azione in modo piuttosto rigoroso. A tal fine le soluzioni trovate sono le più disparate e, viste le esperienze del passato, solitamente ben rispettose dei limiti posti: alcune società, infatti, gestiscono i flussi tra utenti direttamente mediante i conti di pagamento, altre si appoggiano convenzionalmente a intermediari esterni appositamente autorizzati. Si è infatti appurato che anche la sola disponibilità latente di liquidità nei suddetti conti in attesa del perfezionarsi delle operazioni, nel passato, non è stata vista di buon auspicio da parte di Banca d’Italia.


SAGGI 2. Tipi di finanziamento

Se il contratto di credito maggiormente diffuso è quello riconducibile al mutuo, codicisticamente normato, come già accennato, ha preso piede a favore delle aziende e dei professionisti lo sconto ed anticipo fatture, il c.d. invoice trading che per molti versi si può assimilare come funzioni al factoring. I prenditori, grazie a tale formula, potranno rendere liquidi i propri crediti verso clienti documentati da fattura. I clienti “scontabili” sono preliminarmente individuati e profilati mediante la fornitura di informazioni tra cui la contrattualistica intervenuta tra le parti. Come per il mutuo starà alla piattaforma esprimere una valutazione di merito creditizio sul debitore ceduto e dell’impresa cedente: a seconda della piattaforma poi, mediante asta al rialzo o di offerta competitiva saranno i lenders a fissare il prezzo di cessione del credito. L’anticipo non coprirà di regola l’intero valore e di volta in volta dovrà essere concordato se la cessione avverrà pro-solvendo o se diversamente il rischio sarà a carico del cessionario.

3. Quadro normativo

La materia non ha ancora trovato una regolamentazione organica nel nostro ordinamento (9). L’avvento di questa forma di disintermediazione finanziaria, rectius creditizia, ha incontrato sin da subito uno stop and go da parte dell’ente di vigilanza (10) del corretto funzionamento dei mercati creditizi, Banca d’Italia, non tanto in funzione dell’attività di per sé prestata, bensì sulla scorta di un’operatività che confliggeva con le norme in vigore e che si andranno ad analizzare. La prassi delle due piattaforme che si erano organizzate nel territorio nazionale, infatti, prevedeva che i risparmi “raccolti” venissero accreditati in un conto intestato alla società di gestione della piattaforma che ne acquisiva con questo la titolarità e proprietà e, conseguentemente, sottoponevano il risparmiatore al possibile default dell’ente gestore. Si configurava in un vero e proprio deposito (e non di una “gestione separata”) andando a rientrare nella Raccolta del risparmio così come definita dall’art 11 t.u.b., secondo il quale è rappresentata dalla «acquisizione di fondi con obbligo di rimborso, sia sotto forma

(9) Caratelli, Filotto, Gibilaro, Mattarocci, Il mercato del peer-to-peer lending nel mondo e le prospettive per l’Italia, in Bancaria 2016, 67; Marabini, Analisi dei possibili profili anticoncorrenziali della normativa italiana in tema di crowdfunding, in Contratto e Impresa, 2016, 552 ss.; Arbitani, Melandri, “Crowdfunding donation” in Italia: la cultura del dono in rete, in Cooperative e enti non profit, 2015; Campagna, Il peer to peer lending: una soluzione alternativa al tradizionale canale bancario? all’indirizzo <https://www.dirittobancario.it/approfondimenti/strumenti-di-finanziamento/il-peer-peer-lending-una-soluzione-alternativa-al-tradizionale-canale-bancario>.  (10) Art. 5, co. 2, t.u.b. aggiornamento 2007: «La vigilanza si esercita nei confronti delle banche, dei gruppi bancari e degli intermediari finanziari (ex artt. 106 e 107)»

di depositi sia sotto altra forma», attività che con «l’esercizio del credito costituiscono l’attività bancaria» (art. 10, co. 1) limitata, per espressa riserva di legge, a favore delle banche (art. 10, co. 2). In fase di richiesta delle autorizzazioni, una delle due piattaforme preliminarmente all’iscrizione all’elenco generale ex art. 106 t.u.b., sottopose il proprio progetto imprenditoriale all’attenzione di Banca d’Italia al fine che questa si esprimesse proprio sulla riserva di legge a favore di banche ed intermediari prevista dall’ordinamento. L’attività fu così descritta: «mettere in relazione, attraverso la gestione di una piattaforma web, persone fisiche interessate a prestare modeste quantità di denaro (prestatori/ lenders) con altre aventi necessità di finanziamento (richiedenti/borrowers), con la conseguenza che il rapporto dovrebbe intercorrere unicamente tra lenders e borrowers». Sulla scorta delle delucidazioni ricevute, Banca d’Italia con nota del 25/07/2007 la considerò essere «una prestazione di servizi di pagamento on line, il cui esercizio restava subordinato all’iscrizione nell’elenco generale di cui all’art. 106 t.u.b. (11)» ponendo tuttavia alcune caratteristiche soggettive ai  (11) Art. 106 - Elenco generale [1] 1. L’esercizio nei confronti del pubblico delle attività di assunzione di partecipazioni, di concessione di finanziamenti sotto qualsiasi forma, di prestazione di servizi di pagamento e di intermediazione in cambi è riservato a intermediari finanziari iscritti in un apposito elenco tenuto dall’UIC [2] [3]. 2. Gli intermediari finanziari indicati nel comma 1 possono svolgere esclusivamente attività finanziarie, fatte salve le riserve di attività previste dalla legge. 3. L’iscrizione nell’elenco è subordinata al ricorrere delle seguenti condizioni [4]: a) forma di società per azioni, di società in accomandita per azioni, di società a responsabilità limitata o di società cooperativa; b) oggetto sociale conforme al disposto del comma 2; c) capitale sociale versato non inferiore a cinque volte il capitale minimo previsto per la costituzione delle società per azioni; d) possesso, da arte dei titolari di partecipazioni e degli esponenti aziendali, dei requisiti previsti dagli articoli 108 e 109. (5) 4. Il Ministro del tesoro, sentiti la Banca d’Italia e l’UIC: a) specifica il contenuto delle attività indicate nel comma 1, nonché in quali circostanze ricorra l’esercizio nei confronti del pubblico. Il credito al consumo si considera comunque esercitato nei confronti del pubblico anche quando sia limitato all’ambito dei soci; b) per gli intermediari finanziari che svolgono determinati tipi di attività, può, in deroga a quanto previsto dal comma 3, vincolare la scelta della forma giuridica, consentire l’assunzione di altre forme giuridiche e stabilire diversi requisiti patrimoniali. 5. L’UIC indica le modalità di iscrizione nell’elenco e dà comunicazione delle iscrizioni alla Banca d’Italia e alla CONSOB. [6] 6. Al fine di verificare il rispetto dei requisiti per l’iscrizione nell’elenco, l’UIC può chiedere agli intermediari finanziari dati, notizie, atti e documenti e, se necessario, può effettuare verifiche presso la sede degli intermediari stessi, anche con la collaborazione di altre autorità. [7] 7. I soggetti che svolgono funzioni di amministrazione, direzione e controllo presso gli intermediari finanziari comunicano all’UIC, con le modalità dallo stesso stabilite, le cariche analoghe ricoperte presso altre società ed enti di qualsiasi natura. [(1) Per la rilevazione del tasso effettivo globale medio ai sensi della legge sull’usura effettuata dall’Ufficio italiano dei cambi nei riguardi degli intermediari finanziari iscritti nell’elenco di cui al presente articolo, vedi il comunicato 18 febbraio 2003. (2) Comma modificato dall’art. 20, comma 1, d.lgs. 4 agosto 1999, n. 342. (3) Vedi il D.M. Tesoro 28 luglio 1994. (4) Vedi il D.M. Tesoro 6 luglio 1994. (5) Lettera così modificata dall’art. 2 del d.lgs. 6 febbraio 2004, n. 37. (6) Comma sostituito dall’art. 20, comma 2, d.lgs. 4 agosto 1999, n. 342. (7) Comma sostituito dall’art. 20, comma 3, d.lgs. 4 agosto 1999, n. 342.].

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SAGGI soggetti fruitori ed oggettive in merito all’operatività. In particolare, impose che i lenders (prestatori di denaro) fossero persone fisiche e che operassero al dì fuori di qualsiasi attività professionale, che gli importi fossero ad un «livello adeguatamente contenuto» (senza tuttavia fissare un criterio oggettivo di quantificazione) e che «fosse assicurato il requisito della personalizzazione delle trattative» e che l’ente gestore «non avesse in alcun modo potuto acquisire la proprietà dei fondi trasferiti dai lenders, né assumere un obbligo di rimborso nei confronti degli utenti, limitandosi ad organizzare la piattaforma digitale e a curare il trasferimento delle disponibilità dei lenders ai borrowers». Stante il monito a non acquisire la titolarità e proprietà dei fondi versati dagli aderenti, la piattaforma in questione accese due conti infruttiferi presso primario istituto di credito, uno per accogliere i fondi dei lenders ed uno per i borrowers, quindi, se pur intestati alla piattaforma, tenevano distinti i fondi di terzi da quelli della società. A seguito di una ispezione a cavallo tra il 2007 ed il 2008 Banca d’Italia rilevò che «Lo schema operativo adottato comporta che sul conto Prestatori permangano disponibilità di entità non trascurabile per lassi di tempo anche prolungati, derivanti dai bonifici effettuati dai prestatori fin dall’adesione alla piattaforma […] nonché dall’incasso delle rate di prestiti». Vieppiù: «l’ampiezza delle opzioni consentite ai lenders (quali il reinvestimento delle quote di finanziamento rimborsate, la restituzione delle somme non ancora impiegate e di quelle già erogate), rende inoltre il rapporto instaurato … Omissis… assimilabile a quello di un deposito a vista». Il deposito in conti “promiscui” destinati ad accogliere risorse finanziarie esclusivamente dei risparmiatori è dinamica comune anche a banche ed intermediari finanziari (es. le S.I.M. detengono allo scopo conti presso primari istituti di credito), sicché non appare dirimente la questione. A corroborare questa sensazione vengono in ausilio le proposte modificative della piattaforma, non accolte dall’Organo di Vigilanza. Nello specifico, qualificato il contratto stipulato con i prenditori quale “mandato” ed esclusa di conseguenza l’acquisizione della proprietà del denaro, gestito per l’esclusivo fine della esecuzione dello stesso, la piattaforma propose anche la creazione di conti detenuti e gestiti all’uopo da una società fiduciaria, in alternativa l’apertura di un conto di moneta elettronica intestato al lender o, infine, l’utilizzo di carte prepagate: tutte modalità operative che avrebbero risposto all’esigenza della piattaforma di vedere concretizzarsi una fattiva operazione di “messa a disposizione” (atecnicamente intesa, poiché comunque subordinata alla sottoscrizione del contratto di finanziamento) di una somma ad opera dei lenders in attesa di future operazioni (così facendo, il lender compiendo questo primo passo di separazione del patrimonio palesava concretezza di intendimenti e prontezza della disponibilità liquida per eseguire le operazioni di suo gradimen-

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to) pur non “confondendo” i patrimoni in transito sulla piattaforma con le disponibilità finanziarie della società gerente. Tali modalità, seppur in linea di massima avrebbero potuto garantire la separazione patrimoniale, non sono state ritenute da Banca d’Italia sufficienti, tant’è che decretò la cancellazione della società dal l’elenco generale dei soggetti operanti nel settore finanziario previsto dall’art. 106 t.u.b.. Sintomatico fu il giudizio espresso sul conto destinato ai lenders: «Lo schema operativo adottato comporta che sul conto prestatori permangano disponibilità di entità non trascurabile …Omissis… Nel periodo gennaio/settembre 2008 la media mensile è oscillata da un minimo di Euro 969 mila ad un massimo di Euro 1.147 mila. Ad ottobre 2008 i conferimenti dei lenders ammontavano a Euro 3,7 mln. a cui si aggiungevano Euro 0,5 mln. derivanti dal pagamento delle rate scadute, mentre i finanziamenti erogati ammontavano ad Euro 3,3 mln., pertanto, rimanevano somme non impiegate per un ammontare di Euro 0,9 mln.». L’enfasi posta sullo spessore delle singole contrattazioni e dello stesso mercato, lascia intendere che tale formula importata dai paesi anglosassoni non fosse di pieno gradimento di Banca d’Italia.

3.1. Il problema dei flussi finanziari: l’Istituto di pagamento

A tale situazione di impasse, pose rimedio indirettamente il recepimento di una direttiva comunitaria che nulla aveva a che vedere con il credito e/o la raccolta di risparmio, la direttiva n. 2007/64/E.C. (12) – P.S.D. Payment Service Directive. Il recepimento, avvenuto mediante il d.lgs. n. 11/2010 (13), aveva come scopo quello di rendere effettiva la S.E.P.A. (14) (Single Euro Payments Area) mediante l’armonizzazione delle pratiche relative ad i servizi di pagamento. Con questa direttiva venne introdotto il conto di pagamento ed una nuova categoria di operatori, anche di estrazione non finanziaria o esclusivamente “finanziari”, specializzati in pagamenti elettronici, rinvenibili al TITOLO V-TER Istituti di Pagamento del t.u.b. (artt. da 114-sexies al 114-octiesdecies). Vediamo, innanzitutto, in cosa consiste il conto di pagamento, ex art. 114-duodecies: 1. Gli istituti di pagamento registrano per ciascun cliente in poste del passivo, nel rispetto delle modalità stabilite dalla Banca d’Italia, le somme di denaro della clientela in conti  (12) <https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/HTML/?uri=CELEX:32007L0064&from=IT>.  (13) <https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2010/02/13/010G0027/ sg>.  (14) <http://www.sepaitalia.eu/welcome.asp?Page=2380&chardim=0&a=a&langid=1>.


SAGGI di pagamento utilizzati esclusivamente per la prestazione dei servizi di pagamento. 1-bis. Gli istituti di pagamento che prestano i servizi di pagamento di cui all’articolo 1, comma 2, lettera h-septies.1), numeri da 1 a 6, tutelano tutti i fondi ricevuti dagli utenti di servizi di pagamento, ivi inclusi quelli registrati in conti di pagamento di cui al comma 1 e tramite un altro prestatore di servizi di pagamento per l’esecuzione di operazioni di pagamento, secondo quanto previsto al comma 2. 2. Le somme di denaro sono investite, nel rispetto delle modalità stabilite dalla Banca d’Italia, in attività che costituiscono patrimonio distinto a tutti gli effetti da quello dell’istituto di pagamento. Su tale patrimonio distinto non sono ammesse azioni dei creditori dell’istituto di pagamento o nell’interesse degli stessi, né quelle dei creditori dell’eventuale soggetto presso il quale le somme sono depositate. Le azioni dei creditori dei singoli clienti degli istituti di pagamento sono ammesse nel limite di quanto registrato ai sensi del comma 1. Se le somme di denaro ricevute dagli utenti di servizi di pagamento sono depositate presso terzi non operano le compensazioni legale e giudiziale e non può essere pattuita la compensazione convenzionale rispetto ai crediti vantati dal depositario nei confronti dell’istituto di pagamento. 3. Ai fini dell’applicazione della disciplina della liquidazione coatta amministrativa i titolari dei conti di pagamento sono equiparati ai clienti aventi diritto alla restituzione di strumenti finanziari. Orbene, tale articolo è stato introdotto dal d.lgs. n. 11/2010, ma il testo qui riportato è stato pesantemente innovato dal d.lgs. n. 218/2017  (15) in recepimento di altra direttiva U.E., la n. 2015/2366  (16) relativa a servizi di pagamento e carte di credito, quindi a questioni non direttamente afferenti al focus qui trattato, ma che ne hanno determinato il possibile sviluppo dopo le iniziali chiusure del nostro Istituto Centrale. La separazione dei flussi finanziari della clientela da quelli dell’Istituto di pagamento assume grande rilievo ai fini della tutela da eventuali default di quest’ultimo che, come vedremo, potrà essere anche soggetto che non esercita in via esclusiva tale attività, laddove il co. 1 art. 114-terdecies prevede che «devono costituire un patrimonio destinato per la prestazione dei servizi di pagamento e per le relative attività accessorie e strumentali» i soggetti di cui all’art. 114-novies, co. 4, ossia «La Banca d’Italia, autorizza alla prestazione di servizi di pagamento soggetti che esercitano altre attività imprenditoriali quando: a) ricorrano le condizioni indicate al comma 1, ad eccezione del possesso dei requisiti di professionalità degli esponenti aziendali; b) per

(15) <https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2018/1/13/18G00004/ sg>.  (16) <https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/HTML/?uri=CELEX:32015L2366&from=IT>.

la prestazione dei servizi di pagamento e per le relative attività accessorie e strumentali sia costituito un patrimonio destinato con le modalità e agli effetti stabiliti dall’articolo 114-terdecies; c) siano individuati uno o più soggetti responsabili del patrimonio di cui alla lettera b); ad essi si applica l’articolo 26  (17), limitatamente ai requisiti di onorabilità e professionalità». Banca d’Italia può arrivare ad imporre la costituzione di una società ad hoc, che eserciti esclusivamente l’attività di prestazione di servizi di pagamento, ogni qualvolta vi siano timori per la solidità finanziaria dell’istituto. Ed è proprio su quest’ultima previsione che si innesta la possibilità di autorizzare nuovamente le piattaforme peer-to-peer lending nel nostro ordinamento, considerando le piattaforme dei servizi di pagamento resi da soggetti diversi da banche o istituti di moneta elettronica ed ora rientranti nella neo-nata figura dell’istituto di pagamento. Tra le attività esercitabili accessorie alla prestazione di servizi di pagamento, l’art. 114-octies elenca, testualmente, «concedere crediti in stretta relazione ai servizi di pagamento prestati e nei limiti e con le modalità stabilite dalla Banca d’Italia» nonché «prestare servizi operativi o strettamente connessi, come la prestazione di garanzie per l’esecuzione di operazioni di pagamento, servizi di cambio …Omissis». Sempre in merito alle altre attività esercitabili, le Disposizioni di vigilanza per gli istituti di pagamento e gli istituti di moneta elettronica di Banca d’Italia attualmente in vigore (quelle emanate con Provvedimento 23/07/2019 (18)) prevedono (al Capitolo IV: Attività, Sezione I: Attività esercitabili): «2. Altre attività esercitabili Nella prestazione dei servizi di pagamento, gli istituti possono esercitare le seguenti attività accessorie: a) prestazione di servizi operativi e servizi strettamente connessi con i servizi di pagamento prestati, quali, ad esempio: - garanzia dell’esecuzione di operazioni di pagamento; - servizi di cambio; - attività di custodia, registrazione e trattamento di dati; b) gestione di sistemi di pagamento; Gli istituti di moneta elettronica possono prestare servizi operativi e servizi strettamente connessi con l’emissione di moneta elettronica, quali ad esempio: - progettazione e realizzazione di procedure, dispositivi e supporti relativi all’attività di emissione di moneta elettronica;  (17) Articolo 26 Esponenti aziendali: Articolo e rubrica così sostituiti dall’art. 1, comma 13, d.lgs. 12 maggio 2015, n. 72. L’art. 2, comma 7, del medesimo decreto legislativo ha stabilito che la disciplina attuativa emanata ai sensi del nuovo testo dell’articolo 26 si applichi alle nomine successive alla data della sua entrata in vigore. Fino a tale momento, continuano ad applicarsi l’articolo 26 nella formulazione anteriore all’entrata in vigore del d.lgs. 12 maggio 2015, n. 72, e la relativa disciplina attuativa.  (18) <https://www.bancaditalia.it/compiti/vigilanza/normativa/archivio-norme/disposizioni/disp-ip-20120620/Provvedimento_del_23_luglio_2019.pdf>.

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SAGGI - prestazione, per conto di terzi emittenti di moneta elettronica, di servizi connessi con l’emissione di moneta elettronica. Gli istituti possono esercitare attività imprenditoriali diverse dalla prestazione di servizi di pagamento e dall’emissione di moneta elettronica, secondo quanto previsto nel Capitolo X. 3. Concessione di finanziamenti Gli istituti possono concedere finanziamenti relativi ai servizi di pagamento indicati ai punti 4 e 5 dell’articolo 1, comma 2, lett. hsepties.1), del t.u.b., nel rispetto di tutte le seguenti condizioni: a) il finanziamento è accessorio e concesso esclusivamente in relazione all’esecuzione di un’operazione di pagamento; per assicurare il rispetto di questa condizione, gli istituti adottano sistemi e procedure per monitorare i finanziamenti secondo quanto previsto dal Capitolo VI, Allegato A, paragrafo 2; b) il finanziamento è di breve durata, non superiore a dodici mesi. Può essere di durata superiore a 12 mesi il finanziamento concesso in relazione ai pagamenti effettuati con carta di credito; c) il finanziamento non è concesso utilizzando fondi ricevuti o detenuti ai fini dell’esecuzione di un’operazione di pagamento; d) a fronte del rischio di credito derivante da tali finanziamenti, gli istituti sono tenuti a mantenere la dotazione patrimoniale minima stabilita nel Capitolo V». Su queste attività accessorie, come vedremo, si gioca la personalizzazione del servizio che può rendere più o meno appetibile l’offerta di una piattaforma peer-to-peer lending ma che le fanno assumere un grado di rischio via via crescente e contro a quello che Banca d’Italia ha palesato di preferire per queste attività. Ricordiamo, infatti, che la figura dell’istituto di pagamento ha aperto una breccia all’inquadramento e legittimazione di queste piattaforme, a fronte della chiusura che l’organo di vigilanza aveva poco tempo prima decretato. Trattasi di un inquadramento normativo un po’ “stiracchiato” nell’applicazione analogica, certo non pensato per queste attività. 3.1.1. La vigilanza sugli Istituti di pagamento

La vigilanza in via autorizzativa è disposta dal già citato Provvedimento di Banca d’Italia del 23 luglio 2019 rubricato “Disposizioni di vigilanza per gli istituti di pagamento e gli istituti di moneta elettronica” in ossequio alle “deleghe” conferite dal Titolo V-ter del t.u.b.. Oltre a vincoli patrimoniali (entità minima di capitale sociale diversamente graduata: Sez. II), l’autorizzazione sarà subordinata al rispetto di vincoli organizzativo-gestionali sintetizzati nel programma di attività (Sez. III) che deve esplicitare le linee di sviluppo dell’operatività aziendale, una relazione previsionale (business plan) per comprovarne l’adeguatezza patrimoniale, una relazione sulla struttura organizzativa nonché la descrizione dei

servizi di pagamento e le tutele predisposte a protezione dei fondi ricevuti dai clienti (19). In merito alla vigilanza prudenziale, il potere viene conferito a Banca d’Italia ai sensi dell’art 114-quaterdecies del t.u.b.: 1. Gli istituti di pagamento inviano alla Banca d’Italia, con le modalità e nei termini da essa stabiliti, le segnalazioni periodiche nonché ogni altro dato e documento richiesto. Essi trasmettono anche i bilanci con le modalità e nei termini stabiliti dalla Banca d’Italia. 1-bis. La Banca d’Italia può chiedere informazioni al personale degli istituti di pagamento, anche per il tramite di questi ultimi. 1-ter. Gli obblighi previsti dal comma 1 si applicano anche ai soggetti ai quali gli istituti di pagamento abbiano esternalizzato funzioni aziendali essenziali o importanti e al loro personale. 2. La Banca d’Italia emana disposizioni di carattere generale aventi a oggetto: il governo societario, l’adeguatezza patrimoniale, il contenimento del rischio nelle sue diverse configurazioni, l’organizzazione amministrativa e contabile nonché i controlli interni e i sistemi di remunerazione e incentivazione. 3. La Banca d’Italia può: a) convocare gli amministratori, i sindaci e i dirigenti degli istituti di pagamento per esaminare la situazione degli stessi; b) ordinare la convocazione degli organi collegiali degli istituti di pagamento, fissandone l’ordine del giorno, e proporre l’assunzione di determinate decisioni; c) procedere direttamente alla convocazione degli organi collegiali degli istituti di pagamento quando gli organi competenti non abbiano ottemperato a quanto previsto dalla lettera b); d) adottare per le materie indicate nel comma 2, ove la situazione lo richieda, provvedimenti specifici nei confronti di singoli istituti di pagamento, riguardanti anche: la restrizione delle attività o della struttura territoriale; il divieto di effettuare determinate operazioni, anche di natura societaria, e di distribuire utili o altri elementi del patrimonio, nonché, con riferimento a strumenti finanziari computabili nel patrimonio a fini di vigilanza, il divieto di pagare interessi; d-bis) disporre, qualora la loro permanenza in carica sia di pregiudizio per la sana e prudente gestione dell’istituto di pagamento, la rimozione dalla carica di uno o più esponenti aziendali; la rimozione non è disposta ove ricorrano gli estremi per pronunciare la decadenza ai sensi dell’articolo 26, salvo che sussista urgenza di provvedere. 3-bis. La Banca d’Italia può altresì convocare gli amministratori, i sindaci e i dirigenti dei soggetti ai quali siano state esternalizzate funzioni aziendali essenziali o importanti. 4. La Banca d’Italia può effettuare ispezioni presso gli istituti di pagamento, i loro agenti o i soggetti a cui sono esternalizzate funzioni aziendali essenziali o importanti e richiedere a

(19) Carignani, Gemmo, Prestiti peer to peer: Modelli di business e strategie, Working paper, in Credito Popolare, 2007, 409 ss.

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SAGGI essi l’esibizione di documenti e gli atti che ritenga necessari. La Banca d’Italia notifica all’autorità competente dello Stato ospitante l’intenzione di effettuare ispezioni su succursali, agenti o soggetti a cui sono esternalizzate funzioni aziendali essenziali o importanti di istituti di pagamento italiani operanti nel territorio di quest’ultimo ovvero richiede alle autorità competenti del medesimo Stato di effettuare tali accertamenti. 5. Le autorità competenti dello Stato di origine, dopo aver informato la Banca d’Italia, possono ispezionare, anche tramite persone da esse incaricate, succursali, agenti o soggetti a cui sono esternalizzate funzioni aziendali essenziali o importanti di istituti di pagamento comunitari che operano nel territorio della Repubblica. Se le autorità competenti dello Stato di origine lo richiedono, la Banca d’Italia può procedere direttamente agli accertamenti. 6. Nei confronti degli istituti di pagamento che svolgano anche attività imprenditoriali diverse dalla prestazione dei servizi di pagamento, autorizzati ai sensi dell’articolo 114-novies, comma 4, la Banca d’Italia esercita i poteri di vigilanza indicati nel presente articolo sull’attività di prestazione dei servizi di pagamento e sulle attività connesse e strumentali, avendo a riferimento anche il responsabile della gestione dell’attività e il patrimonio destinato. Disposizione a cui fa eco il Capitolo V “Disciplina prudenziale” del Provvedimento del 2019.

3.2. La riserva di legge e la raccolta di risparmio presso il pubblico

Risolta la questione riguardante la gestione dei flussi finanziari che a suo tempo aveva costituito un grave limite all’operatività delle prime piattaforme (cancellate da Banca d’Italia) grazie all’avvento dei conti di pagamento rimangono da risolvere le questioni afferenti agli artt. 10 ed 11 t.u.b., questioni comunque affrontate anche nel decreto di cancellazione inizialmente analizzato. La direttiva n. 2007/64/E.C. (“P.S.D.” – Payment Service Directive) infatti non era indirizzata all’operatività delle piattaforme peer-to-peer lending ma ha solo offerto (inconsapevolmente) una soluzione al problema operativo della gestione dei flussi finanziari e della imprescindibile tutela da assicurare alla clientela. Ciò tuttavia, sebbene le attività accessorie già citate (art. 114-octies) sovvengano in qualche modo in aiuto, v’è da dire che la direttiva in questione non ha minimamente risolto l’impatto con la riserva di legge ex art. 10 t.u.b. per l’attività della raccolta del risparmio presso il pubblico (art. 11). Particolare importanza assume un provvedimento di Banca d’Italia del 2016: “Provvedimento recante disposizioni per la raccolta del risparmio dei soggetti diversi dalle banche” (20).

(20) G.U., Serie Generale n. 271 del 19/11/2016.

L’attività bancaria è definita dall’art. 10: «1. La raccolta di risparmio tra il pubblico e l’esercizio del credito costituiscono l’attività bancaria. Essa ha carattere d’impresa. 2. L’esercizio dell’attività bancaria è riservato alle banche. 3. Le banche esercitano, oltre all’attività bancaria, ogni altra attività finanziaria, secondo la disciplina propria di ciascuna, nonché attività connesse o strumentali. Sono salve le riserve di attività previste dalla legge». Della raccolta del risparmio si occupa l’art. 11 così come profondamente revisionato ad opera del d.lgs. n. 37/2004: la definisce quale «acquisizione di fondi con obbligo di rimborso, sia sotto forma di depositi sia sotto altra forma». Da un lato, esclude talune fattispecie dalla nozione di raccolta del risparmio tra il pubblico; dall’altro, elenca le deroghe al citato divieto nei confronti dei soggetti non bancari. Al C.I.C.R. è attribuito il compito di individuare gli strumenti finanziari, comunque denominati, la cui emissione costituisce raccolta del risparmio. Il Comitato, a fini di tutela della riserva dell’attività bancaria, stabilisce limiti e criteri, anche in deroga al codice civile, per la raccolta effettuata dai soggetti che esercitano nei confronti del pubblico attività di concessione di finanziamenti (comma 4-quater). La violazione delle prescrizioni dell’art. 11 del t.u.b. e delle relative disposizioni di attuazione è sanzionata penalmente dalle norme sull’abusivismo bancario (articoli 130 (21) e 131 (22) del t.u.b.). Alla Sezione II dopo aver definito la raccolta del risparmio come l’attività di acquisizione di fondi con obbligo di rimborso, sia sotto forma di depositi sia sotto altra forma, precisa che l’obbligo di rimborso sussiste anche: «- quando i tempi e l’entità del rimborso sono condizionati da clausole di postergazione o dipendono da parametri oggettivi, compresi quelli rapportati all’andamento economico dell’impresa o dell’affare in relazione ai quali i fondi sono stati acquisiti; - nei casi in cui esso, ancorché escluso o non esplicitamente previsto, sia desumibile dalle caratteristiche dei flussi finanziari connessi con l’operazione. In particolare, vengono in rilievo l’entità, la periodicità e l’esigibilità dei flussi

(21) Articolo 130 Abusiva attività di raccolta del risparmio - 1. Chiunque svolge l’attività di raccolta del risparmio tra il pubblico in violazione dell’articolo 11 è punito con l’arresto da sei mesi a tre anni e con l’ammenda da euro 12.911 a euro 51.645 (Cfr. l’art. 39, comma 1, L. 28 dicembre 2005, n. 262, citato in nota al presente Titolo, che dispone il raddoppio delle sanzioni penali previste dal testo unico entro i limiti posti per ciascun tipo di pena dal libro I, titolo II, capo II, del codice penale).  (22) Articolo 131 Abusiva attività bancaria - 1. Chiunque svolge l’attività di raccolta del risparmio tra il pubblico in violazione dell’articolo 11 ed esercita il credito è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni e con la multa da euro 2.065 a euro 10.329 (Cfr. l’art. 39, comma 1, L. 28 dicembre 2005, n. 262, citato in nota al presente. Titolo, che dispone il raddoppio delle sanzioni penali previste dal testo unico entro i limiti posti per ciascun tipo di pena dal libro I, titolo II, capo II, del codice penale).

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SAGGI stessi che possono, di fatto, dare luogo a forme di rimborso». La distinzione tra le fattispecie di acquisizione di fondi con obbligo di rimborso e quelle in cui detto obbligo è escluso deve individuarsi, prescindendo dalla configurazione giuridica assunta, avendo riguardo alla complessiva struttura finanziaria dell’operazione concretamente posta in essere. In particolare, la Sezione IX si è occupata di Social Lending: «…Omissis… è uno strumento attraverso il quale una pluralità di soggetti può richiedere a una pluralità di potenziali finanziatori, tramite piattaforme on-line, fondi rimborsabili per uso personale o per finanziare un progetto. L’operatività dei gestori dei portali on-line che svolgono attività di social lending (di seguito, “gestori”) e di coloro che prestano o raccolgono fondi tramite i suddetti portali (di seguito, rispettivamente, “finanziatori” e “prenditori”) è consentita nel rispetto delle norme che regolano le attività riservate dalla legge a particolari categorie di soggetti (ad esempio, attività bancaria, raccolta del risparmio presso il pubblico, concessione di credito nei confronti del pubblico, mediazione creditizia, prestazione dei servizi di pagamento)». Si rammenta che la raccolta del risparmio tra il pubblico è attività vietata, sia ai gestori sia ai prenditori salve le eccezioni di seguito richiamate, infatti valgono per detti soggetti le deroghe al divieto di raccolta di risparmio tra il pubblico previste dall’art. 11 del t.u.b., nel rispetto delle modalità e dei limiti previsti dalle disposizioni. In particolare, per quanto riguarda i gestori, non costituisce raccolta di risparmio tra il pubblico: I) la ricezione di fondi da inserire in conti di pagamento utilizzati esclusivamente per la prestazione dei servizi di pagamento dai gestori medesimi, se autorizzati a operare come istituti di pagamento, istituti di moneta elettronica o intermediari finanziari di cui all’art. 106 del t.u.b. autorizzati a prestare servizi di pagamento ai sensi dell’art. 114-novies, comma 4, del t.u.b.; II) la ricezione di fondi connessa all’emissione di moneta elettronica effettuata dai gestori a tal fine autorizzati. Per quanto riguarda, invece, i prenditori, non costituisce raccolta di risparmio tra il pubblico: I) l’acquisizione di fondi effettuata sulla base di trattative personalizzate con i singoli finanziatori; al riguardo, avute presenti le modalità operative tipiche delle piattaforme di social lending, le trattative possono essere considerate personalizzate allorché i prenditori e i finanziatori sono in grado di incidere con la propria volontà sulla determinazione delle clausole del contratto tra loro stipulato e il gestore del portale si limita a svolgere un’attività di supporto allo svolgimento delle trattative precedenti alla formazione del contratto (tale condizione si considera rispettata, ad esempio, allorché il gestore predisponga un regolamento contrattuale standard che costituisce solo una base di partenza delle trattative, che devono essere in ogni caso svolte autonomamente

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dai contraenti, eventualmente avvalendosi di strumenti informatici forniti dal gestore); per non incorrere nell’esercizio abusivo della raccolta del risparmio, i prenditori si avvalgono esclusivamente di piattaforme che assicurano il carattere personalizzato delle trattative e sono in grado di dimostrare il rispetto di tale condizione anche attraverso un’adeguata informativa pubblica; II) l’acquisizione di fondi presso soggetti sottoposti a vigilanza prudenziale, operanti nei settori bancario, finanziario, mobiliare, assicurativo e previdenziale. «La definizione di un limite massimo, di contenuto importo, all’acquisizione di fondi tramite portale on line di social lending da parte dei prenditori è coerente con la ratio sottesa alle presenti Disposizioni, volta a impedire ai soggetti non bancari di raccogliere fondi per ammontare rilevante presso un numero indeterminato di risparmiatori. Sono comunque precluse ai gestori e ai prenditori la raccolta di fondi a vista e ogni altra forma di raccolta collegata all’emissione o alla gestione di mezzi di pagamento a spendibilità generalizzata. Restano ferme le possibilità di raccolta senza limiti da parte di banche che esercitano attività di social lending attraverso portali on-line».

3.3. La normativa europea

Solo alcuni dei Paesi della U.E. si sono dotati di una regolamentazione del fenomeno, taluni con l’introduzione di specifiche norme, altre come nel caso del nostro Paese, mediante l’esenzione da divieti. In particolare, il social lending è stato ben poco trattato. L’eterogeneità degli ordinamenti dei singoli Paesi membri sta, di fatto, rendendo difficoltosa la diffusione a livello comunitario: a tal fine, di recente, solo per il crowdfunding è stato fatto un importante passo avanti (23).

4. Conclusione

Nel trattare il quadro normativo si è dato conto del fatto che manchi una regolamentazione specifica del P2P e che questa modalità di accesso al credito non ha trovato attenzione nemmeno nella recente presa di posizione europea sul crowdfunding. Di fatto gli operatori che vi operano lo fanno sul limite di una figura creata ad altri fini, l’Istituto di pagamento, e “giostrandosi” nella riserva di legge conferita alla

(23) Einav, Jeckins, Levin, The Impact of Credit Scoring on Consumer Lending, in Rand Journal of Economics, 2013, 249 ss.. Hollas, Is Crowdfunding now a Threat to Traditional Finance?, in Corporate Finance Review, 2013, 27; Kirby, Worner, Crowd-funding: An Infant Industry Growing Fast, Iosco Staff Working Paper No. 3, all’indirizzo <http:// www.iosco.org>; Morse, Peer-to-Peer Crowdfunding: Information and the Potential for Disruption in Consumer Lending, Nber Working Paper No. 20899, all’indirizzo <http://www.nber.com>; De Buysere, Gajda, Kleverlaan, Marom, A Framework for European Crowdfunding, European Crowdfunding Network, all’indirizzo <http://eurocrowd.org>; Cumming, Leboeuf, Schwienbacher, Crowdfunding Models: Keepit-All vs All-or-Nothing, all’indirizzo <http://dx.doi.org/10.2139/ssrn.2447567>.


SAGGI raccolta di risparmio la cui violazione comporta pesanti conseguenze penali. La formula più asettica, di mero matching tra le parti interessate a formule di erogazioni alternative e disintermediate, appare in tutti i suoi limiti destinata ad un appeal contenuto. I servizi accessori quali le forme di garanzia contro gli insoluti e la cessione dei crediti, solo per citarne alcuni, pongono di volta in volta delle criticità. La similitudine con l’intermediazione creditizia non è certo lungi dal potersi paventare, con tutte le conseguenze del caso. Infatti, la funzione di facilitazione della conclusione di contratti di finanziamento tra soggetti pare proprio in linea con quella svolta dal mediatore creditizio normata dall’art. 128-sexies (24) del t.u.b. ma che prevede che la parte prestatrice debba essere una banca o un intermediario finanziario non bancario, lasciando di fatto questa nicchia di mercato scoperta.

(24) Articolo 128-sexies Mediatori creditizi - 1. È mediatore creditizio il soggetto che mette in relazione, anche attraverso attività di consulenza, banche o intermediari finanziari previsti dal Titolo V con la potenziale clientela per la concessione di finanziamenti sotto qualsiasi forma. 2. L’esercizio professionale nei confronti del pubblico dell’attività di mediatore creditizio è riservato ai soggetti iscritti in un apposito elenco tenuto dall’Organismo previsto dall’articolo 128-undecies.

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SAGGI

La digitalizzazione e il contraddittorio cartolare coatto nel processo tributario di Daniela Mendola Sommario: 1. L’istituzionalizzazione della c.d. giustizia tributaria digitale. – 2. Il carattere “essenzialmente documentale” del processo tributario. – 3. La legislazione d’urgenza: il c.d. contraddittorio cartolare coatto. – 4. Il diritto all’udienza pubblica e i dubbi di legittimità costituzionale. Sullo sfondo dell’emergenza sanitaria, si staglia l’ultimo provvedimento regolatorio del processo tributario telematico. Nella specie, con il d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, convertito in l. 18 dicembre 2020, n. 176, è stato introdotto, all’art. 27, comma 2, il c.d. “contraddittorio cartolare coatto”, mediante il quale viene conferito al giudice il potere di decidere la causa in seguito ad un’udienza appunto “documentale”. La coattiva mancanza dell’interlocuzione digitale con l’autorità giudiziaria rende l’istituto in questione di dubbia costituzionalità. Il contribuente è, infatti, titolare di un diritto “all’udienza pubblica” (artt. 33, comma 1, d.lgs. 31 dicembre del 1992, n. 546 e 24 Cost.), sicché il contraddittorio cartolare coatto costituirebbe un “vulnus” per il soggetto passivo che versa già in uno stato di asimmetria rispetto al pubblico potere. In the context of the current health-emergency situation, the latest regulatory measures concerning the telematic tax process stand out. Precisely, Article 27, paragraph 2, of the law decree, 28th october 2020, no. 137, converted into Law 18th December 2020, no. 176, introduced the so-called “compulsory paper contradictory”, by which the judge is empowered to decide the case after a “documentary” hearing. The forced lack of a digital interlocution with the judicial authority makes such an institution of doubtful constitutionality. Indeed, taxpayers have a right “to public hearing” (Article 33, paragraph 1, of the Legislative Decree 31st December 1992 no. 546 and Article 24 of the Constitution), so that the compulsory paper contradictory would constitute a “vulnus” for the taxable person position, who is already in a state of asymmetry with respect to public powers.

1. L’istituzionalizzazione della c.d. giustizia tributaria digitale

L’esigenza di informatizzare le procedure relative alle controversie tributarie è stata per lungo tempo al centro di un acceso dibattito, sopito solo per effetto dell’intervenuta digitalizzazione della P.A. (1), a seguito dell’emanazione del d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82 (2), il cui comma 6 bis estende la modalità telematica anche alle attività di funzione ispettiva e di controllo fiscale. Su tale premessa normativa e in attuazione dei principi previsti dal codice dell’amministrazione digitale (3), con l’art. 39, comma 8, del d.l. 15 luglio 2011, n. 98 (4), è proseguito siffatto iter di informatizzazione, prevedendosi l’interazione tramite web tra le Commissioni Tributarie e gli Uffici dell’Agenzia delle Entrate, quelli impositori

(1) Come osserva Notari, Il percorso della digitalizzazione delle amministrazioni pubbliche: ambiti normativi mobili e nuovi modelli di governance, in Giorn. dir. amm., 2020, 21 ss.; Faini, Consultazione pubblica sulla Strategia per l’innovazione tecnologica e la digitalizzazione del Paese “Italia 25”, disponibile nell’Osservatorio sull’amministrazione digitale di Fernanda Faini - Marco Mancarella di questa Rivista, all’indirizzo <http://dirittodiinternet.it/ ammdigitale>, 17 febbraio 2020.  (2) D.lgs. del 7 marzo 2005, n. 82, successivamente corretto e integrato con il d.lgs. del 4 aprile 2006, n. 159.  (3) In merito, cfr. Sangiovanni, Il processo di primo grado, in Il processo tributario, a cura di Carinci - Rasia, Milano, 2020, 262 ss.  (4) D.l. 6 luglio 2011, n. 98, convertito dalla l. 15 luglio 2011, n. 111.

degli enti locali e i difensori dei contribuenti, al fine di assicurare efficienza e celerità al processo tributario (5). Successivamente ad altri interventi legislativi, un significativo contributo è stato, poi, offerto dal più recente d.l. 23 ottobre 2018, n. 119 (6), che, all’art. 16, rubricato appunto “Giustizia tributaria digitale”, ha riconosciuto la possibilità di svolgimento delle udienze a distanza mediante il collegamento da remoto (7); e, al comma 4,  (5) I soggetti interessati possono depositare il ricorso, produrre memorie e documenti elettronici tramite collegamenti telematici, o eseguire semplici consultazioni avvalendosi del portale internet a ciò dedicato all’interno del quale sono contenuti i servizi offerti dalle Commissioni Tributarie. (Sul punto, cfr., in generale, Salvini - Melis, Il processo tributario telematico: l’introduzione delle nuove tecnologie informatiche e telematiche nel contenzioso tributario, Roma, 2013, passim). Nella stessa direzione si colloca il d.lgs. 24 settembre 2015, n. 156 che ha inserito nel testo del noto d.lgs. n. 546 del 1992 l’art. 16 bis avente l’obiettivo di implementare l’uso della posta elettronica certificata per l’effettuazione di ogni tipo di comunicazione e notificazione nell’ambito del processo tributario, e su cui si rinvia a Mastromatteo - Santacroce, Processo tributario telematico ed elezione di domicilio digitale, in Il Fisco, 2016, 1142.  (6) D.l. n. 119 del 23 ottobre 2018, convertito dalla l. 17 dicembre 2018, n. 136.  (7) Il d.l. n. 119 del 2018 porta a compimento un lungo percorso che si è articolato negli anni, finalizzato a ridurre tempi e costi del rito, nell’ottica di un rafforzamento del giusto processo. Il decreto in questione riconosce alle parti la possibilità di richiedere di partecipare a distanza all’udienza pubblica, delegando ad uno o a più provvedimenti l’individuazione delle regole tecnico - operative. Al riguardo, si vedano Succio, Processo tributario: le novità del d.l. Rilancio e dei decreti di marzo e aprile,

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SAGGI ne ha definito l’ambito di applicazione oggettivo richiamando espressamente gli artt. 33 e 34 del d.lgs. n. 546 del 1992 relativi, come noto, alla trattazione in camera di consiglio e alla discussione in pubblica udienza che, pertanto, possono avvenire in via telematica (8). Il connotato peculiare del predetto d.l. n. 119 del 2018, è, tuttavia, ravvisabile nell’introduzione della “obbligatorietà” del processo telematico, vigente, salvo casi eccezionali (9), per tutti i ricorsi notificati dal 1° luglio 2019, sia in primo che in secondo grado (10), attraverso l’utilizzo delle caselle di p.e.c. e successivo deposito telematico mediante il s.i.g.i.t. Solo a decorrere dal termine suindicato, dunque, la regola sancita è quella della “esclusività” del metodo telematico avendo, prima di tale data, dominato il principio della “facoltatività”, allorché la scelta del sistema cui ricorrere veniva rimessa alla parte interessata. È evidente che la previsione di un lasso temporale durante il quale hanno convissuto la realtà cartolare e quella digitale si spiega con l’esigenza di tutelare il contribuente, intrinsecamente abituato ad affidarsi alla natura essenzialmente documentale della giurisdizione tributaria (11). Contesto questo nel quale si colloca, altresì, la circ. min. 4 luglio 2019, n. 1/DF (12), recante “Nuove disposizioni in materia di giustizia tributaria”, cui va, senza alcun dubbio, il merito di aver dettato una disciplina puntuale sulle notifiche degli atti digitali e sulle modalità di partecipazione all’udienza telematica delle parti proces-

in Quotidiano giuridico, all’indirizzo <http://quotidianogiuridico.it>, 21 maggio 2020; Reale, Processo tributario: solo video - udienze?, ivi, 29 giugno 2020.  (8) Bruzzone, I decreti del Mef su udienze a distanza e sentenze digitali non eliminano le criticità, in Il Fisco, 2020, 4437. Cfr. Tamburini, Decreto fiscale e pacificazione del rapporto tra fisco e contribuente, ampliamento delle definizioni agevolate e statali del debito fiscale propriamente inteso, in Studium Iuris, 2019, 587.  (9) Come, infatti, osserva D’Andrea, Manuale del processo tributario, Pisa, 2020, 458, in casi eccezionali il giudice, con provvedimento motivato, può autorizzare il deposito con modalità diversa da quella telematica e l’autorizzazione può essere concessa anche in sanatoria o d’ufficio.  (10) Cfr., in merito, Mastromatteo - Santacroce, Processo tributario telematico obbligatorio dal 1° luglio 2019, in Il Fisco, 2018, 4129.  (11) Fermo restando il principio per il quale “la parte che abbia utilizzato in primo grado le modalità telematiche è tenuta ad utilizzare le medesime (…) per l’intero grado di giudizio, nonché per l’appello, salvo sostituzione del difensore” (art. 2, comma 2, d.m. 23 dicembre 2013, n. 163)”. In tal senso, cfr. Russo, Strumenti informatici e processo tributario telematico, in Il Fisco, 2015, 4140; Spina, Processo tributario cartaceo e telematico: i due binari paralleli con nodo di scambio o anche no, ivi, 2018, 4047. La modalità telematica, invero, rappresenterebbe una regola generale e non un obbligo, non essendo stata prevista la sanzione della inammissibilità (art. 27, d.lgs. 546 del 1992), come sottolinea Capo, Il ricorso cartaceo non è inammissibile, in Quotidiano giuridico, all’indirizzo <http://www.quotidianogiuridico.it>, 10 novembre 2020.  (12) Per un commento, cfr. D’Andrea, op. cit., 458.

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suali (13). Sulla stessa scia interviene, poi, il d.m.e.f. 11 novembre 2020, n. 46, contenente le regole “tecnico operative” per la redazione dei provvedimenti giurisdizionali telematici da parte dei giudici tributari e del processo verbale di udienza in formato digitale ad opera degli ausiliari dell’autorità giudiziaria. Al netto delle perplessità sui tempi e sulla frammentarietà dei provvedimenti che si sono succeduti (14), i diversi interventi legislativi hanno avuto il merito di valorizzare l’e - government (15), quale strumento utile a contribuire in maniera significativa alla competitività del mercato e a ridurre i costi a carico delle Pubbliche Amministrazioni, dei cittadini e delle imprese (16). La digitalizzazione del processo di cui si discorre interviene, peraltro, in un sistema già improntato per certi versi all’informatizzazione, al punto da discettarsi di “diritto tributario telematico” (17), se solo si considera che, nella c.d. fase amministrativa del procedimento, sono già stati introdotti, da un lato, la cd. dichiarazione precompilata che il contribuente è chiamato a trasmettere in via telematica, nonché la fatturazione elettronica (18); e,  (13) Nel documento richiamato si legge, infatti, che “l’udienza a distanza deve essere oggetto di specifica richiesta di una delle due parti processuali nel ricorso o nel primo atto difensivo e potrà svolgersi in collegamento da audiovisivo tra l’aula di udienza ed il luogo di domicilio del contribuente”. In presenza di detta istanza, quindi, il luogo dove la parte processuale si collega in audiovisione è, ex lege, equiparato all’aula di udienza. In caso contrario, il collegio giudicante esercita la propria funzione giurisdizionale esclusivamente presso la sede della Commissione Tributaria. In merito, cfr. Mastromatteo - Santacroce, Udienza da remoto è possibile nel giudizio tributario?, in Il Fisco, 2020, 1727 ss.; Conigliaro, Al via il processo tributario telematico: dal Dipartimento delle Finanze le linee guida di attuazione, ivi, 2019, 2957.  (14) La disciplina sul processo tributario telematico non è, del resto, stata avulsa da critiche. Si pensi alla problematica relativa all’equiparazione tra le firme digitali Cades e Pades, che ha reso necessario l’intervento della Corte di Cassazione nel suo massimo consesso per decretarne l’equiparazione (cfr. Cass., Sez. Un., 27 aprile 2018, n. 10266). Sicché si reclama un intervento del legislatore finalizzato a riconoscere detta equipollenza con riferimento agli atti processuali da immettere nel processo tributario telematico, al fine di rendere più agevole la trasmissione degli stessi, come osserva Bambino, L’approdo delle Sezioni Unite in tema di firma degli atti processuali: riflessi (non poco) problematici in ambito tributario, in Dir. pratica trib., 2019, 1320 ss. (nota a Cass., Sez. Un., 27 aprile 2018, n. 10266, cit.).  (15) L’e - government deve essere inteso come l’insieme dei processi di applicazione delle tecnologie dell’informatica all’operare dei pubblici apparati, avvalendosi di strumenti, come internet e altri mezzi di natura telematica, per attrezzare con sistemi di back office l’assetto organizzativo e operativo degli uffici. In tal senso, cfr. Montalcini - Sacchetto, Privacy e fisco: la consultazione e la pubblicazione dei documenti nell’era della digitalizzazione, in Dir. pratica trib., 2009, 679.  (16) Maddalena, La digitalizzazione della vita dell’amministrazione e del processo, in Foro amm., 2016, II, 2535 ss.  (17) Come sottolineano Montalcini - Sacchetto, Diritto tributario telematico, Torino, 2017, passim.  (18) Sgueo, Amministrazione più trasparente ed efficiente con la fatturazione elettronica obbligatoria, in Giorn. dir. amm., 2019, 556. Per un approfondimento si veda anche Capo, Obbligo di fatturazione elettronica tra privati: le


SAGGI dall’altro, l’impegno dell’amministrazione finanziaria a pubblicare periodicamente sul proprio sito dati, informazioni e notizie rilevanti (c.d. cooperative compliance), consentendo che la comunicazione tra le parti avvenga in tempo reale, in ossequio ai principi di trasparenza e di efficienza (19). La digitalizzazione, allora, ancor di più nella successiva fase processuale, incide positivamente in termini di semplificazione con evidente garanzia della certezza e della ragionevolezza del “sistema giustizia” nonché dei criteri del giusto processo costituzionalizzati all’art. 111. Il che appare in linea con la natura stessa delle norme processuali tributarie, caratterizzate da snellezza e semplicità, funzionali al soddisfacimento delle richiamate esigenze di celerità del processo (20). L’evidente intento del legislatore, attraverso la digitalizzazione è, quindi, quello di efficientare l’attività di ius dicere delle Commissioni Tributarie, nell’ottica di una concentrazione dei tempi processuali con indubbio vantaggio per entrambe le parti del rapporto obbligatorio (21). Oltre ad offrire benefici all’organo giudicante, agevolandone il lavoro e permettendo una migliore organizzazione del ruolo di udienze, l’informatizzazione (22) del processo ha, in effetti, già dimostrato le proprie potenzialità anche dal punto di vista del soggetto che ricorre al giudice (23). La costituzione telematica

prime applicazioni del principio di proporzionalità dettato dalla direttiva Iva e dal regolamento (UE) 2016/679 (GDPR), in Dir. pratica trib., 2020, 72.  (19) Si pensi alla pubblicazione sul sito dell’Agenzia delle Entrate delle operazioni di pianificazione fiscale ritenute “aggressive”. In tali termini, Amatucci, L’adeguamento dell’ordinamento tributario nazionale alle linee guida dell’OCSE e UE in materia di lotta alla pianificazione fiscale aggressiva, in Riv. trim. dir. trib., 2015, 3. L’informatizzazione degli adempimenti amministrativi e la fattura elettronica dovrebbero rispondere ad una serie di finalità tra cui quella di consentire un controllo puntuale, quasi in tempo reale, delle operazioni realizzate. La predisposizione di documenti nativamente digitali permetterà, inoltre, agli uffici competenti una tempestiva elaborazione degli stessi, come sottolinea Greggi, Attualità e prospettive nell’applicazione del cd. “Decreto fiscale”, in Studium Iuris, 2019, 736 ss.  (20) Marongiu, Una giustizia lentissima fonte di preoccupazione e di pretese: la Commissione Tributaria Centrale, in Rass. trib., 2011, 869.  (21) Il fascicolo processuale viene compilato digitalmente, consentendo ai giudici tributari, ai contribuenti, ai professionisti e agli enti impositori di consultare gli atti giudiziari autonomamente dai propri uffici ovvero da casa, con notevoli vantaggi in termini di semplificazione, trasparenza degli adempimenti processuali e di durata del contenzioso, con riduzione dei costi legati agli spostamenti presso le sedi delle Commissioni Tributarie, come rileva De Mita, Principi di diritto tributario, Milano, 2019, 535.  (22) V’è da precisare che il rito telematico non è un nuovo processo, bensì una modalità disciplinare che si fonda su nuovi strumenti, di cui il documento informatico rappresenta l’elemento centrale, come riflettono Glendi, La riforma della giustizia tributaria, in Corr. giuridico, 2019, 877 ss.; Ferrari, Il codice dell’amministrazione digitale e le norme dedicate al documento informatico, in Riv. dir. proc., 2007, 415.  (23) Ferrari, Il processo telematico alla luce delle più recenti modifiche legislative, in Riv. dir. proc., 2010, 1379 ss.

delle parti dovrebbe, infatti, comportare anche una semplificazione delle prove relative alla notificazione degli atti sostanziali avvenuta mediante p.e.c., dal momento che potrebbe depositarsi direttamente l’originale del documento informatico, senza la necessità di formare una copia cartacea ed attestarne la relativa conformità (24).. Sullo sfondo di tali considerazioni, il processo tributario telematico non rappresenta, tuttavia, una novità solo dal punto di vista tecnico (25). Esso, infatti, offrendo un importante contributo in termini di economia processuale, configura un nuovo modo di intendere il rapporto tra contribuente e amministrazione finanziaria, soprattutto quante volte i numerosi strumenti deflattivi del contenzioso, come l’accertamento con adesione e le forme di conciliazione e di reclamo, non conducano a risultati soddisfacenti in punto di rapidità nella definizione delle controversie (26).

2. Il carattere “essenzialmente documentale” del processo tributario

A facilitare il passaggio al più efficiente modello telematico è, senza dubbio, l’estraneità al rito tributario dell’oralità e dell’immediatezza proprie, invece, dei processi a carattere dibattimentale. Il contenzioso tributario, di cui al d.lgs. n. 546 del 1992, è, infatti, definito “cartolare”, in quanto connotato dalla produzione di documenti cartacei, come espressamente indicato dal relativo art. 7, comma 4, laddove si legge che, nell’ambito dei mezzi di prova, “non sono ammessi il giuramento e la prova testimoniale” (27). Da tale enunciato, che appunto canonizza la natura “essenzialmente documentale” del processo de quo, si evince che la formazione della prova avvenga mediante l’esibizione di apposita documentazione dalla quale risultino i cc.dd. “fatti economici”.  (24) Emone, Vizi della notifica via PEC ed invalidità degli atti informatici: l’inesistenza giuridica quale conseguenza della mancata sottoscrizione digitale, in Dir. pratica trib., 2019, 1676 ss (nota a Comm. Trib. Reg. Genova, sez. III, 7 dicembre 2017, n. 1745).  (25) Consistente nell’informatizzazione che comprende la registrazione e l’accesso al p.t.t., la notificazione del ricorso e la costituzione in giudizio, il deposito degli atti e dei documenti telematici successivi alla costituzione in giudizio; la formazione e la consultazione del fascicolo processuale informatico, la certificazione di conformità delle copie degli atti di parte, dei provvedimenti del giudice e dei documenti formati su supporto analogico, come specifica Tesauro, Istituzioni di diritto tributario, Milano, 2020, 375.  (26) Cfr. Uricchio, Percorsi di diritto tributario, Bari, 2017, 312; Greggi, Attualità e prospettive nell’applicazione del cd. “Decreto fiscale”, in Studium Iuris, 2019, 736.  (27) Il divieto di prova testimoniale non viola il diritto di difesa, potendo quest’ultimo, ai fini della formazione del convincimento del giudice, essere diversamente regolato dal legislatore, nella sua discrezionalità, in funzione delle peculiari caratteristiche dei singoli procedimenti (in tal senso, Corte cost., 12 luglio 1972, n. 128, in CED Cassazione, 1972).

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SAGGI Ma vi è di più. Poiché il processo tributario è strettamente connesso alla precedente fase amministrativa (28), i medesimi elementi di prova formati nel corso del procedimento sono trasmessi in giudizio (29) sicché il giudice è chiamato a valutare sulla base dei fatti allegati dalle parti (30). In virtù di tale ricostruzione, prima ancora che di “processo” è, allora, opportuno argomentare di “procedimento” cartolare, dal momento che i documenti presentati in fase amministrativa trasmigrano in sede processuale per essere sottoposti al vaglio giudiziale. Il giudice tributario, dunque, non esegue una propria istruttoria, ma decide avvalendosi di quella già espletata dall’amministrazione finanziaria nel corso del procedimento amministrativo (31) ed eventualmente sconfessata dal contribuente con l’apporto di proprie difese all’interno del ricorso (32). Non esiste, dunque, alcuna endiadi oralità-immediatezza propria dei giudizi cc.dd. dibattimentali (33), né un rapporto diretto tra le

(28) Come puntualizza Bambino, La ripartizione (non sempre equa) dell’onere della prova nel processo tributario tra amministrazione finanziaria e contribuente, in Dir. pratica trib., 2018, 1896 ss.  (29) In merito, cfr. Esposito, Sistema amministrativo tributario italiano, Padova, 2017, passim. Sulla specialità del processo tributario si rinvia a Poddighe, Giusto processo e processo tributario, in L’ordinamento tributario italiano, diretto da Falsitta - Fantozzi, Milano, 2010, passim; Boria, Diritto tributario, Torino, 2016, 589 ss. Sui caratteri della giurisdizione tributaria vedasi anche Amatucci, Principi e nozioni di diritto tributario, Torino, 2018, 425, per il quale il processo tributario nasce come contenzioso amministrativo atteso che in passato veniva considerato come la fase contenziosa dell’attività amministrativa di accertamento. Solo a seguito del riconoscimento della giurisdizionalità delle Commissioni Tributarie, per effetto del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636, si andò, infatti, delineando la configurazione di un processo unitario, composto di tre gradi di giudizio.  (30) Si tratta del cd. principio dispositivo per cui, secondo quanto disposto dall’art. 7, comma 1, d.lgs. 546 del 1992, “le Commissioni tributarie ai fini istruttori e nei limiti dei fatti dedotti dalle parti, esercitano tutte le facoltà di accesso, di richiesta di dati, di informazioni e chiarimenti conferite agli uffici tributari ed all’ente locale da ciascuna legge d’ imposta”. Successivamente alla riforma introdotta con il d.P.R. n. 636 del 1972, che ha segnato il passaggio da un procedimento di stampo amministrativo ad uno di impronta giurisdizionale, il carattere inquisitorio del processo tributario è stato stemperato dall’operatività del principio dispositivo, sicché tale rito risulta informato al principio della domanda in relazione all’allegazione dei fatti di causa.  (31) Le parti, infatti, si confrontano già nel corso della fase istruttoria del procedimento amministrativo che si conclude con l’adozione del provvedimento. Sul tema si rinvia, in generale, a Guacci, Il procedimento amministrativo. Nozioni e caratteri generali, in Percorsi di diritto amministrativo, a cura di Cognetti - Contieri - Licciardello - Manganaro - Perongini - Saitta, Torino, 2014, 179 ss.  (32) Il giudice ha il compito di vagliare, entro il perimetro definito dalla motivazione dell’atto impugnato e dei motivi di ricorso, le prove che fondano il provvedimento di accertamento, come argomenta Tropea, Valenza probatoria del documento di fonte informatica nell’accertamento tributario, in Dir. pratica. trib., 2020, 1635 ss. (nota a Cass., Sez. VI, 20 gennaio 2020, n. 308).  (33) L’oralità e l’immediatezza sono, ad esempio, i principi cardine del processo penale caratterizzato da uno stretto rapporto tra prova e giudice,

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prove ed il giudice, che viene, invero, a crearsi solo in un momento successivo con l’instaurazione del giudizio avente ad oggetto elementi probatori formatisi nel corso del procedimento. Inoltre, a differenza dei richiamati riti di natura dibattimentale, di per sé informati all’immediatezza, nel tributario, il documento rientra nella categoria non delle prove costituende, ma di quelle precostituite (34). Ne viene che, già prima dell’introduzione della digitalizzazione del rito, il carattere documentale dello stesso operava a presidio del principio della “ragionevole durata del processo” (35): l’utilizzo della costituenda prova testimoniale, laddove ammesso, avrebbe, allora, determinato un allungamento dei tempi del giudizio (36). È pur vero che lo strumento cartolare dovrebbe essere supportato da altri elementi probatori a garanzia di una visione dei fatti più completa che potrebbe derivare, ad esempio, dalle dichiarazioni verbali (37). L’unico profilo di oralità ammissibile nel processo tributario riguarda, allora, le dichiarazioni rese dai terzi (38) e contenute all’interno del processo verbale di constatazione, redatto dalla Guardia di Finanza, a conclusione dell’esercizio dei poteri di accesso, ispezione e verifica. Esse, tuttavia,

al punto da richiedersi che la decisione conclusiva sia affidata alla stessa autorità giudiziaria dinnanzi alla quale si è svolta l’istruzione. In tal senso, Mezio, Il principio di immediatezza è al tramonto? Is the Reliance on oral communication and live testimony at the end?, in Cass. pen., 2020, 397.  (34) In tal senso, Contrino, Appunti in tema di accertamenti induttivi e presunzioni supersemplici, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2018, 130; Manoni, Ordine di esibizione documentale nel processo tributario, in Il Fisco, 2016, 2844 ss. Si può, nella specie, trattare di prove precostituite, quindi formate al di fuori di qualsiasi processo oppure di prove aliunde formate, cioè create in altri giudizi nel contraddittorio tra le parti; ab origine orali e costituende, come tali utilizzabili tramite acquisizione del processo verbale in cui risultano cristallizzate e, in ogni caso, solo se ritualmente versate nel giudizio tributario, pena la violazione dell’art. 115, comma 1, c.p.c. In tal senso, cfr. Loconte - Barbieri, La circolazione delle prove tra il processo tributario e il processo penale, in Il Processo, 2020, 465.  (35) Va precisato, inoltre, che, in ossequio al principio della ragionevole durata del processo, anche nel rito tributario, vale il principio di “non contestazione”, al pari del processo amministrativo. Sul punto si rinvia a Romano, La “non contestazione” nel processo amministrativo, in Studi per un nuovo diritto amministrativo, diretti da Cognetti - Contieri - Licciardello Nettesheim - Perongini - Zito, Torino, 2016, 43 ss.  (36) In termini di speditezza del processo tributario, vedasi Lupi, Manuale professionale di diritto tributario, Milano, 1998, 586. Sulla funzione dell’istruzione probatoria quale componente essenziale del regolamento del processo, si rinvia a Comelli, La circolazione del materiale probatorio dal procedimento e dal processo penale al processo tributario e l’autonomia decisoria del giudice, in Dir. pratica trib., 2019, 2032 ss.  (37) Sull’importanza della fase istruttoria del processo tributario vedasi Gallo, L’istruttoria nel sistema tributario, in Rass. trib., 2009, 25.  (38) Lo rileva Giavazzi, Il divieto di prova testimoniale nel processo tributario è compatibile con la Cedu?, in Riv. it. dir. pubb. com., 2018, 1105.


SAGGI rilevano quali meri indizi (39), perché assunte in sede extraprocessuale, sicché possono al più concorrere a formare il convincimento del giudice, ancorché, unitamente, ad altri elementi (40). Argomentando diversamente, ovvero attribuendo valore probatorio alle suddette dichiarazioni, si finirebbe per introdurre nel processo tributario un mezzo di prova non solo equipollente a quello vietato (quale la prova testimoniale), ma anche costituito al di fuori del processo (41). Il che non accade in quanto le dichiarazioni dei terzi non violano il divieto di cui al predetto art. 7, comma 4, d. lgs. n. 546 del 1992, in quanto vengono acquisite in fase extraprocessuale e riprodotte all’interno del processo verbale di constatazione per poi essere utilizzate nel corso del processo. Dal carattere essenzialmente documentale del rito tributario (42) discende anche la c.d. sanzione delle preclusioni secondo cui “non possono essere presi in considerazione a favore del contribuente in sede amministrativa e contenziosa notizie, documenti e atti non esibiti in risposta agli inviti dell’Ufficio” (art. 52, comma 5, d.P.R. n. 633 del 1972) (43), a meno che non sussistano comprovate ragioni di impossibilità oggettiva (44). La sanzione in questione rappresenta un monito alla  (39) Come specifica Cass., Sez. V, 7 aprile 2017, n. 9080, in CED Cassazione, 2017.  (40) Gianoncelli, Procedimento tributario e procedimento penale: oltre il doppio binario, le convergenze parallele, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2019, 177 ss.  (41) Tali dichiarazioni non possono essere, tuttavia, considerate prove testimoniali atteso che la testimonianza è notoriamente una prova costituenda che si forma all’interno del processo, richiede la formulazione di specifici capitoli, comporta il giuramento dei testi e riveste un particolare valore probatorio, come riflette Sartori, Percorsi di giurisprudenza - Processo tributario, in Giur. it., 2015, 1731.  (42) Sulla disciplina del processo tributario si rinvia, in generale, a Carinci - Tassani, Manuale di diritto tributario, Torino, 2018, 439 ss.; Melis, Manuale di diritto tributario, Torino, 2020, passim.  (43) Tale divieto trova fondamento legislativo, più in generale, nell’art. 32, d.P.R. 29 settembre 1973 n. 600, comma 4, che impedisce l’esibizione e la trasmissione di notizie, documenti e atti non esibiti in risposta agli inviti dell’Ufficio in sede amministrativa e contenziosa. In aggiunta si pone il citato art. 52, comma 5, del d.P.R. 26 ottobre del 1972, n. 633, relativamente all’Iva, a tenore del quale “i libri, registri, scritture e documenti di cui è rifiutata l’esibizione non possono essere presi in considerazione a favore del contribuente ai fini dell’accertamento in sede amministrativa o contenziosa. Per rifiuto di esibizione si intendono anche la dichiarazione di non possedere i libri, registri, documenti e scritture e la sottrazione di essi alla ispezione”.  (44) Le preclusioni non operano, infatti, qualora il contribuente non abbia potuto esibire la documentazione per cause a lui non imputabili, come sottolinea Amatucci, Il superamento delle preclusioni probatorie e l’ampliamento del diritto di difesa del contribuente, in Riv. trim. dir. trib., 2014, 275. L’A. evidenzia, ad esempio, che la mancata partecipazione al contraddittorio non deve precludere al ricorrente la possibilità di esibire i documenti in qualsiasi grado di giudizio, qualora il reperimento degli stessi risulti effettivamente non agevole soprattutto se si considerano i limitati poteri istruttori.

responsabilizzazione del contribuente (45) che, per le richiamate ragioni di celerità e speditezza, è tenuto, sin dalla c.d. fase procedimentale, ad esibire i documenti ritenuti utili, al punto che il legislatore attribuisce valore al silenzio considerandolo rifiuto a collaborare e collegando ad esso il divieto di utilizzo delle prove non esibite (46). Quanto detto in ragione del fatto che, sempre in ossequio ad esigenze di economicità, già la fase amministrativa sia finalizzata all’instaurazione di un dialogo preventivo tra amministrazione finanziaria e contribuente al fine di favorire la definizione delle reciproche posizioni e, se del caso, evitare l’instaurazione del contenzioso giudiziario.

3. La legislazione d’urgenza: il c.d. contraddittorio cartolare coatto

A sollevare dubbi interpretativi e non poche criticità non è, quindi, tanto la digitalizzazione della giustizia tributaria - la quale ben si concilia con la natura essenzialmente documentale del rito - quanto la “straordinaria” normativa dettata dal legislatore in tempi di emergenza sanitaria da Covid 19 (47). Nello specifico, l’art. 27, d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, convertito in l. 18 dicembre del 2020, n. 176 (48), ha introdotto misure urgenti sullo svolgimento del rito tributario, applicabili per tutta la durata dello stato di emergenza, ove sussistano divieti, limiti, impossibilità di circolazione su tutto o parte del territorio nazionale ovvero altre situazioni di pericolo per l’incolumità pub-

(45) È opportuno precisare che, solo in presenza di un invito specifico e puntuale all’esibizione da parte dell’amministrazione, purché accompagnato dall’avvertimento circa le conseguenze della sua mancata ottemperanza, si configura l’ipotesi delle cc.dd. preclusioni, come osserva Conigliaro, Presupposti e modalità operative di ricerche e ispezioni documentali nei controlli fiscali, in Il Fisco, 2018, 3207.  (46) Ridonda, ancora una volta, lo stretto rapporto tra istruttoria procedimentale e quella processuale tributaria, dal momento che la prova si forma nel corso della fase procedimentale: il contribuente, pertanto, deve esibire tutti i documenti ritenuti utili in quanto la fase processuale dovrà basarsi sugli elementi già acquisiti in sede istruttoria.  (47) La legislazione dell’emergenza, peraltro, interviene in un sistema, quale quello tributario, già in crisi sotto diversi profili. Si pensi, a titolo meramente esemplificativo, alla mancanza di una norma generale che prescriva il contraddittorio endoprocedimentale per tutte le tipologie di accertamento, senza distinzione alcuna tra tributi armonizzati e tributi non armonizzati, come specifica Glendi, Le caotiche mutazioni dei termini del processo tributario durante la pandemia da Koronavirus, in Riv. giur. trib., 2020, 389 ss., il quale evidenzia come la giustizia tributaria in fase di emergenza sia ridotta ad uno stato di totale acquiescenza coatta.  (48) L. 18 dicembre 2020, n. 176, concernente la “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto - legge 28 ottobre 2020, n. 137, recante ulteriori misure urgenti in materia di tutela della salute, sostegno ai lavoratori e alle imprese, giustizia e sicurezza, connesse all’emergenza epidemiologica da Covid - 19”.

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SAGGI blica o dei soggetti a vario titolo interessati nel processo tributario (49). Nessuna questione particolare viene prospettata dal primo comma della suddetta disposizione, avente carattere meramente “autorizzatorio” e “prescrittivo”, riconoscendo, nel caso di impedimenti allo svolgimento delle udienze camerali o pubbliche in presenza, la possibilità di collegamento da remoto o “parzialmente” a distanza (50), alle uniche condizioni della preventiva autorizzazione del Presidente della Commissione Tributaria (51) e, nel rispetto delle garanzie costituzionali, della comunicazione alle parti, sia della data fissata per la trattazione della causa, sia dell’ora e delle modalità di svolgimento prescelte. A suscitare non poche perplessità è, invece, il comma 2 dell’art. 27, d.l. n. 137 del 2020, convertito in l. n. 176 del 2020, che ha previsto, in alternativa al collegamento da remoto, la possibilità che le controversie fissate per la trattazione in udienza pubblica passino “in decisione allo stato degli atti” a meno che una delle parti “non insista per la discussione”, ancorché a distanza (52). Qualora, poi, non sia proprio possibile procedervi, si prospetta la cd. “udienza cartolare”, mediante “trattazione scritta”, riconoscendo il diritto per le parti di depositare memorie “conclusionali” e di “replica”, dieci e cinque giorni prima della trattazione, salvo rinviare a nuovo ruolo qualora i suddetti termini non possano essere rispettati. Il comma in esame presenta, evidentemente, non poche criticità, laddove, consentendo il passaggio della causa allo “stato degli atti” ovvero mediante “trattazione scritta”, genera un evidente vulnus per il contribuente, in quanto ne ostacola il confronto con il giudice, indispensabile per far comprendere la propria posizione difensiva. Sebbene, infatti, nel processo tributario la discussione in udienza pubblica rappresenti una eccezione e non la regola (art. 33, comma 1, d.lgs. n. 546 del 1992) (53),

(49) Per un commento, in generale, cfr. Succio, Decreto ristori: la trattazione in forma emergenziale del contenzioso tributario, in Quotidiano giuridico, all’indirizzo <http://www.quotidianogiuridico.it>, 2 novembre 2020.  (50) Tale ultima ipotesi si configura, ad esempio, allorché uno o più giudici siano e possano essere fisicamente presenti nella sede della Commissione, mentre altri siano collegati da remoto, con conseguente redazione da parte della segreteria dell’apposito verbale.  (51) Vero e proprio atto di legittimazione all’utilizzo dello strumento informatico.  (52) Qualora una delle parti insista per la discussione, la relativa istanza dovrà essere notificata alle altre parti costituite e depositata almeno due giorni liberi anteriori alla data fissata per la trattazione.  (53) Ed infatti, ai sensi dell’art. 33, comma 1, d.lgs. 546 del 1992, “la controversia è trattata in camera di consiglio, salvo che almeno una delle parti non abbia chiesto la discussione in pubblica udienza con apposita

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essa costituisce pur sempre un diritto di cui è titolare il contribuente e il cui libero esercizio rileva soprattutto alla luce del fatto che l’istruttoria amministrativa abbia già carattere “documentale” e sia, pertanto, sprovvista di qualsivoglia profilo di oralità. La prova, del resto, si forma in seno a tale fase, caratterizzata da una interazione tra amministrazione finanziaria e contribuente, sicché l’udienza pubblica consentirebbe a quest’ultimo di interagire anche con l’organo giudiziale, vieppiù se si considera che, in assenza di prova testimoniale, l’udienza in questione sia l’unica possibilità di confronto verbale (54). Il passaggio della causa “allo stato degli atti” impedisce, evidentemente, la dialettica processuale tra le parti, di cui l’udienza costituisce la sede naturale. E, se è pur vero che il menzionato comma 2 dell’art. 27, d.l. n.137 del 2020, convertito in l. n. 176 del 2020, fa salva la possibilità per l’interessato di “insistere” per la discussione, è anche vero, però, che, qualora non fosse possibile procedervi, la regola sarebbe quella della trattazione scritta e, dunque, di un confronto documentale, introducendo, indiscutibilmente, la possibilità di un contraddittorio, sia pur cartolare, che, a sua volta, si traduce in una vera e propria “udienza cartolare” (55). Anche quest’ultima prospettazione, però, suscita incertezze, in quanto finirebbe per contemplare una trattazione della causa c.d. semiplena, poiché caratterizzata da un confronto documentale tra le parti, ma sprovvista dell’interlocuzione verbale con il giudice (56). Né, qualora non sia possibile rispettare i termini per la presentazione delle memorie, soddisfa l’extrema ratio dell’ammissibilità del rinvio a nuovo ruolo, in quanto, con tale espediente, si finirebbe per pregiudicare ulteriormente

istanza da depositare nella segreteria e notificare alle altre parti costituite entro il termine di cui all’art. 32, comma 2”.  (54) Il canone fondamentale del contraddittorio opera, d’altronde, nell’ottica peculiare della prevenzione di qualsiasi provvedimento giurisdizionale “a sorpresa”, come sottolinea Comoglio, Giudizio di legittimità, trattazione camerale “non partecipata” e processo equo, in Nuova giur. civ. comm., 2017, 1028 ss.  (55) Il diritto al contraddittorio per effetto della trattazione scritta viene, quindi, garantito dallo scambio degli ordinari atti processuali e delle specifiche note aggiuntive, come argomenta Salvini, Il contraddittorio nel rito emergenziale del processo tributario, reperibile all’indirizzo <http://www. amtmail.it>, 11 giugno 2020, per la quale la legislazione dell’emergenza può derogare ai diritti fondamentali, purché, però, sussistano i presupposti di ragionevolezza.  (56) Affinché possa trattarsi di full jurisdiction la difesa deve, infatti, consistere non solo nella trattazione cartolare, ma anche nel confronto verbale con l’autorità giudiziaria. La parte, del resto, può esercitare il diritto potestativo di insistere per la discussione orale, sicché il Presidente della Commissione potrà decidere di rinviare la causa a nuovo ruolo anche in considerazione della complessità delle questioni di fatto o di diritto prospettate nel ricorso.


SAGGI l’esigenza di concentrazione e di speditezza a fondamento della digitalizzazione del “sistema giustizia”. Se, dunque, è pacifico che il contribuente sia titolare di un “diritto all’udienza pubblica”, il comma 2 dell’art. 27, d.l. n. 137 del 2020, convertito in l. n. 176 del 2020, ne costituisce una palese compressione, impedendone il legittimo esercizio. Segnatamente, una maggiore frizione è ravvisabile non tanto nel “contraddittorio cartolare”, di per sé già tollerato dal contribuente in ragione della delineata natura essenzialmente documentale del processo tributario, ma nell’“imposizione dall’alto” di siffatta modalità. La scelta, dunque, di rinunciare al confronto “pubblico” tra la prova ed il giudice deve essere, in ogni caso, rimessa al contribuente, che può scegliere la linea difensiva più conforme alle proprie esigenze, facendo valere il diritto ad una interlocuzione giudiziale. Situazione soggettiva questa che risulta violata anche dalla previsione di cui all’ultimo periodo del detto comma, laddove, mediante una vera e propria fictio iuris, prescrive che le parti, nonostante il mancato svolgimento dell’udienza “pubblica”, siano considerate presenti e che gli stessi provvedimenti si intendano assunti presso la sede dell’ufficio.

4. Il diritto all’udienza pubblica e i dubbi di legittimità costituzionale

La novella di cui all’art. 27, d.l. n. 137 del 2020, convertito in l. n. 176 del 2020, solleva, in definitiva, non pochi dubbi e incertezze, soprattutto se parametrata ai principi enunciati dalla nostra Costituzione. Nessun problema viene, infatti, a porsi solo per quanto riguardi il comma 1 che, come detto, ha carattere meramente “autorizzatorio” rispetto allo svolgimento delle udienze “da remoto”. Di converso, il comma 2 si presta a giudizi di legittimità costituzionale. Il passaggio della causa “allo stato degli atti”, al pari della “trattazione cartolare”, sembra, d’altronde, prospettare una violazione della disposizione normativa di cui all’art. 24, comma 1, Cost., non già rispetto alla parte in cui si prescrive il diritto di difesa che potrebbe essere espletato mediante la cd. trattazione cartolare - né laddove è tutelata l’azione in giudizio, ma rispetto al riconoscimento del diritto all’interlocuzione giudiziale ovvero di esporre puntualmente le proprie ragioni ad un organo a ciò abilitato. Il contribuente verrebbe, del resto, privato della possibilità di interagire con l’autorità giudiziaria che deciderebbe la causa senza confronto orale con la parte, con conseguente pregiudizio per il “diritto all’udienza pubblica” di cui è appunto titolare il soggetto passivo dell’obbligazione tributaria (art. 33, comma 1, d.lgs. n. 546 del 1992). Né il sopracitato comma 2 dell’art. 27, d.l. n. 137 del 2020, convertito in l. n. 176 del 2020, supera il vaglio di costituzionalità rispetto all’art. 101 Cost., che attribuisce

al popolo il potere di “legittimare” le funzioni statali. Ed infatti, l’udienza camerale, che non sia risultato di una libera scelta, ma di una coartazione, priva evidentemente il cittadino del potere di “controllo” sulla legittimità dell’attività giurisdizionale introducendo d’imperio una giustizia “invisibile”. In considerazione, poi, della subordinazione dell’ordinamento giuridico interno ai vincoli derivanti dal diritto comunitario (art. 117, comma 1, Cost.) (57), il detto comma deve sottoporsi alla verifica di compatibilità non solo con l’art. 41 CEDU e, quindi, con la garanzia del diritto ad una buona amministrazione, ma pure con l’art. 6 della medesima Convenzione, laddove si prescrive il diritto di ogni persona a che la sua causa sia “esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale” (c.d. fair trial). Tra i presupposti per il giusto procedimento, l’ordinamento comunitario inserisce, infatti, la pubblicità (58), a garanzia della trasparenza (59), salvo derogarvi laddove, in circostanze speciali, possa configurarsi un “pregiudizio agli interessi della giustizia”. Il problema diventa, pertanto, di ordine interpretativo, dovendosi comprendere se in tale “clausola di salvezza” vi rientri anche lo “stato di emergenza sanitaria” tale da legittimare l’adozione di provvedimenti derogatori a scapito delle garanzie procedimentali (60). Sorgono, inoltre, dubbi sulla compatibilità del comma 2, art. 27, d.l. n. 137 del 2020, convertito in l. n. 176 del 2020, con l’art. 111 Cost., che istituzionalizza il principio secondo il quale ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità davanti ad un giudice terzo ed imparziale, garantendo il diritto di

(57) Sulla premessa di una sempre maggiore compenetrazione tra ordinamento comunitario e quello nazionale si è giunti a riconoscere ai principi comunitari il ruolo di patrimonio comune, come osservano Carinci - Deotto, Il contraddittorio tra regola e principio: considerazioni critiche sul revirement della Suprema Corte, in Il Fisco, 2016, 207 ss. Cfr. altresì Comelli, I diritti della difesa, in materia tributaria alla stregua del diritto dell’Unione Europea e, segnatamente, il “Droit d’etre entendu” e il diritto ad un processo equo, in Dir. pratica trib., 2020, 1315 ss. per il quale il contraddittorio deve essere considerato parte integrante del diritto di difesa e principio generale del diritto dell’Unione.  (58) Pubblico è ciò che si realizza in una situazione fisica in cui le parti siano presenti in una medesima aula di udienza nella quale interagiscono tra loro e con un pubblico cui non può essere negato l’accesso, come ritiene Zucchelli, Sulla udienza telematica, in Federalismi, all’indirizzo <http:// www.federalismi.it>, 13 maggio 2020, 1 ss.  (59) Villani, La giustizia tributaria tra esigenze pratiche e vincoli di diritto interno ed europeo del “giusto processo”, in Dir. pratica trib., 2016, 1004 ss.  (60) Al riguardo, Griffi, Tutela dei diritti e organizzazione della giustizia nell’emergenza, all’indirizzo <http://www.giustizia-amministrativa.it>, 2020, osserva che “nella situazione emergenziale, la pienezza del contraddittorio e la pubblicità dell’udienza possono subire delle attenuazioni purché tali adattamenti del processo ordinario siano compatibili con il rispetto delle garanzie procedimentali”.

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SAGGI ogni cittadino ad ottenere una sentenza giusta e giustificata (61). Ragion per cui il difficile compito è, ancora una volta, quello di comprendere se lo stato di emergenza sanitaria possa costituire una ragione giustificatrice per derogare ai principi costituzionali (62). Al fine di risolvere tali delicate questioni, utile può apparire un raffronto con il processo amministrativo cui è toccata, per certi versi, la stessa sorte del rito tributario (63). Ed infatti, con il d.l. 17 marzo del 2020, n. 18 (64), il legislatore, all’art. 84, comma 5, ha istituito una legislazione emergenziale con soppressione dell’udienza pubblica in favore del “contraddittorio cartolare coatto”, salvo, però, poi ripristinare il confronto “verbale”, anche nel periodo emergenziale (65), sotto forma di oralità condizionata, a mezzo, cioè, di udienze in video-conferenze (66).

(61) Affinché la decisione possa dirsi giusta e giustificata, occorre che sia il risultato di un iter seguito dall’autorità giudiziaria con il supporto anche delle dichiarazioni rese dal contribuente in sede di contraddittorio. Ne viene che, in ragione di un logico automatismo tra contraddittorio e motivazione, la sentenza pronunciata in assenza di contraddittorio sarebbe viziata sotto il profilo motivazionale.  (62) L’altra possibile via per giungere a contestare la costituzionalità del cd. processo cartolare “coatto” è considerarlo una forma di abuso del diritto dell’emergenza, come puntualizza Lagrotta, Il contraddittorio cartolare coatto tra interpretazione conforme a Costituzione e dubbi di legittimità (nota a C. Stato, 21 aprile 2020, Sez. VI, nn. 2358 e 2539), in Federalismi, all’indirizzo <http://www.federalismi.it>, 13 maggio 2020, 1 ss.  (63) Per un approfondimento, cfr. Freni, Coronavirus e misure emergenziali adottate in materia di Giustizia amministrativa e contabile, disponibile nell’Osservatorio sull’amministrazione digitale di Fernanda Faini - Marco Mancarella di questa Rivista, all’indirizzo <http://dirittodiinternet.it/ ammdigitale>, 13 marzo 2020.  (64) Convertito, con modificazioni, dalla l. 24 aprile 2020, n. 27 e su cui si rimanda a De Nictolis, Il processo amministrativo ai tempi della pandemia, in Federalismi, all’indirizzo <http://www.federalismi.it>, 15 aprile 2020, 1 ss.  (65) Si segnala, peraltro, che sull’apparato processuale emergenziale è tornato ad intervenire il legislatore: con l’art. 4 del d.l. 30 aprile 2020, n. 28, infatti, è stato introdotto un nuovo modello di rito che, a partire dal 30 maggio, si è aggiunto a quello preesistente. Il decreto in questione ha provveduto a rispristinare il principio del contradditorio orale anche nel periodo emergenziale dovuto al coronavirus, prevedendo la possibilità che, a decorrere dal 30 maggio e fino al 31 luglio 2020, possa essere chiesta dalle parti o disposta d’ufficio, in qualsiasi udienza pubblica o camerale, la discussione orale mediante collegamento da remoto con modalità idonee a salvaguardare il contraddittorio e l’effettiva partecipazione dei difensori all’udienza. In sostanza, il nuovo d.l. ha inserito nel processo amministrativo, sia pure a livello temporaneo, l’udienza in videoconferenza, con conseguente mutamento del contraddittorio cartolare in oralità condizionata. Cfr., in punto, D’Alessandri, Udienze da remoto nel processo amministrativo: ecco le regole tecnico - operative, in Quotidiano giuridico, all’indirizzo <http://www.quotidianogiuridico.it>, 28 maggio 2020.  (66) Remotti, Emergenza covid 19: quali novità per il processo amministrativo?, in Giorn. dir. amm., 2020, 426.

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Al riguardo, il Consiglio di Stato, con le ordinanze nn. 2538 e 2539 del 2020 (67), ha evidenziato che, sebbene il processo amministrativo (al pari di quello tributario) non sia caratterizzato da un contraddittorio cd. forte (68), proprio dei giudizi dibattimentali, sia imprescindibile, tuttavia, il rispetto dei principi del giusto processo (69). L’imposizione dell’assenza forzata, non solo del pubblico ma anche dei difensori, per tale autorità giudiziaria, finirebbe, allora, per connotare il rito emergenziale in termini di giustizia “segreta”, refrattaria, in quanto tale, ad ogni forma di controllo pubblico” (70). Favorevole, invece, alla natura derogatoria della legislazione dell’emergenza è il T.a.r. Napoli che, con sentenza del 29 maggio 2020, n. 2074 (71), ha asserito la legittimità del contraddittorio cartolare coatto muovendo dall’assunto che l’oralità non sia elemento necessario ai fini della effettività del rito. I giudici di prime cure evidenziano, in particolare, come sussista una differenza ontologica tra contraddittorio e oralità, nel senso che il primo, certamente ineludibile, si estrinseca in un insieme di fasi che precedono la decisione del giudice che, nel caso di specie, non risulterebbero intaccate; mentre l’oralità si invera in una modalità di svolgimento dell’attività processuale, come tale “eventualmente surrogabile, specie in condizioni emergenziali e per un periodo di

(67) C. Stato, Sez. VI, (ord.), 21 aprile 2020, nn. 2538 e 2539, in Giur. it., 2020, 1236 ss., con nota di Marandola, Il contraddittorio cartolare coatto non è conforme a Costituzione; in Federalismi, all’indirizzo <http://www. federalismi.it>, 13 maggio 2020, 1 ss., con nota di Lagrotta, op. cit.; e all’indirizzo <http://www.ilprocessotelematico.it>, 11 agosto 2020, con nota di Ricciulli, Il contraddittorio e il principio di oralità nel processo “emergenziale”.  (68) Il processo tributario presenta analogie con quello amministrativo, a partire dal fatto che entrambi sono definiti giudizi di impugnazione che originano dalla presentazione di un ricorso. Per un approfondimento, cfr. Perongini, Le impugnazioni nel processo amministrativo, Milano, 2011, passim.  (69) L’art. 84, comma 5, d.l. n. 18 del 2020, deve essere interpretato nel senso che, sussistendo le circostanze e le ragioni sopra menzionate (istanza di una delle parti; complessità e delicatezza della controversia o comunque quando la causa non sia di tale semplicità da non richiedere alcuna discussione; la non compromissione del diritto della controparte ad una ragionevole durata del processo), non potendo il giudice ordinare un contraddittorio solo di tipo cartolare, lo stesso può rinviare la discussione della causa “in un arco temporale che non superi l’anno in corso (tenuto conto della durata del rito cartolare fino a fine giugno, della sospensione feriale dei termini e del carico delle udienze già aggravato dall’emergenza pandemica da COVID-19)” così da garantire “un giusto contemperamento delle posizioni delle parti ed evitare di ledere il diritto di difesa”. In merito, si rinvia a Ricciulli, op. cit.  (70) A. Marandola, op. cit., 1236.  (71) T.a.r. Napoli, Sez. I, 29 maggio 2020, n. 2074, all’indirizzo <http:// www.giustizia-amministrativa.it>. In dottrina, cfr. Gambetta, Principio di oralità e passaggio in decisione “senza discussione” nel processo amministrativo dell’emergenza: l’art. 84 del d.l. 18 del 2020 supera una (prima) prova di costituzionalità, reperibile all’indirizzo <http://www.ildiritto.it>, 1 giugno 2020.


SAGGI tempo limitato, da altri modelli” (72), vieppiù se, come nel caso in questione, il difetto di confronto verbale risulta bilanciato dall’introduzione dell’ulteriore strumento delle “brevi note”. Il T.a.r. Napoli ha, così, preso atto della situazione emergenziale mondiale, in quanto tale, irripetibile ed eccezionale e, al fine di non pregiudicare il buon andamento della giustizia amministrativa (art. 97 Cost.), ha ritenuto ammissibile una neutralizzazione temporanea del diritto all’interlocuzione giudiziale. Se non fosse, però, che l’interesse al buon andamento della giustizia tributaria deve essere inderogabilmente contemperato in favore delle garanzie processuali, riconosciute “a regime” dall’ordinamento giuridico, e che non possono essere per certo soppresse a causa dell’inadeguatezza degli strumenti informatici degli uffici tributari (73). Sulla scorta di quanto argomentato, e, quindi, in ossequio alle insopprimibili guarentigie costituzionali di cui è titolare il contribuente, è, allora, la posizione assunta dal Consiglio di Stato ad apparire condivisibile, anche al fine di uniformare i diversi ambiti dell’ordinamento giuridico. L’auspicio è, pertanto, di un sollecito intervento modificativo dell’art. 27, comma 2, d.l. n. 137 del 2020, convertito in l. n. 176 del 2020 - nella parte in cui introduce un confronto meramente cartolare a sacrificio dell’udienza pubblica - e, nell’attesa di siffatta azione legislativa, opportuna risulta la sospensione delle cause fino a quando non sia possibile procedere al collegamento da remoto, al fine di garantire lo svolgimento del processo a norma delle invocate garanzie costituzionali.

(72) T.a.r. Napoli, Sez. I, 29 maggio 2020, n. 2074, cit.  (73) Ed infatti, la scelta dell’applicazione della disciplina telematica spetta al Capo dell’Ufficio giudiziario il quale, con decreto, può disporre l’utilizzo del collegamento da remoto per tutte le udienze (pubbliche e camerali), purché, però, gli strumenti informatici della giustizia tributaria lo consentano e nei limiti delle risorse tecniche e finanziarie disponibili. Per un approfondimento si rinvia a Carinci - Rasia, Il processo tributario al tempo del Covid - 19, in Il processo tributario, a cura di Carinci - Rasia, cit., 771 ss.; Glendi, Nuove tipologie di udienze, anche da remoto, nel processo tributario ex Covid 19, all’indirizzo <http://www.ipsoa.it>, 20 giugno 2020.

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GIURISPRUDENZA EUROPEA

La tutela della privacy del domicilio informatico e il diritto d’autore: un difficile bilanciamento Corte

di

Giustizia

dell ’U nione

E uropea ; Quinta Sezione; sentenza 9 luglio 2020, Causa C-264/19

«Rinvio pregiudiziale - Diritto d›autore e diritti connessi - Piattaforma di video online - Caricamento di un film senza il consenso del titolare - Procedimento riguardante la violazione di un diritto di proprietà intellettuale - Direttiva 2004/48/CE - Articolo 8 - Diritto d›informazione del richiedente - Articolo 8, paragrafo 2, lettera a) - Nozione di «indirizzo» - Indirizzo di posta elettronica, indirizzo IP e numero di telefono - Esclusione». L’articolo 8, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2004/48/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, sul rispetto dei diritti di proprietà intellettuale, dev’essere interpretato nel senso che la nozione di «indirizzo» ivi contenuta non si riferisce, per quanto riguarda un utente che abbia caricato file lesivi di un diritto di proprietà intellettuale, al suo indirizzo di posta elettronica, al suo numero di telefono nonché all’indirizzo IP utilizzato per caricare tali file o all’indirizzo IP utilizzato in occasione del suo ultimo accesso all’account utente.

In fatto Nella causa C-264/19, avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell’articolo 267 TFUE, dal Bundesgerichtshof (Corte federale di giustizia, Germania), con decisione del 21 febbraio 2019, pervenuta in cancelleria il 29 marzo 2019, nel procedimento Constantin Film Verleih contro YouTube LLC, Google Inc. (…) 1. La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’articolo 8, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2004/48/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, sul rispetto dei diritti di proprietà intellettuale (GU 2004, L 157, pag. 45, e rettifica in GU 2004, L 195, pag. 16). 2. Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra, da un lato, la Constantin Film Verleih GmbH, società distributrice di film con sede in Germania, e, dall’altro, YouTube LLC e Google Inc., con sede negli Stati Uniti, in merito alle informazioni richieste dalla Constantin Film Verleih a queste due società riguardanti gli indirizzi di posta elettronica, gli indirizzi IP e i numeri di telefono cellulare di utenti che hanno commesso violazioni dei suoi diritti di proprietà intellettuale. Contesto normativo dell’Unione Direttiva 2004/48 3. I considerando 2, 10, 15 e 32 della direttiva 2004/48 sono del seguente tenore: «2) (...) [La tutela della proprietà intellettuale] non dovrebbe essere di ostacolo alla libertà d›espressione, alla

libera circolazione delle informazioni, alla tutela dei dati personali, anche su Internet. (...) (10) L’obiettivo della presente direttiva è di ravvicinare queste legislazioni al fine di assicurare un livello elevato, equivalente ed omogeneo di protezione della proprietà intellettuale nel mercato interno. (...) (15) La presente direttiva dovrebbe far salva la direttiva 95/46/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 24 ottobre 1995, relativa alla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati [(JO 1995, L 281, pag. 31)] (...). (...) (32) La presente direttiva rispetta i diritti fondamentali e osserva i principi riconosciuti segnatamente nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Essa mira in particolare ad assicurare il pieno rispetto della proprietà intellettuale in conformità all’articolo 17, paragrafo 2, di tale Carta». 4. A termini dell’articolo 1 di tale direttiva, rubricato «Oggetto», essa «concerne le misure, le procedure e i mezzi di ricorso necessari ad assicurare il rispetto dei diritti di proprietà intellettuale». 5. L’articolo 2 di tale direttiva, intitolato «Campo d’applicazione», ai paragrafi 1 e 3, lettera a), prevede quanto segue: «1. Fatti salvi gli strumenti vigenti o da adottare nella legislazione comunitaria o nazionale, e sempre che questi siano più favorevoli ai titolari dei diritti, le misure, le

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GIURISPRUDENZA EUROPEA procedure e i mezzi di ricorso di cui alla presente direttiva si applicano, conformemente all›articolo 3, alle violazioni dei diritti di proprietà intellettuale come previsto dalla legislazione comunitaria e/o dalla legislazione nazionale dello Stato membro interessato. (...) 3. La presente direttiva fa salve: a) le disposizioni comunitarie che disciplinano il diritto sostanziale di proprietà intellettuale [e] la direttiva 95/46(...)». 6. L’articolo 8 della medesima direttiva, intitolato «Diritto d’informazione», così dispone: «1. Gli Stati membri assicurano che, nel contesto dei procedimenti riguardanti la violazione di un diritto di proprietà intellettuale e in risposta a una richiesta giustificata e proporzionata del richiedente, l›autorità giudiziaria competente possa ordinare che le informazioni sull›origine e sulle reti di distribuzione di merci o di prestazione di servizi che violano un diritto di proprietà intellettuale siano fornite dall›autore della violazione e/o da ogni altra persona che: a) sia stata trovata in possesso di merci oggetto di violazione di un diritto, su scala commerciale; b) sia stata sorpresa a utilizzare servizi oggetto di violazione di un diritto, su scala commerciale; c) sia stata sorpresa a fornire su scala commerciale servizi utilizzati in attività di violazione di un diritto; oppure d) sia stata indicata dai soggetti di cui alle lettere a), b) o c) come persona implicata nella produzione, fabbricazione o distribuzione di tali prodotti o nella fornitura di tali servizi. 2. Le informazioni di cui al paragrafo 1 comprendono, ove opportuno, quanto segue: a) nome e indirizzo dei produttori, dei fabbricanti, dei distributori, dei fornitori e degli altri precedenti detentori dei prodotti o dei servizi, nonché dei grossisti e dei dettaglianti; b) informazioni sulle quantità prodotte, fabbricate, consegnate, ricevute o ordinate, nonché sul prezzo spuntato per i prodotti o i servizi in questione. 3. I paragrafi 1 e 2 si applicano fatte salve le altre disposizioni regolamentari che: a) accordano al titolare diritti d’informazione più ampi; b) disciplinano l’uso in sede civile o penale delle informazioni comunicate in virtù del presente articolo; c) disciplinano la responsabilità per abuso del diritto d’informazione; d) accordano la possibilità di rifiutarsi di fornire informazioni che costringerebbero i soggetti di cui al paragrafo 1 ad ammettere la [propria] partecipazione personale o quella di parenti stretti ad una violazione di un diritto di proprietà intellettuale; oppure

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e) disciplinano la protezione o la riservatezza delle fonti informative o il trattamento di dati personali». Contesto normativo Stato membro Diritto tedesco 7. Ai sensi dell’articolo 101, paragrafo 1, prima frase, del Gesetz über Urheberrecht und verwandte Schutzrechte - Urheberrechtsgesetz (legge sul diritto d’autore e sui diritti connessi), del 9 settembre 1965 (BGBl. 1965 I, pag. 1273), nella sua versione applicabile alla controversia principale (in prosieguo: l’«UrhG»), a chiunque, su scala commerciale, violi il diritto d›autore o un altro diritto protetto da tale legge può essere ingiunto, dalla persona lesa, di fornire immediatamente informazioni sull›origine e sul canale di distribuzione delle copie oggetto di violazione di un diritto o di altri prodotti. 8. In caso di violazione manifesta, fatto salvo l’articolo 101, paragrafo 1, dell’UrhG, tale diritto d’informazione può essere esercitato, ai sensi dell’articolo 101, paragrafo 2, prima frase, punto 3, dell’UrhG, anche nei confronti di una persona che ha fornito su scala commerciale servizi utilizzati per l’esercizio di attività di violazione di un diritto. 9. A norma dell’articolo 101, paragrafo 3, punto 1, dell’UrhG, la persona che è tenuta a fornire le informazioni deve indicare nome e indirizzo dei produttori, dei fornitori e degli altri precedenti detentori delle copie o degli altri prodotti, degli utenti dei servizi nonché dei grossisti e dei dettaglianti. 10. Conformemente all’articolo 111, paragrafo 1, prima frase, punti 2 e 3, del Telekommunikationsgesetz (legge relativa alle telecomunicazioni), del 22 giugno 2004 (BGBl. 2004 I, pag. 1190), nella versione applicabile alla controversia principale (in prosieguo: il «TKG»), all’atto dell’assegnazione dei numeri telefonici, sono raccolti e conservati il nome e l’indirizzo del titolare della linea nonché, se si tratta di una persona fisica, la sua data di nascita. 11. Ai sensi dell’articolo 111, paragrafo 1, terza frase, del TKG, dette informazioni devono, inoltre, essere verificate con riferimento ai servizi prepagati. 12. Ai sensi dell’articolo 111, paragrafo 2, del TKG, all’atto dell’assegnazione di un indirizzo di posta elettronica, tale verifica e tale conservazione non sono obbligatorie. Procedimento principale e questioni pregiudiziali 13. La Constantin Film Verleih dispone in Germania dei diritti di sfruttamento esclusivi, tra le altre, sulle opere cinematografiche «Parker» e «Scary Movie 5». 14. Nel corso degli anni 2013 e 2014, tali opere sono state caricate sul sito Internet www.youtube.com, una piattaforma gestita da YouTube che consente agli utenti di pubblicare, visualizzare e condividere video (in prosie-


GIURISPRUDENZA EUROPEA guo: la «piattaforma YouTube»). Tali opere sono quindi state visualizzate varie decine di migliaia di volte. 15. La Constantin Film Verleih esige, da parte di YouTube e di Google, società controllante della prima, che le sia fornito un insieme di informazioni relative a ciascuno degli utenti che ha proceduto al caricamento delle medesime opere (in prosieguo: gli «utenti di cui trattasi»). 16. Il giudice del rinvio rileva, a tale riguardo, che, per caricare video sulla piattaforma YouTube, gli utenti devono anzitutto registrarsi su Google con un account utente; l’apertura di tale account richiede, da parte di detti utenti, soltanto l’indicazione di un nome, di un indirizzo e di una data di nascita. Tali dati non sono solitamente verificati e l’indirizzo postale dell’utente non viene richiesto. Tuttavia, per poter pubblicare sulla piattaforma YouTube video di durata superiore a 15 minuti, l’utente deve indicare un numero di telefono cellulare per consentirgli di ricevere un codice di attivazione, necessario per effettuare tale pubblicazione. Peraltro, secondo le condizioni generali di utilizzo e di protezione dei dati comuni di YouTube e di Google, gli utenti della piattaforma YouTube autorizzano la memorizzazione dei registri server, ivi compreso l’indirizzo IP, la data e l’ora di utilizzo e le diverse richieste nonché l’utilizzo a livello di gruppo di tali dati. 17. Dopo che le parti del procedimento principale hanno unanimemente dichiarato che la controversia di primo grado relativa ai nomi e agli indirizzi postali degli utenti di cui trattasi era stata formalmente definita, la Constantin Film Verleih, avendo ottenuto solo nomi utenti fittizi, ha chiesto che fosse ordinato a YouTube e Google di fornirle informazioni supplementari. 18. Tali informazioni supplementari hanno ad oggetto, da un lato, gli indirizzi di posta elettronica e i numeri di telefono cellulare nonché gli indirizzi IP utilizzati dagli utenti di cui trattasi per il caricamento dei file, con il momento esatto di tale caricamento indicante la data e l’ora, compresi i minuti, i secondi e il fuso orario, ossia il momento del caricamento, e, dall’altro, l’indirizzo IP utilizzato da ultimo da tali utenti per entrare nel loro account Google al fine di accedere alla piattaforma YouTube, sempre con il momento esatto dell’accesso indicante la data e l’ora, compresi i minuti, i secondi e il fuso orario, ossia il momento dell’accesso. 19. Con la sua sentenza del 3 maggio 2016, il Landgericht Frankfurt am Main (Tribunale del Land, Francoforte sul Meno, Germania) ha respinto la domanda della Constantin Film Verleih. Per contro, su appello di quest’ultima, con sentenza del 22 agosto 2018, l’Oberlandesgericht Frankfurt am Main (Tribunale superiore del Land, Francoforte sul Meno, Germania) ha accolto parzialmente la domanda della Constantin Film Verleih, e ha condannato YouTube e Google a fornirle gli

indirizzi di posta elettronica degli utenti di cui trattasi, respingendo tale appello quanto al resto. 20. Con il suo ricorso per Revision (cassazione), proposto dinanzi al giudice del rinvio, il Bundesgerichtshof (Corte federale di giustizia, Germania), la Constantin Film Verleih persiste nelle sue domande dirette a ottenere la condanna di YouTube e di Google a fornirle i numeri di telefono cellulare nonché gli indirizzi IP degli utenti di cui trattasi. Peraltro, con il loro proprio ricorso per Revision, YouTube e Google chiedono il rigetto integrale della domanda della Constantin Film Verleih, anche nella parte in cui la stessa riguarda la comunicazione degli indirizzi di posta elettronica degli utenti di cui trattasi. 21. Il giudice del rinvio ritiene che l’esito di questi due ricorsi per Revision dipenda dall’interpretazione dell’articolo 8, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2004/48 e, in particolare, dalla risposta alla questione se le informazioni supplementari richieste dalla Constantin Film Verleih rientrino nel termine «indirizzo», ai sensi di tale disposizione. 22. In tale contesto, il Bundesgerichtshof (Corte federale di giustizia) ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali: «1) Se gli indirizzi dei produttori, dei fabbricanti, dei distributori, dei fornitori e degli altri precedenti detentori dei prodotti o dei servizi, nonché dei grossisti e dei dettaglianti di cui all›articolo 8, paragrafo 2, lettera a), della direttiva [2004/48], ai quali si estendono le informazioni di cui all›articolo 8, paragrafo 1, della medesima direttiva, riguardino anche, se del caso, a) gli indirizzi e-mail degli utenti dei servizi e/o b) i numeri di telefono degli utenti dei servizi e/o c) gli indirizzi IP utilizzati dagli utenti dei servizi per caricare file lesivi di un diritto, nonché l’ora esatta del caricamento. 2) In caso di soluzione affermativa della prima questione sub c): Se le informazioni da fornire ai sensi dell’articolo 8, paragrafo 2, lettera a), della direttiva [2004/48] riguardino anche l’ultimo indirizzo IP utilizzato dall’utente, che in precedenza ha caricato file lesivi di un diritto, per accedere al proprio account Google/YouTube, nonché l’ora esatta dell’accesso, indipendentemente dal fatto che durante tale ultimo accesso siano state commesse violazioni [della proprietà intellettuale]». Motivi della decisione Sulle questioni pregiudiziali 23. Con le sue questioni, che è opportuno esaminare congiuntamente, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 8, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2004/48 debba essere interpretato nel senso che la

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GIURISPRUDENZA EUROPEA nozione di «indirizzo» si riferisce, per quanto riguarda un utente che abbia caricato file lesivi di un diritto di proprietà intellettuale, al suo indirizzo di posta elettronica, al suo numero di telefono nonché all’indirizzo IP utilizzato per caricare tali file o all’indirizzo IP utilizzato in occasione del suo ultimo accesso all’account utente. 24. Nel caso di specie, è pacifico che YouTube e Google forniscono, su scala commerciale, servizi di cui gli utenti di cui trattasi si sono avvalsi per attività di violazione di un diritto, consistenti nell’aver caricato, sulla piattaforma YouTube, file contenenti opere protette, a danno della Constantin Film Verleih. La controversia principale verte sul rifiuto di queste società di fornire talune informazioni richieste dalla Constantin Film Verleih relative a detti utenti, in particolare i loro indirizzi di posta elettronica e numeri di telefono nonché gli indirizzi IP utilizzati da questi ultimi sia al momento del caricamento dei file in questione sia al momento dell’ultimo accesso al loro account Google/YouTube. Risulta dalla decisione di rinvio, e non è peraltro contestato nell’ambito della presente causa, che l’esito del procedimento principale dipende dalla questione se informazioni siffatte rientrino nella nozione di «indirizzo», ai sensi dell’articolo 8, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2004/48. 25. A tale riguardo, occorre in via preliminare ricordare che, a termini dell’articolo 8, paragrafo 1, lettera c), della direttiva 2004/48, gli Stati membri assicurano che, nel contesto dei procedimenti riguardanti la violazione di un diritto di proprietà intellettuale e in risposta a una richiesta giustificata e proporzionata del richiedente, l’autorità giudiziaria competente possa ordinare che le informazioni sull’origine e sulle reti di distribuzione di merci o di prestazione di servizi che violano un diritto di proprietà intellettuale siano fornite dall’autore della violazione e/o da ogni altra persona che sia stata sorpresa a fornire su scala commerciale servizi utilizzati in attività di violazione di un diritto. 26. L’articolo 8, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2004/48 precisa che le informazioni di cui al paragrafo 1 di tale articolo comprendono, ove opportuno, nome e indirizzo dei produttori, dei fabbricanti, dei distributori, dei fornitori e degli altri precedenti detentori dei prodotti o dei servizi, nonché dei grossisti e dei dettaglianti. 27. Ne consegue che, in forza dell’articolo 8 della direttiva 2004/48, gli Stati membri devono garantire che le autorità giudiziarie competenti possano, in una situazione come quella di cui al procedimento principale, ordinare al gestore della piattaforma online di fornire il nome e l’indirizzo di qualsiasi persona indicata al paragrafo 2, lettera a), di tale articolo che abbia caricato su tale piattaforma un film senza il consenso del titolare del diritto d’autore.

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28. Per quanto riguarda la questione se la nozione di «indirizzo», ai sensi dell’articolo 8, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2004/48, includa anche gli indirizzi di posta elettronica, i numeri di telefono e gli indirizzi IP di tali persone, occorre rilevare che, poiché tale disposizione non contiene alcun espresso richiamo al diritto degli Stati membri per la determinazione del suo senso e della sua portata, la nozione di «indirizzo» costituisce una nozione di diritto dell’Unione che deve normalmente dar luogo, nell’intera Unione, a un’interpretazione autonoma e uniforme (v., per analogia, sentenza del 29 luglio 2019, Spiegel Online, C-516/17, EU:C:2019:625, punto 62 e giurisprudenza ivi citata). 29. Inoltre, poiché la direttiva 2004/48 non definisce tale nozione, la determinazione del significato e della portata della stessa deve essere operata conformemente al suo senso abituale nel linguaggio corrente, tenendo conto allo stesso tempo del contesto in cui essa è utilizzata e degli scopi perseguiti dalla normativa in cui essa si inserisce nonché, eventualmente, della sua genesi (v., in tal senso, sentenze del 29 luglio 2019, Spiegel Online, C-516/17, EU:C:2019:625, punto 65, e del 19 dicembre 2019, Nederlands Uitgeversverbond e Groep Algemene Uitgevers, C-263/18, EU:C:2019:1111, punto 38 e giurisprudenza ivi citata). 30. Per quanto riguarda, in primo luogo, il senso abituale del termine «indirizzo», occorre constatare, come rilevato dall’avvocato generale ai paragrafi 30 e 33 delle sue conclusioni, che, nel linguaggio corrente, esso riguarda unicamente l’indirizzo postale, vale a dire il luogo di domicilio o di residenza di una determinata persona. Ne consegue che tale termine, qualora, come all’articolo 8, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2004/48, sia utilizzato senza ulteriori precisazioni, non si riferisce all’indirizzo di posta elettronica, al numero di telefono o all’indirizzo IP. 31. In secondo luogo, i lavori preparatori che hanno portato all’adozione della direttiva 2004/48 e, in particolare, la proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa alle misure e alle procedure volte ad assicurare il rispetto dei diritti di proprietà intellettuale, del 30 gennaio 2003 [COM(2003) 46 definitivo], il parere del Comitato economico e sociale europeo del 29 ottobre 2003 (GU 2004, C 32, pag. 15), e la relazione del Parlamento europeo del 5 dicembre 2003 (A50468/2003) su tale proposta si inseriscono nel solco di tale constatazione. Infatti, come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 37 delle sue conclusioni e come sostenuto dalla Commissione europea dinanzi alla Corte, essi non contengono alcun indizio tale da suggerire che il termine «indirizzo» utilizzato all’articolo 8, paragrafo 2, lettera a), di detta direttiva debba intendersi riferito non solo all’indirizzo postale, ma anche all’indirizzo di


GIURISPRUDENZA EUROPEA posta elettronica, al numero di telefono o all’indirizzo IP delle persone interessate. 32. In terzo luogo, il contesto nel quale la nozione di cui trattasi è utilizzata corrobora un’interpretazione del genere. 33. Infatti, come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 35 delle sue conclusioni, dall’esame di altri atti di diritto dell’Unione che fanno riferimento all’indirizzo di posta elettronica o all’indirizzo IP emerge che nessuno di essi utilizza il termine «indirizzo», senza ulteriori precisazioni, per designare il numero di telefono, l’indirizzo IP o l’indirizzo di posta elettronica. 34. In quarto luogo, l’interpretazione esposta ai punti da 31 a 33 della presente sentenza è altresì conforme alla finalità perseguita dall’articolo 8 della direttiva 2004/48, tenuto conto dell’obiettivo generale di detta direttiva. 35. A tale riguardo, è pur vero che il diritto d’informazione previsto dal suddetto articolo 8 mira a rendere applicabile e a dare espressione concreta al diritto fondamentale ad un ricorso effettivo garantito dall’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali e ad assicurare in tal modo l’esercizio effettivo del diritto fondamentale di proprietà, nel cui novero rientra il diritto di proprietà intellettuale tutelato all’articolo 17, paragrafo 2, di quest’ultima (sentenza del 16 luglio 2015, Coty Germany, C-580/13, EU:C:2015:485, punto 29), consentendo al titolare di un diritto di proprietà intellettuale di individuare la persona che lo viola e di prendere i provvedimenti necessari per tutelare tale diritto (v., in tal senso, sentenza del 18 gennaio 2017, NEW WAVE CZ, C-427/15, EU:C:2017:18, punto 25). 36. Tuttavia, in sede di adozione della direttiva 2004/48, il legislatore dell’Unione ha scelto di procedere a un’armonizzazione minima relativamente al rispetto dei diritti di proprietà intellettuale in generale (v., in tal senso, sentenza del 9 giugno 2016, Hansson, C-481/14, EU:C:2016:419, punto 36). Pertanto, tale armonizzazione è limitata, all’articolo 8, paragrafo 2, di tale direttiva, a elementi di informazione ben circoscritti. 37. Occorre peraltro rilevare che la direttiva 2004/48 ha lo scopo di stabilire un equilibrio tra, da una parte, l’interesse dei titolari alla tutela del loro diritto di proprietà intellettuale, sancita all’articolo 17, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali, e, dall’altra, la tutela degli interessi e dei diritti fondamentali degli utenti di materiali protetti nonché dell’interesse generale (v., per analogia, sentenze del 29 luglio 2019, Funke Medien NRW, C-469/17, EU:C:2019:623, punto 57; del 29 luglio 2019, Pelham e a., C-476/17, EU:C:2019:624, punto 32, nonché del 29 luglio 2019, Spiegel Online, C-516/17, EU:C:2019:625, punto 42). 38. Per quanto più specificamente riguarda l’articolo 8 della direttiva 2004/48, la Corte ha già avuto occasione di dichiarare che detta disposizione mira a conciliare il

rispetto di diversi diritti, in particolare il diritto d’informazione dei titolari e il diritto alla tutela dei dati personali degli utenti (v., in tal senso, sentenza del 16 luglio 2015, Coty Germany, C-580/13, EU:C:2015:485, punto 28). 39. Infine, occorre precisare che, sebbene dalle considerazioni che precedono risulti che gli Stati membri non hanno l’obbligo, in forza dell’articolo 8, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2004/48, di prevedere la possibilità, per le autorità giudiziarie competenti, di ordinare la fornitura dell’indirizzo di posta elettronica, del numero di telefono o dell’indirizzo IP delle persone indicate in tale disposizione nel contesto di un procedimento riguardante la violazione di un diritto di proprietà intellettuale, resta il fatto che gli Stati membri dispongono di una simile facoltà. Infatti, come risulta dalla formulazione stessa dell’articolo 8, paragrafo 3, lettera a), di tale direttiva, il legislatore dell’Unione ha espressamente previsto la possibilità, per gli Stati membri, di concedere ai titolari di diritti di proprietà intellettuale il diritto di ricevere un’informazione più ampia, purché, tuttavia, sia garantito un giusto equilibrio tra i diversi diritti fondamentali coinvolti e siano rispettati gli altri principi generali del diritto dell’Unione, quali il principio di proporzionalità (v., in tal senso, ordinanza del 19 febbraio 2009, LSG-Gesellschaft zur Wahrnehmung von Leistungsschutzrechten, C-557/07, EU:C:2009:107, punto 29, e sentenza del 19 aprile 2012, Bonnier Audio e a., C-461/10, EU:C:2012:219, punto 55). 40. Alla luce di tutte le considerazioni che precedono, occorre rispondere alle questioni poste dichiarando che l’articolo 8, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2004/48 dev’essere interpretato nel senso che la nozione di «indirizzo» ivi contenuta non si riferisce, per quanto riguarda un utente che abbia caricato file lesivi di un diritto di proprietà intellettuale, al suo indirizzo di posta elettronica, al suo numero di telefono nonché all’indirizzo IP utilizzato per caricare tali file o all’indirizzo IP utilizzato in occasione del suo ultimo accesso all’account utente. Sulle spese 41. Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione. P.Q.M. la Corte (Quinta Sezione) dichiara: L’articolo 8, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2004/48/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, sul rispetto dei diritti di proprietà intellettuale, dev’essere interpretato nel senso che la nozione di «indirizzo» ivi contenuta non si riferisce, per

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GIURISPRUDENZA EUROPEA quanto riguarda un utente che abbia caricato file lesivi di un diritto di proprietà intellettuale, al suo indirizzo di posta elettronica, al suo numero di telefono nonché

all’indirizzo IP utilizzato per caricare tali file o all’indirizzo IP utilizzato in occasione del suo ultimo accesso all’account utente.

IL COMMENTO

di Alfonso Contaldo Sommario: 1. Premesse. – 2. La responsabilità degli ISP e i controlli “a posteriori” a seguito di segnalazioni di violazioni di diritto d’autore. – 3. L’interpretazione restrittiva sulle informazioni rilasciabili al titolare del diritto d’autore. La sentenza in epigrafe offre la possibilità di soffermarci sull’evoluzione tecnologica nell’ambito della società dell’informazione e l’esigenza di individuare punti di equilibrio in quelle “terre di confine” dove la giurisprudenza consolidata viene a doversi confrontare con nuove situazioni non ancora completamente univoche nel sistema giuridico. The judgement offers a possibility to dwell on the technological evolution in the Information Society and on the necessity to identify the right points of balance with regard to those “borderlands” where the consolidated jurisprudence has to deal with new situation not yet univocal pursuant to the legal system.

1. Premesse

La Corte di Giustizia dell’Unione europea ci evidenzia come gli indirizzi IP e di posta elettronica di soggetti che abbiano violato il diritto d’autore on line non possono essere oggetti della richiesta legittima dei titolari del diritto de qua nei confronti delle piattaforme digitali. Nel caso di specie, seppure è risultato pacifico che tali piattaforme fornissero, su scala commerciale, servizi on line anche avvalendosi, in una specifica attività di caricamento sulla piattaforma di YouTube, di opere in violazione di un diritto d’autore sui file contenenti opere protette, a danno della parte attrice, tuttavia l’aspetto controverso portato innanzi alla Corte verteva sulla legittimità o meno del rifiuto da parte di queste società di fornire talune informazioni richieste dal titolare dei diritti d’autore relative ai cd. trasgressori, ed in particolare i loro indirizzi di posta elettronica e numeri di telefono nonché gli indirizzi IP utilizzati da questi ultimi sia al momento del caricamento dei file in questione sia al momento dell’ultimo accesso al loro account Google/YouTube. La Corte si è vista porre il quesito se le informazioni richieste dalla parte attrice rientrassero nella nozione di «indirizzo», ai sensi dell’art. 8, par. 2, lettera a), della direttiva 2004/48/CE. Occorre ricordare che, a termini dell’art. 8, par. 1, lettera c), della direttiva 2004/48/CE, gli Stati membri assicurano che, nel contesto dei procedimenti riguardanti la violazione di un diritto di proprietà intellettuale e in risposta a una richiesta giustificata e proporzionata del richiedente, l’Autorità giudiziaria competente possa ordinare che le informazioni sull’origine e sulle reti di distribuzione di merci o di prestazione di servizi che violino un diritto di proprietà intellettuale siano fornite dall’autore della vio-

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lazione e/o da ogni altra persona che sia stata sorpresa a fornire su scala commerciale servizi utilizzati in attività di violazione di un diritto; tuttavia l’art. 8, par. 2, lettera a), della direttiva 2004/48/CE precisa che le suddette informazioni comprendono, ove opportuno, nome e indirizzo dei produttori, dei fabbricanti, dei distributori, dei fornitori e degli altri precedenti detentori dei prodotti o dei servizi, nonché dei grossisti e dei dettaglianti: gli Stati membri devono pertanto garantire che le autorità giudiziarie competenti possano, in una situazione come quella di cui al procedimento principale, ordinare al gestore della piattaforma online di fornire il nome e l’indirizzo di qualsiasi persona che abbia caricato su tale piattaforma un film senza il consenso del titolare del diritto d’autore, soprattutto se l’attività della piattaforma non sia di mero hosting (1) bensì quello di un vero e proprio content provider (2).

(1) Gli hosting providers sono gli operatori tecnologici che forniscono un servizio di rete che si sostanzia nella disponibilità ad allocare, sui propri server web le pagine web di un sito rendendolo, così, accessibile nella rete. Il server web definito host consente la connessione ad Internet mantenendo le pagine web ospitate, senza realizzarle o modificarle, in modo da consentirne la visione agli utenti.  (2) In questo caso è da considerarsi come un provider che fornisce, non solo lo spazio di memorizzazione e visibilità della pagina web e del relativo contenuto ma, bensì, diretto autore dei contenuti e, quindi, responsabile degli stessi. “Ne consegue che l’illiceità dei contenuti è imputabile solo ed esclusivamente al fornitore e non all’host provider, escludendo che quest’ultimo abbia un obbligo giuridico di accertare ed eventualmente impedire immissioni di messaggi illeciti da parte del gestore del sito”. Così Cassano, Contaldo, La natura giuridica e la responsabilità civile degli internet Service Providers (ISP): il punto sulla giurisprudenza, in Corr. giur., 2009, n. 9, 1212 ss.


GIURISPRUDENZA EUROPEA Bisogna ricordare che la Direttiva n. 31/2000/CE sul commercio elettronico (3), recepita in Italia con D. lgs. 9 aprile 2003 n. 70 si occupa della tutela e dell’affidabilità delle transazioni predisponendo una disciplina dei prestatori di servizi in rete. Tale norma prevede esplicite esenzioni dei prestatori di servizi dalla responsabilità, nel caso di illeciti commessi dagli utenti tramite i loro servizi, in presenza di specifici requisiti sanciti dall’art. 16 del D. lgs. n. 70 del 2003. Infatti, quest’ultima disposizione prevede l’irresponsabilità dell’hosting provider laddove: “a) non sia effettivamente a conoscenza del fatto che l’attività o l’informazione è illecita e, per quanto attiene ad azioni risarcitorie, non sia al corrente di fatti o di circostanze che rendono, manifesta l’illiceità dell’attività o dell’informazione; b) non appena a conoscenza di tali fatti, su comunicazione delle autorità competenti, agisca immediatamente per rimuovere le informazioni o per disabilitarne l’accesso”. L’art. 16, come mostrato, sancisce queste esclusioni di responsabilità considerando l’inesigibilità (4) della prestazione di controllo dei contenuti in capo al provider di hosting che non abbia avuto un ruolo attivo e diretto nella realizzazione dei contenuti stessi.

2. La responsabilità degli ISP e i controlli “a posteriori” a seguito di segnalazioni di violazioni di diritto d’autore

Sul tema bisogna ricordare che la giurisprudenza della Corte di Giustizia sin dalle pronunce C-70/10 (Scarlet c.- Sabam) e C-360/10 (Netlog c. Sabam) ha circoscritto la responsabilità dell’ISP, per violazioni dei diritti della proprietà intellettuale a mezzo della rete, allorquando non abbiano effettuato dei controlli a posteriori in seguito a specifiche segnalazioni. Appare doveroso richiamare il considerato n.59 della direttiva europea 2001/29/CE sull’armonizzazione di taluni aspetti del diritto d’autore e dei diritti connessi alla società dell’informazione la quale specifica “In particolare in ambito digitale, i servizi degli intermediari possono essere sempre più utilizzati da terzi per attività illecite. In molti casi siffatti intermediari sono i più idonei a porre fine a dette attività illecite. Pertanto fatte salve le altre sanzioni e i mezzi di tutela a disposizione, i titolari dei diritti dovreb-

bero avere la possibilità di chiedere un provvedimento inibitorio contro un intermediario che consenta violazioni in rete da parte di un terzo contro opere o altri materiali protetti” (5). Definizione richiamata dalla Corte di Giustizia nell’ambito del provvedimento C-314/12 (UPC Telekabel Wien GmbH c. Constantin Film Verleih GmbH e Wega Filmproduktionsgesellschaft mbH) (6), sulla stregua della risoluzione del Parlamento Europeo del 27 novembre 2014 sul sostegno ai diritti dei consumatori nel mercato unico digitale 2014/2973 (RSP) (7), che ai punti 15, 17 e 21 mostra le preoccupazioni riguardo all’abuso di posizione dominante dei motori di ricerca (fra i quali è da annoverare la stessa Yahoo!). Nello specifico il punto 15 “osserva che il mercato dei motori di ricerca online (8) è particolarmente importante per garantire condizioni concorrenziali all’interno del mercato unico digitale, data la potenziale evoluzione dei motori di ricerca in sistemi di filtro dei contenuti (gatekeeper) e la loro possibilità di commercializzare lo sfruttamento secondario delle informazioni ottenute; invita pertanto la Commissione ad applicare con fermezza le norme dell’UE in materia di concorrenza, sulla base del contributo di tutti i soggetti interessati e tenendo conto dell’intera struttura del mercato unico digitale, al fine di garantire mezzi di ricorso che vadano effettivamente a vantaggio dei consumatori, degli utenti di Internet e delle imprese online; invita inoltre la Commissione a prendere in considerazione proposte volte a separare i motori di ricerca da altri servizi commerciali quali strumenti potenziali a lungo termine per conseguire gli obiettivi summenzionati”. La conseguenza più immediata non particolarmente approfondita dalla Corte è la facilità con cui si possono riprodurre in Internet opere coperte dal diritto d’autore e la possibilità di dare o meno un carattere personale alle idee immateriali o alle immagini, tenuto conto del fatto che la multimedialità è realizzata con immagini e suoni. Si presentano, pertanto, due ordini di problemi: da un lato la smaterializzazione del supporto informativo, dall’altro la difficoltà di distinguere esattamente ciò che è nuovo, ciò che innova, dalla porzione di originale che c’è in un’opera dell’ingegno. Un contributo interessante a questo dibattito è stato apportato dall’OMPI

(5) Fonte: <http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2001:167:0010:0019:IT:PDF>.  (3) Vedi per tutti Delfini, Il commercio elettronico, II, Trattato di diritto dell’economia, diretto da Picozza, Gabrielli, Torino, 2004, spec. 142 ss.; infine vedi i saggi del collettaneo in Tosi (a cura di), La tutela del consumatore in Internet e nel commercio elettronico, Milano, 2012.

(6) Vedi punto 27 provvedimento C-314/12 (UPC Telekabel Wien GmbH c. Constantin Film Verleih GmbH e Wega Filmproduktionsgesellschaft mbH) Fonte: <http://owlitalia.com/wp-content/uploads/2014/04/sentenza.pdf>.

(4) Vedi Trib. Roma, 4 luglio 1998, in Dir. inf. 1998, 807 e ss., con nota di Costanzo, I newsgroup al vaglia dell’autorità giudiziaria (ancora a proposito della responsabilità degli attori d’Internet) e in Arch. Civ. 2000, 1252 e ss., con nota di Carapella, Cassano, Il danno da informazioni a mezzo reti telematiche. Ai fini di una lettura più approfondita della materia si prenda visione di De Cata, La responsabilità civile dell’internet service provider, 2010, 174 e ss.

(7) Fonte: <http://www.europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?pubRef=-%2f%2fEP%2f%2fTEXT%2bTA%2bP8-TA-2014-0071%2b0%2bDOC%2bXML%2bV0%2f%2fIT&language=IT>.  (8) Sul punto vedi Sammarco, Il motore di ricerca. Nuovo bene della Società dell’informazione: funzionamento, responsabilità e tutela della persona, in Dir. inf., 2006, 621 ss.

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GIURISPRUDENZA EUROPEA (Organizzazione Mondiale per la Proprietà Intellettuale) che, in una conferenza tenutasi a Ginevra nel 1996, con l’intento di aggiornare la Convenzione di Berna sul diritto d’autore ed il Trattato di Roma sui diritti connessi rispetto alle nuove problematiche giuridiche poste da Internet, è stato stipulato un trattato per una nuova forma di diritto sui generis, per la regolamentazione delle banche dati. Questo diritto non sarebbe però previsto a tutela delle creazioni intellettuali, ma per proteggere gli investimenti economici sostenuti dai costitutori per la creazione delle banche dati. Un’altra novità deriva anche dalle fattispecie comportamentali a cui si applica il diritto sui generis: si parla di estrazione, termine che sta ad indicare la specifica operazione effettuata dagli utenti nella consultazione dei dati archiviati nei data base, più limitata dell’uso e della riproduzione (9). Resta da stabilire quale sia la tutela apprestata alle pagine Web, anch’esse forma particolare di editoria elettronica. Il mero collegamento ipertestuale non è stato ritenuto suscettibile di tutela, né nei sistemi di copyright né in quelli di origine europea basati sul diritto d’autore. Infatti la pagina che rinvia, tramite ipertesti, ad altri documenti non può essere considerata un’originale struttura di accesso all’informazione da proteggere come una banca dati. L’affermazione della tutela delle opere diffuse via rete telematica comporta importanti conseguenze: così in materia di trasmissione di file, il gestore del server, che copia il file nel proprio computer e poi lo mette a disposizione del pubblico, dovrà chiedere una duplice autorizzazione (una per l’attività di copia, assimilabile alla riproduzione, l’altra per la comunicazione elettronica); l’utente, nel momento in cui prelevi un file, ponendo in essere un’operazione di riproduzione, necessita anch’egli di apposite autorizzazioni, soprattutto se può ritenersi sostenibile l’inapplicabilità alle comunicazioni telematiche della cosiddetta eccezione dell’uso personale, valida in molte legislazioni con riferimento ad altre categorie di opere . Allo stesso modo, nel caso di consultazione di pagine web, il gestore del server deve ottenere una duplice autorizzazione, mentre l’utente dovrà ottenere il consenso dell’autore solo se il transito della memoria del suo computer possa essere qualificato come riproduzione. Ci si chiede a questo  (9) Vedi al riguardo Pardolesi, Software di base e diritto d’autore: una tutela criptobrevettuale?, in Foro it., 1988, I, 3132; Spolidoro, Il sito web, in AIDA, 1998, 178; Musso Ipertesti e thesauri nella disciplina del diritto d’autore, in AIDA, 1998, 211;Gattei, Tutela dell’opera multimediale su rete telematica: la situazione europea, in Dir. inf., 1998, 469 ss.; Cunegatti, La creazione dell’autore come opera dell’ingegno, in Masi (a cura di) L’autore nella rete, Milano, 2000, spec. 29 ss.; Bonelli, Il sito web quale opera dell’ingegno, in Dir. inf., 2002, 199 ss.; Marzano, Il digital audio sampling tra diritto d’autore, right of publicity e legge Marchi, in Dir. aut., 2002, 193 ss.; Di Cocco, L’opera multimediale. Qualificazione giuridica e regime di tutela, Torino, 2005, 42 ss., Chimenti, Lineamenti del nuovo diritto d’autore. Aggiornato con il d. lgs. 118/2006 e con il d. lgs. 140/2006, Milano, 2006, spec. 143 ss.

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punto se i principi fin d’ora enunciati siano realmente efficaci nella protezione dei diritti di proprietà intellettuale sulle reti telematiche, ed in particolare su Internet. In riferimento al diritto d’autore si sono create correnti di pensiero in favore della soppressione di questo diritto in riferimento agli usi delle reti telematiche , convinti che lo scopo primario di ogni legislatore sia quello di mettere il patrimonio della creatività a disposizione della comunità, anche se i diritti degli autori paiono difficilmente sopprimibili allo stato attuale; tuttavia le opere pubblicate in origine su rete, scritte dunque elettronicamente, mantengono una valenza di oralità essendo temporanee, precarie, potendo sparire senza lasciare traccia alcuna della loro previa esistenza. Non esiste, infatti, alcun strumento riconosciuto dalla legge che possa fornire la prova certa dell’anteriorità della pubblicazione dell’opera e quindi della sua paternità. Perdurando un tale vuoto legislativo, gli autori e gli editori, non sentendosi tutelati, difficilmente pubblicheranno originariamente le loro opere sulla rete, rivolgendosi invece ai media tradizionali, relegando alla rete il ruolo di mezzo di diffusione secondario se non occasionale; ciò avverrà in costanza di un‘editoria che risulta essere molto più sensibile a soddisfare le necessità primarie del lettore quali un accesso semplice e veloce, con costi minimi, ad una grande mole di informazioni di vario genere, elaborate e soprattutto aggiornate continuamente. Compito principale e di vitale importanza per l’industria multimediale, appare quello dell’appropriazione tempestiva e conveniente dei diritti di sfruttamento relativi alle opere da inserire nel prodotto finale. La questione riguardante l’acquisizione dei diritti insistenti sulle opere da inserire nel titolo multimediale, trova la fonte principale nella legge sul diritto d’autore (legge 22 aprile 1941 n.633). I singoli contributi informativi si possono amalgamare e completarsi l’un l’altro a formare un tutt’uno, in un modo che esso potrebbe essere accostato più alle tradizionali opere composte (disciplinate ex art. 33 l.d.a.) che alle opere collettive (10). Tuttavia, ciò che realizza la connessione tra i diversi contributi informativi contenuti nel prodotto multimediale è pur sempre il progetto tecnico e quindi un’attività creativa che (come avviene appunto nelle opere collettive) si colloca a un livello superiore e distinto rispetto ai singoli contributi, determinando il risultato finale. Non ci si può stupire che assai dibattuto appaiono la possibilità e l’opportunità di dare una definizione giuridica della nuova categoria di “opere multimediali” e di stabilire la tutela specifica che ad

(10) Vedi al riguardo Fabiani, Banche dati e multimedialità, in Dir. aut., 1999, 1 ss.; Pascuzzi, Il diritto nell’era digitale, III ed., Bologna, 2012, 172 ss.


GIURISPRUDENZA EUROPEA essa vada accordata  (11). La questione è incentrata sulla possibilità di configurare per queste nuove categorie di opere o piuttosto considerare la multimedialità come uno strumento di veicolazione delle opere divulgate già su altro supporto. In tale ottica la stessa Direttiva 96/9/ CE può rappresentare una tendenza del diritto d’autore a offrire la propria tutela ad opere contraddistinte soprattutto da una intelligente sintesi del lavoro anche altrui. Sia che il testo si imperni sui criteri della scelta e del coordinamento (art. 3 l.d.a.), sia che si imperni sui criteri della scelta o della disposizione (art. 3.1 Direttiva 96/9), l’editoria ipertestuale risulta riconducibile tanto alla più tradizionale categoria delle opere collettive, benché il legislatore nazionale taccia del fine informativo (visto che risulta problematico immaginare una finalità informativa allo stato puro, come distinta da finalità di altro genere, letterarie, scientifiche, didattiche, ecc.) quanto alla più recente figura delle banche dati. Tuttavia, appare evidente che la nozione di banca dati accolta dalla Direttiva risulta pericolosamente prossima a quella in uso per le opere collettive in ambito nazionale o internazionale (v. art. 2.5 Convenzione di Berna) (12). Sicché, da una parte, è condivisibile l’opinione secondo la quale l’elemento specializzante andrebbe ravvisato in una maggiore ampiezza del potenziale oggetto di una banca dati rispetto a quello di un’opera collettiva generalmente intesa e nella simultanea, e non alternativa, presenza nella fase di creazione di quest’ultima sia dell’elemento della scelta che dell’elemento del coordinamento (“disposizione” secondo la Direttiva). Pertanto, data la mancanza di un espresso coordinamento fra la Direttiva n. 96/9/CE e la disciplina delle opere collettive, operato dal legislatore in sede d’attuazione, si va incontro ad una sovrapposizione pressoché integrale tra le possibili discipline. Benché si possa affermare che in tale conflitto normativo dovrebbe senz’altro prevalere la regolamentazione di fonte comunitaria, in virtù del principio del primato del diritto comunitario su quello interno, non sono da escludersi in futuro soluzioni giu-

(11) Vedi in tal senso Ubertazzi, Raccolte elettroniche di dati e diritto d’autore: prime riflessioni, in Foro it., 1994, V, 21 ss.; Daffarra, D’addio, Le opere multimediali e la tutela del diritto d’autore, nel sito <http://www.interlex. com>; inoltre si rinvia a Cardarelli, Banche dati pubbliche. Una definizione, in Dir. inf., 2002, 796 ss. ed alla bibliografia colà citata.; vedi infine Sirotti Gaudenzi, Il diritto d’autore in rete: aspetti tecnici e analisi giuridica, in Sirotti Gaudenzi (a cura di), Trattato breve di diritto della rete. Le regole di Internet, Rimini, 2001, 57 ss.  (12) Vedi in tal senso quando la direttiva era ancora in itinere Di Minco, La tutela giuridica delle banche dati verso una direttiva comunitaria, in Inf. Dir., 1996, 45 ss.; vedi altresì Cardarelli, Il diritto sui generis: la durata, in AIDA,1997, 64 ss.; Autelitano, La rilevanza delle banche dati nel sistema del “cyberlaw”, in Contratti, 1999, 29 ss.; Giannantonio, voce Banche di dati (tutela delle), in Enc. dir. agg. V., Milano, 2001, 130 ss.; Fauceglia, voce Banche dati (tutela delle), cit., 4 (ad vocem); Pascuzzi, Il diritto dell’era digitale, cit., 186 ss.

risprudenziali favorevoli alla disciplina nazionale. Tentativi in tal senso potrebbero essere giustificati dalla necessità di continuare a garantire quegli interessi ritenuti tradizionalmente rilevanti nel settore dell’informazione, (quello dei privati relativo allo sfruttamento economico dell’opera multimediale e quello del pubblico relativo alla libera circolazione dell’informazione), interessi che, nel corso degli anni e attraverso il consolidamento degli indirizzi della giurisprudenza e della prassi politico-economica in materia, hanno trovato una sicura base di tutela nella nostra legge sul diritto d’autore. Non sembra da sopravvalutare la lieve differenza di formulazione tra l’art. 3 della Direttiva (“per la scelta o la disposizione”) e l’art. 3 l.d.a. (“scelta e coordinamento”) (13). Si consideri, infatti, che l’art. 3 l.d.a. richiede per la protezione un carattere di creazione autonoma “come risultato della scelta e del coordinamento”; al risultato richiesto si giunge quindi con la combinazione di due attività e se una delle due ha un coefficiente creativo assai basso, ciò non esclude che il risultato di creazione autonoma possa essere raggiunto con l’altra componente. Inoltre occorre precisare a fini di completezza espositiva che, anche ammettendo l’applicabilità al prodotto editoriale multimediale della disciplina nazionale dell’opera collettiva, quest’ultima fattispecie sarebbe comunque configurabile solo ove si realizzi una vera e propria opera in collaborazione (categoria più ampia in cui rientra, tra l’altro, l’opera collettiva) tra gli autori dei diversi contributi informativi e colui che dirige ed organizza l’opera multimediale. Ne consegue che non si avrebbe opera in collaborazione, e quindi opera collettiva, quando un soggetto di propria iniziativa incorporasse un altrui opera preesistente nell’opera da lui stesso pensata. È il caso, preso come esempio emblematico, di un opera multimediale composta da informazioni o da rinvii ipertestuali ad informazioni selezionate e disposte visualmente sul computer dell’utente sulla base di un’operazione di reperimento effettuata mediante un software di ricerca che seleziona ed organizza automaticamente opere informative o semplici notizie diffuse precedentemente sul Web, spesso nell’ambito di siti di informazione qualificabili come opere collettive, e ciò senza che vi sia alcun accordo o attività concertata a tal fine tra gli autori dei singoli contributi. Si avrà in tal caso una semplice opera derivata frutto di un processo, più o meno raffinato, di rielaborazione in cui il soggetto titolare in via originaria del diritto d’autore è l’elaboratore stesso ex art. 7.2 della l.d.a. Peraltro, che l’opera multimediale sia qualificabile allo stesso tempo come una banca dati e un’opera derivata non pone problemi di difformità

(13) Cfr. al riguardo Nivarra, Le liste di discussione, in AIDA, 1998, 196 ss.; Fabiani, Banche dati e multimedialità, cit., 1 ss.

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GIURISPRUDENZA EUROPEA di disciplina per quanto riguarda l’individuazione del titolare dei diritti di utilizzazione economica poiché sia l’art. 6 l.d.a. che la Direttiva 96/9/CE attribuiscono tali diritti in via originaria all’autore dell’opera , salva l’applicazione delle rispettive disposizioni sulla creazione di un prodotto editoriale nell’ambito di un rapporto di lavoro subordinato. Nell’ambito di un sito online, le opere ivi raccolte risultano individualmente accessibili solamente qualora essi siano organizzati all’interno di una struttura ipertestuale e/o un sistema di reperimento mediante motori di ricerca specializzati  (14) che, attraverso la comunicazione interattiva, consentono all’utente di scegliere mano a mano le informazioni di suo interesse, escludendo il resto. Questo non vuol dire che per essere qualificato come banca dati un sito di informazione debba necessariamente essere costituito da un insieme di legami ipertestuali o motori di ricerca ognuno dei quali rinvia ad una pagina contenente un’unica unità informativa (notizia, articolo, servizio). Infatti, stando alla lettera dell’art. 3 della Direttiva, affinché una qualsiasi raccolta di dati possa essere qualificata come banca dati è sufficiente che ad essere individualmente accessibili siano, se non propriamente le singole opere o i singoli dati, almeno gli “altri elementi indipendenti”. L’opera multimediale è una banca dati ai sensi della Direttiva 96/9/CE quando presenti un sistema di suddivisione e reperimento delle informazioni (struttura ipertestuale e/o motori di ricerca) che permetta un accesso visualmente distinto ai diversi argomenti di informazione, si identifichino essi con le singole unità informative raccolte (“opere, dati”) ovvero con sezioni più ampie che comprendono parecchie unità informative alla volta (“al-

(14) Vedi Nivarra, Le liste di discussione, cit., 200 ss.: “(…) se è vero che le raccolte di elementi indipendenti di vario genere (opere, dati, altro) saranno sempre delle banche dati, mentre le raccolte esclusivamente di opere saranno assimilabili ora al paradigma delle opere collettive ora a quello delle banche dati. (…) il criterio distintivo tra le due fattispecie potrebbe farsi risiedere nel modo di intendere il requisito dell’originalità, valorizzando a tal fine la circostanza che, laddove la legge speciale esige che le opere collettive siano “il risultato della scelta e del coordinamento”, per la Dir. 96/9 sembra che le banche dati soddisfino gli estremi di una creazione autonoma in virtù della semplice scelta o della semplice disposizione del materiale. Ne discende che un’opera collettiva, come opera dell’ingegno, presupporrebbe la contestuale operatività di due criteri ispiratori, il primo inerente alla scelta, il secondo inerente al coordinamento, mentre per dar vita ad una banca dati originale basterebbe attivare un solo criterio alla volta. (…) Le opere collettive di cui alla legge speciale identificherebbero, in altri termini, una classe di banche dati (di opere) caratterizzate da un più elevato grado di creatività e, quindi, assoggettabili ad una disciplina almeno in parte diversa da quella dettata per le banche dati in generale”. In tal senso vedi altresì Cardarelli, op. et loc. supra cit. Vedi altresì i saggi contenuti nel numero monografico della rivista Nuove leggi civ. comm., 2003, n.4 a cura di Auteri, Attuazione della direttiva 96/9/ CE relativa alla tutela giuridica delle banche dati (d. lgs. 6 maggio 1999 n.169); inoltre più recentemente vedi Chimienti, Fabiani, La nuova proprietà intellettuale nella Società dell’informazione, cit., 142 ss.

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tri elementi indipendenti”); tale interpretazione appare tanto più corroborata dalla evoluzione dell’informazione on line, che si rivela uno spazio di informazione in Internet, diffuso come un sito web ovvero come una serie periodica di messaggi e-mail, che facciano a meno di links e presentino tutti i saggi ed i servizi informativi, anche se contengono dei titoli iniziali in forma di links che rinviano alle diverse sezioni o unità informative che si susseguono nella pagina durante lo scorrimento.

3. L’interpretazione restrittiva sulle informazioni rilasciabili al titolare del diritto d’autore

La Corte di Giustizia pone un ulteriore problema riguardo la questione se la nozione di «indirizzo», ai sensi dell’articolo 8, paragrafo 2, lettera a), della direttiva n. 2004/48/CE, includa anche gli indirizzi di posta elettronica, i numeri di telefono e gli indirizzi IP di tali persone; al riguardo la posizione della Corte di Giustizia sembra tendere ad un’interpretazione restrittiva della norma, rilevando che, poiché tale disposizione non contiene alcun espresso richiamo al diritto degli Stati membri per la determinazione del suo senso e della sua portata, la nozione di «indirizzo» costituisce una nozione di diritto dell’Unione che deve normalmente dar luogo, nell’intera Unione, a un’interpretazione autonoma e uniforme. La determinazione del suo significato e della sua portata deve essere operata conformemente al suo senso abituale nel linguaggio corrente, tenendo conto allo stesso tempo del contesto in cui essa è utilizzata e degli scopi perseguiti dalla normativa in cui essa si inserisce, anche se la direttiva n. 2004/48/CE non definisce tale nozione: il senso abituale del termine «indirizzo», riguarda infatti unicamente l’indirizzo postale, vale a dire il luogo di domicilio o di residenza di una determinata persona (15). Ne consegue che tale termine, qualora, come all’art. 8, par. 2, lettera a), della direttiva n. 2004/48/CE, sia utilizzato senza ulteriori precisazioni, non si riferisce all’indirizzo di posta elettronica, al numero di telefono o all’indirizzo IP, che invece

(15) I lavori preparatori che hanno portato all’adozione della direttiva 2004/48 e, in particolare, la proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa alle misure e alle procedure volte ad assicurare il rispetto dei diritti di proprietà intellettuale, del 30 gennaio 2003 [COM(2003) 46 definitivo], il parere del Comitato economico e sociale europeo del 29 ottobre 2003 (GU 2004, C 32, pag. 15), e la relazione del Parlamento europeo del 5 dicembre 2003 (A5-0468/2003) su tale proposta si inseriscono nel solco di tale constatazione. Infatti, come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 37 delle sue conclusioni e come sostenuto dalla Commissione europea dinanzi alla Corte, essi non contengono alcun indizio tale da suggerire che il termine «indirizzo» utilizzato all’articolo 8, paragrafo 2, lettera a), di detta direttiva debba intendersi riferito non solo all’indirizzo postale, ma anche all’indirizzo di posta elettronica, al numero di telefono o all’indirizzo IP delle persone interessate.


GIURISPRUDENZA EUROPEA servono ad individuare il domicilio informatico. Inoltre seppure il diritto d’informazione previsto dal suddetto art. 8 mira a rendere applicabile e a dare espressione concreta al diritto fondamentale ad un ricorso effettivo garantito dall’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali e ad assicurare in tal modo l’esercizio effettivo del diritto fondamentale di proprietà, nel cui novero rientra il diritto di proprietà intellettuale tutelato all’art. 17, par. 2, della stessa Carta, consentendo al titolare di un diritto di proprietà intellettuale di individuare la persona che lo viola e di prendere i provvedimenti necessari per tutelare tale diritto; tuttavia, in sede di adozione, il legislatore con la direttiva n. 2004/48/CE ha scelto di procedere ad una sorta di armonizzazione minima relativamente al rispetto dei diritti di proprietà intellettuale in generale, circoscrivendo le informazioni richiedibili. Per quanto più specificamente riguarda l’art. 8 della direttiva 2004/48/CE, la Corte di Giustizia ha già avuto occasione di dichiarare che questa disposizione mira a conciliare il rispetto di diversi diritti, in particolare il diritto d’informazione dei titolari e il diritto alla tutela dei dati personali degli utenti  (16): la giurisprudenza dell’Unione ha espressamente previsto la possibilità, per gli Stati membri, di concedere ai titolari di diritti di proprietà intellettuale il diritto di ricevere un’informazione più ampia, purché, tuttavia, sia garantito un giusto equilibrio tra i diversi diritti fondamentali coinvolti e siano rispettati gli altri principi generali del diritto dell’Unione, quali il principio di proporzionalità (17). Pertanto la Corte di Giustizia ritiene che l’art. 8, par. 2, lettera a), direttiva n. 2004/48/CE dev’essere interpretato nel senso che la nozione di «indirizzo» ivi contenuta non si riferisce, per quanto riguarda un utente che abbia caricato file lesivi di un diritto di proprietà intellettuale, al suo indirizzo di posta elettronica, al suo numero di telefono nonché all’indirizzo IP utilizzato per caricare tali file o all’indirizzo IP utilizzato in occasione del suo ultimo accesso all’account utente: elementi che potrebbero far individuare il domicilio informatico (18) che ha

una sua specificità peraltro riconosciuta dalla previsione nell’ordinamento giuridico italiano dell’art. 615-ter c.p., con cui il legislatore ha assicurato la protezione del “domicilio informatico” quale spazio ideale (ma anche fisico in cui sono contenuti i dati informatici) di pertinenza della persona, ad esso estendendo la tutela della riservatezza della sfera individuale, quale bene anche costituzionalmente protetto, offrendo anche una tutela più ampia, che si concreta in un vero e proprio “jus excludendi alios”.

(16) Vedi in tal senso, sentenza del 16 luglio 2015, Coty Germany, C-580/13, EU:C:2015:485, punto 28.  (17) Vedi in tal senso, ordinanza del 19 febbraio 2009, LSG-Gesellschaft zur Wahrnehmung von Leistungsschutzrechten, C-557/07, EU:C:2009:107, punto 29, e sentenza del 19 aprile 2012, Bonnier Audio e a., C-461/10, EU:C:2012:219, punto 55.  (18) Nell’ordinamento giuridico italiano la sentenza della Corte Cass., sez. I, n. 42021/2012 rappresenta la giusta occasione per la Corte Suprema al fine di tracciare i confini corretti del “domicilio informatico” tutelato in sede penale peraltro dall’art. 615-ter c.p. In tale sentenza la Suprema Corte riconosce la legittimità della querela, presentata dal legale rappresentante di una società titolare del server di posta elettronica violato da un tecnico informatico che si è appropriato di indirizzi e-mail, ed ha sottolineato che per “domicilio informatico” si intende lo spazio ideale (ma anche fisico in cui sono contenuti i dati informatici) di

pertinenza della persona, a cui viene estesa la tutela della riservatezza della sfera individuale, quale bene anche costituzionalmente protetto, offrendo nel contempo una tutela più ampia che si concreta nello “jus excludendi alios”, quale che sia il contenuto dei dati racchiusi in esso, purché attinente alla sfera di pensiero o all’attività, lavorativa o non, dell’utente; con la conseguenza che la tutela della legge si estende anche agli aspetti economico-patrimoniali dei dati, sia che titolare dello “jus excludendi” sia persona fisica, persona giuridica, privata o pubblica, o altro ente. La specifica novità è rappresentata dal fatto che i sistemi informatici e telematici non costituiscono più soltanto mezzi attraverso i quali il soggetto può esprimere le proprie idee, capacità professionali etc. Essi costituiscono dei luoghi di concezione diversa da quelli tradizionali dove l’uomo non solo proietta la propria persona fisica, ma addirittura trasferisce alcune facoltà intellettuali.

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GIURISPRUDENZA COMPARATA

“I vestiti nuovi dell’imperatore”: il contenzioso tra il Bundeskartellamt tedesco e Facebook in tema di abuso di posizione dominante alla luce del progressivo snaturarsi del diritto antitrust Bundesgerichtshof; decisione del 23 giugno 2020; KVR 69/19; Facebook OLG D üsseldorf; decisione del 26 agosto 2019, VI-Kart 1/19 (V); Bundeskartellamt c. Facebook Bundeskartellamt ; decisione del 6 febbraio 2019; Facebook Inc., Menlo Parc, U.S.A., Facebook Ireland Ltd., Dubin, Ireland, Facebook Deutschland GmbH/Verbraucherzentrale Bundesverband e. V., Berlin Ad avviso della Corte Federale di Giustizia tedesca (Bundesgerichtshof), accogliendo l’interpretazione proposta dall’autorità antitrust nazionale (Bundeskartellamt) l’imposizione, da parte di Facebook, (operante in posizione dominante nel mercato tedesco dei social network) all’interno delle proprie condizioni di servizio, di clausole contrattuali inique realizzate in violazione della General Data Protection Regulation, le qualu autorizzano la società ad acquisire, combinare ed analizzare i dati generati dagli utenti nel corso delle loro attività sul social network e le informazioni derivanti dall’utilizzo di servizi che siano di proprietà della medesima piattaforma ovvero dall’interazione con siti web di proprietà di terze parti, ma che nondimeno si avvalgano di c.d. Facebook business tools, costituisce un abuso di posizione dominante laddove l’elaborazione dei suddetti dati sia funzionale a realizzare una condotta escludente nel mercato di riferimento, ovvero in altri mercati a valle basati sulla profilazione degli utenti, quali quello della pubblicità online.

(*) Le sentenze per esteso possono essere lette nell’osservatorio del diritto internazionale, europeo e comparato, diretto da Giovanni Maria Riccio all’indirizzo < https://dirittodiinternet.it/intereuropeo/>

IL COMMENTO

di Antonio Davola Sommario: 1. Considerazioni introduttive. – 2. Il procedimento contro Facebook, ed il suo evolvere. – 3. La centralità del dato nell’ecosistema digitale. – 4. Il dato nell’analisi antitrust, la crescente rilevanza concorrenziale delle piattaforme, e la gestione del dato degli utenti da parte di Facebook. – 5. Un’antitrust in cerca della propria identità… – 6. …e gli effetti della decisione. Il commento, muovendo da un’analisi delle tre decisioni rese dalle autorità tedesche nel biennio 2019 - 2020 in merito all’abuso di posizione dominante di Facebook nel mercato dei social network, propone un’analisi critica circa il nuovo ruolo del diritto antitrust quale strumento volto non più strettamente al perseguimento di interessi attinenti alla preservazione della concorrenzialità nei mercati, bensì rispondente alle più ampie esigenze di controllo sostanziale caratterizzanti il mercato digitale. In tal senso - e pur riconoscendo la necessità di un progressivo ripensamento del rapporto tra i plessi normativi coinvolti nelle varie fasi dello sfruttamento del dato informatico – si osserva come la crescente funzionalizzazione del diritto antitrust alla tutela di beni giuridici distanti dalla concorrenza implichi consequenzialmente il rischio di ricorrere ad un assetto rimediale inidoneo al raggiungimento degli obiettivi perseguiti. The article investigates the growing use of antitrust law as a tool to regulate big data companies’ power in digital markets, moving from three decisions against Facebook rendered by the German authorities between 2019 and 2020. In spite of the acknowledgment that competition law is currently in major need of a critical re-thinking, especially considering its interplay with different bodies of regulation – e.g. consumer and data protection law –, doubts are cast on the solution embraced by the above mentioned decisions, since such an approach ultimately entails the risk of recurring to remedies, which are inadequate to pursue substantive goals related to data governance.

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GIURISPRUDENZA COMPARATA 1. Considerazioni introduttive

Le decisioni in commento delineano il progressivo svilupparsi della querelle sorta, a partire dal marzo 2016 – data di inizio del procedimento tra il Deutsche Bundeskartellamt e la società Facebook Inc. (compresi i rispettivi distaccamenti in Irlanda e in Germania) in merito alla potenziale rilevanza anticoncorrenziale delle condotte, tenute dell’impresa controllante l’omonimo social network, in materia di elaborazione e di analisi dei dati dei propri utenti. (1) Considerandosi gli sviluppi intervenuti a seguito della pronuncia del Bundeskartellamt, sulla base dei ricorsi presentati (prima) di fronte all’Oberlandesgericht di Düsseldorf e (poi) alla Corte di Giustizia Federale tedesca, il complesso degli elementi emersi contribuisce a disegnare un quadro articolato, destinato ad aggiungere l’ennesimo tassello alla ormai ampia riflessione dottrinale e giurisprudenziale in merito al ruolo e alle responsabilità degli internet service provider – e, in particolare, delle digital social media platform – nel mercato digitale (coronata, di recente, dalla pubblicazione del Digital Service e del Digital Market Act) (2) nonché a porre le basi per un ulteriore affinamento dell’indagine in merito al rapporto ad oggi esistente tra normativa a protezione dei dati personali (e, segnatamente, il corpus delineato dalla General Data Protection Regulation (3)), tutela dei consumatori e diritto della concorrenza nell’ecosistema digitale. A fronte della complessità e della vastità dei temi toccati dalle decisioni qui in esame, occorre nondimeno osservare come nessuna di queste sembri invero sufficiente a far presagire il raggiungimento di un “punto fermo” in merito alle riflessioni condotte in materia; anzi, appare ragionevole che, proprio sulla scorta delle considerazioni formulate dalla giurisprudenza, nuovi (ed ulteriori) sviluppi siano attendibili a breve. Al fine di poter adeguatamente comprendere questi aspetti giova, invero, ripercorrere brevemente i fatti alla base del contendere tra Facebook e il Bundeskartellamt.

(2) Rispettivamente Proposal for a Regulation of the European Parliament and of the Council on a Single Market For Digital Services (Digital Services Act) and amending Directive 2000/31/EC, Brussels, 15 dicembre 2020, COM(2020) 825 final2020/0361 (di seguito, DSA); e Proposal for a Regulation of the European Parliament and of the Council on contestable and fair markets in the digital sector (Digital Markets Act), Brussels, 15 dicembre 2020 COM(2020), 842 final2020/0374 (di seguito, DMA).

Come si è già avuto modo di premettere, all’origine della disputa si colloca il procedimento iniziato dal Bundeskartellamt tedesco nel 2016 avverso Facebook sulla base di un asserito abuso di posizione dominante da parte dell’azienda, nonché della messa in atto di condotte anticoncorrenziali a seguito (e sfruttando gli esiti) della sistematica violazione delle norme in materia di protezione dei dati personali previste dalla General Data Protection Regulation a tutela degli utenti della piattaforma. In particolare, la decisione in merito ad una violazione del divieto di abuso di posizione dominante da parte di Facebook è stata resa sulla base dell’asserita violazione del divieto di condotte abusive sancito all’art. 19 della normativa antitrust tedesca (Gesetz gegen Wettbewerbsbeschränkungen, GWB): (4) al centro della decisione del Bundeskartellamt si è posta la scelta, da parte di Facebook, di inserire all’interno delle proprie condizioni contrattuali una serie di clausole che autorizzano la società ad acquisire, combinare ed analizzare i dati generati dagli utenti nel corso delle loro attività sul sito facebook. com, ma altresì derivanti dall’utilizzo di servizi che siano di proprietà di Facebook Inc. (si pensi, ad esempio, all’app di messaggistica WhatsApp, ovvero al servizio condivisione Instagram) ovvero ancora dall’interazione con siti web di proprietà di terze parti, ma che nondimeno si avvalgano dei c.d. facebook business tools, ossia dei pulsanti di interazione che consentono di promuovere e condividere un contenuto sulla piattaforma social media Facebook, all’interno delle loro interfacce. Ad avviso del Bundesrkartellamt, l’assenza di un’indicazione chiara agli utenti in merito a queste condizioni (descritte in modo generico e senza far riferimento ai singoli servizi considerati, all’interno dei terms and conditions di Facebook) dovrebbe innanzitutto considerarsi incompatibile con i diritti all’autodeterminazione e alla privacy garantiti dalla carta costituzionale tedesca e dall’art. 8 della Carta Europea dei Diritti Fondamentali, nelle modalità in cui questi risultano ad oggi concretizzati all’interno della General Data Protection Regulation; in aggiunta, attraverso il ricorso a questa pratica Facebook sarebbe stata in grado, nel corso degli anni, di raccogliere un ammontare dei dati estremamente vasto in merito agli utenti della piattaforma, sufficiente a porre l’azienda in una posizione di preminenza assoluta nel (diverso) mercato della vendita di servizi di pubblicità personalizzata, consentendo agli operatori professionali che si avvalgono della piattaforma di sfruttare l’elevato

(3) Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE (regolamento generale sulla protezione dei dati), OJ L 119, 4.5.2016, p. 1–88 (di seguito, GDPR).

(4) Gesetz gegen Wettbewerbsbeschränkungen (GWB), versione del 26 giugno 2013 (BGBl. I.S. 1750, 3245), modificata da ultimo il 12 luglio 2018 (BGBl. I.S. 1151).

(1) Decisione 6 febbraio 2019; Facebook Inc., Menlo Parc, U.S.A., Facebook Ireland Ltd., Dubin, Ireland, Facebook Deutschland GmbH/Verbraucherzentrale Bundesverband e. V., Berlin.

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2. Il procedimento contro Facebook, ed il suo evolvere

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GIURISPRUDENZA COMPARATA grado di profilazione degli utenti del social network per proporre annunci a specifici gruppi di consumatori. In tal modo, Facebook avrebbe cagionato un significativo danno (non solo agli utenti della piattaforma, bensì anche) ai propri concorrenti nel settore della fornitura di servizi pubblicitari online, sfruttando l’illecitamente acquisita posizione di primazia nel mercato dei dati al fine di rendersi l’attore di primario riferimento anche in tale ambito. Si tratta di una decisione salutata già all’indomani della sua pubblicazione come estremamente significativa da parte della dottrina, con precipuo riferimento all’utilizzo del GDPR quale base normativa per la determinazione di una condotta abusiva a danno dei consumatori, nonché quale corpus suscettibile di diretta applicazione da parte del Bundeskartellamt in virtù delle sue implicazioni concorrenziali, (5) secondo una lettura funzionale della disciplina in materia di protezione dei dati personali alla luce del meccanismo di coerenza previsto dallo stesso Regolamento 679/2016. (6) In particolare, dopo aver definito il mercato rilevante ai sensi dell’art. 18(3)(a) GWB, considerando le disposizioni specifiche previste dalla normativa in materia di mercati multilaterali e caratterizzati da significativi effetti di network, l’autorità antitrust tedesca ha evidenziato come Facebook rivesta una posizione di assoluta primazia nel mercato dei social network, distinguendone l’area di operatività da quella degli altri social media service (in primis WhatsApp, LinkedIn, Youtube e Twitter) e riconoscendo all’azienda un controllo sul 92% del mercato nazionale. Con riferimento a tale aspetto, giova premettere in via incidentale due brevi considerazioni. Innanzitutto, si noti come la scelta di riconoscere a Facebook una distintività rispetto alle summenzionate piattaforme appare in linea con quanto a più riprese sottolineato dalla giurisprudenza comunitaria, la quale – sia in occasione dell’acquisizione del servizio di messaggistica WhatsApp da parte di Facebook, (7) sia in ripetuti pre-

(5) Per i primi commenti in merito v. Körber, Die Facebook-Entscheidung des Bundeskartellamtes – Machtmissbrauch durch Verletzung des Datenschutzrechts?, in NZKart, 2019, 187; Botta - Wiedermann, The Interaction of EU Competition, Consumer, and Data Protection Law in the Digital Economy: The Regulatory Dilemma in the Facebook Odyssey, in Antitrust Bulletin, 2019, 64, 428-446; Witt, Excessive Data Collection as Anticompetitive Conduct – The German Facebook Case, in Jean Monnet Working Paper, 2019, 8 e dottrina ivi richiamata. Successivamente cfr. altresì Osti - Pardolesi, L’antitrust ai tempi di Facebook, in Mercato, concorrenza, regole, 2019, 195; Giannaccari, Facebook e l’abuso da sfruttamento al vaglio del Bundesgerichtshof, ibidem, 2020, 403-409.  (6) V. in part. GDPR, Art. 63.  (7) Commissione Europea; decisione 3 ottobre 2014, COMP/M.7217 Facebook/Whatsapp.

cedenti arresti (8) - ha avuto modo di evidenziare come tale servizio rivesta carattere e scopi originali e differenti rispetto a queste ultime. In secondo luogo, bisogna rilevare come non sia valso a minare la valutazione del Bundeskartellamt il fatto che il servizio offerto da Facebook sia gratuito, posto che ai sensi della normativa tedesca (a seguito di un emendamento della GWB intervenuto nel 2016) non è necessario che una prestazione sia a pagamento per poterla qualificare nei termini di un servizio economico ai sensi dello scrutinio antitrust; una posizione di tal genere appare, del resto, anch’essa in linea con la lettura del fenomeno offerta dalle istituzioni europee. (9) Sulla base di queste valutazioni, l’autorità antitrust ha dunque ritenuto che la posizione di dominanza rivestita da Facebook sul mercato dei social network tedeschi consentisse a quest’ultima di esercitare un potere coercitivo sui propri utenti (sfruttando l’effetto lock-in derivante dall’assenza di piattaforme concorrenti) sotto forma di unilaterale imposizione di condizioni contrattuali sfavorevoli – incluse quelle in materia di extensive data collection – funzionali al rafforzamento del potere di mercato di Facebook nel settore dell’offerta di spazi pubblicitari personalizzati online. Nell’operare tale ricostruzione, e pur riconoscendo le difficoltà relative alla quantificazione in termini monetari del danno subito dai consumatori a seguito della violazione dei loro diritti in materia di consenso al trattamento dei dati personali, il Bundeskartellamt ha fatto significativo affidamento sulla nozione di sfruttamento nei termini in cui questa è stata sviluppata dalla Corte Federale di Giustizia aderendo ad una formula originale – che, secondo coloro che si sono occupati del tema all’indomani della decisione, (10) sarebbe del resto alla base della scelta di non fondare la decisione sull’art. 102 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione – la quale ha inteso l’art. 19(1) GWB quale norma idonea a configurare una condizione patologica di abuso di posizione dominante ogniqualvolta il comportamento dell’impresa leader sul mercato si traduca nell’imposizione di condizioni contrattuali incompatibili con i diritti fondamentali della controparte ovvero in violazione di norme imperative. (11)  (8) Commissione Europea; decisione 7 ottobre 2011, COMP/M.6281 - Microsoft/Skype.  (9) Cfr. Commissione Europea; decisione 18 luglio 2017, AT.40099 – Google/Android.  (10) Bagnoli, Questions that Have Arisen since the EU Decision on the WhatsApp Acquisition by Facebook, in Market and Competition Law Review, 2019, III, 1, 15 ss.  (11) In particolare, la decisione fa riferimento alla giurisprudenza della Corte di Giustizia (sentenza 7 giugno 2016; caso KZR 6/15, Pechstein/ International Skating Union, BGHZ 201, 292; sentenza 6 novembre 2013;

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GIURISPRUDENZA COMPARATA Pur fronte delle censure opposte da Facebook, basate (inter alia) sulla presunta legittimità del consenso prestato dagli utenti, sulla necessità del trattamento ai fini della performance del servizio, nonché sulla presenza di diversi tipi di interessi potiori riconosciuti dal GDPR stesso, (12) l’autorità tedesca ha nondimeno ritenuto di poter normativamente collegare l’imposizione delle clausole alla posizione di dominanza sul mercato, con contestuale indebolimento dell’effettività del consenso degli utenti ed un effetto escludente nei confronti dei competitor della piattaforma, stante il significativo vantaggio incrementale ottenuto dallo sfruttamento dei dati: di conseguenza, il Bundeskartellamt ha innanzitutto imposto a Facebook di garantire la “volontarietà” del consenso degli utenti quale condizione essenziale per il trattamento incrociato di dati ottenuti da altre applicazioni e siti web; in secundis, ha richiesto che la società adottasse, entro il termine di dodici mesi, pratiche idonee a adattare le proprie condizioni di servizio ai principi alla base della decisione resa dall’autorità antitrust, riducendo significativamente l’ammontare di informazioni elaborate nonché irrobustendo le metodologie di supervisione adottate in corso di analisi. La decisione resa dal Bundeskartellamt, dopo aver sollevato significative reazioni in dottrina, (13) è stata tuttavia rapidamente ribaltata in appello dalla Corte Regionale di Düsseldorf (14) sulla base della constatazione per cui l’autorità antitrust non avrebbe fornito, nella propria ricostruzione, una sufficiente dimostrazione controfattuale relativa al collegamento tra il ridotto livello di competitività sul mercato dei social network e la gestione dei dati degli utenti da parte di Facebook: in particolare – e pur concedendo che a tal fine una prova di tipo potenziale potesse considerarsi astrattamente idonea a fondare l’anticoncorrenzialità della condotta dell’azien-

caso KZR 58/11, VBL Gegenwert I, BGHZ 199, 1; sentenza 24 gennaio 2017; caso KZR 47/14, VBL Gegenwer t II, WM 2017, 1479).  (12) Ipotesi, queste, idonee a configurare delle condizioni di legittimità del trattamento dei dati ai sensi, rispettivamente, degli art. 6 ss. del GDPR.  (13) Cfr. ex multis Haucap, Data Protection and Antitrust: New Types of Abuse Cases? An Economist’s View in Light of the German Facebook Decision, in CPI Antitrust Chronicles, 2019; Colangelo - Maggiolino, Data Protection in Attention Markets: Protecting Privacy through Competition?, in Journal of European Competition Law & Practice, 2017, 8, 363; Podszun, After Facebook: What to Expect from Germany, in Journal of European Competition Law & Practice, 2019, 2; Schneider, Testing Art. 102 TFEU in the Digital Marketplace: Insights from the Bundeskartellamt’s investigation against Facebook, in Journal of European Competition Law & Practice, 2018, 9, 213 ss.  (14) OLG Düsseldorf, decisione 26 agosto 2019, VI-Kart 1/19 (V), Bundeskartellamt c. Facebook.

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da statunitense (15) - la Corte ha ritenuto che, in assenza di una dimostrazione circa il fatto che i prezzi della pubblicità personalizzata online fossero più elevati o (alternativamente) che le condizioni di contratto fossero meno vantaggiose di quanto sarebbe avvenuto in un mercato maggiormente concorrenziale, la natura non rivale dei dati trattati e l’assenza di saliency delle condizioni di contratto offerte da Facebook non potessero ritenersi sufficienti a fondare una presunzione di illiceità antitrust della condotta; ciò anche considerando la volontarietà di adesione al trattamento da parte degli utenti. In tal senso, la Corte postulava l’esigenza di un rapporto di causalità necessaria (e non meramente normativa) tra condotta e danno concorrenziale, con ciò annullando la decisione del Bundeskartellamt. A seguito delle censure presentate dalla Corte di Düsseldorf, l’ultimo tassello della vicenda doveva ancora venire: la decisione è stata, infatti, nuovamente ribaltata a seguito del ricorso presentato di fronte alla Corte Federale di Giustizia Tedesca. (16) La Corte, lasciando al margine della riflessione gli aspetti legati alla violazione della General Data Protection Regulation quale condizione rilevante ai fini dell’intervento antitrust, ha infatti evidenziato come l’assenza della possibilità, per gli utenti del social network, di scegliere tra opzioni a diverso grado di “personalizzazione” in merito al trattamento dei loro dati, si prestasse di per sé a creare un doppio effetto restrittivo sia sul mercato delle piattaforme social – in questo ricollegandosi alle conclusioni già formulate dal Bundeskartellamt in merito al lock-in deli utenti – sia nel mercato degli online advertisings; ciò senza tuttavia pronunciarsi espressamente in merito alla natura normativa ovvero necessaria del nesso di causalità tra la condotta di Facebook e il danno concorrenziale (sebbene, dal tenore della decisione, sembra desumibile un’interpretazione a favore della prima, del resto ulteriormente avvalorata dalla contrapposizione rispetto alla posizione accolta dalla Corte di Düsseldorf).

3. La centralità del dato nell’ecosistema digitale

A fronte della pluralità di aspetti complessivamente emersi dalle tre decisioni, un primo elemento meritevole di indagine – in quanto presupposto essenziale delle considerazioni formulate prima dal Bundeskartellamt, e successivamente dalle corti in sede di appello – riguarda la mutata sensibilità al ruolo che il dato informatico (da  (15) Questo, ancora una volta, in linea con le posizioni della Corte di Giustizia dell’Unione. Sul punto: v. sentenza 6 settembre 2017; caso C-413/14 P Intel c. Commissione, ECLI:EU:C:2017:632; sentenza 6 ottobre 2015; caso C-23/14, Post Danmark c. Konkurrenceradet, ECLI:EU:C:2015:651.  (16) Bundesgerichtshof, decisione 23 giugno 2020, caso KVR 69/19.


GIURISPRUDENZA COMPARATA intendersi nei termini di una descrizione elementare di un’informazione, suscettibile di codificazione e trasmissione attraverso canali di comunicazione digitali) riveste all’interno delle dinamiche di business, nonché la centralità che il trattamento dei big data relativi agli utenti assume nell’ambito dei processi imprenditoriali. (17) Convergenza digitale, interazione attraverso social media platform, comunicazione a mezzo mobile, servizi di cloud computing, tecnologie IoT e sistemi riconducibili all’artificial intelligence rappresentano ad oggi i frammenti di un mosaico complesso, idoneo a consentire a chi si adoperi nella raccolta di grandi volumi di dati (al fine di sottoporli tecniche di data analtytics e di profilazione) di avvalersi di queste informazioni per sviluppare strategie di mercato, prodotti e servizi innovativi. Non solo: alla possibilità di acquisire informazioni rispetto alle azioni degli individui, attraverso l’innovazione tecnologica si aggiungono la migliore capacità di immagazzinare queste informazioni (in termini di storage del dato) e lo sviluppo di soluzioni dotate di un elevato potere computazionale, ossia dell’abilità di elaborare i dati al fine di predisporre strategie, trarre inferenze e risolvere problemi complessi. (18) Appare pacifico, ad oggi, come la possibilità di avvalersi di dati personali per creare valore economico (mediante, a seconda dei casi, la riduzione dei costi transattivi connessi alla creazione di prodotti e servizi, l’introduzione di paradigmi collaborativi di interazione tra operatori professionali e consumatori, la predisposizione di modalità di discriminazione di prezzi e di condizioni nell’accesso ai beni) permetta oggi di qualificare i big data come forieri di un vero e proprio vantaggio competitivo per le imprese che ne dispongono (sviluppandoli internamente, acquisendoli da terze parti, o introducendo processi di interazione basati sugli user-generated content) in termini di efficienza operativa, qualità del servizio offerto, e fidelizzazione dei consumatori. (19) A fronte di questa considerazione, numerosi sono stati gli studi volti a cercare di attribuire un prezzo di mercato ai big dataset (20) al fine di porre le basi per la riconduzione delle operazioni aventi ad oggetto cluster di informazioni all’interno di un quadro giuridico definito, nonché per definire la rilevanza del bene-informazione  (17) Di recente in tema Murray, Information Technology Law, Oxford, 2019.  (18) Cfr. Kuner – Svantesson - Cate – Lynskey - Millard, Machine learning with personal data: is data protection law smart enough to meet the challenge?, in International Data Privacy Law, 2017, 7, 1.  (19) Acquisti - Varian, Conditioning prices on purchase history, in Marketing Science, 2005, 367–381; Henkel - von Hippel, Welfare implications of user innovation, in Journal of Technology Transfer, 2005, 30, 73–87.  (20) Cfr. Spiekermann – Acquisti – Bohme - Hui, The challenges of personal data markets and privacy, in Electronic Markets, 2015, 161–167.

in termini di potere di mercato delle imprese che lo detiene. Ciò, in particolare, alla luce degli ormai noti margini di operatività trasversale di mercato che l’analisi dei dati consente alle c.d. Big Tech. (21) Emerge in tutta evidenza come – dal punto di vista dal regolatore – la capacità da parte delle imprese che si avvalgano (nello sviluppo delle proprie strategie di business) di ampie quantità di dati al fine di esercitare un effetto poietico/conformativo sul mercato (22) introduca un divario di sempre maggiore ampiezza tra queste e gli operatori privi di tali risorse, nonché una sostanziale asimmetria dialettica tra i regolatori e le piattaforme (e, più in generale, i grandi attori del mercato dei dati), con queste ultime che risultano depositarie di una conoscenza specialistica funzionale ad improntarne l’agere commerciale, con consequenziale affermazione para-monopolistica di un ridotto numero di macro-conglomerati. Non a caso, a fronte di questo fenomeno, da tempo sembra essere emerso in dottrina l’auspicio di un processo di complessivo ripensamento dei plessi normativi pre-esistenti, al fine di adattarli alle specificità introdotte dal ricorso alla big data analysis (23) nonché per fondare nuovi paradigmi di regolamentazione che possano risultare idonei a confrontarsi dinamicamente con lo sviluppo tecnologico. (24) A questo processo di ripensamento non poteva certamente restare insensibile – anche considerando la primarietà delle ricadute di tali fenomeni in termini di equilibrio di mercato – il diritto della concorrenza, il quale ha visto la regolamentazione dei big data emergere quale fulcro di un ampio dibattito in dottrina, in giurisprudenza, nonché in seno ai principali documenti sviluppati dalle istituzioni europee.

(21) Sul tema v. ex multis Petit, Big tech and the digital economy: the Moligopoly scenario, Oxford 2020; Informazione e Big Data tra innovazione e concorrenza, a cura di Falce, Ghidini e Olivieri, Milano, 2018; Colangelo, Big data, piattaforme digitali e antitrust, in Mercato, concorrenza, regole, 2016, 425-460.  (22) Di questo aspetto, seppur nei termini di vero e proprio “controllo” poietico parla Floridi, The Fight for Digital Sovereignty: What It Is, and Why It Matters, Especially for EU, in Philosophy & Technology, 2020, 370.  (23) Inter alia Twigg-Flesner, Disruptive Technology – Disrupted Law? How the Digital Revolution Affects (Contract) Law, in European Contract Law and the Digital Single Market. The Implications of the Digital Revolution, a cura di De Franceschi, Cambridge, 2016; Sidorenko - von Arx, The Transformation of Law in the Context of Digitalization: Defining the Correct Priorities, in Digital Law Journal, 2020, 24-38.  (24) In questo senso di regolamentazione future-proof parlano Savin, Harmonizing Private Law in Cyberspace: The New Directives in the Digital Single Market Context, in Copenhagen Business School Law Research Paper Series, 2019, 7; e Ranchordás, van’t Schip, Future-Proofing Legislation for the Digital Age, in Time, Law, and Change. An Interdisciplinary Study, a cura di Ranchordás e Roznai, Londra, 2020.

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GIURISPRUDENZA COMPARATA 4. Il dato nell’analisi antitrust, la crescente rilevanza concorrenziale delle piattaforme, e la gestione del dato degli utenti da parte di Facebook

Come si ha avuto modo di accennare, l’affermarsi dei complessi big data quali asset di mercato ha indotto significativi mutamenti nel modo di intendere la regolamentazione a livello sia micro-, sia meso-, sia macroscopico, sulla base di una rilettura dei rapporti di forza nella società digitale. (25) In conseguenza di ciò, da più voci si è sollevata l’esigenza di condurre una riflessione volta a promuovere l’accoglimento di un approccio olistico alla disciplina delle tecnologie emergenti, (26) il quale fosse maggiormente in grado di decifrare il ruolo dei dati quali elemento sintomatico di una nuova dinamica di potere nelle relazioni sociali e commerciali. Da questa tendenza, naturalmente, è stato investito altresì il diritto della concorrenza: gradualmente, all’idea che le categorie tradizionalmente adoperate dall’antitrust mainstream non fossero in grado di interpretare i profili di anticoncorrenzialità connessi all’utilizzo dei dati e dei sistemi decisionali automatizzati – nonché ai caratteri delle imprese che operano in mercati ad alto tasso tecnologico - si è affiancato l’emergere di nuovi paradigmi analitici del diritto della concorrenza (si fa riferimento, inter alia, ai modelli caratterizzanti la c.d. hipster antitrust) (27) auspicabilmente in grado di riconciliare il diritto della concorrenza con le dinamiche del real market. In particolare, grande dibattito è emerso in merito alle difficoltà connesse al far riferimento alla tradizionale definizione di mercato rilevante in presenza di modelli operativi – quelli dei Tech Giants – che favoriscono e promuovono l’interazione funzionale tra diversi mercati (come, del resto, confermato indirettamente dalla scelta

(25) Richter, The Power Paradigm in Private Law. Towards a Holistic Regulation of Personal Data, in Personal Data in Competition, Consumer Protection and Intellectual Property Law, a cura di Bakhoum, Berlino, 2018, 565, distingue, rispettivamente, tra i cambiamenti avvenuti a livello microscopico (ossia la rilettura dei protocolli operativi di alcune specifiche aree giuridiche, quali il diritto della concorrenza e la tutela dei dati personali), quelli intercorsi a livello mesoscopico (relativi ai rinnovati paradigmi di interazione tra attori privati e stato-regolatore, aspetto in merito al quale si veda altresì Floridi, op. ult. cit.) ed infine quelli di tipo macroscopico, radicati nell’evoluzione della dogmatica del rapporto tra poteri.  (26) Ex multis Richter, op. ult. cit.; Ursic, The Failure of Control Rights in the Big Data Era: Does a Holistic Approach Offer a Solution?; ibidem, 55; Ciani, A Competition-Law-Oriented Look at the Application of Data Protection and IP Law to the Internet of Things: Towards a Wider ‘Holistic Approach’, ibidem, 216 ss.; Walz, A Holistic Approach to Developing an Innovation-Friendly and Human-Centric AI Society, in IIC - International Review of Intellectual Property and Competition Law, 2017, 757–759.  (27) V. Pardolesi, Hipster Antitrust e sconvolgimenti tettonici: “Back to the future?”, in Mercato, concorrenza, regole, 2019, 77.

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di Facebook, di cui qui si discute, di “mettere a sistema” i dati desumibili da mercati considerati diversi ai sensi delle analisi antitrust condotte dalla Commissione (28) al fine di beneficiare di un miglioramento della propria performance nel settore dei social media service), nonché con riferimento alle complessità insite nell’operare un assessment circa l’impatto competitivo dei big dataset sul mercato, (29) anche considerandosi come i dati vengano spesso forniti verso la provvigione di servizi gratuiti. Ciò, del resto, anche alla luce (non soltanto delle caratteristiche, ma altresì) degli specifici fallimenti di mercato che caratterizzano i settori fortemente data-based, derivanti dalla contestuale presenza di vulnera relativi alla governance del fenomeno tecnologico nonché alle dinamiche socio-comportamentale degli utenti all’interno dell’infosfera (30) in materia di consapevole prestazione del consenso, al ruolo giocato da eventuali bias cognitivi incidenti sul processo decisionale circa la fornitura dei propri dati (31) e da ultimo – un aspetto, questo, toccato seppur in modo marginale dalle decisioni in oggetto – all’incidenza del c.d. privacy paradox (32) e del divario che questo comporta tra le preferenze dichiarate e quelle implicitamente mostrate dai consumatori. (33) Alla luce della pluralità di incertezze che caratterizzano l’analisi del ruolo delle piattaforme ai sensi del diritto della concorrenza, e della progressiva liquefazione dei confini normativi nelle aree ad alto tasso tecnologico, appare certamente eterodosso (eppur non sorprendente) che la decisione del Bundeskartellamt muova innanzitutto dalla sindacabilità delle privacy policy di Facebook alla luce della General Data Protection Regulation: una

(28) Si fa riferimento, ancora una volta, a Commissione Europea; decisione 3 ottobre 2014, COMP/M.7217 - Facebook/Whatsapp.  (29) In merito a questo aspetto, v. Maggiolino - Scopsi, Prospettiva antitrust sulle Big Data Companies, in Fintech: diritti, concorrenza, regole. Le operazioni di finanziamento tecnologico, a cura di Finocchiaro e Falce, Bologna, 2019, in part. 193; Graef, Market Definition and Market Power in Data: The case of Online Platforms, in World Competition: Law and Economics Review, 2015, 38, 4; Vezzoso, Competition Policy in a world of Big Data, in Research Handbook on Digital Transformations, a cura di Olleros e Zhegu, Cheltenham, 2016.  (30) L’espressione è di Floridi, La Quarta Rivoluzione. Come l’Infosfera sta trasformando il mondo, Milano, 2017, 44.  (31) Ex multis Friedman, Nissenbaum, Bias in Computer Systems, in ACM Transactions on Information Systems, 1996, 14, 3; Danks - London, Algorithmic Bias in Autonomous Systems, in Proceedings of the 26th International Joint Conference on Artificial Intelligence, 2017; Pedreschi – Ruggieri - Turini, Discrimination-aware data mining, in Proceedings of KDD, 2008.  (32) Per un’esaustiva ricostruzione della letteratura sul tema cfr. Solove, The Myth of the Privacy Paradox, in GW Legal Studies Research Paper No 202010, 2020.  (33) Botta - Wiedermann, The Interaction of EU Competition, Consumer and Data Protection Law in the Digital Economy: The Regulatory Dilemma in the Facebook Odyssey, in Antitrust Bulletin, 2019, 64, 428-446.


GIURISPRUDENZA COMPARATA scelta, questa, che ad avviso di taluni sarebbe stata di per sé sufficiente a portare il tema sotto la lente della data protection law o, al più, del diritto dei consumatori; (34) ciò sia ratione materiae, sia in considerazione del fatto che la scelta di agire ai sensi del diritto antitrust si presenta – a seguito dei già menzionati problemi in merito alla definizione del mercato rilevante e alla dimostrazione della posizione dominante dell’impresa soggetta al procedimento – quale una via più complessa da percorrere. Si tratta invero di dubbi in parte dissipabili dalla considerazione per la quale, essendo preclusa al Bundeskartellamt la possibilità di sanzionare pratiche commerciali scorrette ai sensi del diritto dei consumi tedesco, un simile percorso apparisse ab origine non percorribile. Non solo: tale scelta appare, da un lato, in linea di continuità con precedenti posizioni già espresse dal Bundeskartellamt, (35) dall’altro conforme ad un interesse da parte dell’autorità – aspetto, questo, da leggersi congiuntamente alla scelta di fondare la decisione sul diritto interno tedesco – a “mantenere il controllo” sull’evolvere del procedimento, evitando il rischio di un ricorso alla Corte di Giustizia dell’Unione. (36) Con riferimento alle ragioni di merito, invece, il Bundeskartellamt si allinea con la visione secondo la quale, dal punto di vista qualitativo, la quantità di dati ottenuta dai consumatori costituisca una funzione diretta del proprio potere di monopolio, in quanto rappresentante un extra-profitto (pur complesso da valutare in termini monetari) che l’impresa è in grado di ottenere soltanto in ragione della propria ragione di dominanza sul mercato. Una posizione, questa, che appare significativa laddove si consideri che, ad avviso di crescente dottrina, l’attuale concentrazione esistente nel mercato dei social network sarebbe da imputarsi proprio alla graduale erosione della forza concorrenziale delle imprese operanti in tale settore, operata da Facebook a partire dal 2004 proprio

(34) Colangelo - Maggiolino, Data Accumulation and the Privacy-Antitrust Interface: Insights from the Facebook Case for the EU and the US, in Transatlantic Technology Law Forum Working Papers, 2018, 44.  (35) Si fa riferimento, in particolare, ad un documento elaborato congiuntamente dalle autorità garanti della concorrenza tedesca e francese nel 2016, nel quale si sosteneva la tesi che – pur perseguendo i corpora in materia di tutela dei dati personali e della concorrenza obiettivi differenti – i diritti connessi alle condizioni di trattamento dei dati ben potessero essere presi in considerazione dal diritto antitrust qualora idonei ad alterare la competitività tra le imprese. V. Autorité de la Concurrence - Bundeskartellamt, Competition Law and Data, 2016, all’indirizzo <www. bundesrkatellamt.de>.  (36) A favore di questa tesi ancora Botta - Wiedermann, The Interaction of EU Competition, Consumer and Data Protection Law in the Digital Economy: The Regulatory Dilemma in the Facebook Odyssey, in Antitrust Bulletin, 2019, 64, 438.

attraverso la valorizzazione della marcata attenzione rivolta alla privacy dal social network. A tale strategia sarebbe seguita, successivamente all’affermazione dell’impresa quale leader di mercato, una progressiva degradazione da parte di Facebook delle tutele offerte agli utenti in termini di controllo sui propri dati, funzionale a raggiungere un livello di libertà nel trattamento delle informazioni, il quale non sarebbe stato sostenibile in un mercato concorrenziale: (37) se, infatti, originariamente le condizioni di servizio di Facebook – unitamente alle dichiarazioni rese dalla compagnia – fornivano un’ampia scelta ai consumatori in materia di privacy policy, la crescente capacità dell’impresa di influenzare il proprio ecosistema di riferimento (e, conseguentemente, di porsi quale principale partner commerciale per gli operatori nel settore della pubblicità online) è andata di pari passo con la completa standardizzazione delle condizioni d’accesso al servizio, nonché con l’introduzione di nuovi meccanismi di monitoraggio utili ad aggirare le soluzioni a disposizione degli utenti per ridurre la pervasività del controllo sulle loro attività. (38) In sostanza, attraverso questo processo, Facebook sarebbe riuscito ad entrare in un mercato (in precedenza) concorrenziale, all’interno del quale avrebbe progressivamente disintermediato la competizione attraverso l’introduzione di privacy policy di elevato profilo a vantaggio degli utenti, destinate poi ad essere inesorabilmente eliminate in favore del ricorso a protocolli di sorveglianza sistemica dei consumatori; appare in tutta evidenza come i profili di contiguità di tale ricostruzione con quella operata dal Bundeskartellamt in occasione del procedimento in commento siano ampi e significativi. Senza entrare nel merito della ricostruzione offerta giova osservare come – contrariamente a quanto ci si potesse ragionevolmente attendere analizzando la mole di documenti prodotta dal Bundeskartellamt a supporto della supposta riconducibilità di una violazione della General Data Protection Regulation entro le maglie di giustiziabilità del diritto della concorrenza – tale aspetto assuma invero valenza secondaria in sede (prima) di appello e (successivamente) in occasione della pronuncia della Corte di Giustizia: in entrambe le decisioni, infatti (e, ad avviso di chi scrive, ragionevolmente) tale tema risulta marginale nella riflessione in merito alla censura (37) Offre ampia ricostruzione in merito a questo processo Srinivasan, The Antitrust Case Against Facebook: A Monopolist’s Journey Towards Pervasive Surveillance in spite of Consumers’ Preference for Privacy, in Berkeley Business Law Journal, 2019, 1.  (38) Cfr. Hoofnagle – Urban - Li, Privacy and Modern Advertising: Most US Internet Users Want ‘Do Not Track’ to Stop Collection of Data About their Online Activities, in Amsterdam Privacy Conference, 2012; in precedenza v. già Turow – King – Hoofnagle – Bleakley - Hennessy, Americans Reject Tailored Advertisings and Three Activities that Enable It, in University of Penn Scholarly Commons, 2009.

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GIURISPRUDENZA COMPARATA bilità del procedimento dell’autorità tedesca, posto che i profili di maggiore complessità inerenti alla decisione attengono alla natura della condotta di Facebook e alla connessione esistente tra questa ed il danno concorrenziale arrecato al mercato dei social network e (volendosi sposare una lettura del diritto antitrust maggiormente attenta a profili di giustizia sostanziale) al benessere dei consumatori. Con riferimento a questo aspetto, due elementi appaiono meritevoli di specifica considerazione: si pone, in primo luogo, la tematica del preteso collegamento tra la violazione del GDPR e danno (non prettamente consumeristico, bensì squisitamente) concorrenziale. Un passo, questo, che, sebbene forzosamente imposto dalla volontà di attivare le tutele previste avverso l’abuso di posizione dominante, rischia di comportare una sostanziale liquefazione del rigore interpretativo del nesso di causalità: non a caso, si noti, la violazione delle regole previste dalla General Data Protection Regulation rappresenta (prima) uno degli aspetti oggetto di censura da parte della corte di appello, e (poi) viene gradualmente a perdere prominenza nel giudizio, pur pronunciato in favore del Bundeskartellamt, da parte della Corte Federale di Giustizia. In secondo luogo, è proprio l’originale utilizzo del Konditionenmissbrauch – ossia dell’illecito concorrenziale derivante dall’imposizione di condizioni contrattuali non eque (39) - a costituire un profilo di interesse specifico: sebbene giovi osservare come tale soluzione appaia ben più affine all’ordinamento tedesco che non ad altre giurisdizioni. (40) Una scelta, questa, che appare ancor più controversa laddove si consideri la difficoltà di sviluppare una soddisfacente ricostruzione del collegamento diretto tra struttura dei termini contrattuali e pregiudizio alla concorrenza. (41) In merito a questo aspetto sembra la Corte Federale si allinei, invero, a quelle posizioni già espresse da parte

(39) Invero – osservano Pardolesi - Van den Bergh - Weber, Facebook e i portenti del “Konditionenmissbrauch”, in corso di pubblicazione su Mercato, concorrenza, regole, 2020 – risorsa dal non frequente utilizzo nella giurisprudenza: si vedano, in merito, App. Milano, 16 settembre 2006, in Dir. Ind., 2007, 155, con nota di Polettini, Concorrenza nel mercato del gas: dopo l’autorità antitrust si pronuncia anche il giudice ordinario, nonché AGCM. provv. n. 17481/2007 del 18 ottobre 2007, caso A390, Enel distribuzione/attivazione fornitura subordinata a pagamenti e morosità pregresse, nonché provv. n. 18692/2008 del 21 agosto 2008, caso A398, Morosità pregresse Telecom. In Europa cfr. Commissione europea; decisione 24 luglio 1991, IC/31.043 – Tetra Pak II, OJ L 72, 18 marzo 1992, 1  (40) Cfr. Witt, Excessive Data Collection as Anticompetitive Conduct, 15 e ancora Pardolesi - Van den Bergh - Weber, nota 24.  (41) Cfr. in merito Budzinski – Grusevaja - Noskova, The Economics of the German Investigation of Facebook’s Data Collection, 2020, all’indirizzo <www.ssrn.com>.

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della dottrina, (42) ad avviso delle quali la condotta di Facebook possa ritenersi astrattamente idonea a cagionare un danno stricto sensu antitrust nei termini di rendita illecita da monopolio connessa all’inefficienza allocativa derivante sul mercato (a valle) dell’advertising online a seguito dell’imposizione di clausole contrattuali inique: una teoria certamente accattivante, ma che a ben vedere non sembra animare la prima decisione resa dall’autorità antitrust, posto che questa sembra rinvenire la propria ratio nella condotta escludente. In questo senso, la posizione del Bundeskartellamt pare invertire il tradizionale approccio al rapporto tra competitività dei mercati e protezione dei consumatori: se, infatti, ad un maggiore livello di competizione sui mercati si ritiene associarsi, consequenzialmente, un più elevato benessere dei consumatori, nel caso in oggetto un provvedimento direttamente finalizzato ad elevare la tutela dei consumatori – attraverso l’introduzione di clausole contrattuali privacy compliant – è invece interpretato come strutturalmente essenziale ad un aumento della competitività nel mercato dei social network. Si tratta di scelta che tuttavia, ad avviso di chi scrive, rischia di favorire un’interpretazione del mercato invero più teorica che reale: un aspetto, questo, emerge, nella constatazione per la quale la modifica dei terms and condition di Facebook costituirebbe agli occhi della Corte uno strumento idoneo alla riduzione delle barriere all’ingresso nel mercato dei social network tedeschi; ciò pur a fronte della intuitiva constatazione per la quale – e in questo si prestano a rilettura altresì le considerazioni formulate dagli studi condotti in merito al (controverso) tema del privacy paradox, declinabile sulla base di confliggenti interpretazioni in termini affermativi ovvero distorsivi dell’opinione del consumatore (43) – appare francamente questionabile che tale elemento costituisca, specialmente a fronte delle molteplici economie di scala e delle peculiarità di operatività caratterizzanti il mercato in esame, la “leva” concorrenziale a favore di Facebook. Un rischio, quello della supervalutazione del ruolo concorrenziale dei privacy terms, che si presenta poi particolarmente elevato a seguito della scelta di recuperare l’idea di una causalità normativa quale sufficiente a fondare l’illecito antitrust, a danno della più stringen-

(42) Këllezi, Data Protection and Competition law: non-compliance as abuse of dominant position, in sui-generis 2019, 347.  (43) Cfr. Cooper - Wright, The Missing Role of Economics in FTC Privacy Policy, in Cambridge Handbook of Consumer Privacy, a cura di Polonetsky, Selinger e Tene, Cambridge, 2017; Spiekermann, E-privacy in 2nd generation E-commerce: privacy preferences versus actual behavior, in Proceedings of the 3rd ACM conference on Electronic Commerce, 2001, 8.


GIURISPRUDENZA COMPARATA te nozione propugnata dalla Corte di Düsseldorf: (44) opzione certamente rilevante anche nella scelta di basare la decisione sull’art. 19(1)GWB, e non dell’art. 102 TFUE, con ciò mantenendo la decisione all’interno del perimetro diretto delle competenze delle corti nazionali e aderendo ad un’interpretazione del diritto interno che, nell’ultimo decennio, ha ampliato gradualmente i confini di applicabilità del Konditionenmissbrauch. (45) Un ultimo aspetto merita, poi, attenzione: i tre giudizi richiamati si allineano – e mantengono senza particolare esitazione – all’idea, portata avanti dalla già menzionata decisione dell’ottobre 2014, (46) che Facebook non possa considerarsi concorrente di altri servizi operanti sul mercato digitale in quanto codesti presenterebbero caratteristiche ontologiche che impedirebbero di ricomprenderli all’interno del mercato dei social network. In merito a ciò sia sufficiente osservare che, già in occasione della summenzionata decisione, l’analisi del mercato degli online advertising services aveva costituito uno dei parametri essenziali ai fini di autorizzare l’acquisizione di WhatsApp da parte di Facebook, mentre poca attenzione era stata dedicata ai temi connessi alla tutela dei dati utenti. Si tratta di una scelta che, oggi, andrebbe tenuta particolarmente presente considerando che, in primis, in tale occasione l’esclusione di una rigorosa analisi dei problemi relativi alla data protection era stata appunto motivata sulla base della non diretta rilevanza di tale tema in termini di tutela della concorrenza; in secundis, perché oggi sembra che sia proprio quella scelta a porsi alla base della struttura di network che costituisce, ad avviso del Bundeskartellamt e della Corte Federale, la precondizione essenziale per il potere di mercato di Facebook.

5. Un’antitrust in cerca della propria identità…

Alla luce dei summenzionati rilievi non può negarsi come la decisione rischi di farsi promotrice di un’idea di diritto della concorrenza “per tutte le stagioni” a seguito della centralità assunta nella riflessione del Bundeskartellamt dal diritto del consumatore: esito del percorso interpretativo dell’autorità (avallato, nella sua sostanza, dalla Corte Federale) sembra infatti essere l’affermarsi delle esigenze di giustizia sostanziale del consumatore – a ben vedere, declinate nel segno di un criterio di piena autodeterminazione che, proprio di corpora normativi  (44) In merito vedi Witt, Excessive Data Collection as Anticompetitive Conduct, 33.  (45) Il riferimento è, naturalmente, alle sentenze VBL Gegenwert I e II, rispettivamente del 6 novembre 2013 (KZR 58/11) e del 24 gennaio 2017 (KZR 47/14) nonché dalla più nota sentenza Pechstein/International Skating Union, 16 giugno 2016, KZR 6/15.  (46) Commissione europea, decisione 3 ottobre 2014, COMP/M.7217 - Facebook/Whatsapp.

come quello in materia di pratiche commerciali scorrette, (47) fatica invece a trovare spazio nell’ambito del diritto antitrust – a discapito talvolta del rigore interpretativo delle disposizioni di interesse. Del resto è stato già stato rilevato (48) come si sia assistito, negli ultimi anni, alla graduale destrutturazione della nozione di mercato rilevante ed alla riduzione degli elementi necessari a realizzare la dominanza di mercato, ed in linea di continuità con questa tendenza certamente si pone altresì la riconduzione del nesso di causalità entro i margini della mera normatività. Nell’ambito della liquefazione delle regole che caratterizzerebbe il mercato digitale agli occhi dell’interprete, insomma, l’esistenza di un potere di mercato nel settore digitale sembra assurgere a condizione necessaria e sufficiente per legittimare la repressione ai sensi del diritto della concorrenza di violazioni che, di per sé considerate, pertengono a diverse e differenti aree, alla luce della marginalizzazione caratterizzante il passaggio dei soggetti nella rete da consumatori a meri utenti o follower. Non si vuole tuttavia, si badi, qui sottendere l’idea che tale processo di ripensamento si limiti ad una maggiore disinvoltura nell’uso delle categorie proprie del diritto antitrust: da tempo si assiste ad un ampio dibattito in merito alla necessità di promuovere un’adeguata considerazione di interessi pubblici “altri” ai sensi del diritto della concorrenza (49) nonché, più in generale, volto a concettualizzare nel dettaglio gli obiettivi della disciplina; è probabilmente a queste tendenze che deve ricollegarsi l’emersione di correnti re-interpretative e financo la graduale “invasione” della privacy nel diritto antitrust. Se è virtualmente sostenibile che la gestione (intesa altresì – per utilizzare una terminologia vicina alla General Data Protection Regulation (50) - come trattamento finalizzato ad utilità economica) dei dati, avendo assunto rilevanza centrale nei modelli di operatività delle imprese, possa essere posta sotto la lente del diritto della concorrenza, ben altro è asserire che rientri tra gli scopi della tutela antitrust contrastare tutte quelle condotte suscettibili di incidere sulla qualità dei prodotti e servizi offerti sul mercato digitale, in quanto indirettamente collegate alle variazioni del potere di mercato di coloro che forniscono i suddetti, secondo logiche favorevoli ad utilizzare il diritto della concorrenza quale strumento di

(47) Il riferimento è, naturalmente, alla Direttiva 2005/29/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 maggio 2005, relativa alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori nel mercato interno, OJ L 149, 11 giugno 2005, 22–39.  (48) Këllezi, op. ult. cit., 348.  (49) Richter, The Power Paradigm in Private Law, 544.  (50) Art. 4 GDPR.

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GIURISPRUDENZA COMPARATA disciplina non solo del causal-structural, ma altresì del modal power delle imprese. (51) Ciò anche perché, specialmente in ragione della natura non rivale del dato informatico (e considerando quindi la capacità degli utenti di rivolgersi a nuovi servizi maggiormente privacy friendly ove di interesse) appare arduo sostenere icto oculi che l’adesione all’utilizzo incrociato dei dati da parte di Facebook impedisca ad altri operatori di offrire soluzioni convincenti, sia nel mercato dei social network sia in quello del targeted advertising. In questo la difficoltà argomentativa dell’autorità tedesca emerge in tutta evidenza, laddove il modus argumentandi sembra nei fatti risolversi nell’idea che un qualsiasi illecito compiuto da una società in posizione dominante – tra l’altro, secondo una nozione costruita in modo quantomeno controvertibile – integri un abuso ai sensi del diritto antitrust. Il passo (in avanti?) è certamente non irrilevante, e nel promuovere tale posizione il Bundeskartellamt sembra più o meno implicitamente farsi ricettore di quel più ampio movimento politico-istituzionale volto ad irrobustire i vincoli incombenti sulle large online platforms (questa la denominazione accolta dal già menzionato Digital Service Act) richiamandone, a seconda delle diverse interpretazioni accolte, la posizione di information fiduciary (52) ovvero i profili di rischio specifico connessi all’esacerbarsi dell’asimmetria informativa esistente tra queste ultime, i consumatori, e financo il regolatore pubblico. (53) Che il fine giustifichi i mezzi, tuttavia, è tutto fuorché scontato, specialmente laddove – e si è già avuto modo di sottolinearlo – esito di tale esigenza è, nel caso di specie, una profonda devitalizzazione del requisito della consequenzialità (rectius, causalità) del danno concorrenziale a seguito del comportamento tenuto da Facebook, venendosi in ultima istanza a delineare una sorta di responsabilità oggettiva in capo ai grandi operatori online: un timore invero difficilmente scongiurabile attraverso la considerazione – avallata dalla Corte Federale – secondo la quale l’utilizzo di presunzioni (non precluso dalla normativa in parola) sarebbe stato sufficiente a dimostrare la diretta correlazione tra la condotta di

(51) In merito a tale aspetto si richiama l’ammonimento di Ohlhausen - Okuliar, Competition, Consumer Protection, and the Right [Approach] to Privacy, in Antitrust Law Journal, 2015, 80, 121.  (52) Balkin, The Fiduciary Model of Privacy, in Harvard Law Review Forum, 2020, 134, 1; Id., Information Fiduciaries and the First Amendment, in U.C. Davis Law Review, 2016, 49, 1183; Id., Free Speech Is a Triangle, in Columbia Law Review, 2018, 118, 2048; Id. Free Speech in the Algorithmic Society: Big Data, Private Governance, and New School Speech Regulation, in U.C. Davis Law Review, 2018, 51, 1162.  (53) DSA, 11.

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Facebook e il rafforzamento della propria posizione sui mercati considerati. A tutto voler concedere, probabilmente più apprezzabile appare l’approccio seguito in un caso simile dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato italiana (54) (poi confermata dal TAR Lazio) (55) la quale – pronunciandosi in merito alla natura dei servizi teoricamente qualificati come free ma di fatto “pagati” dagli utenti attraverso la fornitura di propri dati – ha ricondotto il caso entro i confini della normativa consumeristica dichiarando la condotta in violazione degli artt. 21, 22, 24 e 25 del Codice del Consumo; in tal modo riducendo la portata deterrente della decisione, (56) ma certamente privando l’iter argomentativo dei punti di debolezza evidenziati dalla scelta della propria controparte tedesca in termini di individuazione del mercato rilevante e di nesso di consequenzialità.

6. …e gli effetti della decisione

In attesa di ulteriori sviluppi della vicenda, certamente è prematuro cercare di trarre delle conclusioni di ampio respiro in merito alla sorte di questa nuova veste del diritto della concorrenza, ed alla sua idoneità – o financo opportunità – a divenire strumento utile a governare le complessità (queste, certamente esistenti) strutturali presenti nei mercati digitali. Alcuni effetti, tuttavia, sembrano essere già in corso di manifestazione: se, a livello normativo, l’avvento del Digital Service e del Digital Market Act lascia presagire la prossima introduzione di un quadro armonizzato che permetterà alle autorità degli Stati Membri di scongiurare i problemi strutturali caratterizzanti monopoli digitali, a livello giurisprudenziale, stante la natura squisitamente interna del procedimento, sembra ragionevole attendersi che nei prossimi mesi anche altre autorità nazionali saranno chiamate a prendere posizione sul tema – considerando altresì la natura pluri-territoriale della condotta di Facebook. Ciò, del resto, anche alla luce della recente (e netta) presa di posizione assunta oltreoceano dalla Federal Trade Commission nei confronti di Facebook in merito alle presunte condotte di monopolization tenute dalla compagnia. (57) A titolo meramente esemplificativo, giova osservare che lo stesso Bundeskar (54) AGCM, decisione 29 novembre 2019, provv. n. 27432, PS11112, Facebook-Condivisione Dati Con Terzi.  (55) V. Tar Lazio, 10 gennaio 2020, n. 261, con commento di Bravo, La «compravendita» di dati personali, in questa Rivista, 2020, 531.  (56) Osservano questo aspetto con efficacia Botta - Wiedermann, The Interaction of EU Competition, Consumer, and Data Protection Law in the Digital Economy, 444.  (57) Federal Trade Commission V. Facebook, Inc, Complaint For Injunctive And Other Equitable Relief, 9 dicembre 2020, all’indirizzo <www.ftc.gov>. Per un’analisi del procedimento cfr. Carbone, Facebook sotto attacco anti-


GIURISPRUDENZA COMPARATA tellamt sembra intenzionato a sviluppare ulteriormente i margini di operatività offerti dall’interpretazione della Corte Federale, come evidenziato dalla recente apertura di un’indagine “gemella” a quella oggetto della presente analisi, atta ad investigare i rapporti tra Facebook e i prodotti per la realtà virtuale Oculus. (58) Nel corso di tali sviluppi è certamente da attendersi (e da auspicare) una più rigorosa riflessione in merito ai confini ed ai limiti del diritto della concorrenza nel suo rapporto con discipline contigue (in primis la tutela dei dati personali e il diritto dei consumatori) che, pur muovendo dal comune terreno concettuale dell’asimmetria di potere, perseguono invero finalità differenti, che ne determinano caratteri e natura: e se questo, da un lato, sottintende che l’applicazione di una non valga a precludere l’azione dell’altra ove necessario, dall’altro implica parimenti che l’azione di ciascuna debba essere rigorosamente ricompresa entro i propri limiti funzionali. (59) Questo, si badi, non necessariamente limitando l’analisi antitrust al mero perseguimento di esigenze di tipo efficientistico-allocativo, ma tenendo in considerazione che la promozione di obiettivi di tipo social-distributivo deve essere perseguita con rigore metodologico e coscienza dei diversi valori in gioco. Del resto, qualora si assista (come si teme) ad una crescente funzionalizzazione del diritto antitrust alla tutela di beni giuridici eccessivamente distanti dal diritto della concorrenza, il rischio è di ritrovarsi, in conclusione, a ricorrere ad un assetto rimediale inidoneo a raggiungere l’obiettivo perseguito. In questo ultimo aspetto, in particolare, sembra emergere vera la debolezza del provvedimento dell’autorità tedesca: se, infatti – come da taluni ipotizzato (60) - il divieto di abuso è utilizzato quale surrogato dei tradizionali obblighi informativi per contrastare l’informazione asimmetrica alla base del fallimento di mercato derivante dall’utilizzo di terms and conditions iniqui da parte di Facebook, non si vede perché non ricorrere al tradizionale strumentario offerto dalla normativa a tutela del consumatore. Se, invece, obiettivo della decisione è più genuinamente quello di promuovere una maggiore concorrenzialità nel mercato dei social network ovvero della pubblicità trust, come finisce l’era felice delle big tech, 15 dicembre 2020, all’indirizzo <www.agendadigitale.eu>.  (58) Bundeskartellamt, Comunicato stampa: Bundeskartellamt examines linkage between Oculus and the Facebook network, 10 dicembre 2020, in <www.bundeskartellamt.de>.  (59) Cfr. altresì le riflessioni operate dalla Corte di Giustizia in occasione della sentenza 23 novembre 2006, caso C-238/05, Asnef-Equifax, Servicios de Información sobre Solvencia y Crédito, SL contro Asociación de Usuarios de Servicios Bancarios (Ausbanc)., ECLI:EU:C_2006:734, par. 63.  (60) Pardolesi - Van den Bergh - Weber, cit., 12.

online, risulta tuttavia parimenti evidente che l’imposizione di obblighi conformativi come quelli richiesti dal Bundeskartellamt a Facebook per rettificare la propria posizione (pervenendo alla ridefinizione delle proprie condizioni contrattuali al fine di promuovere una scelta consapevole da parte dei consumatori) difficilmente potrà tutelare il bene giuridico che le disposizioni in materia di abuso di posizione dominate si propongono di proteggere: a ben vedere, la decisione non offre elementi per sostenere che una maggiore libertà per gli utenti di “personalizzare” la propria esperienza online (decidendo se consentire a Facebook di accedere a dati elaborati in seno a compagnie da essa controllate) si traduca in una riduzione del potere in capo a quest’ultima, ovvero in una maggiore apertura del mercato ad imprese terze, considerando oltretutto la natura open-ended della prescrizione. In questo senso, e sempre supponendo che la tutela della concorrenza fosse l’obiettivo centrale della decisione, probabilmente avrebbe avuto maggiore ragionevolezza incidere prescrittivamente sui doveri di Facebook in merito alla gestione e, financo, alla condivisione dei propri dati con imprese concorrenti, secondo un approccio atto a qualificare i dati derivanti dalle preferenze degli utenti espresse sui social network o su altri applicativi digitali alla stregua di essential facility per operare nei mercati a valle online, come quello della pubblicità (61) ed imponendo vincoli di portabilità ed interoperabilità orizzontale tra i diversi dataset. (62) Una soluzione, questa, già prospettata – seppur non pacificamente (63) - dagli studiosi del diritto della concorrenza, e che tut-

(61) Cfr. ex multis O’Connell, Evolution and Development of the Essential Facilities Doctrine in a European Competition Law Context, in Semantic scholar, 2014; Rubinfeld - Gal, Access Barriers to Big Data, in Arizona Law Review, 2017, 339; Lundqvist, Big Data, Open Data, Privacy Regulations, Intellectual Property and Competition Law in an Internet of Things World – The Issue of Accessing Data, in Stockholm Faculty of Law Research Paper Series, 2016, 16; Drexl, Data Ownership and Access to Data - Position Statement of the Max Planck Institute for Innovation and Competition of 16 August 2016 on the Current European Debate, in Max Planck Institute for Innovation & Competition Research Paper, 2016, 10; V. altresì Commissione Europea, Staff Working Document On the free flow of data and emerging issues of the European data economy, documento allegato alla Communication from the Commission to the European Parliament, the Council, the European economic and social Committee and the Committee of the Regions “Building a European data economy” SWD(2017) 2 final, 21.  (62) Cfr. Zoboli, Fueling the European Digital Economy: A Regulatory Assessment of B2B Data Sharing, in European Business Law Review, 2020; Di Porto - Ghidini, I Access Your Data, You Access Mine’. Requiring Data Reciprocity in Payment Services, in International Review of Intellectual Property and Competition Law - IIC, 2020, 51; Colangelo - Maggiolino, Big Data as a Misleading Facility, in European Competition Journal, 2017, 249.  (63) Hoffman - Otero, Demystifying the Role of Data Interoperability in the Access and Sharing Debate, in Max Planck Institute for Innovation & Competition Research Paper, 2020, 23; Hovenkamp, Antitrust and Platform Monopoly, in Faculty Scholarship at Penn Law, 2020, 2192.

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GIURISPRUDENZA COMPARATA tavia deve necessariamente essere parte di un processo più ampio di riflessione in merito al ruolo dei dati nel mercato digitale. Nel mentre, ciò che ad oggi rimane delle decisioni finora rese dalle autorità tedesche in merito a Facebook è il tentativo (estremamente vigoroso nella pronuncia del Bundeskartellamt, già dimidiato a fronte delle emergenze dei gradi successivi) di integrare i diritti fondamentali quali base per un controllo pervasivo delle modalità operative delle big tech, favorendo una lettura ad ampio spettro del ruolo delle autorità antitrust la quale, tuttavia, ove condotta in assenza del rigore analitico relativo all’individuazione dei presupposti funzionali di tale comparto (segnatamente, la chiara individuazione dell’abuso e della relazione tra questo ed il danno concorrenziale) rischia di risolversi nella promozione di un’autorità forse con maggiori margini di giustiziabilità, ma meno funzionale al perseguimento della propria ragion d’essere. Sullo sfondo persiste, infine, la necessità di fare i conti con gli strascichi della decisione in merito alla fusione tra Facebook e WhatsApp, che ad oggi pare poter essere letta con occhi profondamente diversi da quelli che ispirarono le valutazioni della Commissione nel 2014, e che sembra destinata a manifestare i propri effetti ancora a lungo.

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GIURISPRUDENZA CIVILE

La notifica a mezzo PEC della cartella: un problema ancora in cerca di una soluzione Corte di Cassazione ; sezione VI civile; ordinanza 27 novembre 2020, n. 27181; Pres. Greco; Rel. D’Aquino; Agenzia dell’Entrato c. S.L.O.T. La cartella di pagamento non deve essere sottoscritta necessariamente da parte del funzionario competente, dal momento che l’esistenza dell’atto non dipende tanto dall’apposizione del sigillo o del timbro o di una sottoscrizione leggibile, quanto dal fatto che tale elemento sia inequivocabilmente riferibile all’organo amministrativo titolare del potere di emetterlo. Di conseguenza, le cartella di pagamento non deve essere sottoscritta digitalmente con estensione “pdf/A” o “.p7m”.

…Omissis…

Diritto

CONSIDERATO CHE: 1 - Con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 26 nella parte in cui la sentenza impugnata ha ritenuto inesistenti le notificazioni a mezzo PEC. Deduce il ricorrente che la notifica delle cartelle a mezzo PEC è consentita dall’art. 26 cit., modalità che conferisce certezza quanto a provenienza dall’ente impositore, data di ricezione (stante la ricevuta di avvenuta consegna) e relativo contenuto della stessa, non diversamente dalla notifica a mezzo posta ordinaria. Deduce, inoltre, come non sia richiesta la sottoscrizione della cartella stessa, non essendo previsto alcun onere di firma della cartella, per essere la cartella redatta su modulo amministrativo, sicché non risulterebbe necessaria l’utilizzazione del formato “.p7m” a pena di nullità. Deduce, ancora, che il formato “.p7m” è richiesto solo per il processo civile telematico. Osserva, infine, il ricorrente come la notificazione della cartella possa essere eseguita in via diretta dall’Agente della Riscossione. 1.1 - Il primo motivo è fondato. È principio condiviso che, in caso di notifica a mezzo PEC, la copia su supporto informatico della cartella di pagamento, in origine cartacea, non deve necessariamente essere sottoscritta con firma digitale, in assenza di prescrizioni normative di segno diverso (Cass., Sez. V, 27 novembre 2019, n. 30948). Ciò in quanto la cartella di pagamento non deve essere necessariamente sottoscritta da parte del funzionario competente, posto che l’esistenza dell’atto non dipende tanto dall’apposizione del sigillo o del timbro o di una sottoscrizione leggibile, quanto dal fatto che tale elemento sia inequivocabilmente riferibile all’organo amministrativo titolare del potere di emetterlo; tanto più che, a norma del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 25 la cartella, quale documento per la riscossione degli importi contenuti nei ruoli, deve essere predisposta secondo l’apposito modello approvato con D.M.,

che non prevede la sottoscrizione dell’esattore, ma solo la sua intestazione e l’indicazione della causale, tramite apposito numero di codice (Cass., Sez. V, 4 dicembre 2019, n. 31605; Cass., Sez. V, 29 agosto 2018, n. 21290; Cass., Sez. V, 30 dicembre 2015, n. 26053; Cass., Sez. V, 5 dicembre 2014, n. 25773; Cass., Sez. V, 27 luglio 2012, n. 13461). 1.2 – La sentenza impugnata, nella parte in cui ha ritenuto che le cartella di pagamento dovesse essere sottoscritta digitalmente con estensione “pdf/A” o “.p7m”, deducendo da tale circostanza la nullità della notificazione, non ha fatto buon governo di tali principi. 2 - Con il secondo motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2719 c.c., per avere il giudice ritenuto ammissibile il disconoscimento di una delle cartelle di pagamento (n. (OMISSIS)). Deduce, sotto un primo profilo, che il disconoscimento di parte contribuente sia avvenuto in forma del tutto generica, con conseguente equipollenza all’originale della copia della cartella di cui vi sarebbe stato il disconoscimento. Sotto un secondo profilo, il ricorrente censura la decisione, evidenziando che in caso di disconoscimento il giudice può, in ogni caso, apprezzare l’efficacia rappresentativa del documento disconosciuto facendo ricorso ad altri mezzi di prova. 2.1 - Il secondo motivo è infondato quanto alla dedotta genericità con cui sarebbe intervenuto il disconoscimento. La sentenza ha, difatti, accertato che “la difesa della SLOT SRL ha disconosciuto al conformità della relata di notifica depositata in copia dalla concessionaria per la riscossione”. Né il ricorrente ha offerto elementi, in violazione del principio di specificità, per ritenere in quale sede processuale e in che termini tale attività difensiva sarebbe stata posta in essere in modo inadeguato. 2.2 - Fondato è, invece, il motivo quanto agli effetti dell’intervenuto disconoscimento della copia rispetto all’originale. Questa Corte ha già affermato il principio secondo cui, ove il destinatario della cartella di pagamento ne contesti la notifica, l’agente della riscossione

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GIURISPRUDENZA CIVILE può dimostrarla producendo copia della stessa, senza che abbia l’onere di depositarne né l’originale, anche in caso di disconoscimento, in quanto lo stesso non produce gli effetti di cui all’art. 215 c.p.c., comma 2, e potendo quindi il giudice avvalersi di altri mezzi di prova, comprese le presunzioni; né la parte è onerata della produzione della copia integrale, non essendovi alcuna norma che lo imponga o che ne sanzioni l’omissione con la nullità della stessa o della sua notifica (Cass., Sez. VI, 11 ottobre 2018, n. 25292). 2.3 - Questo principio è conforme alla costante giurisprudenza di questa Corte, secondo cui il disconoscimento, ai sensi dell’art. 2719 c.c., della conformità tra una scrittura privata e la copia fotostatica, prodotta in giudizio non ha gli stessi effetti - una volta effettuato - di quello della scrittura privata, previsto dall’art. 215 c.p.c., comma 1, n. 2. Se, difatti, in caso di disconoscimento della scrittura privata, in mancanza di verificazione, è preclusa l’utilizzabilità della scrittura, la contestazione di cui all’art. 2719 c.c. non impedisce al giudice di accertare la conformità della copia all’originale anche mediante altri mezzi di prova, comprese le presunzioni (Cass., Sez. V, 8 giugno 2018, n. 14950; Cass., Sez. III, 20 agosto 2015, n. 16998; Cass., Sez. III, 19 dicembre 2019, n. 33769; Cass., Sez. VI, 27 marzo 2014, n. 7267; Cass., Sez. III, 21 novembre 2011, n. 24456; Cass., Sez. III, 21 aprile 2010, n. 9439; Cass., Sez. I, 3 febbraio 2006, n. 2419; Cass., Sez. I, 15 giugno 2004, n. 11269). 2.4 - Ne consegue che, in tema di notifica della cartella esattoriale, laddove l’agente della riscossione produca

in giudizio copia fotostatica della relata di notifica o dell’avviso di ricevimento e l’obbligato contesti la conformità delle copie prodotte agli originali, ai sensi dell’art. 2719 c.c., il giudice, che escluda, in concreto, l’esistenza di una rituale certificazione di conformità agli originali, non può limitarsi a negare ogni efficacia probatoria alle copie prodotte, in ragione della riscontrata mancanza di tale certificazione, ma deve valutare le specifiche difformità contestate alla luce degli elementi istruttori disponibili, compresi quelli di natura presuntiva, attribuendo il giusto rilievo anche all’eventuale attestazione, da parte dell’agente della riscossione, della conformità delle copie prodotte alle riproduzioni informatiche degli originali in suo possesso (Cass., Sez. VI, 11 ottobre 2017, n. 23902; Cass., Sez. V, 4 ottobre 2018, n. 24323). 2.5 - La sentenza impugnata, nella parte in cui si è limitata a prendere atto del disconoscimento della relata di notifica all’originale senza accertare in ogni caso la conformità all’originale anche mediante altri mezzi di prova, non ha fatto buon governo di tali principi. 3 - Il ricorso va accolto nei termini di cui in motivazione, cassandosi la sentenza impugnata con rinvio alla CTR della Campania, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità. P.Q.M. La Corte, accoglie il ricorso nei termini di cui in motivazione; cassa la sentenza impugnata con rinvio alla CTR della Campania, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

IL COMMENTO di Andrea Carinci

Sommario: 1. Il caso di specie. – 2. Ragioni di interesse della decisione. – 3. Vizio di notifica. – 4. O vizio dell’atto? – 5. Conclusioni. Il presente contributo prende in esame una recente pronuncia della Suprema Corte che viene a risolvere un contrasto recentemente emerso nella giurisprudenza di merito circa la necessità o meno della firma elettronica nella cartella di pagamento notificata via PEC. La Corte conclude per escludere detta necessità, sull’assunto che la cartella di pagamento non debba essere firmata. Si tratta, però, di una conclusione che non tiene in debito conto la complessiva disciplina applicabile e che, come tale, avrà verosimilmente bisogno di essere meglio meditata. The essay scrutinizes a recent judgement of the Supreme Court regarding the digital signature of the Cartella di pagamento (i.d. the act used for the enforced payment of taxes). The Court concludes denying the necessity of a digital signature, considering that the Cartella di pagamento must not be signed. However, this is a conclusion that can’t be considered as conclusive, by the fact that it ignores all the rules, regarding the digital documents, that should be considered.

1. Il caso di specie

La contribuente impugnava una serie di estratti di ruolo, nonché un precedente avviso di accertamento ed una intimazione di pagamento, deducendo, tra l’altro,

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la mancata notificazione delle cartelle di pagamento e, così, contestando la pretesa impositiva. La CTP di Napoli accoglieva parzialmente il ricorso in relazione a una delle cartelle di pagamento. La CTR della Campania,


GIURISPRUDENZA CIVILE investita dell’impugnazione della sentenza, accoglieva l’appello della contribuente. Ad avviso della CTR, mancava infatti la prova della notificazione delle cartelle di pagamento, alla stregua delle specifiche tecniche richieste dalla legge, con particolare riferimento alla mancanza della sottoscrizione digitale (estensione “.p7m”) nel documento allegato alle mail trasmesse a mezzo PEC. Per l’effetto, la CTR aveva ritenuto inesistente la notificazione delle cartelle, non sanata dalla indicazione, nell’oggetto delle PEC, dei numeri delle cartelle. L’Agenzia delle entrate proponeva ricorso in Cassazione; la causa veniva decisa in camera di Consiglio, ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c. Ad esito del giudizio, la Suprema Corte concludeva escludendo che la firma digitale costituisca una condizione di legittimità e validità della cartella di pagamento notificata a mezzo PEC.

2. Ragioni di interesse della decisione

Come osservato, la Suprema Corte, con la sentenza qui in rassegna, conclude – peraltro in modo lapidario – nel senso che la cartella di pagamento notificata a mezzo PEC non deve necessariamente essere sottoscritta digitalmente, né con estensione PAdES né CAdES. E ciò, essenzialmente, dal momento che «la cartella di pagamento non deve essere necessariamente sottoscritta da parte del funzionario competente». Sennonché, nonostante la premessa da cui la Corte prende le mosse costituisca, oramai, un risultato acquisito in seno alla giurisprudenza della Suprema Corte, tant’è che sono richiamati numerosi precedenti (1), l’approdo cui giunge non pare altrettanto convincente. Si tratta di una questione che sta assumendo un diffuso interesse nella pratica, dove si registrano posizioni estremamente diversificate: accanto a pronunce di merito, che impongono la firma digitale alla cartella di pagamento (2), ve ne sono altre che, come la Suprema Corte, sono invece dell’avviso che non occorra alcuna firma (3). È certamente opportuno, quindi, un chiarimento, che possa mettere ordine; un chiarimento che, tuttavia, necessita di un impianto argomentativo più articolato di quello offerto dalla Suprema Corte, per poter essere convincente e seguito.

(1) Ex multis Cass. 4 dicembre 2019, n. 31605; Cass. 29 agosto 2018, n. 21290.

3. Vizio di notifica

Va detto, innanzitutto, che la notifica a mezzo PEC della cartella di pagamento solleva almeno due distinte questioni. Quella della notifica come procedimento e quella dell’atto oggetto di notifica. Questo perché, con la notifica a mezzo PEC, non solo viene introdotta una peculiare modalità di trasmissione dell’atto ma, a ben vedere, prima e soprattutto una modalità particolare di confezionamento dell’atto da notificare. In merito alle modalità di notifica, non vi è discussione alcuna che la cartella di pagamento possa essere notificata a mezzo PEC. Ai sensi dell’art. 26, co. 2, D.P.R. n. 602/1973, «la notifica della cartella può essere eseguita, con le modalità di cui al decreto del Presidente della Repubblica 11 febbraio 2005, n. 68, a mezzo posta elettronica certificata, all’indirizzo del destinatario risultante dall’indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata (INI-PEC), ovvero, per i soggetti che ne fanno richiesta, diversi da quelli obbligati ad avere un indirizzo di posta elettronica certificata da inserire nell’INI-PEC, all’indirizzo dichiarato all’atto della richiesta. In tali casi, si applicano le disposizioni dell’articolo 60 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600» (4). La posta elettronica certificata costituisce, quindi, una modalità di notifica assolutamente valida agli effetti di legge, parificata ad una raccomandata con avviso di ricevimento, con attestazione di invio e di consegna dei documenti informatici. Se così è, ecco allora che la questione, in questo caso, diviene solo quella attinente al regolare svolgimento della relativa procedura: la corretta individuazione dell’indirizzo di posta cui inviare l’atto ovvero, del caso, il compiuto assolvimento delle peculiari modalità previste per il caso di mancato recapito (casella di destinazione satura, indirizzo di destinazione non valido o inattivo), ai sensi dell’art. 60 del D.P.R. n. 600/1973 espressamente richiamato. Altra questione, che il tema della notifica può porre, è poi quella delle conseguenze derivanti dall’utilizzo, ai fini della notifica della cartella da parte dell’Agente della riscossione, di un indirizzo di posta elettronica certificata non presente sulla piattaforma IPA. Sul punto si registra un conflitto in seno alla giurisprudenza di merito. Secondo un primo orientamento, la cartella inviata impiegando un indirizzo non presente in IPA è nulla (5); ciò, alla stregua di un ragionamento che valorizza il combinato disposto di una serie di previsioni (l’art. 3-bis della L. 53/94, che prescrive l’utilizzo di un

(2) CTP Vicenza n. 615/2/17; CTP Milano n. 1023/1/17; cfr. Borgoglio, Cartella nulla se non notificata via PEC con il file giusto, in <Eutekne. info>, 2017.

(4) Cfr. Conigliaro, Rivoluzione digitale: connessi, ma non del tutto, tra notifiche via pec e consegne cartacee, in Il fisco, 2020, 2044.

(3) CTP Palermo n. 798/3/17.

(5) CTP Roma n. 2799/7/2020; CTP Napoli n. 5232/23/2020.

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GIURISPRUDENZA CIVILE indirizzo di posta elettronica certificata del notificante risultante da pubblici elenchi; l’art. 6-bis del D.Lgs. n. 82/2005, che istituisce il pubblico elenco degli indirizzi di posta elettronica certificata (INI-PEC) delle imprese e dei professionisti nonché l’indice dei domicili digitali delle pubbliche amministrazioni e dei gestori di pubblici servizi (IPA); l’art. 16-ter del D.L. n. 179/2012, laddove prevede che, ai fini della notificazione e comunicazione degli atti in materia civile, penale, amministrativa e stragiudiziale, si intendono per pubblici elenchi l’IPA, il Reginde e l’INI-PEC. Secondo un diverso orientamento, invece, l’impiego di un indirizzo non presente in IPA non determinerebbe affatto la nullità della notifica, in mancanza di una sanzione espressa (6); fermo, in ogni caso la sanatoria per raggiungimento dello scopo (7). Va osservato, in ogni caso, che possibili vizi nella notifica, difficilmente potranno integrare ipotesi di inesistenza della notifica stessa (8); sicché, e per l’effetto, si tratta di vizi suscettibili di sanatoria, ai sensi dell’art 156 c.p.c., per raggiungimento dello scopo, che si suole individuare nella mera proposizione del ricorso avverso la cartella (9).

4. O vizi dell’atto?

Più articolata si mostra, invece, la questione con riferimento al secondo profilo. Come osservato, l’impiego della PEC ha comportato un naturale ripensamento della forma dell’atto notificato, posto che, con tale modalità di notifica, viene inviato un documento informatico e non analogico. Con specifico riferimento alla cartella di pagamento, è stato così osservato che la notifica può avvenire, indifferentemente, allegando al messaggio PEC sia una copia informatica dell’atto originario (cd. atto nativo digitale) sia una copia per immagini, su supporto informatico,

(6) CTP Foggia n.447/2/2020.  (7) CTR Lazio n.2138/6/2020. In argomento, cfr. Boano, A rischio la notifica della cartella da una PEC non presente nell’IPA, <Eutekne.info>, 2020; Cancedda, Invalida la notifica PEC da indirizzo non inserito in pubblici elenchi, in Il fisco, 2020, 4892.

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di un documento originale cartaceo (cd. copia informatica) (10). In ogni caso, dal momento che vengono in considerazione documenti informatici, diventa inevitabile verificarne la corretta conformazione, predisposizione e validazione, ai sensi del Codice dell’amministrazione digitale (D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, CAD): si tratta, invero, di atti redatti su supporto informatico, per cui diviene naturale verificarne la correttezza alla stregua del predetto Codice. Ebbene, se così è, ci si rende subito conto che il ragionamento seguito dalla Suprema Corte appare, forse, eccessivamente sbrigativo (11). Va osservato, difatti, come all’interno del CAD, l’impiego della firma elettronica non sia relegato alla funzione tradizionale di individuare semplicemente l’autore di un atto. Qui, piuttosto, la firma digitale assolve ben altre e, dato il contesto, più importanti funzioni. In particolare, scopo della firma elettronica diviene quella di «garantire la sicurezza, integrità e immodificabilità del documento», oltre che, certamente, anche assicurare «in maniera manifesta e inequivoca, la sua riconducibilità all’autore» (12). Innanzitutto, quindi, sicurezza, integrità ed immodificabilità, prima ancora che riferibilità dell’atto. Dalla lettera delle norme emerge, così, un’ideale imprescindibilità della firma digitale. Ai sensi dell’art. 20 del CAD, infatti, il documento informatico, per ciò intendendosi «il documento elettronico che contiene la rappresentazione informatica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti» (13), soddisfa il requisito della forma scritta solo se ed in quanto vi è apposta una firma digitale, altro tipo di firma elettronica qualificata o una firma elettronica avanzata. In mancanza di una firma digitale, l’idoneità del documento informatico a soddisfare il requisito della forma scritta, oltre che il suo valore probatorio, sono liberamente valutabili da giudice, in relazione alle caratteristiche di sicurezza, integrità e immodificabilità ritraibili dal documento (14). In questo modo, la firma digitale diviene elemento costitutivo dell’atto, nel senso che, in via di principio, in sua assenza l’atto non può considerarsi come avente forma scritta. Tant’è che è poi demandato alla valutazione del giudice verificare se è possibile evincere altrimenti

(8) Come noto, le ipotesi di inesistenza della notifica sono state circoscritte ai soli casi di assenza degli elementi costitutivi essenziali, integrati dall’attività di trasmissione, che deve essere svolta da un soggetto qualificato e dalla consegna, da concepire come raggiungimento di uno qualsiasi degli esiti positivi della notificazione (Cass. SS.UU. del 20 luglio 2016, n. 14916).

(10) Cass. del 27 novembre 2019, n. 30948. Cfr. per le predette definizioni lett. i-bis) ed i-ter) dell’art. 1 del CAD.

(9) Più in generale, la Suprema Corte di Cassazione ha in diverse occasioni rilevato come l’irritualità della notificazione di un atto a mezzo di posta elettronica certificata, non ne comporta la nullità se la consegna in via telematica dell’atto ha, in ogni caso, prodotto il risultato della sua conoscenza, determinando così il raggiungimento dello scopo legale (Cass. SS.UU. del 28 agosto 2018, n. 23620; Cass. SS.UU. del 18 aprile 2016, n. 7665).

(12) Art. 20 CAD.

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(11) In argomento Cancedda, Sul formato del file trasmesso via PEC contrasto tra collegi di merito, in Il fisco, 2019, 385; Borgoglio, Per la validità della notifica via PEC della cartella di pagamento basta la ricevuta di avvenuta consegna, in Il fisco, 2019, 391.  (13) Art. 1, lett. p) CAD.  (14) Art. 20 CAD.


GIURISPRUDENZA CIVILE il soddisfacimento del requisito di forma, ma sempre e solamente alla stregua di un giudizio in ordine alle caratteristiche di sicurezza, integrità ed immodificabilità dell’atto. Con riferimento alla firma digitale, va poi osservato che la sottoscrizione del documento elettronico può essere apposta con le firme CAdES e PAdES (15). La differenza attiene al formato in concreto impiegato, che comporta che, mentre nella firma CAdES, per la cui verifica e visualizzazione del documento occorrono appositi software, la sottoscrizione è immediatamente verificabile già dall’estensione del file, nel caso della firma PAdES, che utilizza l’estensione ‘.pdf’ e che può pertanto essere letta con un qualsiasi software di lettura, per la verifica della firma dovrà procedersi ad un riscontro più puntuale. Altro profilo da considerare attiene, poi, alla copia dell’atto. Questo perché, con la notifica a mezzo PEC, viene notificata solo la copia dell’atto e non anche l’originale. Ragione per cui occorre che detta copia venga attestata come conforme. In particolare, come detto innanzi, l’atto notificato può essere copia digitale di originale analogico oppure copia informatica di originale digitale. La notifica della cartella può assumere entrambe le forme predette (16). Sennonché, a seconda della forma prescelta cambia il regime in concreto applicabile, concepito per riconoscere conformità e quindi valore alla copia, rispetto all’originale. Se si tratta di copia di un originale analogico, torna applicabile l’art. 22 del CAD (commi 2 e 3), ai sensi del quale la copia ha lo stesso valore dell’originale se la conformità è attestata da un pubblico ufficiale ovvero non è espressamente disconosciuta. Se, invece, si tratta di copia di un originale digitale, ai sensi dell’art. 23 occorre anche qui l’attestazione ovvero l’assenza di un espresso disconoscimento; tuttavia, è possibile sopperire alla sottoscrizione autografa del pubblico ufficiale mediante l’utilizzo di un contrassegno tramite il quale accedere al documento informatico. Tutto ciò, a tacer d’altro, rende evidente la necessità di verificare, di volta in volta, se la cartella notificata costituisce copia digitale di un originale informatico oppure mera scansione in pdf di un originale analogico; questo perché, alla stregua del CAD, l’efficacia della copia prescrive formalità differenti.

5. Conclusioni

Il breve itinerario tracciato ha messo in evidenza - si ritiene - l’opportunità di un’ulteriore riflessione sul tema della notifica a mezzo PEC della cartella di pagamento. La soluzione professata dalla Suprema Corte, che liquida la questione alla stregua del consolidato insegnamento per cui la cartella di pagamento non necessita di alcuna sottoscrizione (17), trascura la disciplina applicabile ai documenti informatici, di cui al Codice dell’Amministrazione digitale. La soluzione al problema impone, invece, un percorso argomentativo più articolato quanto e soprattutto attento e consapevole del mutato quadro normativo. Solo in questo modo sembra possibile addivenire ad una soluzione compiuta di un problema che, l’utilizzo sempre più massivo dei documenti digitali, non può che rendere sempre più pressante.

(15) Le firme digitali di tipo ‘CAdES’ (estensione ‘.p7m’) e di tipo ‘PAdES’ (estensione ‘.pdf’) sono ammesse entrambe e ritenute equivalenti; cfr. Cass., SS.UU., 27 aprile 2018, n. 10266; Cass. 15 novembre 2019, n. 29770; Cass. 18 luglio 2019, n. 19434.  (16) Cancedda, Ok alla notifica PEC di copia per immagine della cartella analogica, in Il fisco, 2020, 183.

(17) Ex plurimis Cass. 8 ottobre 2019, n. 25099; Cass. 22 gennaio 2018, n. 1545.

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GIURISPRUDENZA CIVILE

L’invarianza della responsabilità contrattuale o da attività pericolosa del gestore del servizio di pagamento con strumenti elettronici Corte di Cassazione ; Sezione VI civile; ordinanza 26 novembre 2020, n. 26916; Pres. Amendola; Rel. Porreca; Nuti (Avv. Criscuolo) c. Poste Italiane (Avv. Ursino). In tema di responsabilità della banca o dell’erogatore di un servizio creditizio, in caso di operazioni effettuate a mezzo di strumenti elettronici, è del tutto ragionevole ricondurre nell’area del rischio professionale del prestatore la possibilità di un’utilizzazione dei codici di accesso al sistema da parte dei terzi, non attribuibile al dolo o a colpa grave del titolare; l’esistenza di appropriate misure destinate a verificare la riconducibilità delle operazioni alla volontà del cliente, rende prevedibile ed evitabile tale rischio. Tale prova è a carico dell’erogatore del servizio cui è richiesto di operare con una diligenza di natura tecnica, secondo il parametro dell’accorto banchiere.

…Omissis… N.M. conveniva in giudizio Poste Italiane, s.p.a., chiedendo dichiararsi la responsabilità contrattuale, ovvero per esercizio di attività pericolosa, della società evocata in lite, in relazione all’utilizzo indebito, da parte di terzi ignoti, della carta c.d. prepagata “postepay”; il Giudice di pace, davanti al quale resisteva Poste Italiane, s.p.a., accoglieva la domanda ritenendo provata la correttezza della condotta di parte attrice nel custodire i dati di accesso alla propria carta, e la speculare violazione dei propri obblighi in capo alla convenuta, palesata dagli accertati ammanchi; il Tribunale accoglieva viceversa l’appello della soccombente di prima istanza, osservando che non era stata contestata la documentazione prodotta da quest’ultima in ordine alla conformità del proprio circuito elettronico al regime tecnico temporalmente applicabile, e che dunque era stata presuntivamente provata l’idoneità del relativo sistema di sicurezza, sicchè l’originario attore avrebbe dovuto dimostrare positivamente la propria diligente condotta di custodia dei codici per l’utilizzo della carta nonchè di quest’ultima, mentre lo stesso non aveva neppure precisato le circostanze, quali il furto o lo smarrimento, in cui si sarebbe verificato l’illecito lamentato, mentre restava irrilevante, rispetto all’esecuzione di operazioni telematiche, la prova di un idoneo meccanismo di inibizione delle clonazioni; avverso questa decisione ricorre per cassazione N.M. articolando due motivi; resiste con controricorso Poste Italiane, s.p.a.. RILEVATO che:

con il primo motivo si prospetta la violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c., poichè il Tribunale avrebbe errato affermando la pretesa non contestazione della documentazione con cui Poste Italiane avrebbe provato il rispetto degli prescritti livelli di sicurezza del proprio circuito elettronico; con il secondo motivo si prospetta la violazione degli artt. 2050 e 1218 c.c., quali allegati nelle fasi di merito, poichè la Corte di appello avrebbe erroneamente addossato al deducente l’onere di provare la correttezza della propria condotta di utilizzo della carta e relativi codici, invece di constatare la mancata prova, da parte di Poste Italiane, quale contrattualmente obbligato ovvero esercente l’attività di raccolta di liquidità da ritenere pericolosa in quanto innervata dal rischio d’impresa, della concerta riconducibilità allo stesso utente delle operazioni in questione; Vista la proposta formulata del relatore ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c.; Rilevato che: il primo motivo è inammissibile; infatti: a) il contenuto dei documenti evocati non è riportato come necessario a norma dell’art. 366 c.p.c., n. 6; b) l’accertamento della sussistenza di una contestazione ovvero d’una non contestazione, rientrando nel quadro dell’interpretazione del contenuto e dell’ampiezza dell’atto della parte, è funzione del giudice di merito, sindacabile in cassazione solo per vizio di motivazione (Cass., 28/10/2019, n. 27490), nel perimetro ammesso dall’art. 360 c.p.c., n. 5, qui non evocato;

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GIURISPRUDENZA CIVILE c) in ogni caso, la contestazione che sarebbe stata effettuata nelle fasi di merito, quale riportata nel ricorso (in particolare alle pagine da 17 a 21) risulta del tutto generica anche quanto al profilo della conformità della pretesa copia all’originale (cfr., in termini, Cass., 30/10/2018, n. 27633; conf. Cass., 20/06/2019, n. 16557); d) la contestazione della “documentazione interna alla società (peraltro in copia..)” (pag. 20 del ricorso) non è dato sapere se si riferisse ai due specifici documenti, dal contenuto, si ripete, non riportato nè idoneamente sintetizzato, evocati nel gravame (a pag. 14); il secondo motivo è fondato per quanto di ragione; va premesso, sul punto, che il Tribunale ha qualificato la domanda in termini contrattuali (pag. 5, secondo capoverso), su tale piano misurando, il giudice di merito, le ragioni di rigetto, sicchè, non essendo stata censurata tale qualificazione ovvero l’omessa pronuncia sulla “causa petendi” alternativa, la questione della pretesa natura dell’attività di poste Italiane quale pericolosa ai sensi dell’art. 2050 c.c., risulta preclusa; la fattispecie è dunque differente da quella propria della vicenda processuale esitata nell’arresto di Cass., 12/04/2018, n. 9158, evocato da parte ricorrente, in cui la qualificazione della Corte territoriale era stata opposta, in chiave aquiliana; quanto al resto, deve darsi seguito alla giurisprudenza di questa Corte secondo cui in tema di responsabilità della banca, ovvero dell’erogatore del corrispondente servizio, in caso di operazioni effettuate a mezzo di strumenti elettronici, anche al fine di garantire la fiducia degli utenti nella sicurezza del sistema (il che rappresenta interesse degli stessi operatori), è del tutto ragionevole ricondurre nell’area del rischio professionale del prestatore dei servizi di pagamento - prevedibile ed evitabile con appropriate misure destinate a verificare la riconducibilità delle operazioni alla volontà del cliente la possibilità di un’utilizzazione dei codici di accesso al sistema da parte dei terzi, non attribuibile al dolo del titolare o a comportamenti talmente incauti da non poter essere fronteggiati in anticipo: ne consegue che, anche prima dell’entrata in vigore del D.L-

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gs. n. 11 del 2010, attuativo della Dir. n. 2007/64/CE relativa ai servizi di pagamento nel mercato interno, l’erogatore di servizi, cui è richiesta una diligenza di natura tecnica, da valutarsi con il parametro dell’accorto banchiere, è tenuto a fornire la prova della riconducibilità dell’operazione al cliente (Cass., 03/02/2017, n. 2950; cfr. altresì Cass., 05/07/2019, n. 18045, secondo cui la responsabilità della banca per operazioni effettuate a mezzo di strumenti elettronici, con particolare riguardo alla verifica della loro riconducibilità alla volontà del cliente mediante il controllo dell’utilizzazione illecita dei relativi codici da parte di terzi, ha natura contrattuale e, quindi, va esclusa solo se ricorre una situazione di colpa grave dell’utente, configurabile, ad esempio, nel caso di protratta attesa prima di comunicare l’uso non autorizzato dello strumento di pagamento, posto che la sollecita consultazione degli estratti gli avrebbe consentito di conoscere quell’uso in tempo più utile); nella fattispecie in esame, il Tribunale ha ritenuto che, posta la prova presuntiva del rispetto delle “normative tecniche vigenti all’epoca dei fatti...” e quindi “dell’idoneità delle protezioni adottate dalla società contro l’uso non autorizzato dei mezzi elettronici di pagamento riferiva all’attore l’onere di provare di aver a sua volta tenuto un comportamento esente da colpa..” nella custodia della carta e dei codici in modo da evitare, cioè, furti o smarrimenti neppure circostanziati e che avrebbero potuto eludere anche i sistemi preventivi di clonazioni; queste affermazioni disattendono il riparto degli oneri della prova quale sopra ricostruito, a fronte del quale resta irrilevante la mancata specifica di circostanze quali furto o smarrimento di carta o codici che, peraltro, non è dato sapere come avrebbero potuto conoscersi, e dunque allegarsi, dalla persona offesa, ove non accadute; la decisione va dunque cassata perchè il giudice del merito rivaluti l’incarto processuale dando applicazione al sopra esposto principio di diritto; spese al giudice del rinvio. …Omissis…


GIURISPRUDENZA CIVILE

IL COMMENTO

di Mariangela Ferrari Sommario: 1. Il caso giurisprudenziale. – 2. Sulla qualificazione di attività pericolosa del servizio di pagamento con mezzi elettronici. – 3. La responsabilità contrattuale del gestore per operazioni effettuate a mezzo di strumenti elettronici. – 4. L’invarianza della qualificazione giuridica della responsabilità. – 5. Riflessioni conclusive. La Cassazione qualifica come contrattuale la responsabilità dell’operatore che esercita attività creditizia, offrendo strumenti elettronici di pagamento, dovuta con la diligenza professionale dell’accorto banchiere; non esclude l’inquadramento della stessa come responsabilità da esercizio di attività pericolosa a priori, ma soltanto perché processualmente il ricorrente non ha impugnato la pronuncia sulla mancata espressione del giudice di secondo grado sul punto. Nel caso di specie, l’inversione dell’onere probatorio e la valorizzazione della mobilità del dies a quo del termine di prescrizione determinano l’affievolimento delle differenze fra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, tale da rendere irrilevante l’accertamento della qualificazione della responsabilità della banca/gestore del servizio. According to Italian Supreme Court, the civil liability of an operator managing the payment service with electronic instruments is defined by a contractual nature. An extra-contractual nature is excluded only for procedural reasons in this sentence. Nevertheless, the regulation of the burden of proof and of the limitation period makes this qualification operation indifferent.

1. Il caso giurisprudenziale

Il caso affrontato dalla Corte di Cassazione riguarda la richiesta di accertamento della responsabilità, a titolo contrattuale e/o extracontrattuale da esercizio di attività pericolosa, di una società (Poste Italiane spa) quale gestore di un servizio di pagamento attraverso una carta prepagata, per operazioni non autorizzate dal titolare della carta. In primo grado il Giudice di pace aveva accolto la domanda, rigettata in sede di appello avanti il Tribunale, il quale ha ritenuto data la prova presuntiva dell’idoneità del circuito elettronico e del relativo sistema di sicurezza della società, ed escluso che l’originario attore avesse dimostrato positivamente la propria diligente condotta di custodia della carta e/o dei codici di sicurezza. Il ricorso in Cassazione avveniva per due motivi, di cui il primo strettamente processuale; al secondo dedichiamo questa nota. In tale sede si prospetta la violazione degli artt. 2050 e 1218 c.c., in relazione all’erroneo riparto dell’onere probatorio in capo alle parti. La Cassazione rileva innanzitutto una preclusione alla sottoposizione della questione come responsabilità extracontrattuale, poiché il Tribunale (in secondo grado) si è pronunciato sulla sola prospettazione di responsabilità contrattuale e “…non essendo stata censurata tale qualificazione, ovvero l’omessa pronuncia sulla causa petendi alternativa, la questione della pretesa natura dell’attività di Poste Italiane quale pericolosa ai sensi dell’art. 2050, cod. civ., risulta preclusa”.

2. Sulla qualificazione di attività pericolosa del servizio di pagamento con mezzi elettronici

Nonostante la Cassazione non affronti la questione, riteniamo opportuno, data l’esistenza di un orientamento dottrinale e giurisprudenziale sul tema, farne una pur breve valutazione. Raramente nelle trattazioni, anche più recenti, della dottrina, l’attività bancaria è stata individuata fra le pur numerose e variegate ipotesi di attività pericolosa, per la natura o i mezzi utilizzati, dal momento che l’esercizio e la manipolazione del denaro, bene in sé inerte, non si manifesta pericoloso neppure in relazione alla possibilità che i locali della banca diventino pericolosi quali teatro di rapina  (1), rappresentando in tal caso soltanto un’occasione del manifestarsi del pericolo; essa non risulta prevista quale attività pericolosa tipizzata in alcun testo di legge. In senso minoritario, chi ha preferito inquadrare la questione sotto il profilo della responsabilità extracontrattua-

(1) Cfr. De Stefano, La responsabilità per l’esercizio di attività pericolose, in AA.VV., Valutazione del danno e strumenti risarcitori, a cura di Inzitari, Torino, 2016, 281 e nota 135, ove trattazione delle attività pericolose tipiche ed atipiche; in generale v. Fusaro, Attività pericolose e dintorni. Nuove applicazioni dell’art. 2050 c.c., in Riv. dir. civ., 2013, 1337-1364, per la quale l’art. 2050 non può essere la “regola capace di abbracciare tutte le ipotesi contemplate dalla giurisprudenza nel novero delle attività pericolose (ed in questo senso sia necessario formularne una più moderna lettura). O piuttosto se alcune delle ipotesi ricondotte dalla giurisprudenza nella cornice dell’art. 2050 debbano ricadere nella sfera applicativa di altre regole, in particolare in quelle che nel nostro ordinamento prefigurano la responsabilità da prodotto difettoso”; Ciraolo, Prelievi fraudolenti e responsabilità della banca nell’erogazione del servizio bancomat, in Banca, borsa e tit. cred., 2009, II, 29 ss.

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GIURISPRUDENZA CIVILE le da attività pericolosa  (2) ha giustificato la propria presa di posizione con i chiari vantaggi che ne sarebbero derivati ai danneggiati, stante la qualifica di responsabilità oggettiva per danno evitabile, con ingiustizia e prevedibilità del danno in re ipsa e la prova sufficiente di un generico nesso di causalità fra attività ed evento dannoso. La possibilità di identificare un’attività pericolosa nel servizio offerto dagli operatori finanziari, risiederebbe nella “natura dei mezzi adoperati”, cioè adattando la formula legislativa sul tipo di strumento finanziario collocato; quanto all’esercizio dell’attività pericolosa, alla contestualità fra danno e attività, si ritiene consentito ricomprendere anche i danni generati ad attività esaurita, stante il possibile «perdurare anche una volta cessato il processo produttivo in senso tecnico, se la natura del pericolo insito nella cosa derivi da quella attività»  (3). Giurisprudenza di merito e di legittimità hanno soprattutto discettato sull’onere probatorio spettante alle parti in causa, affermando in tema di responsabilità della banca che “in caso di operazioni effettuate a mezzo di strumenti elettronici, anche al fine di garantire la fiducia degli utenti nella sicurezza del sistema, va ricondotta al rischio professionale del prestatore dei servizi di pagamento, prevedibile ed evitabile con appropriate misure, la possibilità di una utilizzazione dei codici di accesso al sistema da parte dei terzi, non attribuibile al dolo del titolare o a comportamenti talmente incauti da non poter essere fronteggiati in anticipo. Ne consegue che, la banca, cui è richiesta una diligenza di natura tecnica, da valutarsi con il parametro dell’accorto banchiere, è tenuta a fornire la prova della riconducibilità dell’operazione al cliente” (4). Pur non essendovi nella maggior parte delle pronunce né un riferimento diretto all’applicabilità dell’art. 2050  (5), né una qualificazione esplicita della responsabilità  (2) De Nova, La responsabilità dell’operatore finanziario per esercizio di attività pericolosa, in Contratti, 2005, 709 ss.; per la sensazione che la giurisprudenza ascriva in capo alla banca una responsabilità di tipo oggettivo v. Gerbi, La responsabilità delle banche tra principi generali e norme speciali, in Danno e resp., 2016, 844.  (3) Franzoni, L’illecito, Milano, 2004, 374.  (4) Così la sentenza in commento e numerosi precedenti, fra i tanti si veda: Cass. 12 aprile 2018, n. 9158, in Ridare.it, 13 giugno 2018, con nota critica di Bissi, Responsabilità della banca per indebita esecuzione di operazioni su conto corrente mediante il servizio telematico di home banking; Cass. 3 febbraio 2017, n. 2950; per la giurisprudenza di merito v. Trib. Roma, 31 agosto 2016; Trib. Palermo, 12 gennaio 2010; Trib. Torino, 28 marzo 2007; tutte in <www.iusexplorer.it>.  (5) Per un’eccezione v. Cass. 23 maggio 2016, n. 10638, in cui si afferma che “Consegue che, in base al rinvio all’art.2050 c.c., operato dall’art.15 del codice della privacy, l’istituto che svolga un’attività di tipo finanziario o in generale creditizio (nella specie le Poste Italiane s.p.a. quanto alla gestione di conti correnti abilitati a operazioni online) risponde, quale titolare del trattamento di dati personali, dei danni conseguenti al fatto di non aver impedito a terzi di introdursi illecitamente nel

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dell’operatore, nel tempo la giurisprudenza si è talvolta espressa ricorrendo ad un percorso argomentativo articolato, adducendo che i codici di accesso ai servizi bancari rappresentano un dato personale del cliente; quando soggetti non autorizzati riescono ad entrare nel sistema carpendo tali dati, significa che la banca non ha predisposto adeguate misure di sicurezza; da ciò ne deriva un trattamento illegittimo e non autorizzato di dati personali, che, secondo il richiamo operato dalla normativa speciale, comporta il regime di responsabilità contemplato dalla normativa codicistica dell’esercizio di attività pericolosa ex art. 2050; altre volte la responsabilità della banca è stata riconosciuta attraverso una diretta applicazione dell’art. 2050 con l’identificazione dell’attività di trattamento dati fra quelle pericolose  (6). La formulazione dell’art. 2050 c.c. “in termini sufficientemente indeterminati da lasciare spazio alle valutazioni degli organi giurisdizionali, conferendo a questi ultimi i margini interpretativi necessari per adattare il sistema alle nuove esigenze” (7), ha determinato una netta apersistema telematico del cliente mediante la captazione dei suoi codici di accesso e le conseguenti illegittime disposizioni di bonifico, se non prova che l’evento dannoso non gli è imputabile perchè discendente da trascuratezza, errore (o frode) dell’interessato o da forza maggiore. VIII. - Una simile ricostruzione dei principi informatori della fattispecie è d’altronde coerente con quanto disposto pure del D.Lgs. 27 gennaio 2010, n. 11, in ordine all’obbligo del prestatore del servizio di pagamento di assicurare che i dispostivi personalizzati forniti dai gestori non siano accessibili a soggetti diversi dal legittimo titolare”; nel merito Trib. Siracusa, 4 febbraio 2019, n. 200, in cui: “Qualora si verifichi un accesso non autorizzato o l’impiego di dati raccolti per finalità non conformi alla legge, il gestore risponde ex art. 2050 c.c. Si tratta di una forma di responsabilità oggettiva aggravata, in cui il prestatore del servizio, per andare esente da responsabilità, non deve solo dimostrare di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno (cosiddetta prova liberatoria), ma è tenuto a fornire la prova positiva di una causa esterna. Può trattarsi di fatto naturale, di fatto del terzo o di fatto dello stesso danneggiato che, per imprevedibilità ed inevitabilità, sfugge alla sfera di controllo dell’esercente l’attività pericolosa”, entrambe in <www.iusexplorer.it>; Trib. Siracusa, 15 marzo 2012, in Corr. merito, 2012, 663.  (6) Cfr. per un approfondimento anche relativo al d. lgs. N. 11/2010, come aggiornato dal d. lgs. 218/2017 e la responsabilità per i servizi di pagamento Frau, Home banking, phishing e responsabilità civile della banca, in Resp. civ., 2019, 622 ss.; Id., Home banking, bonifici non autorizzati e responsabilità della banca, in Responsabilità civ., 2013,1285.  (7) V. Mirabile, Le tendenze evolutive della giurisprudenza riguardo alla nozione di attività pericolosa, in Resp. Civ., 2018, 454 ss., con ampia bibliografia sul tema; si veda anche Muccioli, L’attività pericolosa: un’autonoma fonte di responsabilità tra contratto e responsabilità oggettiva, in Nuova Giur. Civ., 2006, 3, 10318, in cui: “la valutazione della pericolosità richieda un duplice giudizio, quantitativo, sulla probabilità di verificazione dell’evento dannoso, e qualitativo, sulla presumibile entità e gravità del danno, sicché un’attività (quale appunto la navigazione aerea) può ritenersi pericolosa anche quando, nonostante la bassa percentuale statistica di sinistri, possano derivarne, in caso di verificazione, danni di entità e gravità notevoli”. Di recente per una valorizzazione dell’operato del legislatore tendente alla armonizzazione della disciplina, anche in versione europea, delle attività pericolose e del trattamento delle fattispecie v. Al Mureden, Il danno da prodotto conforme tra responsabilità per esercizio di attività pericolosa ed


GIURISPRUDENZA CIVILE tura verso nuove fattispecie inquadrabili nel format della norma che, a dispetto del fatto di doversi considerare “speciale”, ha consentito un costante adattamento della disciplina alle novità che il progresso e la tecnologia proponevano, superando così l’idea che nuovi prodotti o servizi necessitassero di nuove discipline. La capacità di adattamento della disciplina del codice, anche grazie al lavoro interpretativo sinergico della dottrina con la giurisprudenza, ha così impedito che si mostrassero lacune giuridiche nel momento in cui apparivano sul mercato e nella reale quotidianità dei soggetti, pratiche tecnologiche innovative relative a servizi diffusi. Questo ampio margine di manovra concesso alla giurisprudenza non si è però tradotto in mero arbitrio, bensì ha condotto ad un’esperienza casistica elaborata con criteri il più possibile uniformi, utilizzati al fine di identificare le attività pericolose atipiche (cioè al di là di quelle definite dalla legge), cui ricondurre l’applicazione del regime speciale di responsabilità civile, anche con la valorizzazione del dettato normativo dell’art.2050, che identifica la pericolosità in relazione alla natura intrinseca degli atti posti in essere dall’esercente e/o ai mezzi adoperati. Fra gli esempi più significativi di questa tendenza ad applicare la disciplina dell’art. 2050 c.c., è stata proprio l’attività di trattamento dei dati personali, interpretazione che si conforma perfettamente alla novellazione della disciplina del codice della privacy che ha cancellato il rinvio normativo, ma che ha mantenuto un meccanismo di inversione dell’onere della prova (8). Per fare sintesi sul punto si può affermare che, pur con una qualche difficoltà, risulta raggiunta una parziale uni-

armonizzazione del diritto dell’Unione Europea, in Corr. giuridico, 2020, 691, in cui l’A. afferma la necessità di porre: “in evidenza l’esigenza di abbandonare un’impostazione in ragione della quale il problema dell’individuazione dei contesti produttivi caratterizzati da particolare pericolosità sia affidato a decisioni giudiziali isolate e indipendenti e di promuovere, invece, un diverso e nuovo approccio in virtù del quale la delimitazione degli specifici ambiti nei quali introdurre un regime di strict liability capace di allocare sul produttore il costo del danno derivante dall’utilizzo del prodotto conforme sia affidata a livello federale al legislatore”; Id, La responsabilità per esercizio di attività pericolose a quarant’anni dal caso Seveso, in Contratto e Impresa, 2016, 647 ss.  (8) Cfr. Mirabile, op. cit., 464, in cui: “Come noto, l’art. 15, d. lgs. N. 196/2003, ha recentemente ceduto il passo all’art. 82, Regolamento UE 2016/679, i cui effetti iniziano a decorrere il 25 maggio 2018. Secondo il nuovo testo normativo, chiunque subisca un danno a causa della violazione delle norme regolamentari, ha diritto ad un risarcimento dal titolare ovvero dal responsabile del trattamento dei dati. Le nuove norme, a differenza di quelle previgenti, non contengono quindi alcun espresso riferimento alla previsione dell’art. 2050 c.c..Nondimeno, permane un meccanismo di inversione dell’onere della prova: a norma dell’art. 82, par. 3, Reg. 2016/679, il danneggiante si esime dall’obbligo risarcitorio provando che sia intervenuto un evento dannoso in alcun modo imputabile allo stesso. Si tratta invero, di una formulazione simile a quella dell’art. 23 Direttiva 1995/46 che era stata oggetto di trasposizione nell’ordinamento italiano proprio per mezzo dell’art. 15, d. lgs. N. 196/2003”.

formità nel ritenere applicabile la normativa codicistica a certe condizioni: che “la pericolosità sia identificabile in una potenzialità lesiva del fatto di grado superiore alla media”, in modo da considerare estensibile il raggio d’azione “sulla maggior parte delle attività umane che, oggi più di ieri, possiedono un’intrinseca componente di aggressività della intangibile sfera giuridica altrui”  (9); che l’attività non si esaurisca in un solo atto; che si dimostri che il danno è derivato dall’esercizio di quell’attività e in costanza della stessa  (10). L’esistenza del nesso di causalità fra l’attività e il danno, secondo lo schema più tradizionale e condivisibile, è accertata sino al momento in cui non intervenga un fatto, eccezionale ed imprevedibile, che autonomamente sia in grado di cagionare l’evento, spezzando il nesso e impedendo ogni declaratoria di responsabilità. Secondo il codice civile, nella fattispecie rileva non solo il fatto che il danno sia stato cagionato nell’esercizio di un’attività pericolosa, ma anche in assenza dell’adozione di “tutte le misure idonee ad evitare il danno”, concetto legato ad una valutazione empirica del caso di specie, così da confermare quanto si diceva sopra, e cioè la forte influenza attribuita all’interprete nella definizione dei confini in cui applicare la disciplina dell’art. 2050 c.c. La valutazione della pericolosità dell’attività e il contenuto della prova liberatoria possono essere influenzati da comportamenti tenuti da terzi, pur condividendo l’opinione di chi sottolinea che “il fatto del danneggiato o del terzo non può produrre effetti liberatori ove costituisca elemento concorrente nella produzione del danno, ma solo allorquando, per la sua incidenza e rilevanza, sia capace di escludere, in modo certo, il nesso causale fra attività pericolosa e l’evento”  (11). Alla luce della ricostruzione dei confini di applicabilità e del ricorso all’art. 2050 c.c. per quanto riguarda l’attività gestita dagli operatori di servizi di pagamento elettronici, la fattispecie più plausibile resta l’ identificazione di un’i (9) Così testualmente Gorassini – Tescione, Per un quasi commento sulla responsabilità per l’esercizio di attività pericolose, in Danno e resp., 2012, 237 ss., in cui gli A. affermano: “Del resto, se da una parte l’evoluzione della tecnica nella società post-industriale e l’innalzamento della soglia di tutela minima garantita dall’ordinamento giuridico al valore fondante del sistema (la tutela della Persona umana) hanno imposto - e impongono – una maggiore severità nella costruzione delle regole (anche) di responsabilità, per altro verso si rende indispensabile uno sforzo teso a ricostruire sistematicamente un ordine giuridico tale da non paralizzare il non prevedibile (perché non definito e definibile) sviluppo della stessa Persona da tutelare, sempre libera di esprimersi mediante il compimento di tutti quegli atti che, pur nella loro astratta pericolosità, si attestano sul piano della liceità possibile in ragione del tipo e dello stile di vita realmente vissuto da una comunità”.  (10) Si veda Di Martino, La responsabilità civile nelle attività pericolose e nucleari, Milano, 1979, 126 ss.; Comporti, Esposizione al pericolo e responsabilità civile, Napoli, 1965, 208.  (11) Gorassini – Tescione, op. cit., 253.

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GIURISPRUDENZA CIVILE potesi di trattamento illecito di dati personali, come i codici di accesso del correntista, che richiede un’inversione dell’onere probatorio a tutela del soggetto che non ha alcuno strumento per intervenire, considerando, al contrario, un rischio d’impresa quello gravante sul gestore  (12). In tale contesto, si verrebbe a determinare la qualificazione giuridica della responsabilità dell’operatore/intermediario/gestore di servizi di pagamento con mezzi elettronici come responsabilità extracontrattuale “speciale” ex art.2050, “oggettiva” se la prova liberatoria dovesse concernere la assoluta mancanza di nesso di causalità tra attività pericolosa e danno, o “da colpa presunta” se la prova liberatoria si “limitasse” alla dimostrazione di un comportamento in linea con la diligenza professionale (13), caratterizzata in ogni caso da un’inversione dell’onere probatorio, tale per cui a carico dell’operatore resterebbe la necessità di dimostrare di aver utilizzato ogni misura possibile ad evitare il danno.

3. La responsabilità contrattuale del gestore per operazioni effettuate a mezzo di strumenti elettronici

In realtà la sentenza in commento, che non affronta esplicitamente la questione della responsabilità da attività pericolosa per un semplice motivo processuale, riscontra nella fattispecie una responsabilità contrattuale del gestore del servizio di pagamento elettronico adottando la medesima massima, in cui afferma essere “del tutto ragionevole ricondurre nell’area del rischio professionale del prestatore dei servizi di pagamento – prevedibile ed evitabile con appropriate misure destinate a verificare la riconducibilità delle operazioni alla volontà  (12) Sulla sicurezza del trattamento dei dati personali in relazione alla nuova disciplina comunitaria v. Renna, Sicurezza e gestione del rischio nel trattamento dei dati personali, in Resp. Civ., 2020, 1343 ss.  (13) Il dibattito è da tempo aperto; circa la natura oggettiva v. Trimarchi, Rischio e responsabilità oggettiva, Milano, 1961; Franzoni, Dei fatti illeciti, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna, 1993, sub artt. 2043 – 2059; Salvi, voce Responsabilità extracontrattuale (dir. Vig.), in Enc. Dir., XXXIX, Milano, 1998, 1231 ss. Per l’opinione di responsabilità per colpa presunta v. Bianca, Diritto civile, 5, Milano, 1994, 708 ss.; De Cupis, Il danno. Teoria generale della responsabilità civile, Milano, 1970, 170 ss.; Castronovo, Problema e sistema nel danno da prodotti, Milano, 1997, 711. In Frau, ult. op. cit., l’A. fa emergere una divergenza argomentativa fra la giurisprudenza e l’autorità amministrativa competente (ABF), nel senso che: “Al riguardo, le argomentazioni utilizzate dalla giurisprudenza e dall’Arbitro Bancario Finanziario mostrano tuttavia alcune divergenze. Il tratto si coglie, innanzitutto, sul fondamento della responsabilità, posto che, in sede di interpretazione giurisprudenziale, si preferisce mantenere, almeno a livello formale, un riferimento all’obbligo di osservanza dei canoni di diligenza. Di contro, l’adozione, da parte del citato organo di composizione, di una responsabilità in chiave oggettiva rende un richiamo di questo tipo sostanzialmente desueto o quantomeno ne limita la portata a poco più che un elemento di stile. Per inciso, detta configurazione si rivelerebbe non neutra per la generalità dell’utenza bancaria, sulla quale verrebbe a ripartirsi, come visto, l’onere finale derivante dall’aumento delle tariffe, al fine di consentire la copertura, anche assicurativa, dei sinistri.

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del cliente- la possibilità di un’ utilizzazione dei codici di accesso al sistema da parte dei terzi, non attribuibile al dolo del titolare o a comportamenti talmente incauti da non poter essere fronteggiati in anticipo”; da questo presupposto consegue la giusta e condivisibile imposizione di una “diligenza di natura tecnica, da valutarsi con il parametro dell’accorto banchiere, (è) tenuto a fornire la prova della riconducibilità dell’operazione al cliente”. Si deve partire dal presupposto che i servizi di home banking, che consentono all’utente di effettuare operazioni dispositive delle proprie risorse economico-finanziarie, di carte prepagate di debito o di credito, che consentono di fare acquisti sul web e pagamenti sulla rete, con rapidità senza recarsi nei locali della banca e senza denaro contante, sono un servizio oggi fondamentale per accaparrarsi clientela nel mercato estremamente concorrenziale dell’esercizio del credito, realizzato non più solo da banche e istituti di credito, ma anche ( e il caso di specie ne è un esempio trattandosi di Poste Italiane) da soggetti economici che si inseriscono sul mercato creditizio pur essendo fornitori di altri e più caratterizzanti servizi alla propria utenza. Tali servizi sono soggetti a potenziali, e non rare, incursioni di hackers che, con sofisticati strumenti illegali, riescono ad utilizzare codici segreti, avere accesso alle risorse economiche altrui e quindi recare ai clienti un danno, non solo economico, ma anche di natura non patrimoniale ravvisando in quella potenziale insicurezza dell’utente una conseguenza risarcibile nei casi previsti dalla legge, ricordando la lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. Da qui l’obbligo, connesso alla prestazione contrattuale principale, di approntare misure di sicurezza adeguate a tutelare i clienti fruitori di tali servizi, così che alla possibilità di avvalersi del servizio di disposizione delle proprie risorse con strumenti elettronici (oggetto principale del vincolo contrattuale) risulti indissolubilmente collegato l’obbligo di consentirne l’uso in totale sicurezza. Circa la natura delle misure di sicurezza ritenute sufficienti ci si può sicuramente riferire alla disciplina contenuta nel d. lgs. N. 11/2010 fra le quali rientrano l’assicurazione obbligatoria di un accesso riservato ed esclusivo all’utilizzatore legittimato, l’obbligo di impedire qualsiasi utilizzo dello strumento di pagamento successivamente alla denuncia di uso abusivo, furto o smarrimento della carta/supporto informatico; l’attivazione di un sistema di sms alert per ciascun cliente, ipoteticamente esposto alla frode  (14). Si tratta di un’attività che non può essere realizzata da chiunque, ma necessita di autorizzazioni e garanzie, e

(14) Su questo punto v. Marseglia, La responsabilità da status della banca in caso di clonazione della carta prepagata, in Giur. It., 2017, I, 2632 ss.


GIURISPRUDENZA CIVILE può essere messa in campo con diverse modalità, più o meno favorevoli all’utenza, ma operate con strutture organizzative sofisticate e quindi necessitanti di un operatore/gestore esercente un’attività d’impresa. Ecco allora il secondo focus condivisibile proposto dalla Corte: chi opera sul delicato mercato creditizio, effettuando una raccolta del risparmio dei singoli cittadini, utenti, e utilizzando, per incrementare i propri affari e la propria rete, strumenti elettronici, deve affrontare un rischio d’impresa, del quale diviene garante anche senza avere tenuto comportamenti colposi. È notorio il fatto che il denaro attiri numerosi male intenzionati, che operazioni di hackeraggio non solo siano possibili, ma anche frequenti, così che la scienza informatica tende a sviluppare tecniche sempre più sicure per la protezione dei codici di accesso contro usi illeciti e non autorizzati del sistema; pertanto chi, con finalità di lucro, esercita quell’attività professionalmente risulta il garante della sicurezza di tale servizio, per quanto riguarda non solo l’uso, ma se capita, anche l’abuso di tali strumenti. Esiste indubitabilmente un rischio d’impresa nell’esercizio dell’attività di raccolta e gestione del risparmio che impone un comportamento corredato da una “diligenza professionale”; la stessa normativa nazionale ha istituito un sistema di prevenzione delle frodi sulle carte di pagamento che prevede quale principale strategia di contrasto la velocità nell’identificazione di transazioni sospette attraverso l’analisi delle informazioni che sono in possesso delle singole società che gestiscono il servizio, basate sul comportamento del titolare del conto, dei controlli sull’andamento del conto, sulla attivazione di tutte le cautele idonee ad evitare frodi  (15). La disciplina speciale, pur menzionata dalla sentenza in commento, non rappresenta però il fulcro dell’argomentazione decisoria  (16), che al contrario si riferisce al necessario canone di diligenza professionale ex art. 1176, comma 2, c.c., che, nel caso della banca, attribuisce il dovere di accertarsi con un grado di professionalità superiore alla media, che l’operazione sia stata disposta dal cliente, ponendo così il rispettivo onere probatorio in carico al professionista. Sotto questo profilo è stato più volte notato che “l’obbligo di diligenza si compone di una serie di elementi: la cura (ossia l’attenzione volta al soddisfacimento

(15) Cfr. ABF, Collegio Roma, 29 settembre 2016, n. 8569, in Giur. It., 2017, I, 2630.  (16) Il passaggio della pronuncia è infatti di questo tenore: “…ne consegue che, anche prima dell’entrata in vigore del d. lgs. N. 11 del 2010, attuativo della direttiva n. 2007/64/CE relativa ai servizi di pagamento interno, l’erogatore di servizi, cui è richiesta una diligenza di natura tecnica, da valutarsi con il parametro dell’accorto banchiere, è tenuto a fornire la prova della riconducibilità dell’operazione al cliente (…)”

dell’interesse del creditore), la cautela (ossia la prudenza necessaria ad evitare che l’interesse del creditore possa rimanere insoddisfatto), la perizia (ossia l’impiego di adeguate nozioni e strumenti tecnici) e la legalità (ossia l’osservanza delle norme giuridiche rilevanti ed il rispetto dell’altrui sfera giuridica) che concorrono a riempire di continuo lo sforzo che ciascun debitore deve compiere nell’adempimento della propria obbligazione”  (17). In sostanza il soggetto che, appartenendo ad una certa categoria professionale  (18), è tenuto ad uno sforzo maggiore circa l’osservanza di tutte le norme e le regole tecniche che presiedono all’esecuzione della propria prestazione, determina l’assunzione del rischio d’impresa dovuto con l’organizzazione di un servizio sicuro ed efficiente, di cui è garante. La traduzione del canone dell’accorto banchiere in determinati comportamenti necessari al fine di sollevarsi dalla responsabilità di negligenza o imperizia, ovvero dell’interruzione del nesso di causalità fra il danno e il comportamento, con la dimostrazione di un evento esterno idoneo e sufficiente a cagionare il danno, è compito della giurisprudenza soprattutto di merito che, se operato con ragionevolezza e razionalità, risulta non impugnabile in sede di legittimità. Ecco allora le numerose sentenze, che esprimono il giudizio alla stregua del paradigma di cui al comma 2 dell’art. 1176 c.c. (la diligenza professionale) sulla condotta dell’operatore bancario, valutando il contesto storico e attivando un accertamento di fatto volto a saggiare, in concreto e caso per caso, il grado di esigibilità della diligenza stessa, che, in caso di falsificazione della firma di traenza su un assegno, è rappresentata dalla presenza nell’addetto allo sportello delle comuni cognizioni teorico/tecniche per eseguire un’analisi visiva e tattile rivelatrice dell’inganno e/o della strumentazione a sua

(17) Bellomia, Contratti bancari – Truffa al bancomat del cliente imprudente: la banca non diligente è responsabile, in Nuova giur. civ., 2016, 843 ss., in cui riferisce ampia bibliografia sul concetto di diligenza cui si rinvia; Salomoni, Responsabilità dell’operatore bancario nei confronti del cliente in caso di addebito non autorizzato su conto corrente online, nota a commento a Trib. Firenze, 20 maggio 2014, in Nuova giur. civ. comm., I, 141 ss. Già in giurisprudenza per un dovere generale e omnicomprensivo della banca v. Cass., 12 giugno 2007, n. 13777, in Banca, borsa e tit. cred., 2009, II, 21. Hanno escluso che l’attività bancaria rappresenti un’attività pericolosa Cass., 11 febbraio 2009, n. 3350, in Danno e resp., 2009, 448; Cass., 27 maggio 2005, n. 11275, ibidem.  (18) Si parla di responsabilità da status Scognamiglio, Sulla responsabilità dell’impresa bancaria per violazione di obblighi discendenti dal proprio status, in Giur. It. 1995, I, 356; Id., Ancora sulla responsabilità della banca per violazione di obblighi discendenti dal proprio status, in Banca, borsa e tit. cred., 1997, II, 655; Marzona, Lo status (professionalità e responsabilità) della banca in una recente sentenza della Cassazione, in Banca, borsa e tit. cred., 1994, II, 266 ss. In parziale contrasto alla diligenza tecnica “contrattuale” si veda Di Majo, Delle obbligazioni in generale, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1988, 410 ss., e più di recente Frau, op. cit., 627, che riferiscono di una responsabilità semi oggettiva.

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GIURISPRUDENZA CIVILE disposizione  (19); ovvero in caso di pagamento di un assegno circolare, dalla verifica che ciò avvenga nelle mani del legittimato legale detentore del titolo  (20); ovvero, in caso di utilizzo illecito da parte di terzi di carta bancomat trattenuta dallo sportello, dall’obbligo della banca di adottare le misure idonee a garantire la sicurezza del servizio da eventuali manomissioni  (21); ovvero, in caso di sottrazione fraudolenta dei codici al correntista, l’adozione di misure che consentano, prima di dare corso all’operazione, di attribuire la stessa al cliente (22); o ancora nel servizio reso con le cassette di sicurezza, dalla idoneità e custodia dei locali in cui esercita il servizio

(19) Così Trib. Napoli, 27 luglio 2020, n. 5321, in tema di falsificazione di assegno bancario; App. Firenze, 28 gennaio 2020, n. 224; Trib. Ancona, 21 gennaio 2019, n. 111; Trib. Roma, 6 agosto 2018, n. 16247; Trib. Roma, 31 marzo 2016, n. 6505; Trib. Arezzo, 10 ottobre 2017, n. 1121, tutte in <www.iusexplorer.it>; per la verifica della firma sull’ordine di bonifico con lo specimen Trib. Roma, 20 marzo 2006, in Banca, borsa e tit. cred., 2008, II, 237. Nello stesso senso v. Cass., 20 marzo 2014, n. 6513, in Foro it. 2015, I, 1775; Cass., 25 febbraio 2004, n. 3729; Cass., 29 giugno 1981, n. 4209, in <www.iusexplorer.it> In parziale disaccordo Pret. Torino, 28 maggio 1996, in cui: “Ai sensi dell’art. 38 r.d. n.1736 del 1933 (c.d. legge assegni), la banca trattaria, che paga un assegno trasferibile per girata, e la banca negoziatrice sono tenute ad accertare, con la professionale diligenza dell’accorto banchiere, consistente in una verifica non superficiale del titolo, ma pur sempre de visu, la regolare continuità delle girate in coerenza con il disposto dell’art. 11 r.d. n.1736, cit., ma non a verificare l’autenticità delle firme dei giranti (nella specie assegno con una serie continua di girate). Pertanto, nel caso di pagamento di assegno contenente alterazioni del titolo difficilmente individuabili ad occhio nudo, non sussiste alcuna responsabilità per violazione di diligenza da parte della banca trattaria e della banca negoziatrice”; Trib. Milano, 6 ottobre 1986, in Banca, borsa e tit. cred., 1987, II, 469, in cui la banca, stante la responsabilità da status dell’accorto banchiere, ha l’obbligo di risarcire il danno con il “pagamento con decorrenza dalla data dell’illecito commesso e deve riaccreditare sul conto del cliente la somma menzionata sull’assegno ricalcolando e accreditando gli interessi attivi secondo le condizioni che regolano il contratto di conto corrente e stornando gli interessi passivi illegittimamente addebitati”, anche se “Nei confronti del traente, la banca trattaria, cui sia presentato per l’incasso un assegno bancario, ha il dovere di farvi onore, se l’eventuale irregolarità (falsificazione o alterazione) dei requisiti esteriori non sia rilevabile con la normale diligenza media, non essendo la stessa tenuta a predisporre un’attrezzatura qualificata con strumenti meccanici o chimici al fine del controllo dell’autenticità delle sottoscrizioni o di altre contraffazioni dei titoli presentati per la riscossione”.  (20) Si veda Trib. Napoli, 22 gennaio 2019, n. 786, in cui: “Grava sull’istituto di credito, un obbligo istituzionale e professionale di protezione di tutti i soggetti interessati al buon fine della sottostante operazione, dovendo garantire che il titolo di credito venga introdotto e circoli nel circuito bancario nel pieno rispetto delle regole legali che ne disciplinano la circolazione e l’incasso”.  (21) Così Cass., 19 gennaio 2016, n. 806, in Resp. civ., 2017, 216; Cass., 12 giugno 2007, n. 13777, in Giust. civ., 2008, I, 2933. Nel merito v. Trib. Verona, 2 ottobre 2012, in Resp. civ., 2013, 1284.  (22) Cass., 3 febbraio 2017, n. 2950, in Giur. It., 2017, 2069. Nel merito di recente Trib. Nola, 25 settembre 2020, n. 1355, in <www.iusexplorer. it>.

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nonché dall’integrità dei locali del complesso bancario attraverso il quale è possibile accedere alla cassetta  (23).

4. L’indifferenza della qualificazione giuridica della responsabilità

La prospettiva di una potenziale, duplice, possibile qualificazione della responsabilità della banca o suo equiparato nella gestione del servizio di pagamenti e/o operazioni con strumenti elettronici, come aquiliana o contrattuale, senza una vera e propria convincente prevalenza dell’una sull’altra, induce l’interprete a riflettere sulle ragioni per le quali tradizionalmente si procede a qualificare una fattispecie sul modello della responsabilità contrattuale o extracontrattuale, concludendo che (pur semplificando data la sede) sulla disciplina dell’onere probatorio e della prescrizione, si concentrano, tradizionalmente, le principali differenze fra le due tipologie. In altri termini la rilevanza della distinzione, che altrimenti apparirebbe come una mera questione teorica ed astratta, priva di potenza sostanziale, si polarizza sul riparto dell’ onere della prova e sui termini di prescrizione, elementi che, nel caso di specie, tendono ad uniformarsi, allentando così la tensione sulla precisa e peculiare identificazione  (24). a) Sull’onere della prova Abbiamo visto come l’attività dell’operatore di servizi di pagamento con mezzi elettronici possa essere qualificata come attività pericolosa (ex art. 2050 c.c.), perché realizzata o con mezzi pericolosi, quali il collocamento di strumenti finanziari ad alto rischio, o con il trattamento di dati personali, quali i codici segreti di accesso ai propri conti o carte di credito, tale da determinare una responsabilità civile di natura aquiliana.

(23) Cass., 4 novembre 2009, n. 23412, in Giust. civ., 2010, I, 41.  (24) Su questo punto circa la manifestazione di forti dubbi sulla utile distinzione fra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, anche al fine di superare la finzione del cumulo di responsabilità v. Anzani, Il concorso di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, in Resp. civ., 2018, 278 ss., in cui l’A. afferma: “L’implacabile lavorio dell’interprete, inoltre, erode ulteriori divergenze tra le discipline dell’inadempimento e del fatto illecito. Le disposizioni sul riparto probatorio, invero, vengono spesso smussate nella prassi con la regola della vicinanza della prova, con il criterio dell’autoresponsabilità nell’accesso alle fonti di prova o con l’impiego di presunzioni semplici. E l’inapplicabilità dell’art. 1225 c.c. in area extracontrattuale, spesso, viene vanificata con l’esclusione dell’elemento soggettivo rispetto all’evento lesivo oppure del nesso di causalità materiale o giuridica. In effetti se l’istituto (concorso o cumulo di azioni di responsabilità) serve a superare le persistenti antinomie tra responsabilità contrattuale e responsabilità extracontrattuale, la migliore soluzione all’irritante problema del concorso -…- sta nel proseguire l’opera di riduzione delle differenze, le quali in fondo non sono che diverse applicazioni di un diverso sistema logico”; si veda anche il citato Toscano, Responsabilità civile, in Riv. dir. civ., 1956, II, 259 ss.


GIURISPRUDENZA CIVILE L’opinione non risulta d’altra parte unanime, bensì minoritaria, rispetto alla qualificazione di tale servizio, erogato da imprese specializzate, non sempre solo nell’attività creditizia, che devono operare con una diligenza professionale e tecnica, superiore alla norma, nel consentire al cliente di fruire del servizio offerto contrattualmente con l’obbligo correlato di garantirne l’assoluta sicurezza; pertanto nel momento in cui un terzo utilizzi senza autorizzazione, fraudolentemente il servizio, sottraendo risorse al cliente, la banca o l’operatore risponderà per inadempimento contrattuale ex art. 1218 c.c. Da questa duplice possibile impostazione ne dovrebbe derivare una prima rilevante differenza in tema di onere probatorio. In caso di responsabilità aquiliana, generalmente, l’onere probatorio è addossato al danneggiato che, secondo lo schema generale ex art. 2043 c.c., deve provare l’evento dannoso, il nesso di causalità, e le conseguenze che dal fatto, colposo o doloso altrui, siano derivate nella sua sfera giuridico patrimoniale; un onere gravoso che spesso è d’impedimento alla tutela del diritto del danneggiato/creditore. Il tema è però differente allorquando si tratti di un caso di responsabilità civile cd. speciale come quello di cui all’ art. 2050 c.c., in cui opera un’inversione dell’onere della prova; la norma de quo detta un regolamento preciso ed impone due condizioni: l’attività deve essere pericolosa e la necessità che siano state omesse tutte le misure atte ad evitare il danno da essa derivante. Se ne deduce che provata la pericolosità dell’attività, allegata l’assenza di misure idonee ad evitare l’evento dannoso, si verifica una presunzione di colpa dell’operatore esercente l’attività pericolosa, a favore del danneggiato; il primo potrà liberarsi dalla responsabilità solo mediante la dimostrazione che le misure furono adottate, evidenziandosi così una palese inversione dell’onere della prova  (25). La giurisprudenza ha sostenuto che: “Il paradigma di questa fattispecie di responsabilità per presunzione di colpa risulta dunque molto netto e chiaro: l’asserito danneggiato deve dimostrare sia la natura pericolosa dell’attività, sia il nesso causale intercorrente fra essa e l’evento dannoso (….); connessione eziologica che, ovviamente può essere infranta da un caso fortuito, nel senso di un sopravvenuto fatto di per sé cagionante il  (25) In questo senso Trib. Roma, 25 settembre 2020, n. 12921; e v. anche Trib. Napoli, 22 maggio 2020, n. 3615, in cui “Nello svolgimento delle attività pericolose al danneggiante compete l’onere di fornire la prova liberatoria della propria responsabilità, con conseguente responsabilità del danneggiato ovvero del caso fortuito”; in tema di tutela ambientale nell’esercizio di attività industriali v. Cons. Stato, 1°aprile 2020, n. 2195, in Foro amm., 2020, 781. Cfr. Bassi, op. cit., che ritiene la banca soggetta ad una probatio diabolica.

danno (….). E in riferimento all’adempimento di questo segmento della sequenza dell’onere probatorio spettante all’asserito danneggiato (…) compete allora al preteso danneggiante, per sgravarsi della prospettata responsabilità, la prova liberatoria di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno”  (26), senza che sia sufficiente provare l’imprevedibilità del danno, ma “dovendosi invece dimostrare che esso non si sarebbe potuto evitare mediante l’adozione delle misure di prevenzione che le leggi dell’arte o la comune diligenza imponevano” (27). Calato il principio nel caso di specie dell’operatore di un servizio di pagamento con strumenti elettronici, nel caso di condivisione della qualificazione di tale attività come pericolosa, il cliente danneggiato da un’operazione non autorizzata dovrà dimostrare la natura pericolosa del servizio (facilmente oggetto di attacchi informatici), il nesso causale fra l’illegittimo addebito e l’uso fraudolento e non autorizzato dei propri codici di accesso, nonché la quantificazione del danno (corrispondente alla somma sottratta oltre eventualmente al danno non patrimoniale derivante dall’insicurezza trasmessa e vissuta da tale esperienza); la banca/il gestore dovrà dimostrare non solo di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno (strumenti e misure tecnologiche oggi a disposizione), ma anche la prova positiva di una causa esterna, quale un fatto naturale, del terzo o dello stesso danneggiato che, per imprevedibilità ed inevitabilità, è sfuggita alla sfera di controllo dell’esercente l’attività pericolosa  (28). Passiamo ora all’ipotesi di qualificazione in termini contrattuali della responsabilità della banca/gestore che si sia comportata non attenendosi a quella diligenza professionale che il contratto per l’erogazione del servizio imponeva. Non pare discutibile la qualificazione di diligenza professionale, tecnica, da status della banca e/o di qualsiasi gestore di servizi nell’ambito creditizio, superiore alla normale diligenza dell’uomo medio: “una diligenza di natura tecnica, da valutarsi con il parametro dell’accorto banchiere” che pone a carico dell’erogatore del servizio l’obbligo di “fornire la prova della riconducibilità dell’operazione al cliente” (29). In tale contesto la responsabilità contrattuale può operare come responsabilità da “contatto sociale qualifica-

(26) Così Cass., 21 febbraio 2020, n. 4590, in <www.iusexplorer.it>.  (27) Cfr. Cass., 6-3, ord. 5 luglio 2017, n. 16637, ibidem.  (28) Così trattando di un caso simile a quello in commento Trib. Siracusa, 4 febbraio 2019, n. 200 in <www.iusexplorer.it>.  (29) Testualmente la sentenza in commento, 26916/2020.

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GIURISPRUDENZA CIVILE to” (30): proprio le SS.UU., pur avendo pronunciato su di un caso di pagamento di assegno a persona diversa dall’effettivo beneficiario, ampliano il principio ad ogni attività della banca, affermando che “la professionalità del banchiere si riflette necessariamente su tutta la gamma delle attività da lui svolte nell’esercizio dell’impresa bancaria, e quindi sui rapporti che in quelle attività sono radicati, per la cui corretta attuazione egli dispone di strumenti e di competenze che normalmente gli altri soggetti interessati non hanno: dal che, appunto, dipende, per un verso, l’affidamento di tutti gli interessati nel puntuale espletamento dei compiti inerenti al servizio bancario, e per altro verso, la specifica responsabilità in cui il banchiere incorre nei confronti di coloro che con lui entrano in contatto per avvalersi di quel servizio, ove, viceversa, non osservi le regole al riguardo prescritte dalla legge”. Tale tipo di responsabilità comporta che: “Una volta ricondotta la responsabilità della banca negoziatrice nell’alveo di quella contrattuale derivante da contatto qualificato-inteso come fatto idoneo a produrre obbligazioni ex art.1173 c.c. e dal quale derivano i doveri di correttezza e buona fede enucleati dagli artt. 1175 e 1375 c.c. - non appare più sostenibile la tesi secondo cui detta banca risponde (del pagamento dell’assegno non trasferibile effettuato in favore di chi non è legittimato) a prescindere dalla sussistenza dell’elemento della colpa nell’errore sull’identificazione del prenditore”  (31). Se pure si ritenesse di non assecondare una responsabilità contrattuale da “contatto sociale qualificato”, resterebbe comunque consolidato in materia l’assunto che l’obbligazione, connotata da un’esecuzione dovuta con la diligenza professionale, da valutarsi secondo la natura  (30) In questo senso numerosi casi giurisprudenziali fra cui spicca la pronuncia delle SS.UU. Cass., 21 maggio 2018, n. 12477, in Ridare.it 11 ottobre 2018 con nota di Nobili; in Responsabilita’ civ., 2018, 1892 con nota di Accordini; in <GiustiziaCivile.com>, 1° luglio 2019 con nota di Lucia; in Banca, borsa e tit. cred. 2019, 297; in Banca, borsa e tit. cred., 2020, 373, riconosce in capo alla banca un “obbligo professionale di protezione (obbligo preesistente, specifico e volontariamente assunto), operante nei confronti di tutti i soggetti interessati”; Cass., 10 giugno 2020, n. 11138; nel merito App. Milano, 21 luglio 2020, n. 1929; sulla rilevanza delle obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale come obbligazioni di mezzo v. Trib. Roma, 14 ottobre 2020, n. 14014 Trib. Siena, 30 dicembre 2019, n. 1289; Trib. Vicenza, 28 febbraio 2019, n. 492, individua una “responsabilità da contatto sociale qualificato, secondo gli artt. 1176 e 2018, per cui, nel caso di specie, la banca negoziatrice che ha pagato l’assegno non trasferibile a persona diversa dall’effettivo prenditore deve provare che l’inadempimento non le è imputabile per aver essa assolto alla propria obbligazione con la diligenza dovuta ai sensi dell’art. 1176 c.c., comma 2, in quanto operatore professionale, tenuto a rispondere del danno anche in ipotesi di colpa lieve”.  (31) Nella pronuncia delle SS.UU. ult. cit. si legge: “Una responsabilità oggettiva può infatti concepirsi solo laddove difetti un rapporto in senso lato contrattuale fra danneggiante e danneggiato, ed il primo sia chiamato a rispondere del fatto dannoso nei confronti del secondo non per essere con questi entrato in contatto, ma in ragione della particolare posizione rivestita o della relazione che lo lega alla res causativa del danno”.

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dell’attività esercitata, va riferita “ a tutte quelle regole che, nel loro insieme, costituiscono la conoscenza della professione, in quanto acquisite, per comune consenso e consolidata esperienza e, quindi costituiscono il necessario corredo del professionista che si dedichi ad un determinato settore. Pertanto, la regola è che si risponde anche soltanto per colpa lieve (..), salvo che non ricorra l’ipotesi eccezionale di cui all’art. 2236 c.c.” (32). Se ne deduce che il cliente, che contesti un inadempimento contrattuale all’erogatore del servizio, dovrà provare l’esistenza e i termini del contratto, allegare che la prestazione (servizio) non è stata erogata secondo la diligenza professionale e dimostrare il nesso di causalità fra il danno e la condotta del professionista  (33). In sostanza l’inesatto o mancato adempimento deve sempre essere valutato in relazione al dovere di diligenza, anche ai fini della prova liberatoria, così che in caso di “incertezza degli esiti probatori in ordine all’esatto adempimento della prestazione professionale va posta a carico del prestatore d’opera (o della struttura in cui lo stesso è inserito) e comporta l’accoglimento della domanda risarcitoria, fondata sulla responsabilità contrattuale” (34). Ne risulta che nella valutazione della responsabilità della banca/operatore finanziario per l’uso illegittimo dei

(32) Testualmente Trib. Trieste, 8 aprile 2019, n. 209, in <www.iusexplorer.it>.  (33) V. Trib. Brescia, 9 marzo 2020, 565, per la responsabilità di un consulente fiscale; Trib. Roma, 9 giugno 2020, n. 8324, in tema di pagamento assegno a persona diversa dall’effettivo prenditore; Trib. Milano, 20 febbraio 2020, n. 1640, in tema di responsabilità professionale dell’avvocato: “Dal punto di vista strettamente probatorio, il cliente che deduca in giudizio il danno derivante dall’inesatto adempimento del mandato professionale da parte dell’avvocato ha l’onere di provare la sussistenza del mandato difensivo, l’inesatto adempimento, il danno e il nesso di causalità tra l’inadempimento e il danno”, “il professionista potrà liberarsi da responsabilità dimostrando di aver usato la diligenza richiesta o, ai sensi del 1218 c.c., dimostrando la impossibilità dell’esatta esecuzione della prestazione per causa a lui non imputabile”; Trib. Trieste, 8 aprile 2019, n. 209, cit., in cui al paziente basterà dimostrare che dal facile intervento “è derivato un risultato negativo o peggiorativo, presumendosi la non adeguata o non diligente esecuzione, a meno che il professionista non provi, al fine di andare esente da responsabilità che l’insuccesso non sia dipeso da difetto di diligenza propria”; Trib. Roma, 1° giugno 2016, n. 11145, in cui: “Nel giudizio di responsabilità avverso un professionista (notaio) il cliente-creditore ha l’onere di provare il contratto d’opera professionale (e/o il contatto sociale qualificato con il professionista ex art. 1173 c.c.) di allegare il relativo inadempimento o inesatto adempimento, e cioè la difformità della prestazione ricevuta rispetto al modello normalmente realizzato da una condotta normalmente improntata alla dovuta diligenza e di dimostrare i conseguenti pregiudizi (patrimoniali o non patrimoniali) ricollegabili causalmente al predetto inadempimento, con esclusione di fattori causali alternativi in via più probabile che non; il convenuto è invece tenuto a provare ex art. 1218 c.c. di avere esattamente adempiuto la propria obbligazione (id est assenza di colpa, altrimenti per legge presunta) oppure che la prestazione è divenuta impossibile per causa a sé non imputabile”, tutte in <www.iusexplorer.it>.  (34) Cfr. Cass., 15 gennaio 1997, n. 364, in <www.iusexplorer.it>.


GIURISPRUDENZA CIVILE codici di accesso del cliente come contrattuale, il creditore (cliente) deve dimostrare un inadempimento qualificato, idoneo a produrre il danno, del professionista esercente l’attività; il debitore (banca) dovrà dimostrare o di aver adempiuto secondo la diligenza professionale dovuta in relazione alla natura dell’attività, ovvero che, pur essendovi stato inadempimento, questo non ha dato causa al danno e, in ogni caso, di aver adottato tutte le misure idonee a garantire la sicurezza del servizio da eventuali manomissioni  (35). Premesse queste valutazioni in relazione all’onere probatorio, ne emerge una curiosa “invarianza” delle rispettive posizioni del creditore/cliente e del debitore/ banca-operatore rispetto alla qualificazione della responsabilità contrattuale o extracontrattuale; nulla cambia se gravato dall’onere di dimostrare che una causa esterna (un caso fortuito, un fatto del terzo o del danneggiato) abbia cagionato il danno, altrimenti a sé ascrivibile, sia l’esercente un’attività pericolosa (debitore), ovvero sia il soggetto, contrattualmente obbligato (debitore) a comportarsi secondo una diligenza professionale, a liberarsi con la sola prova di aver adottato tutte le misure idonee, conosciute, note in base all’esperienza, per evitare il danno. In altri termini la presente fattispecie rappresenta un chiaro esempio in cui l’operazione di qualificazione della responsabilità appare superflua rispetto alla ripartizione dell’onere probatorio. L’indifferenza della qualificazione della natura, contrattuale o extracontrattuale, della responsabilità del gestore del servizio si manifesta anche attraverso la corretta applicazione del principio di vicinanza della prova, che da un ventennio contribuisce, quale regola giurisprudenziale (36), a disciplinare la distribuzione (il riparto) dell’onere probatorio fra i contendenti nel processo: è vero che il principio nasce per un’esigenza di favorire un soggetto rispetto ad un altro nella contesa, ma non si può immaginare che l’onere della prova in sede giudiziale possa essere scorporato dall’interesse della parte che se ne avvale; non è cioè pensabile onerare un soggetto a provare un fatto che sia contrario al proprio interesse: “Dunque, non si tratta di una vicinanza da osservare per salvaguardare un interesse diverso da quello della parte interessata, individuata secondo le regole comuni (art. 2697 c.c.), ma la descrizione del modus operandi dell’onere della prova o del riparto dell’onere della prova che talune fattispecie di diritto sostanziale richiedono. Ciò che muove il sistema è la corretta individuazione

(35) La prima pronuncia della Cassazione in relazione al servizio bancomat è stata Cass., 12 giugno 2007, n. 13777, in Giust.civ., 2008, 2933.  (36) Tale impostazione risale alla famosa pronuncia delle SS.UU. 30 ottobre 2001, n. 13533, in Foro it., 2002, I, 769 ss.

del fatto costitutivo dell’azione o dell’eccezione, da qui occorre muovere per individuare la parte tenuta ad introdurlo nel processo”  (37). b) Sull’elemento distintivo della prescrizione Si è discusso spesso circa un altro tradizionale elemento distintivo fra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, riflesso nella diversa disciplina della prescrizione: termine ordinario, decennale nel primo caso (ex art. 2946 c.c.); termine breve, cinquennale (con punte di ulteriore riduzione – due anni – in caso di danni da responsabilità da circolazione stradale ex art. 2947, comma 1 e 2) nel secondo caso. Appare evidente come avere più tempo per poter far valere i propri diritti rappresenti un vantaggio per il titolare, così che l’origine contrattuale della pretesa ha rappresentato per lungo tempo un beneficio per il creditore, parzialmente eroso dalla recente tendenza giurisprudenziale a valorizzare la “mobilità del dies a quo”  (38). Se il termine di decorrenza è mobile, esso può essere spostato avanti nel tempo e recuperare così il minor lasso temporale che la legge mette a disposizione in casi di responsabilità da fatto illecito; a tal proposito, “con riferimento alle ipotesi di responsabilità extracontrat-

(37) Per i dubbi sui diversi possibili impieghi, la natura e la funzione del principio di vicinanza della prova v. Franzoni, La vicinanza della prova, quindi…, in Contratto e impresa, 2016, 360-375. Per l’opinione che sul terreno dell’onere della prova si costruisce la responsabilità v. Scognamiglio, La Cassazione mette a punto e consolida il proprio orientamento in materia di onere della prova sul nesso di causa nella responsabilità contrattuale del sanitario, in Corr. giuridico, 2020, 304. In giurisprudenza Trib. Milano, 5 giugno 2019, n. 1415, in cui si afferma che: “Il criterio di riparto degli oneri assertivi e probatori dell’azione contrattuale di adempimento è previsto dal combinato disposto degli articoli 1218 e 2697 c.c. e dal principio di vicinanza della prova, in forza dei quali incombe al preteso creditore allegare e provare la fonte (legale o negoziale) dell’obbligazione di pagamento che assume inadempiuta, totalmente o parzialmente; provato ciò dal preteso creditore, spetta al preteso debitore allegare e provare di aver esattamente adempiuto o altri fatti idonei a paralizzare la pretesa creditoria”.  (38) Sono diverse le fattispecie nelle quali emerge questa tendenza come in tema di vendita aliud pro alio Cass., 25 gennaio 2018, n. 1889, in Resp. civ., 2018, 633, in cui “Agli effetti previsti dall’art. 2935 c.c., il termine di prescrizione del diritto dell’acquirente alla risoluzione del contratto ed al risarcimento del danno, derivante dalla vendita di aliud pro alio, decorre non dalla data in cui si verifica l’effetto traslativo, ma dal momento in cui, rispettivamente ha luogo l’inadempimento e si concreta la manifestazione oggettiva del danno”; Cass., 27 ottobre 2017, n. 25644, in Foro it., 2018, I, 998; Cass., 18 febbraio 2016, n. 3176, in cui “In tema di risarcimento del danno contrattuale per responsabilità professionale del notaio, al fine di determinare il dies a quo di decorrenza della prescrizione occorre verificare, non la data di stipula del rogito, bensì il momento in cui si sia prodotto, nella sfera patrimoniale del cliente-creditore, il pregiudizio causato dal colpevole inadempimento del debitore”, in Dir. giust., 2016, 19 febbraio; Cass., 5 aprile 2012, n. 5504. Nel merito Trib. Cosenza, 11 settembre 2019, n. 1479, in cui trattandosi di illecito permanente “il dies a quo di decorrenza del termine deve individuarsi nel momento di cessazione della condotta asseritamente illecita coincidente con la revoca anticipata dell’ultimo incarico dirigenziale”; tutte in <www. iusexplorer.it>.

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GIURISPRUDENZA CIVILE tuale il rigore dei ristretti limiti temporali di legge, per l’ipotesi di danno rimasto ignoto al soggetto leso, è temperato dallo spostamento del dies a quo di decorrenza della prescrizione dal momento del verificarsi del fatto lesivo, e, quindi, dell’insorgenza del diritto, a quello della manifestazione esteriore della lesione e, quindi, della cognizione dell’esistenza del diritto e della possibilità del suo esercizio”  (39). La fluidità del dies a quo può manifestarsi anche in caso di responsabilità contrattuale professionale, così come attestato dall’evoluzione giurisprudenziale che ha affermato che “laddove la percezione del torto subito non sia manifesta ed evidente, il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno inizia a decorrere non dal momento in cui il fatto del terzo (nel caso in esame la condotta del professionista) ontologicamente determina il danno all’altrui diritto, bensì dal momento in cui l’evento dannoso si manifesta all’esterno, divenendo oggettivamente percepibile e riconoscibile”  (40). Da tempo parte della dottrina (41) ha osservato che le argomentazioni alla base dei diversi termini di prescrizione in tema di responsabilità, contrattuale e da fatto illecito, appaiono ormai superate e assai poco realistiche, così da suggerire l’auspicio di una riforma normativa. In effetti tale diversità appare sempre meno equilibrata e giustificata, quasi ad essere per taluni definibile arbitraria  (42); si tratta di una scelta legislativa niente affatto insuperabile, soprattutto alla luce della nuova tecnologia che si è inserita prepotentemente nel diritto e tende a garantire prove documentali nel passato impensabili (si pensi alla possibilità di procurarsi prove fotografiche  (39) App. Lecce, 15 luglio 2015, n. 502; Trib. Busto Arsizio, 6 aprile 2012, n. 118; sulla coincidenza del dies a quo del termine di prescrizione dell’illecito con la verificazione dell’effetto lesivo, anche se non coincidenti sul piano temporale v. Corte Conti, 24 luglio 2017, n. 180; tutte in <www.iusexplorer.it>.  (40) Garreffa, Danno e responsabilità. Il dies a quo della prescrizione, in Giustiziacivile.com, 7 aprile 2017, a commento di Cass., 22 settembre 2016, n. 18606, in cui ulteriore bibliografia sul tema.  (41) Sul punto v. Anzani, Riflessioni su prescrizione e responsabilità civile, in Nuova giur. civ. comm. 2012, 2019, il quale, ricostruendo la ratio dell’istituto della prescrizione al fine di dimostrare “L’acuita irragionevolezza di termini prescrizionali difformi fra responsabilità da inadempimento e responsabilità da fatto illecito” ha rievocato correttamente la Relazione al Codice civile, in cui “le uniche esplicite ragioni che spinsero il legislatore del ’42 a fissare per le svariate ipotesi di responsabilità extracontrattuale termini di prescrizione brevi (art. 2947, commi 1° e 2°, cod. civ.), in quanto inferiori al termine ordinario decennale (art. 2946 cod. civ.) valevole per la responsabilità contrattuale, furono, da un lato, l’empirica constatazione della minore fruibilità di documenti in materia di fatti illeciti, dall’altro, la diffidenza verso gli altri mezzi di prova e soprattutto verso la prova testimoniale, specialmente a distanza di tempo”; Id., L’irragionevole diversità dei termini prescrizionali nelle due specie di responsabilità civile, in Riv. Trim. dir. proc. civ., 2017, 1349.  (42) V. Giardina, Responsabilità contrattuale e responsabilità extracontrattuale. Significato attuale di una distinzione tradizionale, Milano, 1993, 159 ss.

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con cellulare sul luogo dell’incidente nell’imminenza dei fatti; la attestazione di trattative attraverso messaggi sms, corrispondenza mail; etc..) e tale da giustificare il superamento delle ragioni storiche della distinzione  (43). Premesso quanto sopra risulta altresì affievolita anche la seconda delle principali diversità che giustifica una reale e concreta operazione di qualificazione della natura contrattuale o aquiliana della responsabilità della banca/gestore.

5. Riflessioni conclusive

La responsabilità della banca o di qualsiasi operatore/ gestore di un servizio di pagamento con strumenti elettronici può essere collocata indifferentemente nell’ambito della responsabilità contrattuale o extracontrattuale; ciò dipende dalle peculiarità dell’attività gestoria che si intendono valorizzare: sia la diligenza professionale con correlativi obblighi di garanzia dell’adozione di idonee misure di sicurezza, oppure sia la natura dei mezzi utilizzati (dati personali o strumenti finanziari ad alto rischio). La questione che appare più complessa riguarda la regola della prova e si dipana nella prospettiva di un equilibrato riparto dell’onere probatorio relativo all’uso non autorizzato di codici di accesso per operazioni dispositive di denaro effettuate con gli strumenti elettronici messi a disposizione dal gestore del servizio. Secondo le regole del diritto privato l’onere probatorio è considerato tradizionalmente più leggero per il contraente/danneggiato (responsabilità contrattuale), poiché l’utilizzatore del servizio dovrà dimostrare soltanto la fonte negoziale dell’obbligazione che gli garantisce la possibilità di operare con strumentazione elettronica e l’evento dannoso, cioè l’operazione non autorizzata, mentre grava sull’operatore la prova dell’esatto adempimento con l’adozione delle adeguate misure di sicurezza dovute secondo la diligenza professionale e della colpa grave del cliente circa la mancata custodia dei codici. Ora, valutando la fattispecie giuridica in esame, si deve osservare che ritenere l’attività del gestore (o della banca) come “pericolosa” non modifica la prospettiva, poiché in base all’art. 2050 c.c., la sola possibile prova liberatoria a carico dell’operatore/danneggiante consiste nel dimostrare “di avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno”, con un’evidente presunzione di responsabilità dell’esercente l’attività pericolosa. Si determina cioè un’inversione dell’onere probatorio rispetto ai casi di responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c., che rende equiparabile la qualificazione della responsabilità

(43) Cfr. nota 41 di questo scritto.


GIURISPRUDENZA CIVILE come contrattuale o extracontrattuale del gestore di un servizio di pagamento con strumenti elettronici. Non è un caso quindi che la Cassazione, nella pronuncia in commento, cassi con rinvio la sentenza d’appello che, con prova presuntiva, aveva ritenuto favorevolmente dimostrata la sicurezza del sistema elettronico ed imputava al cliente l’onere di provare di aver tenuto un comportamento esente da colpa nella custodia dei codici di accesso al sistema. Al di là della oggettiva difficoltà a rendere una prova negativa volta a dimostrare di non aver smarrito o subìto un furto di carta o codici, l’impostazione del regime probatorio del giudice d’appello è in contrasto con l’onere probatorio richiesto in qualunque delle due qualificazioni possibili di responsabilità, sia ex art. 2050 o 1218 c.c., come prospettate nella originaria domanda del ricorrente. Varrà la pena approfondire quanto, nell’ambito dei due sistemi di responsabilità, contrattuale e extracontrattuale, né la ripartizione dell’onere probatorio, né le regole sulla prescrizione, con il caratterizzante tema del termine di decorrenza, possano rappresentare una vera e propria linea di demarcazione fondata su una rigida disciplina, tale da consentire una prova esaltante delle tradizionali (o tralatizie) differenze strutturali fra i due ambiti, in considerazione del ruolo pervasivo assunto dalla giurisprudenza  (44).

(44) Cfr. Anzani, Il riparto dell’onere probatorio nelle due specie di responsabilità civile, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2017, 256-257.

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L’esperibilità del rimedio ex art. 700 c.p.c. a seguito della disattivazione dell’account su Facebook: l’ultimo episodio della saga chiude (ma non del tutto) le porte alla concessione della tutela d’urgenza Tribunale

di

Trieste ; sezione civile; ordinanza 27 novembre 2020, n. 2032; FNAI, U.M. Z.F. c. F.I. LTD.

L’istanza cautelare di riattivazione degli accounts Facebook, avanzata a norma dell’art. 700 c.p.c., va respinta in rito giacché, non essendo garantita una tutela reale al termine della cognizione piena, è carente in radice un presupposto indefettibile per la concessione del rimedio d’urgenza. Nondimeno, Facebook deve restituire agli utenti i contenuti pubblicati sulla piattaforma prima del recesso.

…Omissis… [L]a FEDERAZIONE NAZIONALE ARDITI d’ITALIA – FNAI – in persona dei legali rappresentanti pro tempore (omissis), nonché gli stessi sono ricorsi al Tribunale di Trieste esponendo essere state rimosse la pagina della FNAI (omissis) nonché i profili personali delle due persone fisiche. (Omissis) I provvedimenti giudiziari riguardanti casi analoghi di disattivazione di pagine e profili, susseguitisi in questi ultimi due anni e giunti peraltro a diverse, e per certi aspetti opposte conclusioni, appaiono per lo più privi di espressa classificazione della fattispecie sottoposta all’attenzione dei giudici, ovvero non portano a dovuta conseguenza talune premesse, solo parzialmente delineate. (Omissis) Si legge ad esempio nella decisione del 11.12.2019 del Tribunale di Roma che quello intercorso tra le parti non sarebbe “assimilabile al rapporto tra due soggetti privati qualsiasi in quanto una delle parti, appunto Facebook, ricopre una speciale posizione”. Questa affermazione è stata solo formalmente disattesa dal collegio del reclamo dello stesso Tribunale (che peraltro ha negato la competenza della sezione specializzata in materia di impresa, tacitamente ritenuta dal primo giudice), il quale ha ritenuto “indubbia la qualificazione del rapporto fra Facebook Ireland e l’utente come un ordinario contratto di diritto civile – un contratto atipico… con la conseguenza che la legittimità dell’esercizio del potere di recesso del fornitore del servizio deve essere valutata in primo luogo sulla base delle regole negoziali dallo stesso dettate, secondo il modello del contratto per adesione”. L’ordinanza tuttavia, oltre a prendere in considerazione – si ritiene erroneamente - come para-

metri altre ipotesi notoriamente disciplinate da norme speciali e caratterizzate dall’effetto ripristinatorio reale (normativa lavoristica), opera un ragionamento solo apparentemente motivato, e che parte da premesse non condivisibili. La premessa del ragionamento è che “la posizione… dell’utente è riconducibile, di fronte a contestazioni relative alle opinioni espresse sulla piattaforma, alla libertà di manifestazione del pensiero protetta dall’art. 21 e, di fronte a contestazioni relative alla natura ed agli scopi dell’associazione, all’art. 18 e quindi a valori che nella gerarchia costituzionale si collocano sicuramente ad un livello superiore”. La conclusione è che “la disciplina contrattuale non può lecitamente assumere quale causa di risoluzione del rapporto manifestazioni del pensiero protette dall’art. 21 né consentire l’esclusione di associazioni tutelate dall’art. 18”. Così facendo, per un verso si finisce per identificare le posizioni contrattuali degli utenti con gli interessi o i motivi per i quali gli stessi accedono a Facebook, senza peraltro una adeguata analisi della fattispecie negoziale; per altro verso, la conclusione appare tautologica, autogiustificata dalla premessa (a sua volta tutta da dimostrare), e non è comunque condivisibile per le ragioni che si andranno ad illustrare. (Omissis) Anche le ulteriori decisioni susseguitesi, alcune delle quali citate dalle parti, rimangono insoddisfacenti, occorrendo preliminarmente chiarire che quello intercorso tra le parti è un contratto atipico la cui funzione sociale risiede nello scambio tra la fornitura del servizio da parte di Facebook e quella dei dati personali da parte degli utenti: in ciò consiste la corrispettività tra le prestazioni di questo contratto di durata.

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GIURISPRUDENZA CIVILE A sostenerlo non è più solo la dottrina straniera ed italiana che invoca un “market oriented approach” da parte dei giudici che si trovino a giudicare fattispecie nuove ed atipiche, e che ritiene ormai superato ogni approccio alla protezione dei dati ancorato alla tutela della persona ed alla non commerciabilità dei dati personali: ma è lo stesso legislatore comunitario. L’art. 3, par. 1, primo capoverso (o secondo comma, come si preferisce) della direttiva UE 2019/770 relativa a “determinati aspetti dei contratti di fornitura di contenuto digitale e di servizi digitali” estende ormai espressamente la sua disciplina “altresì nel caso in cui l’operatore economico fornisce o si impegna a fornire contenuto digitale o un servizio digitale al consumatore e il consumatore fornisce o si impegna a fornire dati personali all’operatore economico…”. (Omissis) Sulla scorta di queste minime considerazioni si ritiene quindi errato ed anzi fuorviante fare riferimento in via diretta ed assorbente, quasi pretermettendo l’analisi della fattispecie contrattuale, al fenomeno associativo in sé, e tanto meno ad una “speciale posizione” del contraente, né – come si vedrà – si può indugiare senza adeguate premesse in considerazioni sul diritto al pluralismo, o sulla tutela della manifestazione del pensiero o di altri diritti primari, in modo avulso dal piano contrattuale. (Omissis). Occorre, infatti, pur sempre fare riferimento allo scenario contrattuale di fronte al quale ci si trova: ovvero l’esercizio di un diritto di recesso, peraltro pattiziamente convenuto – o meglio unilateralmente predisposto ed accettato per adesione – all’interno di un contratto atipico e corrispettivo di fornitura di servizi che, quanto alle persone fisiche, assume anche la specificità di contratto di consumo. (Omissis) Sintetizzando le linee evolutive di decenni di giurisprudenza, è indubbio che il giudice chiamato a sindacare il merito nel giudizio di accertamento dell’avvenuto recesso dal contratto, anche qualora ne statuisca l’illegittimità, non potrà mai ordinare la ricostituzione del rapporto, ormai irrimediabilmente sciolto, atteso che il recesso ingiustificato dal contratto di una delle parti, integrando inadempimento della stessa, giustifica al più la condanna generica di questa al risarcimento del danno. Neanche il giudice della fase del merito potrebbe quindi disporre “l’immediata riattivazione della pagina Facebook” richiesta qui anticipatamente dai ricorrenti, perché così facendo supererebbe di fatto i limiti imposti dal legislatore in ossequio al principio di tipicità della tutela relativa alla costituzione ed allo scioglimento dei rapporti (art. 2908 cod. civ.). Le sole possibilità ripristinatorie, e quindi i soli casi di ricostituzioni reali del rapporto a fronte di un recesso nullo o illegittimo, sono quelle espressamente previste dalla legge, laddove la norma stessa abbia inteso regolare in via speciale casi già

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socialmente caratterizzati da una posizione di debolezza (lavoratore, conduttore di immobili, etc.). (Omissis) Ritiene non di meno questo giudice che sia necessario verificare se sussista una legittima causa di recesso, in fase cautelare, in quanto laddove essa con evidenza mancasse per ragioni formali o sostanziali, o se il recesso fosse stato esercitato in modo palesemente difforme dalle previsioni contrattuali, si potrebbe comunque concedere una tutela interinale, per le ragioni che si andranno ad esporre e che richiedono una ulteriore preventiva analisi. Conviene infatti previamente verificare se si possano rinvenire all’interno della stessa fattispecie contrattuale dei rimedi per la situazione dedotta in giudizio. In primo luogo, rileggendo le conclusioni prese dai ricorrenti, si potrebbe ritenere che sia implicita e comunque non venga esclusa una futura richiesta di risarcimento in forma specifica ex art. 2058 cod. civ. (“il provvedimento richiesto in questa sede deve essere anticipatorio nonché conservativo degli effetti della sentenza che verrà emessa nel successivo giudizio di merito”), dacché il giudizio di merito “avrà ad oggetto oltreché la conferma del provvedimento invocato anche la domanda di risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti e subendi anche all’immagine nonché i danni arrecati dalla forzata interruzione della pagina e la mancata comunicazione degli eventi e degli incontri della Federazione ai suoi associati”. Pur essendo preclusa una riviviscenza del rapporto ormai sciolto, gli utenti potrebbero domandare una sua ricostituzione ex novo: e per garantire l’effettività di questa futura decisione, quindi, se ne potrebbero anticipare taluni effetti, ordinando in via cautelare la riattivazione della pagina Facebook. Non si nasconde però l’aporia sottostante a questo tipo di ragionamento: è innegabile che una nuova attivazione, in tempi assai ravvicinati, del rapporto contrattuale pacificamente sciolto costituisce un aggiramento della chiara volontà legislativa di vietare la reviviscenza del rapporto a seguito del recesso contrattuale, di cui si è ampiamente detto. Verrebbe in tal modo riconosciuta per via indiretta la stessa utilità, in termini sostanziali, che l’ordinamento non ha inteso assicurare in via espressa e formale. E tra l’altro l’effetto anticipato in sede cautelare finirebbe con il coincidere perfettamente con quello della decisione di merito, ampliando quindi in modo illegittimo gli ambiti dei procedimenti anticipatori nei giudizi costitutivi. In alternativa è dunque lecito chiedersi se nella fattispecie all’esame del giudice non si venga a cumulare, accanto alla più evidente ipotesi di responsabilità contrattuale, anche una fattispecie di responsabilità di fonte diversa. È noto difatti che, oltre alle ipotesi classiche di concorso conosciute in dottrina e giurisprudenza, è possibile che anche nei contratti sinallagmatici si configuri, a fronte


GIURISPRUDENZA CIVILE di un inadempimento o inesatto adempimento ed accanto alla corrispondente responsabilità contrattuale, anche una responsabilità extracontrattuale, allorquando il pregiudizio arrecato al contraente abbia leso interessi di quest›ultimo: ma ciò sempre che tali interessi siano sorti al di fuori del contratto ed abbiano la consistenza di diritti assoluti. Potrebbe quindi sussistere in capo al venditore un doppio titolo di responsabilità, ma solo in quanto il danno lamentato dal danneggiato (omissis) riguardi diritti che non rientrino tra gli interessi nascenti e disciplinati dal sinallagma negoziale: si deve cioè trattare di una lesione di interessi non funzionalmente connessi al vincolo negoziale, sorti al di fuori del contratto ed aventi consistenza di diritti assoluti. Se quindi il contratto intercorso tra Facebook ed i suoi utenti viene in considerazione oltre che come un atto, anche come un fatto giuridico, può allora comprendersi come all’inadempimento possano conseguire come effetto non solo la lesione della posizione contrattuale che innesca il relativo sistema rimediale, ma anche - ed in chiave extracontrattuale - quella di diritti della persona direttamente tutelati dalla Costituzione. Affinché possa concretarsi una responsabilità extracontrattuale del gestore del servizio è però necessario che venga allegato dal danneggiato un comportamento valutabile non quale mera inadempienza alle disposizioni che regolano il contratto di servizio, ma quale violazione delle regole sulla responsabilità per fatto illecito. Deve essere quindi l’attore ad allegare una condotta diversa da quella imputata al gestore quale inadempimento dell’obbligazione propria del contratto atipico di servizi, individuando in modo specifico fatti e comportamenti del gestore stesso che abbiano determinato la lesione dei propri diritti soggettivi assoluti, connotati da dolo o colpa. (Omissis) Occorre ovviamente che con il proprio comportamento il danneggiante abbia violato gli obblighi contrattuali ed il generale dovere del neminem laedere: per citare la più risalente e famosa decisione sul punto, nell’ordinamento vigente «è ammissibile il concorso delle due specie di responsabilità, contrattuale ed extracontrattuale, allorché un unico comportamento risalente al medesimo autore appaia di per sé lesivo non solo dei diritti specifici derivanti al contratto dalle clausole contrattuali, ma anche dei diritti assoluti, che alla persona offesa spettano, di non subire pregiudizio all’onore, all’incolumità personale e alla proprietà di cui è titolare». Il piano complessivo delle posizioni giuridiche qui coinvolte si presta - astrattamente – ad una analisi del genere. È infatti evidente che esercitando il proprio diritto contrattuale di fruire dei servizi di Facebook l’utente dia altresì sfogo a diritti primari, quali l’identità personale, la libertà di espressione e di pensiero, quella di associazione, ed altri. Questi diritti in larga misura trascendono

la specifica dinamica contrattuale, integrano - affiancandosi ad esso - l’oggetto dell’ordinaria prestazione contrattuale, intesa quale messa a disposizione del servizio offerto agli utenti in corrispettivo della cessione di dati personali. Certo, non sempre e non tutti intendono affacciarsi al mondo interconnesso per esercitare a livello diffuso, indifferenziato, prerogative tipiche dell’associazionismo, della libertà di pensiero, dell’identità culturale, o altre forme e proiezioni della propria personalità. (Omissis) È tuttavia tangibile che laddove l’utente plasmi il suo profilo in modo quanto più completo e prossimo alla sua identità reale, egli finisce con il creare una rappresentazione digitale della propria persona, una immagine che spesso si affianca e coesiste con la prima, al punto da completare ed integrare quella reale: vengono spesso – ed a volte anche patologicamente - ad esistenza due dimensioni relazionali, quella reale e quella virtuale. Il rapporto contrattuale tra utente e dispensatore del servizio rimane lo stesso: ma nell’ultimo caso la sua cessazione travolgerà non solo la pagina Facebook, il cd. profilo, in quanto con esso vengono travolti beni ed interessi ulteriori, come i rapporti creati e mantenuti per il suo tramite, o come la presenza in certi circuiti culturali ed in certe occasioni sociali; o come, in ultima analisi, l’estrinsecazione delle proprie opinioni, delle proprie immagini ed interessi. Se quindi i diritti soggettivi potenzialmente lesi in occasione della violazione contrattuale sono più d’uno, connessi occasionalmente ma non funzionalmente all’inadempimento del gestore, essi potrebbero essere suscettibili di lesione autonoma qualora il recesso sia caratterizzato da un comportamento del tutto ingiustificato, tale da trascendere la dinamica contrattuale. In una ipotesi del genere avrebbe senso intervenire immediatamente a sindacare la legittimità di tale recesso, qualora prima facie illegittimo, abnorme, in quanto questi diritti connessi (ma esterni) all’oggetto della prestazione potrebbero essere lesi irrimediabilmente, necessitando quindi di tutela indipendentemente dalla generica azione di inadempimento. (Omissis) Data quindi per pacifica la possibilità di lesione di un assetto complesso di interessi giuridicamente protetti, ecco allora che, qualora la violazione configuri al contempo anche la lesione di un diritto assoluto, e sussistano dunque le condizioni per chiedere entrambe le tutele in quanto vi sia un comportamento colposo o doloso che leda situazioni giuridiche soggettive assolute, potrebbe trovare autonomo spazio l’azione aquiliana, siccome idonea a garantire una tutela specifica della posizione del soggetto bisognoso di tutela, in considerazione della specificità dei diritti coinvolti. Per questo motivo si impone l’analisi del comportamento complessivo sfociato nel recesso da parte di Facebook, al fine di verificare in concreto se l’agire colposo o doloso sia stato illecito, e

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GIURISPRUDENZA CIVILE poterne quindi rimuoverne gli effetti in vista dell’utile esperimento dell’azione di merito. Se quindi ci si limitasse a guardare alla vicenda dall’ottica esclusivamente contrattuale, quello esercitato da Facebook rimarrebbe un semplice recesso contrattuale, disciplinato dall’art. 1373 cod. civ. in forza della lex fori: ne risulterebbe esclusa la possibilità di concedere la tutela anticipatoria come qui richiesta. E ciò per l’ovvia considerazione che neanche la pronuncia meritale potrebbe conferire al richiedente quella tutela che qui si chiede di anticipare, come sopra scritto: il recesso ingiustificato dal contratto di una delle parti, integrando inadempimento della stessa, legittimerebbe al più la condanna generica di questa al risarcimento del danno, indipendentemente dal concreto accertamento di uno specifico pregiudizio patrimoniale. Ma se questo recesso, per il modo in cui si sia esplicitato, formalmente e sostanzialmente, abbia leso i diritti costituzionali dell’utente che in concreto hanno trovato sfogo ed espressione attraverso la concreta modalità di impiego del mezzo diffusivo, e che sono autonomamente azionabili in ragione del loro collegamento indiretto rispetto alla posizione contrattuale di utente, allora la tutela cautelare sarebbe astrattamente concedibile. In concreto, tuttavia, i ricorrenti non si dolgono di una manifestazione trasmodante del recesso da parte di Facebook Ireland, ma denunciano semplicemente l’estraneità degli accadimenti rispetto alle fattispecie astratte indicate nei patti contrattuali. Non è stato delineato, in altri termini, un comportamento diverso dal recesso in sé, né l’esercizio di tale diritto in forma tale da integrare un comportamento illecito rilevante ai sensi dell’art. 2043 cod. civ.: e questa considerazione sarebbe già sufficiente a licenziare la domanda cautelare. Peraltro, la stessa astratta esistenza di un comportamento illecito è obiettivamente di difficile configurazione nel contesto contrattuale costruito da Facebook ed in quello normativo. Invero le previsioni contrattuali ampiamente riportate sia in questa ordinanza che, soprat-

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tutto, negli atti di parte e nella documentazione allegata delineano nel loro complesso una trama negoziale – sia pure imposta dal proponente – di tutela anticipata avverso comportamenti dell’aderente, ideata per prevenire abusi particolarmente odiosi ed altamente lesivi dei principi generalmente accettati dalla comunità degli utenti. (Omissis) In un ipotetico giudizio che si intendesse condurre sull’esistenza o meno di buona fede da parte di Facebook nell’avvalersi di siffatto mezzo contrattuale, occorrerebbe comunque tenere in debito conto la posizione di garanzia che in concreto assume Facebook nel gestire le pagine, ed il suo dovere di rimuovere i contenuti illeciti pubblicati da terzi esercitando il suo potere di gestione: si tratta di uno schema di possibile responsabilità da posizione. In caso di inerzia, quindi, vi potrebbe essere responsabilità anche penale da parte del gestore, atteso che l’amministratore di una pagina Facebook memorizza le informazioni dell’utente e può essere equiparato allo host provider di cui all’art. 14 della Dir. 2000/31/CE. Legittima, quindi, una difesa anticipata attraverso un uso immediato del diritto di recesso. Va comunque detto che i vari episodi rilevati da Facebook, e neanche smentiti dai ricorrenti, si prestano a supportare in modo prima facie non illegittimo né abusivo la scelta di chiudere definitivamente il profilo da parte del gestore. (Omissis) La domanda principale deve essere quindi rigettata. Tuttavia merita accoglimento e può essere anticipata una delle conseguenze effettuali connesse al recesso del fornitore, ossia la richiesta di ordinare a Facebook Ireland Ltd, di restituire alla Federazione Nazionale Arditi d’Italia in persona degli amministratori (omissis) i contenuti della pagina Facebook denominata Federazione Nazionale Arditi d’Italia FNAI e di restituire a (omissis) i contenuti del profilo personale. Si tratta di effetto conseguente allo scioglimento del vincolo, anticipabile in via cautelare. Le stesse condizioni contrattuali, del resto, lo prevedono. (Omissis)


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IL COMMENTO

di Pasquale Mazza Sommario: 1. La vicenda. – 2. Rilievi critici. Davvero l’azione per risarcimento del danno extracontrattuale può rappresentare un’utile alternativa al rigetto in rito? – 3. Sulla restituzione dei dati personali. – 4. Le prospettive future e le perplessità attuali. Sempre più spesso i giudici della cautela sono chiamati a statuire sulla riattivazione degli accounts rimossi dal social network Facebook. Finora, invero, sono state adottate soluzioni anche assai confliggenti, sia negli esiti che negli argomenti. La vicenda che qui si commenta ha visto respinte in rito le istanze avanzate dagli utenti ex art. 700 c.p.c., in virtù di una conclusione, pur corretta, posta al termine di una motivazione che suscita qualche perplessità. L’ordinanza offre dunque, da una duplice prospettiva sostanziale e processuale, l’occasione per meditare sulla tutela del diritto costituzionale di espressione, nell’apparente contrasto che sembra oggi emergere con il principio dell’autonomia privata reclamata dai providers. More and more often the judges are requested to rule on the reactivation of the accounts removed from the social network Facebook. Indeed, very conflicting solutions have bene adopted hitherto, both in terms of results and arguments displayed. The case annotated saw the claims for preliminary injunctions rejected, by virtue of a conclusion which, although correct, comes at the end of a motivation that raises some doubts. The decision therefore offers, from a dual substantive and procedural perspective, an opportunity to reflect on the protection of the constitutional right of expression, in the apparent conflict that seems to emerge with regard to the principle of private autonomy claimed by the providers.

1. La vicenda

L’ordinanza in epigrafe trae origine da un’istanza cautelare mirante al ripristino di alcuni diritti fondamentali asseritamente lesi a causa dell’oscuramento di pagine e profili da parte di un popolare social network. Di seguito si offre un compendio dell’episodio. La Federazione Nazionale Arditi d’Italia (d’ora in avanti, FNAI) ed altre due persone fisiche – agenti sia in proprio sia quali legali rappresentanti dell’associazione – chiedevano al Tribunale di Trieste la riattivazione della pagina Facebook facente riferimento alla FNAI e dei loro rispettivi profili personali, tutti cancellati dopo la pubblicazione di contenuti rievocanti il fascismo. Nella specie, si riteneva essere stato violato il diritto costituzionale alla libertà di associazione (art. 18), a fronte di messaggi considerati come non contrastanti con la gamma di contenuti rispetto ai quali Facebook reputa intollerabile la visualizzazione e agisce pertanto in autotutela. A puntellare la pretesa vi era il richiamo alla ben nota pronuncia emessa – sempre in sede cautelare ex art. 700 c.p.c.– dal Tribunale di Roma rispetto all’oscuramento della pagina Facebook dell’associazione CasaPound (1),  (1) Tribunale di Roma, sez. spec. impresa, 12 dicembre 2019, in questa Rivista, 2020, 63 ss., con commento di Venanzoni, Pluralismo politico e dibattito pubblico alla prova dei social network, in Danno e resp., 2020, 487 ss., con nota di Quarta, Disattivazione della pagina Facebook. Il caso CasaPound tra diritto dei contratti e bilanciamento dei diritti, e in Foro it., 2020, I, 722 ss. In sede di reclamo, il Tribunale di Roma, sez. XII, 29 aprile 2020, in questa Rivista (versione online), ha affermato la natura ordinaria del contratto con Facebook, però comunque arrivando al rigetto del ricorso giacché sarebbe preclusa all’autonomia privata la possibilità di comprimere l’esercizio di diritti costituzionalmente garantiti. Da tale assunto si è tratto che l’esercizio del recesso non può andare a detrimento della libertà di associazione e di espressione, dovendo altrimenti configurarsi

laddove il giudice capitolino, per vero al termine di un ragionamento stringato e apodittico, ha qualificato il rapporto tra l’utente e la piattaforma social in termini non riducibili alla stregua di un comune rapporto privatistico, attesa la cruciale funzione che sembrano dispiegare oggigiorno questi nuovi strumenti di divulgazione (anche) del pensiero politico. Dalla natura simil-pubblicistica del ruolo dell’hosting provider, è disceso dunque l’asserto secondo cui quest’ultimo potrebbe disabilitare

– in assenza di una giustificazione oggettiva che in concreto non si è ravvisata – un recesso illegittimo, che dunque, similmente a quanto accade nell’ambito lavoristico, dà corso alla tutela manutentivo-ripristinatoria del rapporto contrattuale. In analoga direzione si era già mosso il Tribunale di Pordenone 10 dicembre 2018, n. 2139, in Juscivile, 2019, 292 ss., con nota di Calpona, Congelamento della pagina Facebook e lesione dei diritti all’identità e all’immagine. Nella fattispecie, era stato disattivato un account tramite cui l’utente aveva divulgato un video di una partita di tennis, chiaramente in violazione dei diritti riservati. Anche qui, in ragione di una ravvisata sproporzione nel rimedio della disattivazione, soprattutto in termini di lesione dei diritti costituzionali, il giudice ha ingiunto la riabilitazione del profilo, munendo peraltro l’istanza dell’astreinte. Facendo invece leva sul rischio di esclusione dal mercato per l’impresa il cui account su eBay era stato sospeso, vedi Tribunale di Catanzaro 30 aprile 2012, in Dir. dell’informazione e dell’informatica, 2012, 1174 ss., con nota di Aranguena, Sospensione di un account su eBay: il contratto telematico B2B tra accettazione point and click e tutela dell’accesso al mercato del commercio elettronico. In senso contrario alla possibilità di ripristinare l’account, ma per ragioni di merito anziché di rito come nell’ordinanza de qua, Tribunale di Roma, sez. diritti della persona e immigrazione civile, 23 febbraio 2020, e Tribunale di Siena, sez. unica civile, 19 gennaio 2020, in questa Rivista, 2020, 281 ss., con nota di Stella, Disattivazione ad nutum del profilo Faceboook: quale spazio per la tutela cautelare ex art. 700?. L’ordinanza romana è stata altresì pubblicata in Dir. dell’informazione e dell’informatica, 2020, 552 ss., con nota di Mazzolai, Hate speech e comportamenti d’odio in rete: il caso Forza Nuova c. Facebook.

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GIURISPRUDENZA CIVILE una pagina solamente ove sia patente la violazione di principi costituzionali e ordinamentali, valutazione che si è comunque ritenuto preferibile demandare al giudice della cognizione piena. Rispetto all’altro presupposto indefettibile in sede cautelare, si prospettava la funzione di celebrazione e di memoria storica assolta dalla FNAI quale cagione di periculum in mora, dal momento che l’irreperibilità della pagina avrebbe potuto arrecare pregiudizio a quanti avessero voluto eseguire ricerche o approfondire gli accadimenti connessi alle guerre del secolo scorso. Donde si delineava la natura anticipatoria «nonché» conservativa del provvedimento domandato, e si chiosava che esso avrebbe funto da preliminare ad una successiva richiesta di risarcimento dei danni patrimoniali e non. La convenuta Facebook Ireland Limited, da par suo, adduceva vari (ormai classici) argomenti al proprio usbergo: la gratuità e il rilievo non pubblico del servizio offerto dalla piattaforma, la regolarità procedurale dell’oscuramento ad nutum, la possibilità data a ciascuno di utilizzare altri social networks per propalare i messaggi. Dopo aver affermato (correttamente, ma senza spiegare bene il perché) la giurisdizione italiana e la locale competenza (2), al termine di una meditata analisi, il giudice  (2) Proviamo a dare una spiegazione più precisa. L’ordinanza ha qualificato le due persone fisiche come consumatori (richiamando in nota la sentenza CGUE 25 gennaio 2018, in causa 498/16, caso Schrems c. Facebook), che dunque a norma dell’art. 17, comma 1, n. 1, Reg. 2012/1215, possono giovarsi del foro speciale di protezione. Rispetto invece alla FNAI, non intesa come consumatore, la possibilità di adire il forum actoris c’è, ma segue una strada un poco più tortuosa. Infatti, successivamente alla sentenza eDate Advertising (25 ottobre 2011, in cause riunite 509/09 e 161/10, in Corr. giur., 2012, 757 ss., con nota di Rolfi, Dalla competenza alla giurisdizione: le “mobili frontiere” di internet, in Dir. dell’informazione e dell’informatica, 2012, 247 ss., con nota di Pastore, La lesione dei diritti della personalità online: la prospettiva della Corte di giustizia, in Resp. civ. e prev., 2012, 796 ss., con nota di Winkler, Giurisdizione e diritto applicabile agli illeciti via web: nuovi importanti chiarimenti della Corte di giustizia, in Revue critique de droit international privé, 2012, 389 ss., con nota di Muir Watt, e in Juristenzeitung, 2012, 189 ss., con nota di Hess, Der Schutz der Privatsphäre im Europäischen Zivilverfahrensrecht), che ha rivoluzionariamente ammesso il foro dell’attore quale foro del centro degli interessi del danneggiato (oggi ex art. 7 n. 2 Reg. 2012/1215), non era chiaro se di questo vantaggio potessero giovarsi anche gli enti. Sul punto, è sopraggiunta la sentenza Ilsjan (17 ottobre, in causa 194/16, in Dir. dell’informazione e dell’informatica, 2017, 710 ss., e commentata in Riv. dir. int. priv. proc., 2018, da Monico, Il foro in materia di diffamazione online alla luce della sentenza Ilsjan), in cui i giudici hanno esteso la ratio del foro del centro del danno, ritenendo che rispetto alle società si debba tener conto soprattutto del luogo della sede o del luogo di svolgimento della parte essenziale delle attività economiche. Niente però è stato detto riguardo agli enti che non operano a fini di lucro, ed infatti Stella, Profili processuali degli illeciti via internet. I. Giurisdizione, competenza, onere della prova, Milano, 2020, 121 s., ritiene che si debba attendere un successivo chiarimento. Nel frattempo, da parte nostra, non vediamo ostacoli a che la ratio del foro centrale per le persone fisiche si estenda anche agli enti non aventi finalità di lucro (come la FNAI). Rispetto invece al profilo della competenza del tribunale triestino ex art. 669 ter c.p.c., è senz’altro condivisibile la tesi dottrinale secondo cui i fori

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rigettava l’istanza cautelare in ragione della natura contrattuale del rapporto tra l’utente e il provider, da cui deriverebbe la possibilità di esercitare il recesso e – pregiudizialmente – l’impossibilità di avvalersi della misura di cui all’art. 700 c.p.c. Il ragionamento seguìto è molto lineare: da un lato, si staglia l’orientamento che caratterizza il rapporto con Facebook secondo non meglio precisati connotati di specialità, che imporrebbero al gestore della piattaforma il rispetto di alcuni principi costituzionali, comprimendo difatti l’autonomia negoziale successiva (ma forse anche preventiva) al sorgere del rapporto. Dall’altro, vi è l’indirizzo secondo cui l’utente stipula – all’atto dei pochi e veloci passaggi richiesti per l’iscrizione al social – nulla più che un contratto di adesione, consistente nello scambio atipico dati personali (dall’utente)-fornitura del servizio digitale (da Facebook). Che questa fosse la lettura corretta lo si inferiva dalla direttiva UE 2019/770, richiamata nell’occasione, il cui art. 3, comma 1, cpv., configura il contratto di fornitura digitale anche sulla base di una controprestazione riducibile alla sola cessione dei propri dati personali. Posta la natura contrattuale del rapporto, e rammentata l’opzione liberale che permea diffusamente le relazioni giuridiche tra privati, si esponeva essere una facoltà di Facebook l’esercizio del recesso, esercizio che quando pure si qualificasse come illegittimo, non ammetterebbe per il contraente receduto l’accesso ad una forma di tutela reale. Se quindi l’unica protezione che l’utente può vantare è di tipo risarcitorio, verrebbe meno – in radice – la possibilità di avvalersi dello strumento cautelare di cui all’art. 700 c.p.c., che presuppone invece che il diritto di cui si garantisce l’anticipazione sia lo stesso cui si potrebbe accedere all’esito della cognizione piena. Nondimeno, veniva fatta salva l’eventualità di un utilizzo dell’art. 700 c.p.c. nel caso di lesione di diritti costituzionali e conseguente pretesa di risarcimento del danno extracontrattuale, ma non si chiariva in che senso e in che modo, dacché le parti non avevano avanzato domande ulteriori rispetto al recesso. A tale ultimo riguardo, infine, il giudice qualificava come legittima la disabilitazione ad nutum, sia perché speciali previsti nella ex Convenzione di Bruxelles del 1968 siano oggi da intendersi come distributivi non solo della giurisdizione, ma altresì direttamente della competenza. Così, cfr. Luzzatto, Giurisdizione e competenza nel sistema della Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968, in Jus, 1990, 14 s. e 17 s., Boschiero, Appunti sulla riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato, Torino, 1996, 100 s., Pocar, Le rôle des critères de compétence judiciaire de la Convention de Bruxelles dans le nouveau droit international privé italien, in E pluribus unum. Liber amicorum Georges A.L. Droz, The Hague-Boston-London, 1996, 363 ss., Id, Il nuovo diritto internazionale privato italiano, Milano, 1997, 24 s., Mari, Il diritto processuale civile della Convenzione di Bruxelles, I, Padova, 1999, 159 ss., De Cristofaro, Il foro delle obbligazioni, Torino, 1999, 12 s., Carbone in Carbone-Tuo, Il nuovo spazio giudiziario europeo in materia civile e commerciale, Torino, 2016, 76 s.


GIURISPRUDENZA CIVILE conforme al protocollo che la piattaforma si è autoimposta sia perché con essa il provider intende esimersi da possibili responsabilità di carattere penale (3), e concludeva a favore della restituzione ai rispettivi titolari dei contenuti pubblicati sulla pagina FNAI e sui due accounts personali.

2. Rilievi critici. Davvero l’azione per risarcimento del danno extracontrattuale può rappresentare un’utile alternativa al rigetto in rito?

I profili di maggiore interesse sono due. Un primo attiene all’esperibilità del rimedio ex art. 700 c.p.c., un secondo riguarda invece la restituzione dei dati personali successivamente alla cancellazione delle pagine dall’account.

(3) Responsabilità che però sembrerebbe configurarsi in casi assai difficili. Nel pluricommentato caso Google-Vivi Down, la Suprema Corte (Cass. 3 febbraio 2014, n. 5107, in Foro it., 2014, II, 336 ss., con nota di Di Ciommo, Google/Vivi Down, atto finale: l’hosting provider non risponde quale titolare del trattamento dei dati, in Giur. it., 2014, 2016 ss., con nota di Macrillò, Punti fermi della Cassazione sulla responsabilità dell’internet provider per il reato ex art. 167, d.lgs. n. 196/03, in Corriere giur., 2014, 798 ss., con nota di Falletti, Cassazione e Corte di giustizia alle prese con la tutela della privacy sui servizi di Google, in Dir. dell’informazione e dell’informatica, 2014, 225 ss., con nota di Resta, La rete e le utopie regressive (sulla conclusione del caso Google/Vividown), in Cass. penale, 2014, 2052 ss., con nota di Troncone, Il caso Google (e non solo), il trattamento dei dati personali e i controversi requisiti di rilevanza penale del fatto, in Dir. famiglia e persone, 2014, 674 ss., con nota di De Giorgi, La tutela del minore non passa attraverso la condanna del provider Google) ha infatti statuito, anche con riferimento agli hosting providers, che non esiste da parte del soggetto ospite un dovere generalizzato di sorveglianza dei dati immessi da terzi. Precedentemente, già il Tribunale di Milano (sez. IV, 12 aprile 2010, in Giur. cost., 2010, 1840 ss., con nota di Manna, La prima affermazione, a livello giurisprudenziale, della responsabilità penale dell’internet provider: spunti di riflessione tra diritto e tecnica, in Resp. civ. prev., 2010, 1556 ss., con nota di Bugiolacchi, (Dis)orientamenti giurisprudenziali in tema di responsabilità degli internet provider (ovvero del difficile rapporto tra assenza di obblighi di controllo e conoscenza dell’illecito), in Cass. penale, 2010, 3986 ss., con nota di Lotierzo, Il caso Google – Vivi Down quale emblema del difficile rapporto degli internet providers con il codice della privacy, in Foro it., 2010, II, 279 ss., con annotazione di Palmieri-Pardolesi, e in Corriere del merito, 2010, 960 ss., con commento di Beduschi, Caso Google: libertà d’espressione in internet e tutela penale dell’onore e della riservatezza), poi anche la Corte d’appello (sez. I, 27 febbraio 2013, n. 8611, in Dir. dell’informazione e dell’informatica, 2013, 479 ss., con nota di Resta, Libertà della rete e protezione dei dati personali: ancora sul caso Google-Vivi Down, in Corriere giur., 2013, 921 ss., con nota di Falletti, Google v. Vivi Down, Atto II: il service provider assolto anche per violazione della privacy, in Cass. penale, 2013, 3244 ss., con nota di Catullo, Atto secondo dell’affaire Google Vivi Down: società della registrazione e consenso sociale, in Corriere del merito, 2013, 766 ss., con commento di Ingrassia, La decisione d’Appello nel caso Google vs Vivi Down: assolti i manager, ripensato il ruolo del provider in rete, e in Foro it., 2013, II, 593 ss.), avevano escluso la responsabilità penale di Google per il reato di diffamazione. Più in generale, sulla (difficilmente ravvisabile) responsabilità penale dei providers, cfr. Accinni, Profili di responsabilità dell’hosting provider “attivo”, in Arch. penale, 2017, 2, 1 ss., Picotti, Fondamento e limiti della responsabilità penale dei service-providers in Internet, in Dir. penale e proc., 1999, 379 ss., e Seminara, La responsabilità degli operatori su Internet, in Dir. dell’informazione e dell’informatica, 1998, 745 ss.

Partendo dall’utile impiego dell’art. 700 c.p.c., occorre far presente il pensiero di quell’Autore che di recente su queste colonne si è espresso nel senso di un rigetto in rito della domanda cautelare volta ad ottenere un rimedio che non potrebbe darsi, poiché sarebbe impensabile di anticipare col provvedimento d’urgenza quanto nemmeno la piena cognizione di merito può assicurare (4). Il motivo risiede appunto nell’impossibilità di ripristinare il rapporto contrattuale con Facebook, che – legittimamente o meno nel modus o nel merito – ha diritto, secondo le regole comuni, a recedere unilateralmente senza che la controparte possa chiedere in via giudiziale una tutela costitutiva carente già nella tipicità (art. 2908 c.c.), non essendo contemplata dal legislatore una soluzione ulteriore al mero risarcimento (5). O almeno non essendo contemplata in queste fattispecie, diversamente sovvenendo altri rapporti contrattuali, tipicamente quello lavoristico, per i quali ad un recesso illegittimo può seguire una tutela ripristinatoria del contratto. Il giudice triestino sembra aver apprezzato questa riflessione, che rende irricevibile il ricorso a monte di qualsiasi valutazione di bilanciamento dei valori costituzionali confliggenti. Tuttavia, quantunque ad esclusivo beneficio dei futuri ricorrenti per i motivi anzidetti di corrispondenza del chiesto e pronunciato, il Tribunale si è spinto oltre nel prefigurare una presunta diversa tutela qualora, accanto o a prescindere dall’azione contrattuale, l’istante avanzi richiesta di risarcimento del danno

(4) Stella, Disattivazione ad nutum del profilo Facebook, cit., 288 ss., cui viepiù si rinvia per una (condivisibile) critica alle tesi che ravvisa nella disattivazione del profilo una sanzione privata tipica dei contesti associativi.  (5) Basti citare Cass. 18 settembre 2009, n. 20106 (in Foro it., 2010, I, 85 ss., con nota di Palmieri-Pardolesi, Della serie «a volte ritornano»: l’abuso del diritto alla riscossa, in Giur. it., 2010, 556 ss., con nota di Monteleone, Clausola di recesso ad nutum dal contratto e abuso di diritto, e Scaglione, Abuso di potere contrattuale e dipendenza economica, e ibidem, 2010, 809 ss., con nota di Salerno, Abuso del diritto, buona fede, proporzionalità: i limiti del diritto di recesso in un esempio di jus dicere “per princìpi”, in Riv. dir. civ., 2010, 653 ss., con nota di Panetti, Buona fede, recesso ad nutum e investimenti non recuperabili dell’affiliato nella disciplina dei contratti di distribuzione: in margine a Cass., 18 settembre 2009, n. 20106, in Resp. civ. prev., 2010, 345 ss., con nota di Gentili, Abuso del diritto e uso dell’argomentazione, in Giur. comm., 2010, II, 828 ss., con nota di Delli Priscoli, Abuso del diritto e mercato, e ibidem, 2011, II, 286 ss., con nota di Barcellona, Buona fede e abuso del diritto di recesso ad nutum tra autonomia privata e sindacato giurisdizionale, in Giust. civ., 2010, I, 2547 ss., con nota di Nigro, Brevi note in tema di abuso del diritto (anche per un tentativo di emancipazione dalla nozione di buona fede), e commentata in Riv. dir. civ., 2010, 147 ss., da Orlandi, Contro l’abuso del diritto (in margine a Cass. 18 settembre 2009, n. 20106), nonché in Contratto e Impresa, 2010, 41 ss., da Baraldi, Il recesso ad nutum non è, dunque, recesso ad libitum. La Cassazione di nuovo sull’abuso del diritto), in cui gli ermellini, ancorché contestando la tendenza ad un eccessivo risalto dell’autonomia privata, e ancorché ritenendo che si debbano contemperare gli interessi delle parti in un’accezione anche di riequilibrio delle disparità contrattuali, non hanno riconosciuto al receduto alcun diritto ulteriore al risarcimento.

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GIURISPRUDENZA CIVILE ex art. 2043 c.c. per effetto della lesione di un diritto assoluto di portata costituzionale. Il tema della responsabilità extracontrattuale sorta per mezzo di un vincolo contrattuale è antico (6) e complesso (7). Il giudice l’ha tratteggiato nella fattispecie ritenendo plausibile una doppia responsabilità ove il contraente receduto dimostri che non solo vi è stata inadempienza ai doveri contrattuali, ma anche un pregiudizio ai diritti della persona direttamente garantiti in Costituzione (così scaturigine di una responsabilità per fatto illecito). Ora, al netto di una pur prospettabile lettura che cerchi di ampliare la sfera di protezione dell’utente di una piattaforma che – è inutile negarlo – attende ad una funzione insostituibile per chi voglia propagandare un prodotto o un pensiero (8), non è ben comprensibile come l’accesso a quest’altra faccia della tutela civilistica possa cambiare l’esito del rigetto in rito. Se tale ultimo giudizio discende dal dato dell’impossibilità di anticipare un diritto (quello alla riabilitazione dell’account) che non c’è, non vediamo infatti quale cambiamento possa intervenire per il tramite di una responsabilità ex delicto che, comunque, darebbe vita ad un altro diritto di credito che sarebbe non salvaguardabile con una condanna alla reintegrazione dello status quo ante. Anche perché altrimenti opinando si cadrebbe nell’errore che in premessa si dichiarava di voler evitare e, per certi versi, nell’incoerenza. La contraddizione sarebbe in ciò che la tutela derivante dall’azione extracontrattuale porterebbe ad un risultato più intenso rispetto all’azione contrattuale (9), perché

mentre quest’ultima non sarebbe idonea a ripristinare il vincolo negoziale su cui poggiano i presupposti dell’azione risarcitoria, la tutela reale sarebbe invece ammissibile spostando il giudizio dal piano dell’inadempimento a quello della lesione di diritti assoluti. Ma così, in pratica, si finisce per aderire al contestato orientamento che intravedeva nella relazione utente-provider qualcosa di più di un rapporto di rilievo privatistico. Difatti, si riscontrerebbe quello stesso carattere di specialità ravvisato dal giudice capitolino nella vicenda CasaPound, specialità sottesa non al dato della possibile duplicazione delle azioni di danno (contrattuale e extra-contrattuale), che ravvisandosi anche in rapporti contrattuali comuni non darebbe corso ad una tale congettura, bensì nella possibilità – questa sì caratterizzante – di potersi giovare di un rimedio peculiare che deroga al generale principio di autonomia privata e permette di ripristinare quel rapporto contrattuale che il diritto comune vuole irrecuperabile dopo l’esercizio del recesso (10).

(6) Di esso v’è traccia già nelle parole di Ulpiano: «Proculus ait, si medicus servum imperite secuerit, vel ex locato vel ex lege Aquilia competere actionem» (passo ripreso da Bianca, Diritto civile, V, 1994, 552, nt. 58).

(10) Nei principali precedenti giurisprudenziali in cui si è ravvisata una responsabilità extracontrattuale a latere di quella contrattuale, non ci risulta si sia mai andati oltre il riconoscimento della tutela risarcitoria. Così, Cass. 13 marzo 1980, n. 1696, in Giust. civ., 1980, I, 1914 ss., con nota di Alpa, Garanzie della vendita e responsabilità per danni da prodotti. In margine a un leading precedent della Corte di Cassazione, Cass. 7 agosto 1982, n. 4437, in Resp. civ. prev., 1984, 78 ss., con nota di Somaré, Alcune considerazioni in tema di diligenza, e in Giust. civ. Mass., 1982, Cass. 20 aprile 1989, n. 1855, in Foro it., 1990, I, 1970 ss., con nota di Carbone, Vettore per caso, Cass. 19 gennaio 1996, n. 418, in Danno e resp., 1996, 611 ss., con commento di Simone, Concorso di responsabilità, cit., Cass. 8 maggio 2008, n. 11410, in Giust. civ. Mass., 2008, Cass. 11 febbraio 2014, n. 3021, in dejure.it, Cass. 6 luglio 2017, n. 16654, in Giust. civ. Mass., 2017, e Cass. 24 giugno 2020, n. 12420, in Giust. civ. Mass., 2020. Va detto che di recente, presso la corte euro-unitaria, si è tastata l’insidia nascente dall’esigenza di comprendere se l’obbligazione fatta valere in giudizio – pur in presenza di un contratto con la controparte – sia di natura contrattuale o extracontrattuale. La corte si è orientata nel senso di affermare la natura extracontrattuale dell’azione laddove, malgrado esista un contratto tra le parti in causa, «non risulta indispensabile esaminare il contenuto del contratto concluso con il convenuto per valutare la liceità o l’illiceità del comportamento contestato a quest’ultimo, poiché tale obbligazione incombeva al convenuto indipendentemente da tale contratto» (sentenza 24 novembre 2020, in causa 59/19, punto 33, in una fattispecie di abuso di posizione dominante da parte di Booking.com; cfr. inoltre sentenza 13 marzo 2014, in causa 548/12, per una vicenda di concorrenza sleale). L’ambito di responsabilità cui viene ricondotta l’azione assume rilievo già

(7) In dottrina, su tutti, Scognamiglio, Responsabilità contrattale ed extracontrattuale, in Novissimo Digesto it., XV, Torino, 1968, 670 ss.  (8) Anche in un’ottica di protezione dei «diritti «nuovi», specialmente non patrimoniali, i quali [..] apparirebbero, quanto a concreta efficienza e consistenza, «meno uguali» degli altri, meno nuovi e perciò già configurati come oggetti di quelle giustizie» (Montesano, Problemi attuali su limiti e contenuti (anche non patrimoniali) delle inibitorie, normali e urgenti, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1995, 783, sulla funzione dell’art. 700 c.p.c., ricordando Virgilio Andrioli).  (9) Ci si dimentica, però, che non sempre è evidente quale azione il ricorrente intenda far valere, e ammettendo che debba essere rimessa al giudice la scelta (così, Bianca, Diritto civile, op. cit., 555), a quest’ultimo verrebbe assegnato un potere probabilmente eccessivo. Il giudice triestino chiaramente aderisce alla lettura che intravede tra le due responsabilità un concorso di azioni (analogamente, Scognamiglio, Responsabilità contrattale ed extracontrattuale, cit., 678 s., e Toscano, Concorso di norme o concorso di azioni?, nota a Trib. di Catania 29 febbraio 1980, in Giust. civ., 1980, I, 2814 ss.), rispetto a cui si potrebbe avere anche un cumulo condizionale di domande (amplius sull’argomento, passim, Consolo, Il cumulo condizionale di domande, voll. I e II, Padova, 1985). Sebbene non sia da dimenticare che altra dottrina (De Cupis, Dei fatti illeciti, in Commentario del Codice civile, a cura di A. Scialoja e G. Branca,

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Libro quarto: delle obbligazioni, Bologna-Roma, 1971, 42, e Id, Il danno. Teoria generale della responsabilità civile, I, Milano, 1979, 116) ritiene invece esistente un mero concorso di norme (cfr. anche Cass. 5 ottobre 1994, n. 8090, in Danno e resp., 1996, 614 ss., con commento di Simone, Concorso di responsabilità: a proposito di un ritorno alla tipicità dei fatti illeciti), a fronte del quale sarebbe addirittura possibile non solo la modifica successiva della domanda, ma addirittura una pronuncia del giudice in applicazione di una norma diversa da quella invocata dalla parte. Tuttavia, è da tener presente che tra i due orientamenti è il primo a prevalere (sul divieto di mutatio libelli, vedi infatti Cass. 8 giugno 2018, n. 14910, in Guida al diritto, 2018, Cass. 19 settembre 2016, n. 18299, in Giust. civ. Mass., 2016, Cass. 10 maggio 2013, n. 11118, in Giust. civ. Mass., 2013, e Cass. 14 febbraio 2001, n. 2080, in Nuova giur. civ. comm., 2002, I, 311 ss., con nota di Solinas, Il divieto dei nova in appello e sua applicazione in materia di risarcimento danni).


GIURISPRUDENZA CIVILE Ed ancor più manifesto sarebbe l’errore, dal momento che si tratterebbe di allestire una tutela reale, rectius costitutiva, che non essendo contemplata da alcuna legge si porrebbe in insanabile attrito con l’art. 2908 c.c. Ogni giudice chiamato a decidere sulle domande di riattivazione dei profili social potrà ponderare come meglio ritiene i valori costituzionali in conflitto, ma fin quando il diritto positivo non riconoscerà all’utente una tutela di tipo manutentivo-ripristinatorio, la tipicità dell’azione costitutiva osterà sempre all’accoglimento dell’istanza. Diverso se si dicesse che l’obbligo di Facebook non è nel dover ripristinare il contratto sciolto, bensì nel doverne stipulare uno nuovo a garanzia dei diritti costituzionali emergenti in rete, applicando l’art. 2058 c.c. (11). Nel qual caso, però, sarebbe come dichiarare che l’autonomia privata del provider è preminente nella decisione di sciogliere il contratto ma soccombente nella decisione di stipularlo. Da entrambe le prospettive la si guardi, quindi, riteniamo che la tesi avanzata dal giudice della cautela sia irricevibile.

3. Sulla restituzione dei dati personali

Benché l’esercizio del recesso non legittimi la pretesa di restituzione delle prestazioni già eseguite (art. 1373, comma 2, c.c.), l’ordinanza ha accolto la richiesta di intimare a Facebook la restituzione alla FNAI e ai due ricorrenti i contenuti dei rispettivi profili, motivando tanto sulla scorta delle condizioni contrattuali incise nel modulo di adesione al social network, quanto sull’assunto per cui si tratterebbe di un «effetto conseguente allo scioglimento del vincolo».

nel momento in cui bisogna considerare l’applicabilità della eventuale clausola di scelta del foro.  (11) E così dotando l’utente di un’azione di condanna, non di un’azione costitutiva, come invece afferma il giudice dell’ordinanza in commento, appurato che la tutela costitutiva non solo sconterebbe del pari i menzionati limiti derivanti dalla carenza di tipicità, ma legittimi sarebbero pure i dubbi (evocati peraltro dal giudice triestino) sulla possibilità di anticiparla in sede cautelare. A quest’ultimo proposito, è soprattutto nelle cause di lavoro (in special modo per le domande di riassunzione successive al licenziamento) che la giurisprudenza di merito appare più disinvolta nella concessione della tutela costitutiva ex art. 700 c.p.c. (tra le altre, Pretura di Torino, sez. Chivasso, 18 maggio 1999, in Guida al lavoro, 2000, fasc. 2, 32 s., Tribunale di Modena, sez. lavoro, 9 gennaio 2006, in banca dati dejure, Tribunale di Nola, sez. lavoro, 28 dicembre 2011, ined., Tribunale di Napoli, sez. lavoro, 10 settembre 2014, ined.). Talora, servendosi dell’artificio insito nell’ammettere il rimedio d’urgenza ove il lavoratore abbia chiesto non già la costituzione del rapporto di lavoro, bensì la condanna alla riassunzione (così, Tribunale di Napoli, sez. lavoro, 25 maggio 2015, ined.; confermata, in parte qua, dal giudice del reclamo, Tribunale di Napoli, sez. lavoro, 28 luglio 2015, ined.). Sull’argomento, cfr. Zumpano, Tutela di urgenza e rapporto di lavoro, in Riv. dir. proc., 1989, 831 ss.

Il punto merita di essere approfondito poiché, al netto della correttezza o meno della conclusione raggiunta, parrebbe configurarsi un possibile contrasto tra la disciplina di diritto comune e il dettato del Regolamento UE 2016/679. Il codice civile, infatti, esclude che nei contratti a esecuzione continuata il recesso possa avere effetti retroattivi (art. 1373, comma 2) (12), e se pertanto riteniamo che la controprestazione dovuta dall’utente consista nella cessione dei propri dati personali (come si evince dalla supra citata direttiva 2019/770), non si comprende – all’apparenza – perché il soggetto receduto debba vedersi restituito quanto reso, peraltro in scia ad un recesso che – per quanto ciò possa rilevare, stante la decisione risoltasi in rito – è stato comunque giudicato non abusivo in virtù del chiaro contenuto fascista delle pubblicazioni ablate. Il giudice si è appellato alle condizioni contrattuali poste da Facebook, riprodotte in nota all’ordinanza, laddove è scritto che l’utente «può scaricare una copia dei propri dati in qualsiasi momento prima di eliminare il suo account». Orbene, di là dal constatare una certa equivocità nelle parole utilizzate nel prontuario, parole che parrebbero voler assicurare all’utente non tanto la restituzione dei dati quanto la garanzia di ottenere una semplice copia utile per un riuso delle informazioni (magari anche in funzione probatoria), sovviene piuttosto il dubbio sul perché il giudice non abbia evocato l’art. 20 Reg. UE 2016/679. Per la verità, non è chiaro se l’ordinanza intendesse riconoscere una forma di oblio (il che appare paradossale se solo si pensa al tenore dell’istanza avanzata dai ricorrenti), oppure – più verosimilmente – se volesse tutelare il diritto alla c.d. portabilità dei dati. Tale essendo l’interpretazione più convincente, è la disposizione di cui all’art. 20 Reg. 2016/679 che riconosce il diritto del soggetto interessato a ricevere indietro i dati forniti al titolare del trattamento, anche al fine di disporne a vantaggio di un altro soggetto titolare del trattamento (13).

(12) La società resistente aveva sostenuto che lo scioglimento del rapporto fosse una conseguenza dell’attivazione delle clausole risolutive espresse, previste nel contratto per il caso di violazione dei cc.dd. “Standards della community”. Il giudice ha però diversamente interpretato la fattispecie, affermando che ai fini della clausola risolutiva espressa occorre un inadempimento in senso tecnico, presupposto che – pur pacifica la rilevanza giuridica del comportamento dell’utente rispetto all’interesse della controparte alla prosecuzione del rapporto – non si è ravvisato, giacché i fatti contestati non configurerebbero un vero e proprio inadempimento. Ai fini della restituzione dei dati all’utente, comunque sia, non cambia nulla, posto che anche l’art. 1458, comma 1, c.c. esclude la retroattività degli effetti per i contratti a esecuzione continuata.  (13) Vedi funditus Giorgianni, Il «nuovo» diritto alla portabilità dei dati personali. Profili di diritto comparato, in Contratto e impresa, 2019, 1387 ss., spec. 1396 ss., che qualifica questo come un diritto dinamico di controllo, e Catalano, Il diritto alla portabilità dei dati tra interessi individuali e

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GIURISPRUDENZA CIVILE La stessa direttiva 2019/770, all’art. 16, comma 2, conferma del resto che in caso di scioglimento del contratto «[p]er quanto riguarda i dati personali del consumatore, l’operatore economico rispetta gli obblighi applicabili a norma del regolamento (UE) 2016/679» (14). Sarebbe stato quindi più confacente un rinvio al regolamento sulla privacy, viepiù in funzione di disapplicazione dell’art. 1373, comma 2, c.c., che non il richiamo alle ambigue condizioni contrattuali.

4. Le prospettive future e le perplessità attuali

Certo è che quando sono in gioco diritti costituzionali di prim’ordine, il giungere ad un rigetto in rito per ragioni neppure eludibili mediante una diversa impostazione del ricorso, risulta inappagante agli occhi di coloro che dal potere giudiziario attendono pronunciamenti meritali rispetto a quel mondo parallelo ed invasivo che i social ormai rappresentano in tanti ambiti della nostra quotidianità. Ma come si potrebbe aggirare l’ostacolo di una tutela processuale inattivabile, allorquando un diritto alla reintegrazione dell’account giammai potrà esistere se si principia dal postulato della autonomia privata, di cui il recesso è espressione insopprimibile negli effetti? La de-giurisdizionalizzazione dei processi di ponderazione dei valori costituzionali è una deriva pericolosa, tanto più se si lascia nelle mani dei giganti (stranieri, peraltro) del web un potere così delicato. Paradossalmente, avvertita una certa ritrosia degli stessi providers a farsi guardiani della legalità, d’altronde non avendo essi interesse a comprimere gli spazi di espressione nell’agorà virtuale (perché consapevoli dell’importanza che la sregolatezza dei contenuti ha avuto nel decretarne il successo), un’alternativa potrebbe essere nell’incenti-

prospettiva concorrenziale, in Europa e dir. priv., 2019, 833 ss., per uno studio più connesso agli effetti di siffatto diritto sul mercato. Il Considerando 68 del regolamento lascia intendere la differenza tra il diritto alla portabilità e quello più radicale all’oblio in ciò che «tale diritto non dovrebbe pregiudicare il diritto dell’interessato di ottenere la cancellazione dei dati personali [..] e non dovrebbe segnatamente implicare la cancellazione dei dati personali riguardanti l’interessato forniti da quest’ultimo per l’esecuzione di un contratto, nella misura in cui e fintantoché i dati personali siano necessari all’esecuzione di tale contratto». Ed infatti, secondo le linee guida sull’art. 20 elaborate dal “Gruppo di lavoro articolo 29”, «the primary aim of data portability is to facilitate switching from one service provider to another, thus enhancing competition between services» (pag. 4).  (14) Rispetto alla bozza di questa direttiva, Catalano, Il diritto alla portabilità dei dati, cit., 864, asseriva che il diritto alla portabilità così come si andava configurando nella direttiva sarebbe stato diverso da quello del regolamento sulla privacy, sia per l’aspetto attinente alla comprensibilità di un novero di dati più ampio giacché inclusivo di tutti quelli forniti dall’utente, sia per la garanzia di una più radicale tutela che il Reg. 2016/679 assicurerebbe soltanto assieme al diritto all’oblio. La lettura così offerta è ovviamente non più proponibile, dal momento che il testo licenziato della direttiva – in punto di restituzione dei dati – realizza un totale rinvio al regolamento sulla privacy.

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vare il ruolo di controllo degli utenti, oggi relegati alla funzione di delatori. C’è tuttavia da prendere atto di come il legislatore europeo si sia recentemente mosso in tutt’altra direzione. Dapprima in Germania, dove è stata approvata una legge (chiamata Netzwerkdurchsetzungsgesetz, in breve NetzDG) che per ripulire il web dalle false notizie e dai contenuti di odio, dal 2018 prevede che ogni utente possa inviare segnalazioni ai social networks e che questi debbano entro 24 ore (o non più di una settimana, quando l’illegalità è meno ovvia) rimuovere il contenuto (§ 3). In caso di non adeguamento, l’ammenda (trattandosi di Ordnungswidrigkeit, un illecito amministrativo) può arrivare fino a 5 milioni di euro (§ 4, il cui comma 3 espressamente stabilisce che la sanzione opera anche quando la condotta illecita si è tenuta all’estero). Ma ancor più si è industriato il parlamento francese (15), che il 13 maggio 2020, al termine di un iter travagliato, ha approvato la Loi contre la haine en ligne, n. 419/20 (nota altrimenti come loi Avia, dal cognome della deputata che ha presentato il progetto). Si prevedeva che dalla sua entrata in vigore, i gestori delle grandi piattaforme social, dei motori di ricerca o dei siti che raccolgono una grande porzione di internauti, avrebbero dovuto rimuovere entro 24 ore e su istanza di qualsiasi utilisateur tutti i contenuti segnalati per odio e ingiuria (addirittura entro 1 ora laddove il contenuto avesse avuto una matrice terroristica o pedopornografica). In ogni ipotesi non era richiesto l’intervento del giudice, nonostante le sanzioni previste fossero altissime: di base 250.000 euro, ma con la possibilità di arrivare fino al 4% del fatturato globale della società entro un plafond di 20 milioni di euro. Sarebbe stata una naturale conseguenza di questa discutibile legge la predisposizione, da parte degli operatori interessati, di algoritmi in grado meccanicamente (con le molte imperfezioni pronosticabili) di rimuovere i contenuti additati. Il timore di sanzioni così severe avrebbe portato verosimilmente ad accogliere quasi sempre le segnalazioni, ed il tutto senza le tradizionali garanzie processuali di indipendenza del giudicante (il quale terzo certo non è, agendo sotto minaccia di sanzione anche penale) e di contraddittorio (né avrebbe senso in questi casi parlare di violazione del giusto processo, ché ingiusto non può essere ciò che non c’è). Oltre al dato della de-giurisdizionalizzazione dell’ordine ingiuntivo alla rimozione e a quello ancora più inquietante della futura automatizzazione dei procedimenti (16),  (15) Leggi Woitier-Guichard, La loi contre la haine en ligne adoptée sans enthousiasme, in Le Figaro, 13 maggio 2020, online.  (16) Tra le letture consigliate sull’argomento, segnaliamo principalmente, Carratta, Decisione robotica e valori del processo, in Riv. dir. proc., 2020, 491 ss., Battelli, Giustizia predittiva, decisione robotica e ruolo del giudice, in


GIURISPRUDENZA CIVILE affiora altresì l’eterogeneità di contenuti elencati dalla legge: dalla diffamazione al terrorismo, dal non meglio precisato contenuto di odio alla pedopornografia e l’antisemitismo. Insomma, un pot-pourri che sotto l’egida del materiale sconveniente faceva confluire nelle mani dell’utente un potere davvero eccessivo, che se non ben controbilanciato nella pur prevista fase successiva di intervento dell’autorità pubblica (al momento dell’emanazione della sanzione da parte del Conseil supérieur de l’audiovisuel) rischiava di compromettere la libertà di espressione sul web (17). Ad ogni modo, in sede di controllo preventivo di costituzionalità – dopo poco più di un mese dall’approvazione del testo – il Consiglio costituzionale ha dichiarato illegittima la legge, censurando l’inopportunità dei termini di rimozione e la compressione della libertà di espressione e comunicazione attraverso mezzi sproporzionatamente severi (18). Resta come monito l’approvazione di una riforma a tal punto criticabile, non potendosi escludere che prossimamente altri legislatori nazionali seguano un analogo itinerario riformatore. Probabilmente non in Italia, dove per quanto la sregolatezza dei contenuti pubblicati in rete sia da un po’ di tempo all’attenzione del dibattito politico (19), non è in cantiere un progetto simile. Il diritto alla cancellazione è oggi direttamente disciplinato dall’art. 17 Reg. UE 2016/679, ove si prevede che la richiesta vada indirizzata allo stesso titolare del trattamento (come già accadeva precedentemente, in vigore gli artt. 7-8 d.lgs. 196/03), il quale deve evadere la pratica (c.d. notice-and-take-down) «senza ingiustificato ritardo» (20).

Giust. civ., 2020, 280 ss., Gabellini, La «comodità nel giudicare»: la decisione robotica, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2019, 1305 ss., Barbaro, Uso dell’intelligenza artificiale nei sistemi giudiziari: verso al definizione di principi etici condivisi a livello europeo?, in Questione Giustizia, fasc. 4, 2018, 189 ss., e Sela, The Effect of Online Technologies on Dispute Resolution System Design: Antecedents, Current Trends and Future Directions, in Lewis & Clark Law Review, vol. 21, 2017, 634 ss.  (17) L’iniziativa del legislatore francese ha infatti attirato il biasimo di numerose associazioni di categoria, ordini professionali, etc. Anche la Commissione europea si era detta avversa a che si approvasse l’originario progetto di legge, poi solo in piccola parte emendato.  (18) Vedi Kovacs, Le Conseil constitutionnel censure la loi Avia contre le «haine» en ligne, in Le Figaro, 18 giugno 2020, online. Il 24 giugno, il Presidente della Repubblica francese ha promulgato la legge depurata dai contenuti illegittimi, sì che dell’originario testo rimane ben poco (ad es., la creazione di un osservatorio sull’odio online o la semplificazione di alcune procedure di segnalazione e di rimozione).  (19) Da una prospettiva di diritto pubblico, guarda Abbondante, Il ruolo dei social network nella lotta all’hate speech: un’analisi comparata fra l’esperienza statunitense e quella europea, in Informatica e diritto, 2017, fasc. 1-2, 41 ss.  (20) Nonostante la considerevole mole di domande. Secondo il sito reputationup.com, soltanto Google avrebbe ricevuto dal 2014 circa 3 milioni e mezzo di richieste di deindicizzazione.

Tale normativa non si estende ai contenuti che esulano dalla nozione di dati personali prevista all’art. 4 del Regolamento (ad esempio, un messaggio di odio non corredato da informazioni sulla persona perché genericamente rivolto ad un gruppo di individui), al che, fuoriuscendo dal perimetro della privacy, non esiste una norma che regoli la rimozione dei singoli contenuti o la cancellazione della pagina. Peraltro, mentre l’obliterazione del profilo o della pagina può almeno avere un inquadramento giuridico nella disciplina comune del recesso, non è invece chiaro se a fronte della rimozione di un singolo post o della disattivazione solo temporanea del profilo (21), l’utente possa lamentare l’inadempimento contrattuale e far ricorso alla tutela giudiziale. Semmai il legislatore decidesse di colmare l’attuale vuoto di disciplina rispetto al contenzioso non nascente dalla violazione dei dati personali, auspicabile è che si integrino gli strumenti di tutela collettiva, attribuendo al giudice civile – in raccordo con l’art. 840 sexiesdecies c.p.c., e dunque in camera di consiglio e con la possibile partecipazione del pubblico ministero – il potere di emanazione di un decreto motivato (22). Ad eccezione dei casi in cui la manifesta inopportunità di una pubblicazione renda ragionevole la condotta del provider che proceda senza indugio alla cancellazione/ disattivazione, sarebbe comunque determinante, nei casi in cui l’inopportunità del messaggio risulti invece opinabile, lasciare l’iniziativa giudiziale agli utenti. Perché così, ponendo la piattaforma social nel ruolo di contraddittore non (già) recedente dal contratto col soggetto che ha pubblicato i contenuti controversi, la domanda non potrebbe essere preclusa in rito, e una volta accertata la preminenza di un diritto costituzionale su di un altro, starebbe poi al provider – nel caso di condanna – l’esercizio del recesso sotto minaccia di astreinte.

(21) Sulla disattivazione temporanea, segnatamente, Stella, Disattivazione ad nutum del profilo Facebook, cit., 291.  (22) Il rischio di un sovraccarico di lavoro per i giudici non dovrebbe esservi, dal momento che resterebbe comunque ferma la procedura che ciascuno già può avviare in via extra-giudiziale. L’intervento giurisdizionale andrebbe dunque, da un lato, ad operare per il cittadino come garanzia pubblica di pronto intervento, ma dall’altro farebbe comodo soprattutto agli operatori della rete, sollevandoli da una responsabilità cui in genere fanno fronte con relativo ritardo. Invero, in Italia si ha memoria di un unico progetto di legge, presentato alla Camera dei Deputati (n. 2455/09), che prevedeva il diritto alla rimozione dai siti Internet una volta trascorso un lasso di tempo più o meno lungo, a favore delle sole persone indagate o imputate in un processo penale. Il tema sembra essere oggi trascurato dalle forze politiche, non potendosi certo ritenere pienamente appagante l’approvazione del c.d. codice rosso (l. 69/09), se non altro per l’area circoscritta d’intervento in cui tale legge detta disciplina.

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GIURISPRUDENZA CIVILE

La qualificazione del rapporto di lavoro svolto tramite piattaforma digitale Tribunale

di

P alermo; sezione lavoro; sentenza 24 novembre 2020, n. 3570; Giud. Paola Marino

Al di là dell’apparente e dichiarata (in contratto) libertà del rider di scegliere i tempi di lavoro e se rendere o meno la prestazione, l’organizzazione del lavoro operata in modo esclusivo dalla parte convenuta sulla piattaforma digitale nella propria disponibilità si traduce, oltre che nell’integrazione del presupposto della eteroorganizzazione, anche nella messa a disposizione del datore di lavoro da parte del lavoratore delle proprie energie lavorative per consistenti periodi temporali (peraltro non retribuiti) e nell’esercizio da parte della convenuta di poteri di direzione e controllo, oltre che di natura latamente disciplinare, che costituiscono elementi costitutivi della fattispecie del lavoro subordinato ex art. 2094 c.c.

…Omissis…

FATTO E DIRITTO

…Omissis… Nella specie, sulla scorta della sopra esposta ricostruzione del rapporto e delle sue modalità di svolgimento, documentali e sulle quali peraltro le parti in larga parte concordano, risulta provato che il ricorrente nell’anno 2019 ha lavorato sostanzialmente tutti i giorni (salvi periodi di distacco o di mancata assegnazione di ordini che egli aveva lamentato e che parte convenuta attribuisce a non meglio precisata responsabilità del lavoratore) per un numero di ore (esclusivamente di consegna e ad esclusione dei tempi di attesa) mai inferiore a quattro, spesso vicino a otto ore e in alcune giornate (36 calcola la convenuta) superiore a otto ore, mentre nel 2018, nei primi mesi del rapporto, aveva lavorato pure in modo continuativo, quasi tutti i giorni, con orario inferiore a quattro ore al giorno (come connaturato al sistema che seleziona di norma per ultimi i collaboratori senza anzianità per la prenotazione degli slot). Osserva, quindi, il giudicante che, tenuto conto della qualità sopra ritenuta di imprenditore del settore trasporti, logistica e distribuzione della convenuta in relazione alla piattaforma mediante la quale il lavoro del ricorrente era prestato ed organizzato, peraltro unicamente dalla società nell’interesse esclusivamente proprio, detta modalità di prestazione quantitativa e prolungata nel tempo, dal 5.10.2018 al 3 marzo 2020, non può che condurre a ritenere che si tratti di una collaborazione di natura continuativa, non invece occasionale né costituita dall’insieme di singoli innumerevoli contratti, come dedotto dalla società convenuta. Pacificamente, poi, il lavoro del ricorrente veniva gestito e organizzato dalla piattaforma (come detto organizzata unicamente da parte datoriale e nel proprio esclusivo interesse), nel senso che solo accedendo alla medesima e sottostando alle sue regole il ricorrente poteva svolgere le prestazioni di lavoro, così come è pacifico che egli non

ha più né avrebbe in alcun modo più potuto svolgere nessuna prestazione lavorativa dalla data del distacco subito dalla piattaforma stessa il 3.03.2020 e sino al giudizio (o almeno sino al 12.06.2020, quando la piattaforma venne per lui riattivata dalla convenuta, senza tuttavia riceverne alcuna comunicazione). Dallo stesso contenuto della memoria di costituzione, del resto, si evince che il ricorrente mal sopportava tale sua totale dipendenza dalla connessione alla piattaforma, tanto da scrivere sulla chat in modo scurrile e irriverente (doc. n. 16 della convenuta), e da dare in escandescenze quando, il 24.02.2020, veniva informato dalla responsabile inviata dalla convenuta a Palermo, signora P., che il distacco subito nel precedente mese di gennaio era a lui imputabile, per non meglio precisate ragioni, e che non aveva diritto ad alcun risarcimento. Del pari, è documentale il tenore dei messaggi sempre più spazientiti che il ricorrente inviava per mail al datore di lavoro per sapere la ragione per cui non veniva contattato per la riattivazione del sistema (come gli veniva promesso dal risponditore automatico quando egli vi accedeva dopo aver comunicato il versamento del contante richiestogli e che aveva determinato il distacco del 3.03.2020) e per lamentare la mancanza del promesso contatto, anche con parole scurrili, come dedotto dalla convenuta e desumibile dal testo di un paio di messaggi, in atti. Risulta, altresì documentale e pacifico, che l’assegnazione della consegna ai rider in genere e al ricorrente in particolare avveniva e avviene da parte della piattaforma sulla scorta di un algoritmo, che valuta la posizione del rider rispetto al ristorante e/o al luogo di consegna, al fine di rendere il più veloce ed efficiente possibile il servizio di consegna. D’altra parte, in fase di prenotazione degli slot (turni di consegna), il rider pure viene selezionato dall’algoritmo, sulla scorta del punteggio posseduto, in guisa che egli di fatto può prenotare il turno che preferisce sulla scorta delle proprie esigenze (personali, di famiglia, di maggiore redditività della consegna ecc.) solo ove pos-

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GIURISPRUDENZA CIVILE segga un punteggio più elevato di quello degli altri rider della medesima città, poiché la finestra di prenotazione si apre per lui due volte a settimana (lunedì e giovedì) solo dopo che esso è stato aperto per i rider che hanno un punteggio superiore al suo: tanto più basso è il punteggio del rider e tanto più è probabile che egli, al momento dell’apertura sul suo profilo della piattaforma delle prenotazioni degli slot, trovi i turni migliori o a lui più graditi già tutti prenotati dai colleghi che hanno un punteggio più alto dei suo, sul cui profilo i medesimi vengono aperti prima e quindi da loro prenotati. Osserva il giudicante che questo fatto accertato comporta, da un lato, che la prestazione dei rider e del ricorrente in particolare risulta completamente organizzata dall’esterno (eteroorganizzata), e, d’altra parte, che la libertà del rider, segnatamente del ricorrente, di scegliere se e quando lavorare, su cui si fonda la natura autonoma della prestazione (anche sulla scorta della citata decisione della Corte di Giustizia), non è reale, ma solo apparente e fittizia, poiché, a tutto concedere, il lavoratore può scegliere di prenotarsi per i turni che la piattaforma (e quindi il datore di lavoro che ne è titolare o ne ha il controllo) mette a sua disposizione in ragione del suo punteggio. Egli, inoltre, per poter realmente svolgere la prestazione, deve essere loggato nel periodo di tempo che precede l’assegnazione della consegna, avere il cellulare carico in misura almeno pari al 20% e trovarsi nelle vicinanze del locale presso cui la merce dev’essere ritirata, poiché altrimenti l’algoritmo non lo selezionerà, benché egli avesse prenotato e non disdetto lo slot, con la conseguenza che, in verità, non è lui che sceglie quando lavorare o meno, poiché le consegne vengono assegnate dalla piattaforma tramite l’algoritmo, sulla scorta di criteri del tutto estranei alle preferenze e allo stesso generale interesse dal lavoratore (nel medesimo senso ha ritenuto la già citata sentenza della Suprema Corte spagnola, agli atti di parte ricorrente). La circostanza sopra evidenziata e pure documentale che i turni di prenotazione (slot) si aprono sull’app e possono essere prenotati dai lavoratori in ordine di punteggio dai medesimi posseduto e che il punteggio viene assegnato con i criteri sopra precisati e subisce riduzioni in ragione di condotte fra cui annoverare la “libera scelta” del lavoratore di rifiutare un turno prenotato (tanto più se in ritardo rispetto al termine di tre ore prima del suo inizio in cui il rifiuto può essere effettuato sull’app) – come emerge dai documenti in atti benché oggetto di contestazione meramente labiale da parte della società – porta, altresì, a ritenere che il rider, ed in particolare il ricorrente, sia in realtà sottoposto al potere disciplinare del datore di lavoro, oltre che al suo potere organizzativo e direttivo in relazione alla cennata serie ordinata di attività che egli è tenuto a svolgere sulla piattaforma per riuscire a svolgere l’attività lavorativa.

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Ed invero, la circostanza che il punteggio del rider aumenti in modo premiale – in relazione cioè allo svolgimento di attività in cd. alta domanda – del partner convenzionato (35% doc. 12 del ricorrente), all’efficienza del lavoratore (35% doc. 13 del ricorrente), al feedback dell’utente (15% doc. 14 del ricorrente), all’esperienza del lavoratore (10% doc.15 del ricorrente) e al feedback dei partner (5% doc 16 del ricorrente) – non toglie affatto che il suo mancato aumento o la sua riduzione (a causa di condotte che in sostanza corrispondono a una negativa valutazione nei predetti parametri) costituiscano delle vere e proprie sanzioni disciplinari atipiche, sanzionando in sostanza un rendimento del lavoratore inferiore alle sue potenzialità con una retrocessione nel punteggio e quindi nella possibilità di lavorare a condizioni migliori o più vantaggiose. Le modalità, poi, di assegnazione degli incarichi di consegna da parte dell’algoritmo (e quindi del datore di lavoro) costringono il lavoratore a essere a disposizione del datore di lavoro nel periodo di tempo antecedente l’assegnazione dello stesso, mediante la connessione all’app con il cellulare carico e la presenza fisica in luogo vicino quanto più possibile ai locali partner di parte datoriale, realizzando così una condotta tipica della subordinazione. In sostanza, quindi, al di là dell’apparente e dichiarata (in contratto) libertà del rider, e del ricorrente in particolare, di scegliere i tempi di lavoro e se rendere o meno la prestazione, l’organizzazione del lavoro operata in modo esclusivo dalla parte convenuta sulla piattaforma digitale nella propria disponibilità si traduce, oltre che nell’integrazione del presupposto della eteroorganizzazione, anche nella messa a disposizione del datore di lavoro da parte del lavoratore delle proprie energie lavorative per consistenti periodi temporali (peraltro non retribuiti) e nell’esercizio da parte della convenuta di poteri di direzione e controllo, oltre che di natura latamente disciplinare, che costituiscono elementi costitutivi della fattispecie del lavoro subordinato ex art. 2094 c.c.. Né può obiettarsi che dette modalità sono connaturate alla piattaforma e che pertanto non modificano la natura autonoma del rapporto lavorativo pattuita in contratto, perché la piattaforma non è un terzo, dovendosi con essa identificare il datore di lavoro che ne ha la disponibilità e che programma gli algoritmi – peraltro non esibiti in giudizio – che regolano l’organizzazione del lavoro con le modalità predette e di fatto sovrastano il lavoratore con il subdolo esercizio di un potere di totale controllo sul medesimo, ai fini dell’esecuzione della prestazione lavorativa. Pertanto, lo svolgimento della prestazione con le modalità suddette è connotata dalla subordinazione, sia ove considerata come doppia alienità – come definita la subordinazione dalla Consulta con la sentenza sopra citata -, sia ove considerata sulla scorta del paradigma della eterodirezione che l’art. 2094 c.c. aveva coniato per i rapporti di


GIURISPRUDENZA CIVILE lavoro tipici della prima Rivoluzione Industriale, nei quali la natura subordinata del rapporto così definita appare ben più immediatamente ed evidentemente percepibile, anche sulla scorta degli indici rivelatori studiati per detta tipologia di lavorazioni. Osserva il giudicante che, inoltre, nel corso del rapporto di lavoro del ricorrente, si sono verificati alcuni accadimenti che confermano la natura subordinata del suo rapporto di lavoro. Anzitutto, come accennato, il carattere continuativo con cui è stata di fatto resa la prestazione con un orario nell’ultimo anno in media analogo a quello ordinario di un rapporto subordinato con il CCNL Commercio Terziario, applicato dalla convenuta (come pacifico e riconosciuto all’odierna udienza, in cui veniva dalla stessa formulata proposta transattiva di assunzione con detto CCNL, applicato in azienda ad altri lavoratori addetti a diverse mansioni), di otto ore al giorno e 40 ore settimanali. In secondo luogo, le modalità con cui la prestazione è stata svolta, senza margini di autonomia rispetto alla piattaforma, che spesso creava al ricorrente problematiche che non era possibile risolvere neppure contattando la società con l’apposita chat dedicata (vedi anche il doc. n. 16 di parte convenuta), a mezzo della quale l’operatore in turno spesso non rispondeva ripetutamente alle domande del ricorrente, dicendogli che il proprio compito non era risolvere i suoi dubbi sul funzionamento del sistema, perché ciò non sarebbe stato funzionale al suo lavoro. Dai messaggi contenuti nel citato documento 16 di parte convenuta emerge che l’operatore in turno sulla chat evidenziava altresì che “il sistema fa tutto in automatico” e che assegna gli ordini pure in automatico, sicché in assenza di ordini nello slot prenotato dal ricorrente, egli poteva solo “cambiare zona e muoversi nell’area di servizio”. Il funzionamento del sistema della piattaforma, automatico – come ribadito nei messaggi della chat che dovrebbe dare supporto ai rider, prodotti dalla stessa convenuta,era organizzato in modo da non fornire risposte alle domande del ricorrente, che, dopo giorni di inattività per mancata assegnazione di ordini negli slot prenotati, per ragioni ignote, perdeva la pazienza ed inveiva al suo indirizzo e a quello dei suoi organizzatori (doc. 16 di parte convenuta), sentendosi del tutto impotente avverso l’ignota modalità di funzionamento della piattaforma medesima, esattamente come un operaio del secolo scorso rispetto alla modalità di funzionamento della catena di montaggio, sulla quale però verosimilmente il capo operaio poteva fornirgli spiegazioni in tempo reale. Le modalità di funzionamento della piattaforma – rimaste ignote al ricorrente nel corso del rapporto e anche nella presente causa, in cui non sono stati prodotti gli algoritmi che ne regolano aspetti essenziali, quali lo sblocco degli slot e l’assegnazione degli ordini – appaiono aver privato del tutto il ricorrente di qualsiasi possibilità di scegliere se e

quando lavorare: egli, infatti, pur avendo prenotato i relativi slot ed essendosi posizionato fisicamente in una zona nella quale insistono esercizi commerciali partner della convenuta, non riceveva ordini per molti giorni consecutivi, rimanendo tuttavia nelle giornate e orari dei predetti slot a disposizione della convenuta ed in attesa. Per alcune giornate, poi, il ricorrente subiva il distacco dell’account della piattaforma, ciò di cui chiedeva spiegazioni alla signora P. in occasione della sua presenza a Palermo, richiedendo di essere risarcito per il lavoro perso; la P., in occasione della successiva visita a Palermo, il 24.02.2020 rispondeva al ricorrente che i distacchi erano addebitabili a una sua non meglio precisata condotta, provocando nel T. uno scoppio d’ira e la minaccia di agire in giudizio. Nella specie, in ogni caso, secondo la stessa convenuta, il ricorrente era stato temporaneamente disconnesso in ragione di una sua condotta, subendo così una sanzione disciplinare atipica che comportava la sospensione dal lavoro, senza ricevere né una previa contestazione disciplinare e neppure una esauriente spiegazione postuma. Deve, quindi, concludersi che nella fattispecie il lavoratore è stato soggetto al potere direttivo e disciplinare del datore di lavoro. Ulteriore conferma della sottoposizione del ricorrente al potere direttivo e disciplinare del datore di lavoro si ottiene dalle circostanze del distacco del ricorrente dalla piattaforma, che egli ha impugnato quale licenziamento orale e comunque nullo, in quanto discriminatorio e ritorsivo. Risulta, infatti, provato e pacifico in causa che il ricorrente: – il 30 gennaio 2020, con l’assistenza del Sig. A.G., Segretario Generale dell’organizzazione sindacale Nidil Cgil di Palermo, incontrava la Glovo Specialist., Sig.ra P.P., alla quale lamentava i danni subiti in conseguenza delle disfunzioni del sistema cui si è più sopra accennato: il blocco ingiustificato del suo account per i giorni dal 23 al 26 gennaio 2020 – che gli aveva impedito di prenotarsi e di svolgere il lavoro – il fatto dal 29 aprile al 13 maggio 2019 era rimasto privo di ordini per due settimane consecutive; condotte per le quali richiedeva un risarcimento. Lamentava inoltre la mancata consegna di dispositivi di protezione individuale la cui mancanza era stata in precedenza oggetto di comunicati stampa da parte del segretario del Nidil di Palermo (doc. 39 allegato al ricorso). Al termine dell’incontro la sig.ra P. assicurava che avrebbe effettuato delle verifiche rispetto alle richieste del ricorrente; – in data 11 febbraio 2020, unitamente al Segretario Generale Nidil – Cgil e al Direttore Regionale dell’Inail della Sicilia, partecipava alla trasmissione televisiva “Cronache Siciliane”, trasmessa dall’emittente del Giornale di Sicilia, dedicata alle condizioni di lavoro dei rider di Palermo, ivi, presente con il suo portavivande in studio,

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GIURISPRUDENZA CIVILE denunciava sia la mancata consegna da parte della convenuta dei DPI che le precarie condizioni di lavoro nelle quali i rider sono costretti a operare (doc. 40 allegato al ricorso); – in data 24 febbraio 2020 sempre alla presenza del Segretario Generale Nidil Cgil di Palermo (doc. 41 allegato al ricorso), incontrava nuovamente, la Sig.ra P. – che gli riferiva che il blocco dell’account era da attribuire esclusivamente a sue inadempienze e che, pertanto, la società non riconosceva alcun risarcimento – e discuteva animatamente con la citata rappresentante della società, manifestando la propria volontà di agire in giudizio; – domenica 1 marzo 2020, effettuava, nel corso della giornata, numerose consegne accumulando un saldo cassa per un totale € 215,00, ritenendo di non dover versate l’eccedenza del saldo di cassa, in conseguenza di messaggio inviato dalla società a tutti i rider di Palermo, che veniva poi modificato dalla convenuta alle ore 21:30 della stessa domenica; – alle ore 3,31 del mattino del lunedì 2 marzo 2020 riceveva un messaggio della società convenuta con cui gli veniva comunicato che aveva – un valore troppo alto di saldo alla mano – e lo invitava ad effettuare un bonifico per motivi di sicurezza, entro le 24 ore dal ricevimento del messaggio, di € 170,00, onde evitare che il suo account venisse bloccato (doc 42 allegato al ricorso); – martedì 3 marzo 2020 alle ore 6,03 del mattino il ricorrente riceveva l’ultimo sms dalla società convenuta, con il quale veniva informato di essere stato sospeso per motivi di sicurezza, non avendo operato il versamento, e di essere quindi disconnesso (doc. 43 allegato al ricorso); – in data 3 marzo 2020 faceva alla società un bonifico di euro 100,00, e il 4 marzo 2020 un secondo bonifico di euro 200,00 (doc. 44 allegato al ricorso); – poiché il suo account non veniva riattivato dopo i bonifici, come previsto dalle regole della piattaforma (doc 46 allegato al ricorso), sollecitava più volte la riattivazione dell’account scrivendo all’indirizzo di posta elettronica glovers@glovoapp.com – usualmente utilizzato per comunicare con gli operatori messi a disposizione della piattaforma Glovo per l’assistenza ai corrieri – ma riceveva esclusivamente risposte automatiche nelle quali veniva informato che sarebbe stato ricontattato al più presto (cfr. doc 47, 48, 49 allegati al ricorso); – impugnava quindi la cessazione del rapporto con comunicazione del 28 aprile 2020 in allegato a pec del difensore del 30.04.2020 (doc. 50 allegato al ricorso); – il 13.05.2020 chiedeva alla società, ai sensi del Regolamento UE 679/2016, di acquisire informazioni essenziali per la tutela dei propri diritti e in particolare di conoscere l’esistenza di un trattamento di dati che ha determinato la decisione di disconnettere il suo account e di non riconnetterlo dopo la richiesta (doc. 51 allegato al ricorso);

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– in data 13 giugno 2020 riceveva riscontro a detta istanza dalla società, che tuttavia non forniva risposta alle domande relative al distacco dell’account ritenendo che fossero estranee al trattamento di dati personali (doc. 38 allegato al ricorso), sì da determinarlo a proporre reclamo innanzi all’Autorità Garante per il Trattamento dei Dati personali; – in data 29.07.2020 depositava il presente ricorso per impugnativa di licenziamento e pagamento di differenze retributive; – in data 12.08.2020 il suo procuratore avv. G.L.M. – cui aveva dato mandato ai fini dell’impugnativa di licenziamento e delle altre richieste inviate alla società con la nota del 28.04.2020 (pec 30.04.2020) – riceveva pec dall’avv. , con allegata missiva datata 31.07.2020, con cui, in nome e per conto della società, veniva dato come di seguito riscontro alla predetta impugnativa: “Gentile collega, ho ricevuto incarico dalla Società indicata in oggetto di riscontrare la Sua dello scorso 30 aprile per contestarne integralmente il contenuto. Anzitutto il sig. T. non ha mai svolto prestazioni di lavoro subordinato per la mia assistita, posto che il rapporto in essere si è svolto con piena libertà di entrambe le parti di assegnare incarichi di consegna, sulla base della disponibilità liberamente comunicata dal Suo assistito e di accettare i suddetti incarichi. In nessun caso, poi, il sig. T. ha svolto prestazioni di consegna per “almeno 60 ore settimanali.” Quanto al blocco dell’account, premesso che la mia assistita non ha alcun obbligo di assegnare incarichi di consegna ai prestatori d’opera occasionale (sicché non ha alcun senso discorrere di cessazione del rapporto di lavoro e tantomeno di licenziamento), come il sig. T. ben sa questo è avvenuto automaticamente per effetto del mancato tempestivo bonifico delle somme trattenute. Successivamente alla verifiche effettuate, il sig. T. è stato riattivato.” Osserva il giudicante che la esposta ricostruzione dei fatti non è oggetto di contestazione tra le parti e che la società convenuta ha attribuito il prolungamento del distacco dell’account a un non meglio precisato errore del sistema, chiedendo di dimostrare che la signora P. e il suo collega non avevano riferito ai vertici societari della partecipazione del ricorrente alla trasmissione televisiva Cronache Siciliane, in cui rivendicava maggiori garanzie per il lavoro dei rider. Orbene, la ricostruzione della società, oltre che priva di riscontro probatorio (la prova richiesta con la sig. P. e altro dipendente sociale non è stata ammessa, non potendosi con essa dimostrare che in presenza degli attuali mezzi tecnologici la società non fosse venuta comunque a conoscenza del contenuto di una trasmissione televisiva sui riders), appare inverosimile. Ed invero, risulta provato che il ricorrente avesse trasmesso, con le modalità richieste dalla convenuta e regolamen-


GIURISPRUDENZA CIVILE tate sulla piattaforma Glovo, i bonifici delle somme richieste, relative al saldo di cassa, senza che il suo account venisse riattivato, come invece previsto dalle regole della piattaforma medesima, ma anche che il ricorrente avesse inviato diverse e-mail (4, 7 e 9 marzo 2020) rappresentando di non essere stato riconnesso, senza ricevere alcuna risposta, nonché, successivamente, lettera di impugnativa del licenziamento, ricevuta dalla società pacificamente in allegato a pec dell’avv. L.M. del 30.04.2020 (riscontrata con pec dall’avv. solo il 12.08.2020) e richiesta di informazioni sul trattamento dei dati personali del 13.05.2020, ricevendo risposta il 13.06.2020 senza alcuna indicazione in merito al distacco dell’account. Ove, infatti, si fosse trattato di un mero errore, la società avrebbe avuto modo di avvedersene immediatamente e avrebbe subito riattivato l’account del ricorrente, invece risulta che l’account sia stato riattivato dalla società solo il 12.06.2020, dopo quasi un mese e mezzo dalla ricezione dell’impugnativa di licenziamento e dopo tre mesi da quella delle citate e-mail, giusto il giorno precedente all’ultimo utile per fornire risposta in relazione alla richiesta sul trattamento dei dati personali, senza peraltro darne alcuna comunicazione al ricorrente se non dopo il ricorso introduttivo del presente giudizio, con il laconico “il sig. T. risulta riattivato. contenuto nella missiva allegata alla pec dell’avv. del 12.08.2020 all’avv. L.M. – privo di alcuna indicazione della data in cui la riattivazione sarebbe avvenuta – e poi con la memoria di costituzione nel presente giudizio. Poiché è stato accertato in modo pacifico che quella indicata è la ricostruzione dei fatti come accaduti, non può pertanto ritenersi verosimile la deduzione della società in merito ad un non meglio precisato né documentato errore tecnico relativo alla mancata riattivazione dell’account del ricorrente, dovendosi di conseguenza ritenere al contrario verosimile che, se non il distacco, certamente la mancata riattivazione dell’account del T. sia riconducibile alla volontà della società di reagire in tal modo alle provate rivendicazioni di natura sindacale operate dal ricorrente, accompagnato dal proprio rappresentante sindacale, sia in due occasioni di incontro con il Glover Specialist, che mediante la partecipazione a una trasmissione televisiva, nel mese di febbraio 2020 (l’ultima il 24.02.2020), immediatamente antecedente il distacco del ricorrente in data 3.03.2020 e la sua omessa riconnessione il 4.03.2020. La sequenza temporale dei fatti – contrariamente a quanto asserito dalla convenuta – è tanto diretta ed immediata da portare a ritenere assai verosimile l’intento punitivo datoriale. Il convincimento del giudice sul punto, del resto, non può che essere rafforzato dalle deduzioni della società in merito a una condotta offensiva posta in essere dal ricorrente, sia tramite le comunicazioni all’indirizzo della so-

cietà (doc. n. 16), che a voce all’indirizzo della dipendente societaria signora P. nell’ultima della occasioni appena citate (24.02.2020): questa, infatti, avrebbe forse potuto giustificare una contestazione disciplinare da parte della società, che tuttavia non vi è stata e che avrebbe obbligato la convenuta a dar prova della giusta causa di licenziamento (non fornita), essendosi al contrario la convenuta limitata a impedire al ricorrente qualsiasi possibilità di svolgimento della prestazione lavorativa, mediante la disconnessione e l’omessa riconnessione del suo account. Infatti, in mancanza di prova della causale dedotta dal datore di lavoro a fondamento del licenziamento, deve ritenersi provata l’unicità del motivo di ritorsione dedotto e provato dal lavoratore, come nel caso di specie. Per tutte le argomentazioni sopra esposte, deve, quindi, anzitutto dichiararsi che tra le parti intercorre un rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato, con mansioni di ciclofattorino di cui al VI livello del CCNL Terziario, Distribuzione e servizi pacificamente applicato dalla convenuta ai propri dipendenti, dal 5.10.2018, come in parte dispositiva. Qualificato, così, il rapporto di lavoro come rapporto di lavoro subordinato, per tutte le ragioni sopra evidenziate, ivi compresa quella consistente nell’esercizio del potere latamente disciplinare esercitato dal datore di lavoro mediante ripetuti distacchi dalla piattaforma, omissione di ordini per periodi prolungati negli orari degli slot prenotati e definitivo distacco dell’account, quest’ultima condotta non può che qualificarsi come licenziamento, attesa la pacifica impossibilità per il ricorrente di rendere la prestazione lavorativa al di fuori della piattaforma. Detto licenziamento, del resto, pur dovendosi verosimilmente addebitare esclusivamente a motivo ritorsivo, come detto, è stato intimato in forma orale, inidonea a produrre la risoluzione del rapporto. Ed invero, nessuna comunicazione in alcuna forma è mai pervenuta al ricorrente dell’intenzione della società di procedere al distacco del suo account, sicché appare ozioso interrogarsi se la comunicazione pervenuta al ricorrente a mezzo della chat del 3.03.2020 alle ore 6:03 A.M. “Il tuo account Glovo è stato messo in pausa per motivi di sicurezza perché non hai effettuato un deposito per ridurre il saldo alla mano., sia o meno una comunicazione caratterizzata dalla necessaria forma scritta, poiché in ogni caso da essa non si desume in alcun modo la volontà datoriale di recedere dal rapporto di lavoro con il ricorrente, ma solo di sospenderlo in modo temporaneo, soprattutto se essa viene messa in relazione con la precedente comunicazione del 2.03.2020 alle ore 3:31 AM, del seguente contenuto: “Hai un valore troppo alto di Saldo alla mano. Per sicurezza deposita 170.00 euro entro 24 ore, altrimenti dovremo mettere in pausa il tuo account Glovo. Dettagli: IBAN: IT62R0326801604052173090121 oppure IT85Q0326801604052173090120 intestato a:

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GIURISPRUDENZA CIVILE F. SRL Causale 6631 0708 Deposito in contanti. Per maggiori informazioni consulta Web of Glovers: https// bit.ly/glovo_3a6JoQs Compila il seguente questionario dopo aver fatto il bonificohttp://bit.ly/glovo cash-it.” Tanto chiarito, nella specie, il licenziamento del ricorrente è stato intimato per fatti concludenti, consistenti nella mancata riattivazione del suo account non appena egli comunicò nelle forme richieste i bonifici effettuati sull’IBAN della società sopra indicato, secondo le regole contrattuali indicate dalla piattaforma in generale e al ricorrente in particolare con la citata chat del 2.03.2020. Pertanto esso non può che qualificarsi come licenziamento orale, avverso il quale non vi era alcun onere di impugnativa: esso risulta infatti paragonabile a quello, indubbiamente orale, che venisse intimato a un lavoratore subordinato che fosse stato sospeso dal servizio o fosse in aspettativa per qualsivoglia ragione e a cui venga al rientro in servizio fisicamente impedito l’ingresso sul luogo di lavoro (ad esempio cambiando la serratura del suo ingresso, le cui chiavi erano in possesso del lavoratore), senza l’invio di una comunicazione di licenziamento in forma scritta. Del resto, ove così non fosse, l’eccezione di tardività dell’impugnativa di licenziamento appare infondata. Ed invero, da un lato, la pec dell’avv. L.M. con allegata l’impugnativa sottoscritta dal ricorrente (come egli ha dedotto e come parte datoriale non ha sconfessato tramite la produzione dell’allegato pervenutole privo di sottoscrizione), pur senza l’autenticazione notarile della stessa, venne inviata il 30.04.2020, in periodo di lockdown, in presenza di una normativa ampiamente derogatoria delle regole generali in tema di consegna della corrispondenza, anche a mezzo di posta raccomandata, al fine di prevenire ed evitare il diffondersi del contagio da COVID 19, e che consentiva la trasmissione della medesima a mezzo pec anche in deroga alle regole ordinarie, il cui rigido rispetto avrebbe, del resto, prodotto la violazione del diritto di difesa costituzionalmente garantito, nel rendere impossibile o eccessivamente difficoltoso l’esercizio del diritto all’impugnativa (il cui termine secondo la convenuta scadeva il 2.05.2020). D’altra parte, la società non ha certo disconosciuto che l’impugnativa di licenziamento fosse stata inviata dal ricorrente per il tramite del suo difensore munito di mandato, tanto che con pec del 12.08.2020 dell’avv. , inviata in suo nome e per suo conto, rispondeva alla stessa, ritenendola infondata. Appare, quindi, raggiunta la finalità in vista della quale la norma prevede il breve termine decadenziale, di portare,

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cioè, a conoscenza del datore di lavoro l’intenzione del lavoratore di impugnare il licenziamento, mediante un atto scritto (vedi anche sul punto Corte d’Appello di Napoli, 4356/2019 del 5.08.2019 in RG. 560/2019): ed invero è indubbiamente un atto scritto la pec inviata dall’avv. L.M., con allegata l’impugnativa della cui provenienza dal lavoratore parte convenuta ha dimostrato di non aver dubitato sino alla costituzione in giudizio, così come della validità del mandato conferito dal ricorrente al predetto difensore. Acclarato che il ricorrente è stato licenziato oralmente dal rapporto di lavoro subordinato intrattenuto di fatto con la convenuta e ritenuto che siffatto licenziamento è inefficace, non essendo idoneo a risolvere il rapporto di lavoro, e che il rapporto non era stato ricostituito di fatto, in assenza di alcuna comunicazione di riconnessione, in particolare quale rapporto di lavoro subordinato come accertato con la presente sentenza, ne consegue l’applicazione in favore del ricorrente della tutela reintegratoria prevista dal d.lvo 23/2015 con richiamo all’art. 18, commi dal primo al terzo, St. Lav. nel testo modificato dalla l. n. 92/2012. La società dovrà, quindi, essere condannata alla reintegrazione del lavoratore nel proprio posto di lavoro, oltre che al pagamento di un’indennità risarcitoria pari alla retribuzione mensile che avrebbe percepito per il rapporto di lavoro accertato come sopra, a tempo pieno e indeterminato, con mansioni di ciclofattorino di cui al VI livello del CCNL Terziario, Distribuzione e servizi pacificamente applicato dalla convenuta ai propri dipendenti, come quantificata in parte dispositiva, dal momento del licenziamento, del 4.03.2020 . data in cui l’account avrebbe dovuto essere riattivato . sino alla reintegrazione effettiva, oltre contributi previdenziali e assistenziali. Venendo alla domanda di differenze retributive formulata dal ricorrente, deve rilavarsi che non vi è contestazione sulla quantità di ore lavorate dal ricorrente per effettuare le consegne e che, parimenti, non vi è contestazione specifica da parte del datore di lavoro in merito al numero delle ore in cui, al di fuori della consegne e al fine di operare le medesime, il lavoratore fu a disposizione del datore di lavoro, ore che nel rapporto di lavoro subordinato vanno retribuite con la retribuzione fissata dal CCNL. L’accertamento sin dall’inizio della natura subordinata del rapporto e del suo svolgimento a tempo pieno comporta l’applicazione all’intero rapporto della retribuzione prevista dall’inquadramento del VI livello del CCNL Terziario applicato, laddove è pacifico che il ricorrente ha ricevuto una retribuzione inferiore. …Omissis…


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IL COMMENTO

di Raffaele Fabozzi Sommario: 1. Premessa. – 2. Piattaforme digitali e rapporto di lavoro. – 3. La sentenza del Tribunale di Palermo. Il presente contributo prende in esame la qualificazione del rapporto di lavoro dei riders e, più in generale, dei lavori tramite piattaforma digitale. Il contributo offre alcune riflessioni sulla sentenza del Tribunale di Palermo n. 3570 del 2020. This essay examines the qualification of the employment relationship of riders and, more generally, of jobs via the digital platform. The essay offers some reflections on the judgment of the Court of Palermo no. 3570 of 2020.

1. Premessa

Con la pronuncia in commento il Tribunale di Palermo si è occupato del rapporto di lavoro dei riders, confermando le criticità dell’operazione qualificatoria – in termini di autonomia o subordinazione – delle prestazioni svolte mediante piattaforma digitale. Com’è noto, l’evoluzione digitale della società, da un lato, e del mondo del lavoro e dell’economia, dall’altro, stanno generando significative ricadute tanto sui modelli occupazionali quanto sulle condizioni professionali, in particolare con riferimento all’ambito delle tutele. L’assenza di un sistema di protezione ad hoc, idoneo a tutelare i c.d. lavoratori 4.0, dipende principalmente dall’impossibilità di inglobare i vari operatori delle digital platforms in un’unica categoria contrattuale (1), stante l’assenza di univoci fattori identificativi: l’unico elemento che li accomuna è la libertà (invero, come precisato dal Tribunale di Palermo, non sempre piena) di decidere se e quando svolgere la prestazione lavorativa. Anche tale elemento, però, talvolta viene meno; l’autonomia dei gig workers è infatti spesso compressa in ragione dell’implicita accettazione delle regole che vigono nella digital platform, cui gli operatori sono obbligati ad attenersi con riguardo sia agli aspetti economici, che alle modalità di esecuzione della prestazione (2).

(1) Cfr. Tullini, La digitalizzazione del lavoro, la produzione intelligente e il controllo tecnologico nell’impresa, in Riv. giur. lav., 2016, 748 ss. Sul tema cfr. anche Carabelli, Organizzazione del lavoro e professionalità: una riflessione su contratto di lavoro e post fordismo, in WP CSDLE “Massimo D’Antona”, 2003, 64 ss.; Pessi, Fattispecie ed effetti del diritto del lavoro, in Contratto di lavoro e organizzazione, in Martone (a cura di), vol. IV del Trattato di diritto del lavoro, Persiani - Carinci (a cura di), Padova, 2012, 49; Casilli, Digital Labor: travail, technologies et conflictualités, in Qu’est-ce que le digital labor?, Paris, 2015; Dagnino, Il lavoro nella on-demand economy: esigenze di tutela e prospettive regolatorie, 2015, in LLI, 2015, 86 ss.; Supiot, Vers un nouveau statut social attaché à la personne du travailleur? in Droit ouvrier, 2015, 557; Santoro Passarelli, Lavoro eterorganizzato, coordinato, agile e il telelavoro: un puzzle non facile da comporre in un’impresa in via di trasformazione, in WP CSDLE “Massimo D’Antona”, 2017; Tosi, Autonomia, subordinazione e coordinazione, in Labor, 2017, 245 ss.  (2) Cfr. Signorini, Il diritto del lavoro nell’economia digitale, Torino, 2018, 84. Relativamente a tale profilo di criticità v. anche Aloisi, Il lavoro “a chiamata” e le piattaforme “online” della “collaborative economy”: nozioni e tipi

Quello della qualificazione (autonoma o subordinata) del rapporto dei lavoratori delle digital platforms è uno degli ambiti di indagine di maggiore interesse e l’analisi sul punto è resa ancor più complessa dalla difficoltà di individuare la ricorrenza dell’esercizio dei poteri datoriali per il tramite e nell’ambito della stessa piattaforma. Emblematiche sono le contrastanti pronunce, nazionali e straniere, relative ai riders o ai drivers che segnalano come nell’era del digit-globalized labour market, in cui il mercato del lavoro è organizzato on line tramite una piattaforma (crowdwork), il ruolo del lavoratore viene drasticamente rivisitato ed i modelli dettati dall’industria 4.0 enfatizzano un modo del tutto nuovo di prestare la propria attività che, in assenza di regole, mal si concilia con le categorie tipiche del diritto di lavoro. In definitiva, a fronte di tali criticità è bene interrogarsi sull’attuale validità della tradizionale dicotomia tra lavoro autonomo e subordinato e sull‘effettiva capacità di tali categorie di rapportarsi con le forme di lavoro coniate nella on demand economy.

2. Piattaforme digitali e rapporto di lavoro

Prima di formulare alcune osservazioni sulla sentenza del Tribunale di Palermo, appare utile svolgere una preliminare considerazione in ordine alle piattaforme digitali. Come rilevato, quello delle piattaforme digitali è un fenomeno tutt’altro che unitario: si pensi alla pluralità di servizi realizzabili mediante le stesse, alle differenti modalità di svolgimento della prestazione di lavoro o alla varietà delle figure professionali coinvolte (attesa la eterogeneità dei rapporti realizzabili) (3).

legali in cerca di tutele, in Labour & Law Issues, 2016, 41; Tullini, Economia digitale e lavoro “non-standard”, in Labour & Law Issues, 2016, 15 ss.; De Stefano, The rise of the Just in time workforce: on-demand work, Crowd work and labour protection in the gig economy, Ginevra, 2016, W.P. n. 71; Treu, Rimedi, tutele e fattispecie: riflessioni a partire dai lavori della Gig economy, in Lav. dir., 2017, 367; Loi, Un’introduzione al tema del lavoro nella gig economy in Riv. giur., lav., 2017, 23.  (3) Cfr. sul tema Bucher - Fieseler, The flow of digital labor, 2016, in <http://journals.sagepub.com/doi/abs>; Dagnino, “Uber law”: prospetti-

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GIURISPRUDENZA CIVILE Nella maggior parte dei casi la piattaforma viene utilizzata al solo fine di favorire l’incontro tra la domanda e l’offerta della prestazione lavorativa, la cui esecuzione materiale, invece, avviene interamente nell’economia reale. In tali casi, in cui l’impiego di densità tecnologica è fortemente ridotto, le digital platforms non creano modalità alternative di svolgimento dell’attività di lavoro. Nel modello Uber (per citare un caso noto), invece, la piattaforma digitale non costituisce soltanto un mero luogo di incontro tra provider ed user ma – monitorando il corretto svolgimento delle prestazioni, imponendo le tariffe applicabili, indicando il percorso da seguire – alla piattaforma potrebbe essere imputabile l’esercizio del potere sia direttivo che di controllo, con i relativi effetti (anche sulla continuità delle future prestazioni). Il discorso si complica ulteriormente quando dal modello del work on demand si passa a quello del crowdsourcing, intendendosi con tale termine l’esternalizzazione delle attività produttive, mediante piattaforma digitale, ad una pluralità indistinta di individui (crowd). Quello del crowdsourcing rappresenta, in un certo senso, l’emblema del frazionamento della produzione, in cui il rischio di impresa è pressoché annullato mediante l’estremizzazione del decentramento produttivo, con l’esclusione di contratti di durata in favore del modello dello spot-contract (nel quale la finalità di consumo prevale sulla continuità della relazione giuridica). Dunque, nel rapporto tra provider ed user, la digital platform può fungere sia da mero intermediario tra domanda ed offerta, sia da centro di imputazione del rapporto giuridico, in ragione della circostanza che offra o meno un servizio attraverso una propria organizzazione di mezzi; in tale ultima ipotesi assume particolare rilevanza la tematica della qualificazione del rapporto (autonomo o subordinato), così come quella dell’individuazione dell’effettivo datore di lavoro (4). ve giuslavoristiche sulla “sharing/on-demand economy”, in Dir. rel. ind., 2016, 137; Voza, Il lavoro reso mediante piattaforme digitali tra qualificazione e regolazione, in Riv. giur. dir. lav. prev. soc., 2017, 71; Loffredo, Di cosa parliamo quando parliamo di lavoro digitale, in Labor, 2019, 253. Cfr. anche Caruso, I lavoratori digitali nella prospettiva del Pilastro sociale europeo: tutele rimediali legali, giurisprudenziali e contrattuali, in corso di pubblicazione negli Scritti in onore di R. Pessi, il quale evidenzia come ci siano almeno dieci tipologie di piattaforme e, al loro interno, tre tipologie a maggiore tipicità sociale: a) On location platform-determined work, “praticamente le piattaforme che mediano l’incontro tra offerta e domanda di prestazioni di lavoro di tipo standard e sostanzialmente uniformi (i fattorini in bicicletta di Foodora, gli autisti di Uber solo per fare qualche esempio)”; b) On location worker-iniated work, “piattaforme che mediano domanda e offerta di lavoro fisico ma per c.d. micro lavoretti e servizi specializzati (plumbing, cleaning, gardening, tutoring, babysitting ecc.)”; c) On line Contestant platform work, “piattaforme che mediano lavoro digitale che si svolge direttamente su piattaforma, normalmente creativo e molto specialistico (graphic design, branding, product development, ma anche traduzioni, editing ecc.)”.  (4) Sul tema del “crowd” nell’economia moderna v. Leimeister, Crowdsourcing. Crowdfounding, crowdvoting, crowdcreation, in Controlling & mana-

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Ed infatti, la qualificazione dei rapporti di lavoro costituisce conditio per la predisposizione delle garanzie fondamentali (5), essendo l’atto qualificatorio il presupposto per la loro operatività (6). Tale operazione risulta sempre più complessa dal momento che frequentemente la prestazione di lavoro viene gestita non più direttamente da un soggetto, ma da un’applicazione che fissa in via del tutto autonoma una serie di parametri, tra cui la qualità e la quantità delle prestazioni, la retribuzione e le (eventuali) sanzioni. Quindi, la più evidente distorsione rispetto al tradizionale modello contrattuale risiede nella configurazione soggettiva del rapporto di lavoro, data l’esistenza di un datore di lavoro “algoritmico” (identificato nel congegno alla base della piattaforma che organizza i rapporti di lavoro collegati al sistema di intelligenza artificiale) (7). Ne consegue che il lavoro 4.0, date le peculiari modalità con cui la prestazione può essere resa, non risulta agevolmente sussumibile nelle tradizionali categorie giuridiche (considerata l’eterogeneità nello svolgimento delle prestazioni, la continua evoluzione delle imprese, le più disparate manifestazioni di esercizio del potere datoriale, etc.).

3. La sentenza del Tribunale di Palermo

Nel contesto appena delineato si inserisce la sentenza del Tribunale di Palermo, la quale – nelle sue articolate ed apprezzabili motivazioni (indipendentemente dalla condivisione delle stesse) – conferma le difficoltà dell’operazione qualificatoria del rapporto di lavoro dei riders (e, più in generale, di quelli che vengono svolti su o mediante piattaforma digitale).

gement, 2012, 388 ss.; cfr. anche Voza, Il lavoro reso mediante piattaforme digitali tra qualificazione e regolazione, cit., 75; Birgillitto, Lavoro e nuova economia: un approccio critico. I nuovi vizi e le poche virtù dell’impresa Uber, in LLI, 2016, 59 ss.  (5) In tal senso Voza, Il lavoro reso mediante piattaforme digitali tra qualificazione e regolazione, cit., 71.; Vallebona, Breviario di diritto del lavoro, Torino, 2017, 186; Dagnino, Il lavoro nella on-demand economy, in Labour & Law Issues, 2015, 101. Per i profili comparativi sul tema cfr. Veneziani, Nuove tecnologie e contratto di lavoro: profili di diritto comparato, in Dir. lav. rel. ind., 1987, l.  (6) Pessi, Contributo allo studio della fattispecie lavoro subordinato, Milano, 1989. In merito cfr. anche Levi, Il lavoro agile nel contesto del processo di destrutturazione della subordinazione, in Riv. giur. lav., 2019, 25 e Militello, Il work-like blending nell’era della on demand economy, in Riv. giur. lav., 2019, 47.  (7) Sulla natura di tale datore di lavoro cfr. Min Kyung - Kusbit - Metsky - Dabbish, Working with Machines: The Impact of Algorithmic and Data-Driven Management on Human Workers, 2015, in <https://www.cs.cmu. edu/>; Speziale, Il datore di lavoro nell’impresa integrata, in Dir. lav. rel. ind., 2010, 44; Barbera, Trasformazioni della figura del datore di lavoro e flessibilizzazione delle regole del diritto, in Dir. lav. rel. ind., 2010, 203.


GIURISPRUDENZA CIVILE Limitatamente al tema dei riders, la sentenza in commento giunge ad una conclusione diversa dalla quella delineata dalla recente sentenza della Cassazione n. 1663/2020 (8). Com’è noto, nel caso sottoposto alla sua attenzione, la Suprema Corte aveva ritenuto che i rapporti di lavoro dei riders rientrassero nelle previsioni dell’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 81/2015 (in altri termini, a tali rapporti va riconosciuta natura autonoma ma, stante la etero-organizzazione da parte del committente, agli stessa va applicato lo statuto protettivo del lavoro subordinato). Diversamente, secondo il Tribunale di Palermo il rapporto di lavoro dei riders (ovviamente, nel caso di specie) ha natura subordinata (con applicazione dell’art. 2094 c.c. in luogo del citato art. 2, d.lgs. n. 81/2015). In realtà la sentenza in commento non si pone in contrasto con il precedente della Cassazione, dal momento che quest’ultima aveva espressamente chiarito che «non può escludersi che, a fronte di specifica domanda da parte interessata fondata sul parametro normativo dell’art. 2094 cod. civ., il giudice accerti in concreto la sussistenza di una vera e propria subordinazione (…); è noto quanto le controversie qualificatorie siano in influenzate in modo decisivo dalle modalità effettiva di svolgimento del rapporto, da come le stesse siano introdotte in giudizio, dai risultati dell’istruttoria espletata, dall’apprezzamento di tale materiale effettuato dai giudizi del merito, dal convincimento ingenerato in questi circa la sufficienza degli elementi sintomatici riscontrati, tali da ritenere provata la subordinazione; il tutto con esiti talvolta difformi anche rispetto a prestazioni lavorative tipologicamente assimilabili, senza che su tali accertamenti di fatto possa estendersi il sindacato di legittimità» (9). Ed in conformità a tale statuizione, il Tribunale di Palermo ha ritenuto come, nel caso esaminato, non sussistesse la sola etero-organizzazione (che avrebbe comportato l’applicazione dell’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 81/2015), bensì gli elementi tipici e sintomatici della subordinazione (realizzatisi per il tramite della piattaforma digitale): «In sostanza, quindi, al di là dell’apparente e dichiarata (in contratto) libertà del rider, e del ricorrente in particolare, di scegliere i tempi di lavoro e se rendere o meno la prestazione, l’organizzazione del lavoro operata in modo esclusivo dalla parte convenuta sulla piattaforma digitale nella propria disponibilità si traduce, oltre che nell’integrazione del presupposto della eteroorganizzazione, anche nella messa a disposizione del datore di lavoro da parte del lavoratore delle proprie energie lavorative per consistenti periodi temporali (peraltro non re (8) Cass. 24 gennaio 2020, n. 1663, in questa Rivista, 2020, 251, con nota di Albi, La complessa vicenda dei riders di Foodora: fra qualificazione del rapporto e disciplina applicabile. Si rinvia ai contributi del numero monografico in Mass. giur. lav., 2020, numero straordinario.  (9) Nello stesso senso anche la circolare del Ministero del lavoro 19 novembre 2020, n. 17.

tribuiti) e nell’esercizio da parte della convenuta di poteri di direzione e controllo, oltre che di natura latamente disciplinare, che costituiscono elementi costitutivi della fattispecie del lavoro subordinato ex art. 2094 c.c.». Ebbene, al di là della condivisione o meno della “valorizzazione” (ai fini della subordinazione), da parte del Giudice, di alcuni elementi esaminati, la sentenza non sembra presentare novità rispetto ai consolidati orientamenti della Corte di Cassazione. In considerazione del principio dell’indisponibilità del tipo contrattuale, né al legislatore né alle parti negoziali sarebbe possibile procedere ad una qualificazione antitetica al reale svolgimento del rapporto di lavoro (10). In merito, «ogni attività umana economicamente rilevante può essere oggetto sia di rapporto di lavoro subordinato sia di rapporto di lavoro autonomo» (11). Conseguentemente, non è possibile affermare che un rapporto di lavoro sia “immancabilmente” autonomo o subordinato, dal momento che «ai fini della qualificazione di un rapporto di lavoro come autonomo o subordinato occorre far riferimento ai dati fattuali emergenti dal concreto svolgimento della prestazione» (12). È noto, infatti, che «l’elemento che contraddistingue il rapporto di lavoro subordinato rispetto al rapporto di lavoro autonomo è il vincolo di soggezione personale del lavoratore al potere organizzativo, direttivo e disciplinare del datore di lavoro» (13); sicché il parametro normativo di riferimento è da ravvisare nel vincolo di soggezione, con conseguente limitazione dell’autonomia del lavoratore e suo inserimento nell’organizzazione aziendale. E ciò indipendentemente dalla circostanza che il vincolo di subordinazione si estrinsechi con le modalità “tradizionali” o mediante piattaforma digitale. Il vero tema è che i nuovi strumenti tecnologici rendono l’operazione qualificatoria molto complessa e gli interventi legislativi degli ultimi anni hanno contribuito a generare un quadro ancora più articolato, nel quale non solo si pone la questione autonomia/subordinazione, ma è ormai difficile districarsi anche nell’alveo dell’autonomia. Solo per fare un esempio, il rapporto di lavoro dei riders potrebbe astrattamente ricondursi: - al lavoro subordinato di cui all’art. 2094 c.c.;

(10) Cass. 4 marzo 2015, n. 4346, in Foro it., 2015, 1569, secondo cui «ai fini della qualificazione di un rapporto di lavoro come autonomo o subordinato occorre far riferimento ai dati fattuali emergenti dal concreto svolgimento della prestazione, piuttosto che alla volontà espressa dalle parti al momento della stipula del contratto di lavoro».  (11) Cass. 8 febbraio 2010, n. 2728, in Giust. civ. mass., 2010, 2, 167.  (12) Cass. 4 marzo 2015, n. 4346, in Mass. giur. lav., 2015, 497.  (13) Cass. 8 aprile 2015, n. 7024, in Mass. giur. lav., 2015, 497; cfr. anche Cass. 5 settembre 2014, n. 18783, in Dir. & Giust., 2014.

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GIURISPRUDENZA CIVILE - alle collaborazioni di cui all’art. 409 c.p.c.; - alle collaborazioni di cui all’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 81/2015; - alle collaborazioni di cui all’art. 2, comma 2, lett. a), del d.lgs. n. 81/2015; - alle collaborazioni di cui all’art. 47 bis, del d.lgs. n. 81/2015. Alla questione qualificatoria si accompagna quella, conseguente e forse più rilevante, delle tutele da apprestare. Ed infatti, per i gig workers la mancanza di protezione anche dai rischi più comuni è maggiormente accentuata rispetto agli altri lavoratori precari, in ragione dell’eccessiva parcellizzazione e destrutturazione dell’attività lavorativa che sono chiamati a svolgere. Data l’eterogeneità dei rapporti di lavoro che nascono e si sviluppano nelle piattaforme digitali, al problema delle tutele non sembra esservi una soluzione unitaria. Invero, si potrebbe tentare di strutturare un sistema di protezione valido per tutti i lavoratori in condizioni di vulnerabilità economica e sociale, prescindendo dall’utilizzo o meno di algoritmi digitali. Ma come far fronte a ciò resta molto dibattuto. Dinanzi ad un contesto così variegato e mutevole, la scelta del Tribunale di Palermo è stata quella di adeguare le tecniche di sussunzione delle fattispecie apparentemente nuove in schemi dogmatici tipici, facendo ricorso ad un’attività ermeneutica adeguatrice del dato letterale dell’art. 2094 c.c. all’evoluzione del contesto socio-economico; il che, naturalmente, non significa necessariamente ricondurre nell’area della subordinazione tutte le nuove tipologie di rapporti di lavoro (come confermato dalla vicenda Foodora). Del resto, salvo che non si voglia rinunciare alla distinzione autonomia/subordinazione (in favore di uno statuto protettivo unitario, eventualmente graduato, che prescinda dalla tradizionale operazione qualificatoria), quella dell’interpretazione evolutiva sembra allo stato una soluzione necessitata (fintanto che il contesto di riferimento non avrà assunto una sua stabilità), nella consapevolezza che difficilmente la legge potrà essere al passo con le modalità tecnologicamente innovative di svolgimento della prestazione di lavoro. D’altronde, è evidente che il potere organizzativo, direttivo e di controllo del datore di lavoro non si manifesta in ogni contesto lavorativo con la medesima forma e rilevanza; le modalità di esercizio mutano insieme col mutare dell’ambito in cui si opera ed in base al livello di digitalizzazione e di tecnologizzazione che caratterizza tanto l’organizzazione produttiva quanto il lavoro. Proprio il rapporto con un datore di lavoro digitale potrebbe determinare una maggiore intensità dell’eterodirezione, agendo la piattaforma anche in maniera più invasiva sulla persona del prestatore di lavoro, oltre che sulla sua attività.

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Si pensi, in relazione al caso in commento, al modo in cui può essere esercitato il potere di controllo mediante appositi sistemi di feedback espressi dagli utenti sulla prestazione dei lavoratori (che, in caso negativo, possono finanche determinare la risoluzione del vincolo contrattuale). Dunque, è evidente che sebbene nell’era della digitalizzazione i poteri del datore di lavoro possano non essere esercitati secondo le modalità tradizionali, gli stessi non sono (per ciò solo) insussistenti; ed anzi, in modo probabilmente preterintenzionale, può realizzarsi una condizione di subordinazione anche più intensa di quella tradizionalmente intesa. Quanto sopra rende chiaro che è probabilmente giunto il momento di rimeditare il diritto del lavoro, valutando anche l’opportunità di introdurre – con l’apporto degli attori sindacali (14) – norme più aderenti ed efficaci rispetto ad una realtà totalmente nuova ed in continua evoluzione; norme che, abbandonando o ridimensionando i tradizionali schemi qualificatori (sempre più difficilmente rinvenibili negli attuali contesti produttivi), siano finalizzate alla costruzione di un apparato di tutele intorno alla figura del lavoratore (senza necessità di ulteriori aggettivazioni).

(14) Le parti sociali si sono già attivate, sebbene in maniera non unitaria; si veda il CCNL sui riders del 15 settembre 2020 firmato dalla UGL ed il protocollo aggiuntivo al CCNL Logistica e Trasporti per i riders del 2 novembre 2020 firmato da CGIL, CISL e UIL.


GIURISPRUDENZA CIVILE

Lesione del diritto all’immagine dell’impresa causata da un comunicato stampa diffuso online dell’AGCM, giurisdizione ordinaria e danno in re ipsa Tribunale

di

N apoli N ord ; ordinanza 30 luglio 2020, n. 6090; G. des. dott. P. Ucci

Il comunicato stampa di una Autorità pubblica, nella fattispecie l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, è riconducibile nell’alveo dei comportamenti posti in essere in assenza di esercizio di potere amministrativo ed a fronte del quale, in astratto, il privato vanta un diritto soggettivo all’onore ed alla reputazione, il cui referente normativo si rinviene nell’art. 2 della Costituzione e la cui violazione è fonte di risarcimento del danno. Integra illecito civile il comunicato stampa di una Autorità pubblica che, senza valida motivazione, accosti il nome di una impresa ad una attività pre-iustrottoria svolta dalla stessa Autorità per accertare l’esistenza di pratiche speculative, laddove in uno al contesto comunicativo esso risulti idoneo a ledere l’immagine e la reputazione di tale impresa inducendo i consumatori – e non solo – a ritenere che a carico della società ricorrente siano state già accertate o, quantomeno segnalate, pratiche commerciali scorrette. Per tanto, in sede cautelare si devono adottare tutti i provvedimenti idonei ad evitare che il pericolo di danno, nella fattispecie sussistente in re ipsa, si possa concretizzare o le conseguenze dannose si possano aggravare. (Nella fattispecie il comunicato stampa dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato concerneva la richiesta di informazioni a numerosi operatori della grande distribuzione per acquisire dati sull’andamento dei prezzi di vendita al dettaglio e dei prezzi di acquisto all’ingrosso di generi alimentari di prima necessità al fine di individuare eventuali fenomeni di sfruttamento dell’emergenza sanitaria determinata dal Covid/19).

*** L’ordinanza è leggibile per esteso, nella pagina degli Osservatori della Rivista, all’indirizzo <https://dirittodiinternet.it/lautorita-garante-della-concorrenza-del-mercato-lesione-allimmagine-reputazione-professionale-operatore-commerciale-tribunale-napoli-nord-ordinanza-29-30-luglio-2020/>

IL COMMENTO

di Francesco Di Ciommo Sommario: 1. La vicenda in estrema sintesi. – 2. La giurisdizione del G.O. e la responsabilità da mero comportamento della P.A. – 3. Il riparto di giurisdizione tra G.A. e G.O. nel codice del processo amministrativo. – 4. Il riparto di giurisdizione secondo la Cassazione. – 5. Il risarcimento del danno (in re ipsa?) all’immagine e alla reputazione del privato: brevi cenni. Il riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo in tema di risarcimento del danno causato al privato non già da un’attività provvedimentale ma da un mero comportamento della P.A. costituisce un tema controverso tanto in dottrina quanto in giurisprudenza. Oggetto di ampie discussioni è altresì il problema del risarcimento del danno all’immagine e/o alla reputazione, visto che la giurisprudenza prevalente esclude che possa trattarsi di un danno in re ipsa, se pure consente il risarcimento in via equitativa. Sulle due questioni è intervenuta una recente ordinanza del Tribunale di Napoli Nord, dalla quale l’autore prende spunto per svolgere sue considerazioni. The division of jurisdiction between ordinary judge and administrative judge in the matter of compensation for damage caused to the private individual not by a provisional activity but by a mere behavior of the Public Administration constitutes a controversial topic both in doctrine and in jurisprudence. The issue of compensation for damage to image and / or reputation is also the subject of extensive discussions, given that the prevailing jurisprudence excludes that it may be a damage in re ipsa, even if it allows for compensation on an equitable basis. A recent order of the Court of North Naples has intervened on the two issues, from which the author takes inspiration to carry out his considerations.

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GIURISPRUDENZA CIVILE 1. La vicenda in estrema sintesi

Con l’ordinanza in epigrafe il Tribunale di Napoli Nord ha accolto il ricorso cautelare ante causam proposto, ai sensi dell’art. 700 c.p.c., da una società che chiedeva al Giudice del procedimento monitorio di ordinare all’Autorità Garante per la Concorrenza e il Mercato (AGCM) di rettificare un recente comunicato stampa di quest’ultima, nel quale l’impresa era menzionata, ritenendolo lesivo della propria reputazione. Il tutto in previsione dell’instaurazione del giudizio di merito nel quale la società ricorrente potrà spiegare la conseguente domanda risarcitoria, ex art. 2043 c.c., per il danno da lesione dei diritti della personalità asseritamente prodotto a suo carico dalla condotta diffamatoria posta in essere dall’Autorità resistente per aver diffuso il comunicato stampa. Quest’ultimo, ritualmente pubblicato sul sito dell’AGCM il 7 maggio 2020, concerneva l’avvio di una attività pre-istruttoria volta ad indagare sull’aumento dei prezzi dei beni alimentari di prima necessità, detergenti, disinfettanti e guanti nella grande distribuzione italiana nei mesi iniziali dell’emergenza sanitaria causata dal Covid/19. Tali aumenti, riscontrati sulla base dei dati Istat a partire dal mese di marzo 2020, secondo l’Autorità, apparivano differenziati per provincia e più marcati in «aree non interessate da ‘zone rosse’ o da misure rafforzate di contenimento della mobilità». Nel comunicato, che era intitolato «DS2620 - Emergenza Coronavirus, avviata indagine su aumento dei prezzi dei beni alimentari e di detergenti, disinfettanti e guanti», e che veniva pubblicato integralmente sul sito web dell’AGCM nella pagina dedicata a tali annunci (https://www.agcm.it/media/comunicatistampa), nonché su altre pagine web, l’Autorità precisava di non poter escludere che tali aumenti fossero dovuti a ‘fenomeni speculativi’ e informava di aver inviato una pluralità di richieste di informazioni a numerosi operatori della grande distribuzione, indicando i nomi dei «principali destinatari delle richieste di informazioni», in tutto una ventina, tra i quali figurava anche quello della società ricorrente. Nel decidere sulla richiesta cautelare il Tribunale, con l’ordinanza del 29-30 luglio scorso, ha, per prima cosa, rigettato l’eccezione sollevata, per l’AGCM, dall’Avvocatura dello Stato, la quale – come meglio si vedrà subito infra – contestava la giurisdizione del giudice ordinario ritenendo che la fattispecie rientrasse nel campo della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Sul punto, l’ordinanza, invece, afferma in modo chiaro e condivisibile, come meglio si vedrà infra, che la pubblicazione di un comunicato stampa non possa in alcun modo essere espressione del pubblico potere e che essa, invece, costituisca una condotta rientrante nell’alveo

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dei ‘meri comportamenti’ della P.A., i quali sono attratti nella giurisdizione del giudice ordinario. Nel merito, il Tribunale ha poi chiarito che, nella vicenda in parola, ad essere in discussione non era il diritto dell’Autorità di esprimere pareri e pubblicare segnalazioni concernenti circostanze idonee a causare distorsioni della concorrenza, bensì l’idoneità del comunicato stampa a ledere illecitamente il diritto all’immagine della società ricorrente (1), ed inoltre ha affermato che tale idoneità andava valutata applicando i principi formatisi in sede giurisprudenziale in materia di liberà di informazione. In ossequio a tali principi il Tribunale ha, dunque, statuito che il comunicato stampa in esame non risultava rispettoso del criterio della continenza e che non sussisteva alcun interesse pubblico con riguardo all’indicazione nel medesimo dei principali destinatari delle richieste di informazioni. E ciò in quanto, come si legge nell’ordinanza, non risulta chiaro quale fosse l’interesse del pubblico a conoscere l’identità di alcuni (peraltro, non tutti) soggetti destinatari delle richieste di informazioni nella fase pre-istruttoria del procedimento, considerando, in particolare, che tali richieste non erano finalizzate ad accertare violazioni già segnalate. Inoltre, sempre per il Tribunale, il comunicato poteva ingenerare nei lettori il convincimento, o quantomeno il dubbio, che la ricorrente, così come le altre imprese destinataria delle richieste di informazioni, avesse approfittato della situazione di emergenza legata al Coronavirus per incrementare in maniera ingiustificata i prezzi; circostanza questa che è stata, tuttavia, smentita anche in giudizio dalla stessa AGCM. Per queste ragioni, a parere del Giudice designato, pur essendo «indubbio che il [comunicato] appare corretto e legittimo nella parte in cui si limita ad informare sull’avvio dell’attività pre-istruttoria, condotta dall’Autorità per accertare l’esistenza di pratiche speculative […], al contrario l’accostamento della predetta notizia agli operatori commerciali ivi indicati – tra cui la ricorrente – […] appare immotivato e certamente idoneo a ledere l’immagine e la reputazione della ricorrente inducendo i consumatori – e non solo – a ritenere che a carico [della ricorrente] siano già state accertate o, quantomeno segnalate, pratiche commerciali scorrette».

(1) Per recenti riflessioni sui rapporti tra chi detiene dati sensibili, chi ha il potere di trattarli ed eventualmente pubblicarli, e chi risulta esserne il titolare, v. Di Ciommo, Archivi digitali (onnivori) e diritti fondamentali (recessivi), in Il nuovo dir. civ., 2020, n. 2, 29; Grimaldi, Diritto alla deindicizzazione: dati sensibili, potere e responsabilità, in Dir. dell’inf. e dell’inf., 2020, 254; e C. Iorio, Diritto all’oblio e deindicizzazione: fondamenti giuridici e risarcibilità del danno, in questa Rivista, 2020, 627.


GIURISPRUDENZA CIVILE Da qui la condanna dell’AGCM a pubblicare su almeno tre testate nazionali e in calce al proprio Comunicato un testo di rettifica del seguente tenore “in relazione al comunicato in oggetto si specifica che nei confronti di Ce. Di Sigma Campania s.p.a. e delle altre aziende indicate è stata effettuata una semplice richiesta di informazioni senza l’avvio di alcun procedimento istruttorio o sanzionatorio”. Come evidente già da questa veloce sintesi, si tratta di un provvedimento significativo sotto diversi profili, e che infatti, non appena reso pubblico, ha ricevuto notevole attenzione anche da parte della stampa non specializzata.

2. La giurisdizione del G.O. e la responsabilità da mero comportamento della P.A.

La prima ragione di interesse dell’ordinanza in epigrafe riguarda l’affermazione, in essa contenuta, della giurisdizione del G.O. in luogo di quella del giudice amministrativo. Ed infatti, come cennato, l’Avvocatura dello Stato, quale difensore dell’AGCM, nel giudizio cautelere in esame ha come prima cosa eccepito il difetto di giurisdizione del G.O. ritenendo che nella vicenda sussistesse la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Sennonché, sul punto, l’ordinanza in primo luogo osserva che un ricorso cautelare “analogo (ma non assolutamente coincidente)”, rispetto a quello di cui origina il procedimento concluso con l’ordinanza medesima, era stato depositato dalla ricorrente presso il Tribunale di Napoli ed era stato da quest’ultimo respinto per incompetenza territoriale, ma dopo che il Giudice aveva avuto modo di affermare la giurisdizione del G.O. Dirimente sul punto, tanto secondo il giudice partenopeo, quanto secondo l’estensore dell’ordinanza in epigrafe, si rivela l’art. 133, lett. L) c.p.a., a tenore del quale “sono devolute alla giurisdizione esclusiva del G.A. le controversie aventi ad oggetto tutti i provvedimenti, compresi quelli sanzionatori ed esclusi quelli inerenti ai rapporti di impiego privatizzati, adottati dalle Autorità amministrative indipendenti”. Secondo il dettato legislativo, dunque, al giudice amministrativo è riconosciuta la giurisdizione esclusiva in materia di provvedimenti delle autorità indipendenti. Sennonché, come noto, altro è l’attività provvedimentale realizzata da una pubblica amministrazione, così come da una autorità indipendente, altro sono i meri comportamenti posti in essere dalla medesima. Come è stato puntualmente evidenziato in dottrina, sin dall’entrata in vigore della Costituzione nel nostro ordinamento è stato riconosciuto, attraverso la valorizzazione dell’art. 28 Cost., che la pubblica amministrazione possa essere responsabile dei danni arrecati al privato, in ragione della lesione di diritti soggettivi di questi ulti-

mi, attraverso o in occasione del compimento, da parte della P.A., di attività “paritetiche”, per tali dovendosi intendere le attività compiute non iure imperii, nell’esercizio dei poteri autoritativi di cui è dotata l’amministrazione, bensì nella relazione privata che l’ente pubblico può intrattenere con il cittadino (2). Inoltre, sul finire del XX secolo, come noto, con la celeberrima sentenza della Cassazione civile n. 500 del 22 luglio 1999, in giurisprudenza si è (finalmente) affermato il convincimento, sostenuto dalla sostanzialmente unanime dottrina da almeno due decenni, per cui la pubblica amministrazione risponde a titolo risarcitorio nei confronti dei cittadini anche dei danni cagionati nell’esercizio illegittimo della propria attività provvedimentale (3). In buona sostanza, dunque, in forza dei principi introdotti con la sentenza n. 500/1999 risponde a detto titolo l’ente pubblico che, in forza dell’adozione di un provvedimento o dell’omissione di un provvedimento dovuto, leda l’interesse legittimo, oppositivo o pretensivo del privato. Tale forma di responsabilità, proprio per distinguerla da quella a cui si farà cenno tra un attimo, prende il nome di responsabilità “da provvedimento” e, come visto, per legge rientra nel novero delle materie riservate alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Invero, giova precisare che, qualche anno prima, e per la precisione con la legge 19 febbraio 1992 n. 142, in attuazione della direttiva CEE 21 dicembre 1989, n. 665, era stata introdotta nel nostro ordinamento, ma esclusivamente in materia di appalti, la previsione della tutela risarcitoria delle imprese lese da violazioni del diritto comunitario, con il che per la prima volta in Italia si prevedeva la possibilità per il privato di ottenere tutela risarcitoria in caso di lesione dei propri interessi legit-

(2) Cfr., ex ceteris, Sabato, La responsabilità “da comportamento” della pubblica amministrazione, in Giuricivile, 2019, 7; nonché Casetta, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 19°, 673 ss.; e Chieppa - Giovagnoli, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 4°, 953 ss.; Scotti, Appunti per una lettura della responsabilità dell’amministrazione tra realtà e uguaglianza, in Dir. amm., 2009, 535.  (3) Cass., sez. un., 22 luglio 1999 n. 500, in Contratti, 1999, 869, con nota di Moscarini; in Corr. giur., 1999, 1367, con note di Di Majo e Mariconda; in Foro it., 1999, I, 2487, con note di Palmieri e Pardolesi; in Foro it., 1999, I, 3201 (m), con note di Caranta, Fracchia, Romano; in Foro it., 1999, I, 3201 (m), con nota di Scoditti; in Giorn. dir. amm., 1999, 832, con nota di Torchia; in Giust. civ., 1999, I, 2261, con nota di Morelli; in Trib. amm. reg., 1999, II, 225, con nota di Bonanni; in Urb. e a, 1999, 1067, con nota di Protto. In argomento v. inoltre Crisci, La risarcibilità degli interessi legittimi e l’art. 2043 c.c., in Cons. St., 2000, II, 2525; Lubrano, Interessi legittimi e tutela risarcitoria, in Temi romana, 2000, 429; Luminoso, Danno ingiusto e responsabilità della pubblica amministrazione per lesione di interessi legittimi nella sentenza n. 500/1999 della corte di cassazione, in Riv. giur. sarda, 2000, 255; M.A. Sandulli, Dopo la sentenza n. 500 del 1999 delle sezioni unite: appunti sulla tutela risarcitoria nei confronti della pubblica amministrazione e sui suoi riflessi rispetto all’arbitrato, in Riv. arbitrato, 2000, 65.

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GIURISPRUDENZA CIVILE timi. In base a tale novità, i concorrenti ad una gara di appalto dovevano ottenere l’annullamento dell’atto illegittimo da parte del giudice amministrativo, e poi rivolgersi al giudice ordinario per conseguire il risarcimento del danno. Tale sistema (c.d. del doppio binario) durò poco tempo perché nel 1998 l’art. 35, co. 1, del d.lgs. n. 80, introdusse la tutela risarcitoria davanti al giudice amministrativo nelle materie di giurisdizione esclusiva di cui agli artt. 33 e 34 del medesimo decreto (servizi pubblici, edilizia e urbanistica), contestualmente abrogando espressamente l’art. 13 della citata legge n. 142/1992, e ogni altra disposizione che prevedesse la devoluzione al giudice ordinario delle controversie sul risarcimento del danno conseguente all’annullamento di atti amministrativi nelle materie di cui al comma 17. Successivamente, l’art. 7 della legge n. 205/2000 modificò la Legge TAR stabilendo che “il Tribunale amministrativo regionale, nell’ambito della propria giurisdizione, conosce anche di tutte le questioni relative all’eventuale risarcimento del danno, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, e agli altri diritti patrimoniali consequenziali. In definitiva, può dirsi che attraverso gli interventi legislativi del 1998e del 2000, e la sentenza della Cassazione n. 500/1999, il nostro ordinamento ha superato il sistema del doppio binario, affidando di fatto la tutela risarcitoria del privato leso dalla P.A. a due distinte modalità di azione, per cui se il danno era arrecato dall’esercizio o dal mancato esercizio di un potere amministrativo, la relativa azione andava introdotta dinanzi al giudice amministrativo, mentre, se il risarcimento veniva invocato a fronte di un illecito puramente comportamentale, sussisteva la giurisdizione esclusiva del giudice ordinario (4).

3. Il riparto di giurisdizione tra G.A. e G.O. nel codice del processo amministrativo

Pochi anni dopo la rivoluzione copernicana determinata tra il 1992 e il 2000 dai fatti ricordati, il dibattito attorno alla giusta perimetrazione del concetto di comportamento della P.A. è stato alimentato in modo particolare dalla sentenza n. 204 del 2004 della Corte costituzionale intervenuta a delimitare l’ambito delle materie “particolari” assoggettabili alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in ragione della contestata illegittimità costituzionale dell’articolo 34 del citato d.lgs.

(4) Cfr. Caranta, Attività amministrativa e illecito aquiliano. La responsabilità della P.A. dopo la L. 21 luglio 2000 n. 205, Milano, 2001; Cacace, La responsabilità della pubblica amministrazione per lesione degli interessi legittimi negli anni ’90: dieci tappe di una evoluzione, in Danno e resp., 2001, 121; e Carbone, Le «nuove frontiere» della giurisdizione sul risarcimento del danno da atto amministrativo illegittimo della pubblica amministrazione (commento alla L. 21 luglio 2000, n. 205), in Corr. giur., 2000, 1127.

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n. 80 del 1998 nella parte in cui si riferiva ai “comportamenti tenuti dalla pubblica amministrazione in materia di urbanistica e edilizia”. La Corte Costituzionale nell’occasione mise in evidenza come soltanto l’inerenza all’esercizio del potere pubblico dei comportamenti potesse radicare la giurisdizione del giudica amministrativo. Tale indirizzo venne subito dopo confermato con la sentenza n. 191 del 2006 della stessa Consulta, che distingue nettamente i comportamenti meri, come tali giustiziabili davanti al giudice ordinario, e i comportamenti c.d. amministrativi, tramite i quali la pubblica amministrazione, pur esercitando illegittimamente il potere conferitole, tiene condotte che non sfociano nell’adozione di un provvedimento. Il nuovo Codice del processo amministrativo, approvato con D. Lgs. n. 104 del 2 luglio 2010, non ha stravolto quella che era la precedente impostazione del tema, limitandosi piuttosto ad una organica sistemazione della materia (5). Infatti, nella Relazione finale di accompagnamento al Codice del processo amministrativo si legge che, «pur essendo astrattamente consentito dalla delega di cui all’art. 44 della l. n. 69 del 2009, la Commissione non ha ritenuto di effettuare incisivi interventi in tema di riparto di giurisdizione, optando al contrario per un’operazione volta a realizzare il riordino della disciplina vigente con taluni aggiustamenti, in tendenziale adesione al diritto vivente risultante dalla giurisprudenza della Corte regolatrice.». Nel nuovo codice la questione del riparto della giurisdizione tra tribunali amministrativi ed ordinari è trattata innanzitutto nei commi 1 e 4 dell’art. 7 c.p.a., rubricato “Giurisdizione amministrativa”. In particolare, al comma 1 è stabilito che «Sono devolute alla giurisdizione amministrativa le controversie, nelle quali si faccia questione di interessi legittimi e, nelle particolari materie indicate dalla legge, di diritti soggettivi, concernenti l’esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo, riguardanti provvedimenti, atti, accordi o comportamenti riconducibili anche mediatamente all’esercizio di tale potere, posti in essere da pubbliche amministrazioni. Non sono impugnabili gli atti o provvedimenti emanati dal Governo nell’esercizio del potere politico.»; mentre al comma 4 si prevede che «Sono attribuite alla giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo le controversie relative ad atti, provvedimenti o omissioni delle pubbliche amministrazioni, comprese quelle relative al risarcimento del danno per lesione di

(5) Cfr. Zito, L’ambito della giurisdizione del giudice amministrativo, in Giustizia amministrativa, a cura di di F.G. Scoca. Torino, 2013, in part. 84 ss.


GIURISPRUDENZA CIVILE interessi legittimi e agli altri diritti patrimoniali consequenziali, pure se introdotte in via autonoma». In secondo luogo, riguardo al tema in parola nel nuovo codice rileva il comma 2 dell’art. 30 c.p.a. (“Azione di condanna”), ove è disposto che «può essere chiesta la condanna al risarcimento del danno ingiusto derivante dall’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa o dal mancato esercizio di quella obbligatoria. Nei casi di giurisdizione esclusiva può altresì essere chiesto il risarcimento del danno da lesione di diritti soggettivi. Sussistendo i presupposti previsti dall’articolo 2058 del codice civile, può essere chiesto il risarcimento del danno in forma specifica.». In buona sostanza, può dirsi che il nuovo codice del processo amministrativo ha attribuito al giudice amministrativo il potere di conoscere dei comportamenti della P.A., purché connessi con l’esercizio del potere, e ha affidato in via esclusiva al giudice amministrativo la giurisdizione sulle fattispecie di danno da ritardo nell’emanazione di provvedimenti amministrativi, se ne ricava che la giurisdizione del giudice ordinario acquista carattere residuale e resta dunque ferma per i soli danni da comportamento e da attività materiali. L’individuazione delle ipotesi di responsabilità la cui cognizione resta riservata al giudice ordinario non è in concreto agevole, perché è affidata a un criterio di non semplice applicazione: il compito di tracciare il confine tra fattispecie di illecito direttamente o “mediatamente” collegate all’esercizio del potere e fattispecie puramente comportamentali è dunque affidato al giudice. Le più recenti evoluzioni interpretative, tanto in ambito dottrinale, quanto in ambito giurisprudenziale, hanno condotto alla elaborazione di nuove fattispecie di responsabilità, ricondotte nell’alveo della c.d. “responsabilità da comportamento”, per tale intendendosi la responsabilità che può ingenerarsi in tutti quei casi in cui il privato lamenta un danno cagionato dalla pubblica amministrazione non già in occasione del compimento di attività paritetica o di attività provvedimentale, bensì in ragione di un mero comportamento tenuto dell’ente pubblico e che realizza dirette conseguenze nei confronti di uno o più privati (6).

4. Il riparto di giurisdizione secondo la Cassazione

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione sono state più volte investite, in sede di risoluzione di conflitto negativo di giurisdizione, della questione concernente

(6) Cfr. Cavallaro, Potere amministrativo e responsabilità civile. Torino, 2004; Paolantonio, Comportamenti non provvedimentali produttivi di effetti giuridici, in F.G. Scoca (a cura di), Diritto amministrativo, Torino, 2008; e Cassano – Posteraro, La responsabilità della pubblica amministrazione, Rimini, 2019.

l’esatta individuazione del confine, o dei criteri in base ai quali il giudice del caso concreto deve individuare il confine, tra giurisdizione del giudice ordinario e del giudice amministrativo quando il danno ingiusto derivi al privato da un comportamento della P.A. Con la recente ordinanza n. 19677 del 24 settembre 2020, la Suprema Corte è tornata nuovamente a trattare il tema e, dunque, tra l’altro a prendere nuovamente in esame le argomentazioni prospettate nel recente passato, sia in dottrina che in giurisprudenza, su quale sia giudice munito della potestas iudicandi in materia. Nell’occasione la Suprema Corte ha ribadito l’orientamento consolidatosi negli ultimi anni, indicando il giudice ordinario quale titolare della potestas iudicandi rispetto al caso specifico sottoposto alla sua decisione, ma ciò sulla base di un deciso ampiamento dei confini della giurisdizione del giudice ordinario per realizzare il quale la Corte afferma che anche quando l’attività della P.A. sia di carattere provvedimentale, se il danno lamentato non deriva direttamente dall’atto prodotto nell’esercizio di tale attività, non si scatta la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. In passato, infatti, si era già osservato come non sia l’esercizio del potere amministrativo in sé a rilevare, quanto l’efficacia causale del danno-evento da affidamento incolpevole di un atto apparentemente legittimo. In altre parole, secondo la Corte spetta al giudice ordinario decidere, tra l’altro, la causa introdotta dal destinatario di un provvedimento ampliativo (ma illegittimo) della sua sfera giuridica, il quale chieda il risarcimento del danno subìto a causa dell’emanazione e del successivo annullamento di tale atto. In vero, negli anni passati, non sono mancate, anche nella giurisprudenza di legittimità, pronunce che hanno sostenuto tesi interpretative differenti. L’azione risarcitoria per lesione dell’affidamento, riposto nella legittimità dell’atto amministrativo poi annullato, era, infatti, dai più considerata tra le materie della giurisdizione amministrativa esclusiva, in ragione del contesto di stampo pubblicistico nel quale la complessiva condotta dell’Amministrazione si collocava (e si colloca tuttora) (7). Tuttavia, la Cassazione, con le ordinanze nn. 6594, 6595, 6596 del 2011, ha superato tale orientamento, ed ha affermato risolutamente che: i) la giurisdizione amministrativa presuppone l’esistenza di una controversia sul legittimo esercizio di un potere autoritativo ed è preordinata ad apprestare tutela contro l’agire pubblicistico della P.A. e ii) l’attribuzione al giudice amministrativo della tutela risarcitoria costituisce uno strumento complementare rispetto alla tutela demolitoria, attuabi (7) Cfr., ex multis, Cassazione, sentenza n. 8511/2009; T.A.R. Abruzzo, Pescara, Sez. I, 20 giugno 2012, n. 312; T.A.R. Campania, Napoli, Sez. VIII, 3 luglio 2012, n. 3147.

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GIURISPRUDENZA CIVILE le nel momento in cui il danno di cui si chiede il risarcimento sia casualmente collegato all’illegittimità del provvedimento amministrativo. A questo orientamento si allinea sostanzialmente la sentenza del 2020 sopra citata. In definitiva, dunque, la tutela risarcitoria, secondo quanto statuito data tale recente sentenza della Suprema Corte, può essere invocata davanti al giudice amministrativo soltanto qualora il danno sia conseguenza immediata e diretta dell’illegittimità dell’atto impugnato, non costituendo il risarcimento del danno materia di giurisdizione esclusiva, ma solo uno strumento di tutela ulteriore e, di completamento, rispetto a quello demolitorio. Questo approdo della più recente giurisprudenza di legittimità, in vero, risulta, tutto sommato, eccentrico rispetto a quanto sul tema della giurisdizione statuito dall’ordinanza in epigrafe del Tribunale di Napoli Nord, visto che quest’ultima non svolge alcuna indagine sulla connessione, diretta o meno, del danno lamentato dal privato rispetto all’attività provvedimentale posta in essere dalla P.A. e, anzi, al contrario afferma che nel caso sottoposto al suo scrutinio “sussiste la giurisdizione ordinaria avendo la domanda formulata dal ricorrente riguardo ad un mero comunicato dell’AGCM riconducibile nell’alveo dei comportamenti posti in essere in assenza di esercizio di potere amministrativo ed a front del quale in astratto il privato vanta un diritto soggettivo all’onore e alla reputazione, il cui referente normativo si rinviene nell’art. 2 della Costituzione e la cui violazione è fonte di risarcimento del danno”.

5. Il risarcimento del danno (in re ipsa?) all’immagine e alla reputazione del privato: brevi cenni

La seconda ragione di interesse della pronuncia in epigrafe riguarda il rilievo che questa assegna al danno lamentato dal privato nel ricorso. A riguardo, infatti, come prima cosa l’ordinanza chiarisce che “nel caso di specie […] non è in discussione il diritto della P.A. […] di esprimere pareri e di pubblicare le segnalazioni relative a circostanza che possano determinare distorsioni della concorrenza o del corretto funzionamento del mercato, ma unicamente l’idoneità della segnalazione contenuta nel comunicato stampa […] a ledere o comunque mettere in pericolo il diritto all’immagine alla propria reputazione, anche commerciale, della società ricorrente”. Svolto questo chiarimento, la stessa poi afferma che, per determinare se nel caso di specie la lesione lamentata dal privato possa qualificarsi come ingiusta ex art. 2043 c.c., occorre verificare se l’esercizio della libertà di espressione svolto dall’AGCM abbia travalicato i tre criteri individuati dalla giurisprudenza per svolgere, caso

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per caso, il bilanciamento tra i diritti del privato asseritamente danneggiato e quelli della PA. In particolare, si tratta dei tre criteri della verità, della continenza e dell’interesse pubblico all’informazione. Dunque, e in questo l’ordinanza rivela una sua spiccata originalità, essa decide di valutare il comportamento tenuto dalla P.A. nel caso di specie alla luce dei criteri fissati dalla giurisprudenza, in particolare nell’ambito dell’attività giornalistica, per stabilire se la libertà di espressione e di informazione è stata esercitata correttamente (8). E conclude nel senso che l’informazione diffusa dall’AGCM nel caso sottoposto al vaglio del Tribunale di Napoli Nord con il ricorso introduttivo del giudizio monitorio non rispettava i criteri della continenza e dell’interesse pubblico all’informazione. Da qui la condanna alla P.A. alla rimozione delle informazioni considerate, sotto questi profili, non lecitamente diffuse a danno dell’impresa ricorrente. Ovviamene, l’accoglimento dell’istanza cautelare – che pure si basa, come appena detto, sull’accertamento, oltre che del fumus boni iurisi anche del rischio attuale di un danno ingiusto in capo al ricorrente – non è detto necessariamente preluda ad un accertamento nel giudizio a cognizione piena di un danno effettivamente patito dalla società ricorrente e dunque ad una condanna al risarcimento del danno in capo all’AGCM. Per altro, come noto, provare in giudizio il danno all’immagine o alla reputazione costituisce molto spesso una sfida ardua, il che si traduce sovente nella sottovalutazione del danno da parte del giudice in sentenza (9). E ciò in quanto – sebbene sia oramai pacifico che “onore e reputazione costituiscono diritti della persona costituzionalmente garantiti, [sicché] la loro lesione legittima sempre la persona offesa a domandare il ristoro del danno non patrimoniale, quand’anche il fatto illecito non integri gli estremi di alcun reato” (così, ex ceteris, Cass. 15 giugno 2018 n. 15742) – secondo la giurisprudenza ampiamente maggioritaria “in tema di responsabilità civile per diffamazione a mezzo stampa, il danno all’onore ed alla reputazione, di cui si invoca il risarcimento, non è in re ipsa, identificandosi il danno risarcibile non con la lesione dell’interesse tutelato dall’ordinamento ma con le conseguenze di tale lesione, sicché la sussistenza di siffatto danno non patrimoniale deve essere oggetto di allegazione e prova, anche attraverso presunzioni, assumendo a tal fine rilevanza, quali parametri di riferi-

(8) Sul tema, ex multis, sia dato rinviare a Di Ciommo, Oblio e cronaca: rimessa alle Sezioni Unite la definizione dei criteri di bilanciamento, in Corriere giur., 2019, 5; e Id., Le Sezioni Unite chiamate a fare chiarezza su quando il diritto di cronaca prevale sul diritto all’oblio, in questa Rivista, 2019, 1.  (9) Per recenti considerazioni sul tema, v. Avitabile, Il risarcimento del danno a seguito dell’illecito trattamento di dati personali: un nuovo impulso dal Reg.U.E. 27 aprile 2016 n. 679, in questa Rivista, 2020, 619.


GIURISPRUDENZA CIVILE mento, la diffusione dello scritto, la rilevanza dell’offesa e la posizione sociale della vittima” (così, ex multis, Cass., 26 ottobre 2017 n. 25420). L’assetto pretorio qui cennato non appare del tutto condivisibile, in quanto ci sono interessi, quali, per l’appunto, il diritto all’immagine e alla reputazione, che necessariamente, sul piano naturalistico, vengono pregiudicati, in senso giuridicamente rilevante, da un fatto che li incida in senso lesivo (10). In altri termini, delle due l’una: o, in relazione ai singoli casi concreti, il fatto è produttivo di danno ingiusto in quanto lede gli interessi in parola, nel qual caso tale fatto è da qualificarsi come illecito ed è inevitabile la concretizzazione di un danno in capo al malcapitato che deve essere risarcito; o, al contrario, il fatto non produce un danno ingiusto perché non lede in modo significativo l’interesse protetto e, dunque, non c’è il fatto illecito. Sicché sembra affetto da strabismo l’orientamento pretorio attuale che ritiene risarcibile il danno non patrimoniale da lesione dei diritti della personalità solo quando colui che richiede il risarcimento, pur avendo dimostrato tutti gli elementi di cui all’art. 2043 c.c. (e dunque il fatto, il nesso di causalità, il danno ingiusto e l’elemento soggettivo in capo all’autore del fatto), riesca altresì a produrre in giudizio prova concreta del danno. Ed infatti tal ultima esigenza, ragionando in termini di stretto diritto civile, dovrebbe incidere sul quantum del risarcimento e non già sull’an dello stesso. Mentre pare cogliere nel segno l’ordinanza in epigrafe laddove afferma che nel caso di specie il danno lamentato dalla impresa ricorrente deve considerarsi in re ipsa, almeno ai fini della concessione della richiesta misura cautelare. Parte della giurisprudenza sembra consapevole di come l’orientamento maggioritario in parola appaia insoddisfacente nella pratica e, per l’appunto, poco rispettoso dell’assetto normativo in materia di risarcimento del danno. Tanto che alcune pronunce affermano che la lesione della “dimensione strettamente personale” del diffamato costituisce “nozione di fatto rientrante nella comune esperienza, rilevante ai sensi dell’art. 115 c.p.c.” sicché, una volta accertato il fatto illecito, il giudice può ricavare, per l’appunto ai sensi della disposizione in parola e quindi senza necessità di prova in giudizio, la ricorrenza di una condizione di sofferenza derivante dalla lesione dell’interesse della persona al rispetto del pro-

prio ambito di riservatezza (cfr. Cass. 13 febbraio 2018 n. 3426). E tanto che in generale si riconosce che “la liquidazione del danno derivante da diffamazione, almeno nella sua componente non patrimoniale, presuppone una valutazione necessariamente equitativa, la quale non è censurabile in Cassazione, sempre che i criteri seguiti siano enunciati in motivazione e non siano manifestamente incongrui rispetto al caso concreto, o radicalmente contraddittori, o macroscopicamente contrari a dati di comune esperienza, ovvero l’esito della loro applicazione risulti particolarmente sproporzionato per eccesso o difetto” (così, Cass. 25 maggio 2017 n. 13153). Ed alcune recenti pronunce chiariscono anche con dovizia di particolari quali siano i criteri e i parametri che il giudice deve utilizzare per effettuare tale valutazione equitativa (cfr. ex ceteris, Cass. 30 agosto 2019 n. 21855) Per scoprire quale posizione il Tribunale di Napoli Nord prenderà nel caso in rassegna rispetto ai delicati temi della prova e della quantificazione del danno, non resta che seguire il cennato giudizio a cognizione piena che dovrebbe far seguito al procedimento cautelare definito con l’ordinanza in epigrafe.

(10) Per considerazioni varie sul tema, cfr. Di Ciommo - Messinetti, Diritti della personalità, in S. Martuccelli – V. Pescatore (a cura di), Dizionario giuridico, diretto da N. Irti, Milano, 2012, p. 598-620; nonché Di Ciommo – Pardolesi, Dal diritto all’oblio in Internet alla tutela dell’identità dinamica. E’ la Rete, bellezza!, in Danno e resp., 2012, p. 701; e Di Ciommo – Pardolesi, Trattamento dei dati personali e archivi storici accessibili in Internet: notizia vera, difetto di attualità, diritto all’oblio, in Danno e resp., 2012, 747.

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GIURISPRUDENZA CIVILE

La deindicizzazione: il bilanciamento tra il diritto all’oblio e il diritto di cronaca Tribunale di M ilano; sezione I civile; sentenza 14 aprile 2020 n. 1416; Giud. Boroni; M.P. (Avv. Basile, Italiano) c. Google Italy s.r.l. e Google LLC (Avv. Masnada, Bellan, Berliri) Il diritto all’oblio è il diritto dell’interessato a chiedere la rimozione di informazioni o dati pubblicati che non sono più attuali o necessari per le finalità per le quali erano stati raccolti e trattati. Ne deriva che il diritto all’oblio può venire in questione allorquando il trattamento di dati personali, originariamente lecito, divenga (per via del trascorrere del tempo ovvero a seguito della revoca del consenso) incompatibile con il Regolamento. Nella materia relativa alla protezione dei dati personali, per “indicizzazione” si allude all’inserimento di dati personali in un motore di ricerca. A causa della indicizzazione, il motore di ricerca mette a disposizione degli utenti una serie di collegamenti ipertestuali (c.d. link) che rimandano a siti web (anche di testate giornalistiche) cui l’utente può accedere per il tramite della pagina browser del motore di ricerca a seguito dell’immissione di parole o frasi attinenti la ricerca. È agevole comprendere che quando i contenuti di cui si chiede la rimozione sono riferibili a siti web cui il motore di ricerca indirizza, il diritto all’oblio si configura quale diritto alla de-indicizzazione, in virtù del quale l’interessato può ottenere dal gestore di un motore di ricerca la rimozione dall’elenco di risultati che appaiono a seguito di una ricerca effettuata a partire dal suo nome. Il diritto all’oblio non si configura quale diritto cui l’ordinamento offre una tutela incondizionata, giacché deve essere necessariamente bilanciato con ulteriori interessi, tra cui spicca il diritto all’informazione nel legittimo esercizio del diritto di cronaca, quale declinazione del diritto enucleato dall’art. 21 Cost. Infatti, se pure si riconosce che il diritto alla tutela dei dati personali, di cui il diritto all’oblio è espressione, è un diritto fondamentale, deve comunque evidenziarsi che la sua tutela non può essere apprestata comprimendo in modo indiscriminato ulteriori diritti fondamentali. Il diritto all’oblio deve essere necessariamente bilanciato con il diritto di cronaca; tale bilanciamento tra interesse del singolo ad essere dimenticato e quello opposto della collettività a conoscere fatti legittimamente divulgati nell’esercizio del diritto di cronaca, presuppone un complesso giudizio nel quale assumano rilievo decisivo la notorietà dell’interessato, il suo coinvolgimento nella vita pubblica, l’oggetto della notizia e il tempo trascorso. Quando da tale bilanciamento risulta prevalere l’interesse della collettività, il diritto all’oblio, nella sua declinazione di diritto alla de-indicizzazione, non può essere riconosciuto.

…Omissis… Motivi della decisione Con ricorso ex art. 79 Reg. 679/2016 e art. 10 del D.lgs. 150/2011, M. Z. conveniva Google LLC e Google Italy S.r.l. chiedendo di ordinare loro la de-indicizzazione di due articoli del …Omissis… e di tutti risultati che appaiono nel motore di ricerca Google a seguito della ricerca effettuata per mezzo della digitazione del nome …Omissis… ivi inclusa ogni combinazione rilevante di parole chiave, anche direttamente suggerita dal motore (…Omissis…). Chiedeva accertarsi e dichiararsi la lesione della propria iniziativa economica, dell’immagine, della sfera privata e della reputazione da parte del motore di ricerca Google in relazione agli articoli del …Omissis… ; nonché accertarsi e dichiararsi la violazione della normativa in materia di tutela dei dati personali da parte dei resistenti. Chiedeva condannarsi le resistenti, in solido, al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti …Omissis…

A supporto del ricorso allegava la seguente vicenda. Si esponeva che M. Z., professionista attivo e noto nel campo della finanza, nel 2013 veniva coinvolto in un procedimento penale su iniziativa della Procura di Firenze per violazione dell’art. 166 TUF in qualità di persona fisica e in qualità di “proprietario” della società fiduciaria di diritto svizzero “GCT”. Tale procedimento esitava in una sentenza resa a seguito di richiesta di applicazione della pena su richiesta delle parti ex art. 444 c.p.p. “…Omissis…”. Si allegava che la condotta dello M. Z. non aveva cagionato alcun danno a terzi giacché nel procedimento penale alcuno si costituiva parte civile; che il Tribunale non ordinava la pubblicazione della sentenza sulla stampa locale e che, inoltre, sul certificato del casellario giudiziale non risultava alcuna iscrizione. Si rilevava, altresì, che l’ordine di esecuzione della pena era stato sospeso e che lo M. Z. …Omissis… . Tanto premesso, venendo al fulcro della vicenda, il ricorrente deduceva che a seguito dell’emanazione della

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GIURISPRUDENZA CIVILE sentenza emessa dal Tribunale di Firenze ex art. 444 c.p.p. per i fatti di cui supra, venivano pubblicati taluni articoli sulle testate giornalistiche a mezzo stampa relativi alla vicenda processuale che aveva coinvolto lo M.Z.. Al momento della presentazione del ricorso permanevano sul web solo due articoli sul tema: …Omissis… . In diritto, deduceva che nella specie la sussistenza degli estremi per riconoscere il c.d. diritto all’oblio di cui all’art. 17 del Reg. UE 679/2016, in specie di diritto alla de-indicizzazione atteso che i fatti di cui alla summenzionata vicenda processuale, erano occorsi nel 2012 e che quindi non poteva ritenersi permanente un interesse attuale della collettività a prendere cognizione degli stessi. Inoltre, secondo la prospettazione del ricorrente, non permarrebbe l’utilità sociale dell’informazione sulle vicende dello M. Z. giacché lo stesso non è un personaggio pubblico. Sul punto, deduceva che lo M. Z. ha smesso di operare nel settore in cui operava all’epoca dei fatti di cui alla citata sentenza (quello della gestione finanziaria individuale) e che attualmente svolge attività di consulenza e assistenza nell’istituzione di trust. Deduceva che i nominati articoli provocano una esposizione mediatica sproporzionata rispetto alla posizione ricoperta dall’attore e che comportano un effetto sanzionatorio che la sentenza già citata ha escluso non disponendo la pubblicazione della sentenza. Sul risarcimento del danno, deduceva che la diffusione degli articoli in questione si è riverberata sull’attività del ricorrente determinando un deterioramento dei risultati di gestione, una significativa riduzione della clientela e una generale perdita di credibilità dello M. Z. Si costituivano Google LLC e Google Italy con medesima comparsa di risposta e chiedevano rigettarsi le domande avversarie perché infondate in fatto e in diritto. In primo luogo, Google Italy rilevava la propria totale estraneità rispetto al servizio Google Web Search che veicola le informazioni asseritamente lesive, non potendo, pertanto, essere qualificata quale titolare o responsabile del trattamento dei dati personali del ricorrente. Nel merito, entrambe le resistenti deducevano la infondatezza della domanda avversaria per difetto dei presupposti di cui all’art. 17 del Reg. UE 2016/679. In particolare contestavano l’insussistenza della attualità dell’interesse pubblico alla conoscenza delle informazioni inerenti al Sig. Z. e contenute nei due articoli summenzionati atteso che la sentenza del Tribunale di Firenze in questione risale al 2017 (due anni prima rispetto alla presentazione del presente ricorso). Evidenziavano che il ricorrente riveste il ruolo di intermediario finanziario e che ciò induce a ritenere che i potenziali clienti abbiano interesse ad essere resi edotti delle vicende giudiziarie che hanno coinvolto il ricorrente e che sono esitate in una sentenza ex art. 444 c.p.p. con condanna dello M. Z. alla pena di tre anni e due

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mesi per i reati di associazione a delinquere e di abusivismo finanziario. Inoltre si sottolineava il nesso sostanziale intercorrente tra i reati per cui lo M. Z. era stato condannato e l’esercizio della sua attività professionale. Rappresentavano che il fatto che le notizie in discorso fossero state pubblicate da …Omissis… imporrebbe di attuare un bilanciamento tra il diritto all’oblio e l’interesse degli utenti alla reperibilità della notizia tramite il motore di ricerca. Deducevano, inoltre, la inammissibilità per genericità della domanda di indicizzazione di contenuti non meglio precisati che appaiono a seguito della ricerca di varie combinazioni di parole …Omissis… Eccepivano, altresì, che Google LLC e Google Italy, in qualità di chaching provider ex art. 15 D.lgs.70/2003, non hanno alcun obbligo di de-indicizzare contenuti su diffida di parte nonché la inammissibilità della domanda risarcitoria perché indeterminata, generica, nonché sprovvista di supporto probatorio. Alla prima udienza la difesa di parte ricorrente dichiarava di rinunciare all’azione avverso Google Italy; la difesa di quest’ultima parte dichiarava di accettare tale rinuncia e chiedeva …Omissis… . Verificata la sussistenza dei presupposti di legge, il G.I. dichiarava estinto il giudizio tra M. Z. e Google Italy S.r.l. …Omissis... . Successivamente, il G.I. invitava le parti a prendere posizione sul profilo della giurisdizione. La difesa di parte ricorrente insisteva nella sussistenza della giurisdizione dell’autorità adita sia alla luce dei criteri stabiliti dall’art. 5 c.p.c. in ordine al momento in cui si radica la giurisdizione (e cioè al momento della proposizione della domanda) sia perché il Reg. UE 2016/679, nel riconoscere il diritto alla privacy, non fa riferimento alla cittadinanza della parte del cui trattamento si lamenta; osservava, altresì, che a mente dell’art. 79 del Reg. UE 2016/679 è sufficiente che sussista nel territorio dello Stato membro uno stabilimento del titolare del trattamento sulla scorta di consolidata giurisprudenza. Contestava che la questione di giurisdizione fosse rilevabile d’ufficio; osservava, infine che, in punto di fatto, il Sig. Z. risulta attualmente essere stato destinatario di un provvedimento dell’ Autorità Giudiziaria con obbligo di dimora in …Omissis… , dimodoché la circostanza che abbia residenza …Omissis… , è circostanza recessiva. La difesa di parte resistente osservava che la CGUE non ha mai attribuito a Google LLC e a Google Italy la natura di stabilimenti e che il luogo rilevante nell’individuazione anche della giurisdizione è quello in cui può dirsi che l’interessato abbia percepito l’illiceità del trattamento e quindi, il luogo ove sia posizionato il centro dei propri interessi, pertanto, la mera circostanza che il ricorrente sia stato oggetto di un provvedimento restrittivo in …Omissis… non è sufficiente a realizzare detto


GIURISPRUDENZA CIVILE presupposto. Non si opponeva, tuttavia, alla declaratoria di difetto di giurisdizione e si rimetteva alla decisione del Tribunale. …Omissis… Quindi, in assenza di ulteriori istanze delle parti, veniva fissata udienza di discussione nel merito del ricorso. A tale udienza i procuratori discutevano oralmente la causa; la difesa di parte ricorrente proponeva la rimessione di questione pregiudiziale innanzi alla CGUE ex art. 267 TFUE sulla interpretazione dell’art. 17 del Reg. UE 2016/679. All’esito, questo Giudice dava lettura del dispositivo di sentenza innanzi a tutte le parti presenti. La domanda presentata con ricorso è infondata per difetto dei presupposti di cui all’art. 17 del Reg. UE 2016679 (…Omissis…). Sulla qualità di titolare del trattamento di dati personali di Google LCC Nella materia che ci occupa, il profilo relativo alla qualità di titolare e/o responsabile dei dati personali del resistente Google LLC assume rilievo preliminare. Invero, la eventuale insussistenza di tale status in capo al resistente rileva non solo ai fini della legittimazione passiva, ma, altresì, ai fini della declaratoria di giurisdizione. Orbene, entrando nel merito della questione, è noto che la disciplina inerente il trattamento dei dati personali è di derivazione unionale. Sin dalla nota sentenza della CGUE c.d. Google Spain del 2014 che costituisce il “leading case” in materia di diritto all’oblio, le cui statuizioni non sono state messe in discussione da pronunce successive, si afferma che: “Il gestore di un motore di ricerca su Internet è responsabile del trattamento da esso effettuato dei dati personali che appaiono su pagine web pubblicate da terzi. Così, nel caso in cui, a seguito di una ricerca effettuata a partire dal nome di una persona, l’elenco di risultati mostra un link verso una pagina web che contiene informazioni sulla persona in questione, questa può rivolgersi direttamente al gestore”. In altri termini, con questa pronuncia, la Corte di Giustizia ha affermato che costituisce “trattamento di dati personali” l’attività di un motore di ricerca che consiste nel ricercare informazioni pubblicate o inserite da soggetti terzi in Internet (la c.d. attività di cache provider). …Omissis… D’altronde, non vi sono argomenti per ritenere che i motori di ricerca non possano essere considerati titolari o responsabili del trattamento dei dati che raccolgono e pongono a disposizione dei loro utenti. Infatti, i motori di ricerca sono pacificamente qualificati cache provider, la cui principale attività consiste nell’immagazzinare dati provenienti da terzi (…Omissis…) al fine di accelerare la navigazione in rete. La tematica assume particolare rilievo nell’era …Omissis…

Deve dunque ribadirsi che Google LLC, in quanto titolare del trattamento dei dati che processa può essere astrattamente ritenuta responsabile in ipotesi di mancato ossequio all’obbligo di verificare che determinate pagine riconducibili a fatti particolari inerenti a determinati soggetti non sono più attuali e debbano essere de-indicizzate su richiesta dell’interessato (c.d. “Right to request delisting” su cui si indugerà più diffusamente infra). Nella specie, Google LLC …Omissis… deve essere considerato titolare del trattamento di dati personali del ricorrente perché ha indicizzato articoli pubblicati da testate giornalistiche in cui lo M. Z. veniva espressamente nominato e in cui si narravano vicende a questi relative. Sulla sussistenza della giurisdizione Tanto premesso sulla legittimazione passiva di Google LLC, può passarsi all’esame della giurisdizione del Giudice italiano sulla presente controversia, disamina che va effettuata alla luce della particolare qualità dei soggetti coinvolti. Giova evidenziare che l’art. 79 del Regolamento UE prescrive …Omissis… Dispone, altresì, che le azioni nei confronti del titolare del trattamento o del responsabile del trattamento sono promosse dinanzi alle autorità giurisdizionali dello Stato membro in cui il titolare del trattamento o il responsabile del trattamento ha uno stabilimento. In alternativa, tali azioni possono essere promosse dinanzi alle autorità giurisdizionali dello Stato membro in cui l’interessato risiede abitualmente. Orbene, i principi portanti del Regolamento UE in materia di giurisdizione possono essere individuati nel principio di stabilimento (requisito oggettivo) e, in via sussidiaria, nel principio di abituale residenza dell’interessato (requisito soggettivo). Viepiù, tali requisiti vanno interpretati alla luce dei principi informatori del Regolamento in questione. Invero, l’analisi di quest’ultimo provvedimento mostra che il legislatore unionale ha raggiunto una maturata consapevolezza in merito alle problematiche inerenti il trattamento dei dati personali di massa tramite strumenti tecnologici, in quanto idoneo ad assumere una dimensione transfrontaliera (…Omissis…). Tornando al principio di stabilimento, la sua configurazione si ricava dal diritto primario dell’UE e comporta che una impresa “stabilita” in un certo Paese, che elabora dati nel contesto di tale stabilimento è soggetta alla giurisdizione del Paese di stabilimento stesso. Una impresa si intende “stabilita” in un determinato Paese allorquando ivi possegga una stabile organizzazione e ivi svolga una attività economica a tempo indeterminato. D’altra parte, qualora un soggetto non stabilito nell’Unione europea effettui il trattamento di dati personali di interessati che si trovino nell’Unione europea (cfr. art. 3 par. 2, Reg. Ue 2016/679) questi è obbligato a designa-

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GIURISPRUDENZA CIVILE re un rappresentante stabilito nel territorio degli Stati membri dove si trovino gli interessati (art. 27, par. 1 e 3, Reg. UE 2016/679). Viepiù, ai fini di ciò che quivi maggiormente rileva, il par. 4 dell’art. 27 del Reg. UE 2016/679 …Omissis… Tale disposizione dimostra inequivocabilmente che il titolare dello stabilimento “intra UE” (nella specie, Google Italy) designato da parte dello stabilimento “extra UE” (nella specie, Google LLC) funge da interlocutore e possiede un ruolo vicario o suppletivo rispetto allo stabilimento principale, che non è di per sé idoneo ad elidere il ruolo del titolare del trattamento che processa i dati. Inoltre, l’obbligo di cui all’art. 27 cit. deve intendersi posto precipuamente a presidio della garanzia di effettività di tutela per gli interessati. Infatti, se questi fossero tenuti ad interfacciarsi con la impresa stabilita nello Stato extra UE in cui si trova lo stabilimento principale del motore di ricerca che processa i loro dati, sarebbe certamente frustata la tutela dei diritti loro attribuiti dal diritto unionale, giacché astrattamente possibile, ma, di fatto, eccessivamente gravosa. Dall’interpretazione sistematica del Regolamento è agevole desumere che esso intende attribuire particolare rilevanza al profilo della effettività della tutela, proprio in virtù dell’assunto in base al quale il trattamento dei dati personali in via automatizzata valica i confini nazionali per assumere un ambito di applicazione transfrontaliero e, in caso di illecito trattamento, una vasta e incontrollata portata lesiva. Non valorizzare tale profilo significherebbe contraddire i principi che informano il Regolamento Ue in questione, atteso che, sin dal secondo considerando il legislatore europeo precisa che “i principi e le norme a tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati di carattere personale (“dati personali”) dovrebbero rispettarne i diritti e le libertà fondamentali, in particolare il diritto alla protezione dei dati personali, a prescindere dalla loro nazionalità o dalla loro residenza. E ancora al considerando n. 10 …Omissis… Ne deriva che, nell’ottica del regolamento, ciò che maggiormente rileva è che tutti i giudici degli Stati membri offrano agli interessati effettiva e uniforme di tutela giurisdizionale sempreché vi siano elementi qualificati di connessione tra lo stato della autorità giurisdizionale adita e il supposto illecito trattamento dei dati personali. Di tale rilievo non si può essere negletti anche sulla scorta dei costanti insegnamenti della giurisprudenza unionale la quale ha affermato, a più riprese, che spetta al giudice nazionale assicurare a coloro i quali adiscano la autorità giudiziale una tutela giurisdizionale effettiva ai diritti riconosciuti dal diritto dell’Unione europea. Deve, tuttavia, considerarsi che il fatto che Google LLC possegga in Italia uno stabilimento non è circostanza di

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per sé sufficiente a radicare la giurisdizione della presente controversa innanzi a questo Giudice. Infatti, nella specie, atteso che la domanda proposta avverso Google Italy è stata oggetto di rinuncia da parte del ricorrente e che solo Google LLC (con sede in America) è parte del giudizio, deve ritenersi insussistente il requisito oggettivo di cui all’art. 79 del Reg. cit. Ciò non osta, in ogni caso, al riconoscimento della giurisdizione del giudice italiano a scapito di quello americano, atteso che la società Google LLC quivi convenuta processa dati riconducibili alla sfera giuridica di interessati che si trovano sul territorio italiano. A tal proposito, soccorre il requisito soggettivo di determinazione della giurisdizione di cui all’art. 79 del Regolamento inerente la abituale residenza dell’interessato. Orbene, la locuzione “residenza abituale” deve essere oggetto di interpretazione sistematica per garantire una tutela effettiva ed uniforme a coloro i quali si trovino sul territorio di uno Stato membro dell’Unione europea. Invero, ai fini dell’integrazione di tale criterio non può guardarsi unicamente il luogo della residenza formale dell’interessato, ma deve, altresì, guardarsi il luogo in cui sono allocati i principali interessi dell’interessato anche con riguardo al luogo in cui si riverberano gli effetti dell’asserito illecito trattamento alla luce della domanda proposta. …Omissis… Ora, sebbene il Reg. CE 44-2001 debba considerarsi lex generalis rispetto alla lex specialis di cui al Reg. UE 2016/679, la interpretazione che ne ha fornito la CGUE in materia di violazione dei diritti della personalità derivante dalla pubblicazione di informazioni su Internet deve essere tenuta in considerazione nella materia che ci occupa. Infatti, la CGUE ha stabilito che: “l’art. 5, punto 3, del regolamento (CE) del Consiglio 22 dicembre 2000, n. 44/2001, concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, deve essere interpretato nel senso che, in caso di asserita violazione dei diritti della personalità per mezzo di contenuti messi in rete su un sito Internet, la persona che si ritiene lesa ha la facoltà di esperire un’azione di risarcimento ...Omissis… dinanzi ai giudici di ogni Stato membro sul cui territorio un’informazione messa in rete sia accessibile oppure lo sia stata. Questi ultimi sono competenti a conoscere del solo danno cagionato sul territorio dello Stato membro del giudice adito”. …Omissis… . Il riferimento è all’art. 56 che …Omissis… Ciò posto, a prescindere dal luogo di residenza formale del ricorrente …Omissis… lo M. Z. intrattiene i suoi affari prevalentemente in Italia e che gli articoli di cui si chiede la rimozione posseggono idonea e astratta portata lesiva sul territorio italiano.


GIURISPRUDENZA CIVILE In tal senso depone altresì la circostanza in base alla quale la sentenza nominata dai due articoli asseritamente lesivi è stata emessa da un tribunale italiano, in relazione a fatti occorsi in Italia. Sul punto, deve inoltre evidenziarsi che gli articoli in questione sono stati redatti da testate giornalistiche italiane. Ulteriore indice è offerto dal fatto che la società mediante la quale lo …Omissis… operava all’epoca dei fatti di cui alla sentenza aveva sede in Italia. D’altra parte, deve evidenziarsi che lo …Omissis… si duole prevalentemente del fatto che gli articoli indicizzati da Google LLC sono idonei a ledere la propria reputazione professionale e a dissuadere clienti e investitori italiani nel riporre la fiducia nel ricorrente. Ne deriva che il trattamento effettuato da Google LLC è idoneo ad incidere in modo sostanziale sugli interessi del ricorrente, i quali sono posti nel territorio italiano. Valorizzato il criterio soggettivo della residenza abituale alla luce del criterio del c.d. centro di interessi e il luogo in cui si riverberano gli effetti del trattamento asseritamente lesivo deve ritenersi sussistente la giurisdizione di questo Giudice sul presente ricorso. Sulla insussistenza dei requisiti necessari ai fini del riconoscimento del diritto all’oblio Per ciò che concerne il merito del ricorso, devono ritenersi insussistenti i presupposti del riconoscimento del diritto all’oblio in specie di diritto alla de-indicizzazione quivi affermato dal ricorrente. Ai fini di maggiore chiarezza espositiva, deve evidenziarsi che la configurazione attuale del diritto all’oblio pone le basi nella già citata sentenza Google Spain emessa dalla CGUE nell’anno 2014. …Omissis… Tale assunto è stato fatto proprio dal Garante europeo per la protezione dei dati personali che in occasione dell’emanazione delle già citate linee guida n. 5 del 2 dicembre 2019 in materia di diritto all’oblio nell’ambito dell’attività dei motori di ricerca sub Reg. UE 2016/679 ha chiarito che l’art. 17 cit. e il diritto alla de-indicizzazione deve essere interpretato alla luce di quanto stabilito nel “leading case” Google Spain. Prima di enucleare i requisiti al ricorrere dei quali sussiste il diritto all’oblio occorre specificarne l’essenza. Il diritto all’oblio è il diritto dell’interessato a chiedere la rimozione di informazioni o dati pubblicati che non sono più attuali o necessari per le finalità per le quali erano stati raccolti e trattati. Ne deriva che, il diritto all’oblio può venire in questione allorquando il trattamento di dati personali, originariamente lecito, divenga (…Omissis…) incompatibile con il Regolamento. Nella materia relativa alla protezione dei dati personali, allorquando si fa riferimento alla “indicizzazione” si

allude all’inserimento di dati personali in un motore di ricerca. A causa della indicizzazione, il motore di ricerca mette a disposizione degli utenti una serie di collegamenti ipertestuali (c.d. link) che rimandano a siti web (anche di testate giornalistiche) cui l’utente può accedere per il tramite della pagina browser del motore di ricerca a seguito dell’immissione di parole o frasi attinenti alla loro ricerca. È agevole comprendere che quando i contenuti di cui si chiede la rimozione sono riferibili a siti web cui il motore di ricerca indirizza, il diritto all’oblio si configura quale diritto alla de-indicizzazione che, citando testualmente la celebre pronuncia già nominata, è: “il diritto dell’interessato a che l’informazione riguardante la sua persona non venga più collegata al suo nome da un elenco di risultati che appare a seguito di una ricerca effettuata a partire dal suo nome”. …Omissis… Il diritto all’oblio, infatti, non è un diritto cui si l’ordinamento offre una tutela incondizionata, giacché deve essere necessariamente bilanciato con ulteriori interessi, tra cui spicca il diritto alla informazione nel legittimo esercizio del diritto di cronaca, quale declinazione del diritto enucleato dall’art. 21 Cost. Infatti, se pure si riconosce che il diritto alla tutela dei dati personali cui il diritto all’oblio è espressione è un diritto fondamentale, …Omissis… . La stessa Corte Costituzionale ha ammesso la possibilità di sottoporre a bilanciamento due interessi fondamentali contrapposti deducendo che la nostra Costituzione non prevede una gerarchia di valori e, per questo, nel nostro ordinamento non possono enuclearsi “diritti fondamentali tiranni” con “pretesa di assolutezza” (Sentenza Corte Costituzionale n. 85 del 2013). Invero, il bilanciamento tra l’interesse del singolo ad essere dimenticato e quello opposto della collettività a conoscere fatti legittimamente divulgati nell’esercizio del diritto di cronaca presuppone un complesso giudizio nel quale assumono rilievo decisivo la notorietà dell’interessato, il suo coinvolgimento nella vita pubblica, l’oggetto della notizia e il tempo trascorso, anche sulla scorta degli insegnamenti della CGUE. Orbene, nella specie, deve rilevarsi che il nominato bilanciamento deve considerare prevalente l’interesse della collettività ad essere resa edotta delle informazioni contenute negli articoli di cui il ricorrente chiede la de-indicizzazione rispetto all’evocato diritto all’oblio. Va osservato che nel ricorso non è dato rinvenire una specifica lamentela con riguardo al contenuto degli articoli richiamati soltanto in via generale come riferiti alla vicenda processuale del ricorrente lamentandosi in questa sede della mera visibilità attraverso la indicizzazione dei testi (…Omissis…).

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GIURISPRUDENZA CIVILE Ora, dal carteggio processuale emerge che lo …Omissis… è un uomo di affari operante nel campo della finanza. La già nominata sentenza del Tribunale di Firenze contiene l’accertamento di penale responsabilità dello … Omissis… ordine al reato di abusivismo ai sensi dell’art. 166 TUF e associazione per delinquere. Dunque gli articoli asseritamente lesivi fanno riferimento ai fatti commessi dallo …Omissis… e accertati in sentenza. Preso atto della tipologia del fatto di reato commesso dallo …Omissis… e preso altresì atto che egli risulta rivestire un ruolo nel campo delle attività finanziarie, deve rilevarsi che permane un interesse della collettività a conoscere le vicende processuali che hanno interessato il ricorrente, considerato, preminentemente, che i fatti di cui alla sentenza sono inscindibilmente interrelati al ruolo professionale che svolge lo …Omissis... Per quanto riguarda la attualità delle notizie riportate dagli articoli di cui si chiede la deindicizzazione e la sussistenza del perdurante interesse della collettività a essere resi edotti del loro contenuto deve rilevarsi quanto segue. Nonostante i nominati articoli facciano riferimento ad una sentenza di condanna emessa in relazione a fatti occorsi nel 2012, l’accertamento irrevocabile di responsabilità dello …Omissis… è occorso in data 2017. Per tale ragione, è a quest’ultima data che deve farsi riferimento per valutare il grado di obsolescenza delle notizie in questione. …Omissis… Deve dunque rilevarsi che a nessun fine possono farsi retroagire gli effetti di una sentenza di condanna al momento dei fatti, così contraddicendo un principio cardine di civiltà giuridica avente valenza costituzionale. A ciò si aggiunga che lo …Omissis… sta attualmente eseguendo una misura alternativa alla detenzione …Omissis… . Per queste ragioni, considerato l’oggetto degli articoli in questione, l’oggetto e la data della sentenza del Tribunale di Firenze da questi richiamata nonché la professione svolta dallo …Omissis…, sussiste inequivocabilmente l’attuale diritto della collettività ad essere informata sui fatti commessi dal ricorrente aventi penale rilevanza. Si osserva, infatti, che la sentenza del Tribunale di Firenze è stata emessa nel 2017, vale a dire circa due anni prima la data della presentazione del presente ricorso. Orbene, nonostante non possa ritenersi che sussista un termine rigido entro il quale una notizia possa ritenersi obsoleta ai fini del riconoscimento del diritto alla deindicizzazione della stessa, deve rilevarsi che, considerate le peculiarità del caso di specie supra evidenziate, due anni devono ritenersi insufficienti. Pure volendo ritenere che debba considerarsi il momento di commissione dei fatti per cui vi è stata sentenza

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(2012) neppure i sette anni rispetto alla presentazione del ricorso sarebbero idonei ad inficiare il giudizio di perdurante attualità della notizia, avendo riguardo dell’oggetto della stessa e del ruolo attualmente rivestito dal ricorrente. Infatti, lo …Omissis… è un uomo attualmente attivo nel campo dell’intermediazione finanziaria e ha commesso dei fatti criminosi in associazione con altri nello svolgimento della propria attività professionale. Per questa ragione, sussiste inequivocabilmente l’interesse di potenziali clienti del ricorrente ad essere resi edotti di tale circostanza. Giova, infine, evidenziare che, contrariamente da quanto sostenuto, resta del tutto irrilevante la circostanza in base alla quale lo …Omissis… non svolgerebbe attualmente attività di consulenza finanziaria individuale (… Omissis…). Infatti, la nozione di “stesso campo di attività rispetto a quello dei fatti” deve essere interpretata in senso lato ai fini che ci occupano, guardando, pertanto, alla potenziale clientela dello …Omissis…, che si riferisce sempre all’ambito dell’attività di intermediazione finanziaria. Per quanto attiene la questione inerente la divulgazione della condanna quale effetto non disposto dalla sentenza resa a seguito di applicazione della pena su richiesta delle parti ex art. 444 c.p.p. deve rilevarsi quanto segue. È noto che accedere al c.d. patteggiamento ex art. 444 c.p.p., nei casi prescritti dalla legge, consiste in una scelta di rito dell’imputato. È altrettanto noto che da tale scelta …Omissis… Inoltre, in merito al rilievo del ricorrente sull’insussistenza di danni del reato commesso e accertato dalla sentenza del T. di Firenze atteso la mancata costituzione di parte civile di alcuno, deve rilevarsi che a seguito di richiesta di patteggiamento non è ammessa la costituzione di parte civile. …Omissis… In ogni caso, deve evidenziarsi che considerare congiuntamente gli effetti sanzionatori della sentenza penale e gli effetti dell’esposizione mediatica dovuta al legittimo esercizio del diritto di cronaca si traduce in una di indebita sovrapposizione di piani. Invero, non può ritenersi che, a titolo esemplificativo, ogni qual volta il giudice penale disponga il beneficio della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale ex art. 175 c.p. debba, per ciò solo, ritenersi insussistente il diritto di cronaca con riguardo alla divulgazione del fatto accertato in detta sentenza. Sulla questione pregiudiziale ex art. 267 TFUE sull’art. 17 del Reg. UE 2016/679. Deve rilevarsi che la difesa di parte ricorrente ha chiesto a questo Giudice di sollevare questione pregiudiziale ex art. 267 TFUE …Omissis…


GIURISPRUDENZA CIVILE È jus receptum che Il rinvio pregiudiziale costituisce quindi un rinvio da Corte a Corte e che, anche se può essere richiesto da una delle parti della controversia …Omissis… . Poiché il giudice nazionale investito di una controversia è chiamato ad assumersi la responsabilità dell’emananda decisione giurisdizionale, spetta a tale giudice — e a lui solo — valutare, alla luce delle particolari circostanze di ciascuna causa, la necessità di proporre una domanda di pronuncia pregiudiziale per essere in grado di emanare la propria sentenza nonché la rilevanza delle questioni che sottopone alla Corte. Orbene, si osserva che ai fini della decisione della controversia è necessaria l’applicazione dell’art. 17 del Regolamento UE 2016/679 …Omissis… . Tuttavia, questo Giudice non ritiene necessario sollevare una questione pregiudiziale sull’interpretazione dell’art. 17 citato atteso che la Corte di Giustizia dell’Unione europea si è già espressa sui canoni ermeneutici cui il giudicante deve fare ricorso per contemperare il diritto alla riservatezza con ulteriori diritti fondamentali che dovessero venire in questione. Deve dunque affermarsi che non osta al diritto dell’Unione europea così come interpretato dalla CGUE fare ricorso ai requisiti enucleati dalla pronuncia Google

Spain del 2014 ai fini del riconoscimento del diritto all’oblio allorquando venga in questione il diritto fondamentale alla libera iniziativa economica. Alla luce di tali considerazioni la richiesta di rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE così come spiegata da parte ricorrente non merita adesione. In conclusione, tutte le ragioni enucleate non può riconoscersi il diritto alla deindicizzazione così come richiesto dal ricorrente perché recessivo rispetto al diritto collettivo all’informazione in merito alle vicende esposte nei già nominati articoli. Dunque, si impone il rigetto del ricorso. Le restanti domande o questioni restano assorbite. Spese di lite Le spese di lite seguono la soccombenza …Omissis…. P.Q.M. Il Tribunale di Milano …Omissis… - dichiara estinta l’azione proposta da M.Z. avverso Google Italy s.r.l.; - rigetta il ricorso ex art. 79 Reg UE 2016/679 E 10 Dlgs 150/2011 proposto …Omissis…; - condanna M.Z. al pagamento, in favore di Google LLC e di Google Italy S.r.l. …Omissis…; -…Omissis…

IL COMMENTO

di Antonfabio Morena Sommario: 1. Il caso. – 2. I principi affermati in “Google Spain”. – 3. Questioni preliminari: legittimazione passiva e sussistenza della giurisdizione. – 4. Il bilanciamento tra diritto all’oblio e diritto di cronaca. – 5. Note conclusive. Il contributo è volto ad analizzare una recente sentenza con cui il Tribunale di Milano si è occupato nuovamente di questioni relative al diritto all’oblio, nella sua declinazione di c.d. “diritto alla deindicizzazione”, delineato nei suoi tratti essenziali dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europa nel “leading case” Google Spain. Attraverso l’analisi ed il commento del percorso argomentativo seguito dal giudice meneghino, il lavoro intende soffermarsi sul difficile bilanciamento tra il diritto all’oblio ed ulteriori interessi tutelati dal nostro ordinamento, tra i quali spicca il diritto all’informazione, quale declinazione del diritto consacrato dall’art. 21 Cost. The contribution is intended to analyze a recent judgment with which the Court of Milan has dealt with issues relating to the right to be forgotten, in the declination of the so called “right to delisting”, outlined in its essential features by the Court of Justice of the European Union in the leading case “Google Spain”. Through the analysis and commentary of the argumentative path followed by the judge, the work intends to dwell on the difficult balance between the right to be forgotten and other protected interests, among which stands out the right to information in the legitimate exercise of the broader right enshrined by article 21 of the Italian Constitution.

1. Il caso

I fatti oggetto della decisione in esame prendono avvio da una ricerca Google effettuata dal ricorrente. Questi si avvedeva che, digitando le proprie generalità, ivi inclusa ogni combinazione rilevante di parole chiave, anche direttamente suggerite dal motore di ricerca “Google Web Search”, comparivano nell’elenco dei risultati due articoli di giornale in cui venivano riportate informa-

zioni relative ad una vicenda processuale che lo vedeva coinvolto. Nella fattispecie, a seguito di richiesta di applicazione della pena su richiesta delle parti ex art. 444 c.p.p., era stata emessa sentenza dal Tribunale di Firenze, senza, tuttavia, disporne né la pubblicazione su stampa, né l’iscrizione della condotta nel casellario giudiziale.

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GIURISPRUDENZA CIVILE I detti articoli di giornale, a ragione del ricorrente, erano idonei a ledere la sua iniziativa economica, la sua immagine e reputazione, essendo atti a generare una “gogna mediatica”, al punto che costui decideva di chiamare in giudizio, dinnanzi al Tribunale di Milano, le società Google LLC e Google Italy (salvo poi rinunciare all’azione nei confronti di quest’ultima), chiedendo il riconoscimento del diritto all’oblio di cui all’art. 17 del Reg. UE 679/2016 nella sua declinazione di diritto alla de-indicizzazione. Il ricorrente adduceva che i fatti esposti nei summenzionati articoli erano occorsi nel 2012 e che, di conseguenza, non poteva ritenersi ancora sussistente un interesse della collettività ad averne notizia né tantomeno l’utilità sociale alla conoscenza delle vicende processuali, non essendo il ricorrente un personaggio pubblico. Tali articoli, a detta dell’istante, provocavano una esposizione mediatica sproporzionata rispetto alla posizione ricoperta dallo stesso e producevano un effetto sanzionatorio che la sentenza summenzionata escludeva poiché, tra gli effetti previsti, non era disposta la pubblicazione della stessa. Il Tribunale, a sua volta, riconosciuta la legittimazione passiva della Google LLC e ritenuta sussistente la propria giurisdizione, rigettava la domanda presentata dal ricorrente per difetto dei presupposti di cui all’art. 17 del Reg. UE 2016/679.

2. I principi affermati in “Google Spain”

Il Tribunale milanese torna ad occuparsi (1) delle questioni legate alla qualificazione dell’attività dei motori di ricerca consistente nel trovare informazioni pubblicate o inserite da terzi su Internet, nel memorizzarle temporaneamente, indicizzarle in modo automatico e nel metterle a disposizione degli utenti, nonché del difficile bilanciamento che deve effettuarsi quando il diritto all’oblio confligge con il contrapposto diritto di cronaca. In particolare, la pronuncia si pone in continuità con il percorso tracciato dalla nota sentenza “Google Spain”, resa dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea (2).  (1) Cfr. Trib. Milano 24 gennaio 2020, n. 4911, inedita; Trib. Milano 19 ottobre 2017, n. 10447, in <https://www.dejure.it>; Trib. Milano 5 ottobre 2016, in Nuova giur. civ. comm., 2017, 549 ss., con nota di Riccio, Il difficile equilibrio tra diritto all’oblio e diritto di cronaca; Trib. Milano 5 settembre 2018, n. 7846, all’indirizzo <https://www.dirittodellinformatica. it>, 30 novembre 2018, con nota di Caruso, Il diritto al ridimensionamento della propria visibilità telematica fra diritto all’oblio e diritto all’identità personale.  (2) CGUE 13 maggio 2014, Causa C-131/12, Google Spain SL, Google Inc. c. Agencia Española de Protección de Datos (AEPD), Mario Costeja González, in Giur. it., 2014, 1323 ss., con nota di Scannicchio, Tutela della privacy: motori di ricerca e diritto all’oblio; in Resp. civ., 2014, 1530 ss., con nota di Bugiolacchi, Mancata rimozione della indicizzazione di spazi web a richiesta dell’interessato: la nuova frontiera della r.c. dei motori di ricerca; in Corr. giuridico, 2014, 1471 ss., con nota di Scorza, Corte di

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Pertanto, risulta necessario rievocare i principi elaborati da tale “leading case” (3) per esaminare e commentare il percorso argomentativo sotteso alla decisione in commento. La Corte di Giustizia, con la summenzionata pronuncia, ha aperto la strada alla “privacy devolution” (4), rispetto alla problematica del bilanciamento degli interessi concorrenti e costituzionalmente protetti, coinvolti nella materia dell’oblio, fornendo, inoltre, chiarezza sul piano delle responsabilità giuridiche inerenti il trattamento dei dati personali. La Corte di Lussemburgo, con tale provvedimento, ha riconosciuto, per la prima volta, il diritto all’oblio, come si ricava dalla direttiva 95/46/ CE, ai cui principi, in materia di trattamento dei dati personali, si sono ispirate le successive decisioni, soprattutto con riferimento al contesto normativo frutto dell’adozione del Regolamento (UE) 2016/679 (GDPR). Infatti i principi ricavabili dal “leading case” costituiscono le fondamenta dell’iter logico-giuridico seguito dal giudice milanese, che – come si tenterà di evidenziare – risulta coerente con le pronunce in materia. Innanzitutto, la Corte ha affermato che l’attività di un motore di ricerca, consistente, come anticipato, nel trovare informazioni pubblicate o inserite da terzi su internet, nell’indicizzarle automaticamente, nel memorizzarle temporaneamente e nel metterle a disposizioni degli utenti della rete, debba essere qualificata come trattamento dei dati personali in forza dell’art. 2, lett. b, dir. 95/46/CE, qualora tali informazioni contengano dati personali. Orbene, la Corte di Lussemburgo ha considerato responsabile di tale trattamento il gestore del motore di ricerca, poiché sarebbe quest’ultimo a determinare le finalità e gli strumenti del trattamento dei dati personali, ai sensi dell’art. 2 lett. d, dir. 95/46/CE (5), e, per conseguenza, in capo a costui graverebbe l’obbligo di

giustizia e diritto all’oblio: una sentenza che non convince; al riguardo v. pure Busia, Una vera rivoluzione copernicana, all’indirizzo <https://st.ilsole24ore.com>, 14 maggio 2014, 25.  (3) Tale pronuncia ha portato alla stesura dell’art. 11 della Dichiarazione dei diritti in Internet, rubricato, per l’appunto, “Diritto all’oblio”: “Ogni persona ha diritto di ottenere la cancellazione dagli indici dei motori di ricerca dei riferimenti ad informazioni, che, per il loro contenuto o per il tempo trascorso dal momento della loro raccolta, non abbiano più rilevanza pubblica”.  (4) Per una attenta disamina sulla tutela della privacy e della protezione dei dati personali cfr. i contributi raccolti in Aa.Vv., La protezione dei dati personali ed informatici nell’era della sorveglianza globale, Temi scelti, a cura di Distefano, Napoli, 2017.  (5) I Giudici di Lussemburgo sceglievano di valorizzare ed estendere oltremodo la ratio della disposizione contenuta nella direttiva al fine di garantire un piena tutela delle persone: in tal senso Mazzucconi, Il diritto all’oblio dopo la sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea nel caso “Google c. AEPD”, all’indirizzo <https://www.cyberlaws.it>, 2 marzo 2018.


GIURISPRUDENZA CIVILE assicurare che l’attività posta in essere soddisfi le disposizioni previste dalla normativa in materia di protezione dei dati personali. Pertanto, il gestore del motore di ricerca, viene considerato titolare del trattamento dei dati e, quindi, è tenuto a verificare che determinate pagine, contenenti informazioni che violano la normativa in materia di trattamento dei dati personali, non vengano indicizzate. Dopo queste premesse, il giudice di Lussemburgo, si è soffermato sull’analisi degli artt. 12, lett. b e 14 par. 1, lett. a, della dir. 95/46/CE, arrivando a riconoscere che il diritto alla cancellazione ed il diritto di opposizione dell’interessato - titolare del trattamento dei dati personali - nei confronti del motore di ricerca si manifestano nella facoltà di pretendere l’eliminazione di link dai risultati restituiti dopo aver effettuato una ricerca in base al proprio nome o a combinazioni di parole chiave. Infatti, la Corte, analizzando dette disposizioni alla luce degli artt. 7 e 8 Carta dir. fond. UE (6), è giunta a riconoscere l’esistenza del diritto all’oblio delle informazioni personali che risultino irrilevanti, non più rilevanti o inadeguate rispetto alle finalità del trattamento, consacrando il principio di autodeterminazione informativa del soggetto alla conservazione della propria identità digitale (7). Epperò, il c.d. diritto alla deindicizzazione dai motori di ricerca, non si esplica nella cancellazione delle informazioni dalla pagina web di origine, ma soltanto nella possibilità di nascondere le informazioni, correlate al nominativo, dai risultati del motore di ricerca, così da non renderle più visibili in rete, ovvero ottenere la rimozione di tutti i risultati di ricerca correlati al nome o a chiavi di parole, affinché la ricerca effettuata non mostri alcun risultato o, quantomeno, renda disponibili solo le informazioni personali trattate nel rispetto della normativa in materia di privacy. Pertanto, tale pronuncia non ha offerto una nuova definizione di diritto all’oblio, ma ha sancito il diritto di un soggetto a non essere trovato online (le informazioni non saranno cancellate, ma lo sarà soltanto il collegamento ad esse).

(6) Cfr. CGUE 24 settembre 2019, Causa C-136/17, G.C. e altri c. Commission nationale de l’informatique et des libertés (CNIL), punto 53, e CGUE 24 settembre 2019, Causa C-507/17, Google LLC c. Commission nationale de l’informatique et des libertés (CNIL), punto 45, entrambe pubblicate per esteso nell’Osservatorio Privacy e Garante per la protezione dei dati personali di Bruno Inzitari con Valentina Piccinini, di questa Rivista, all’indirizzo <https://dirittodiinternet.it/privacy/>, e commentate da Astone, Right to be forgotten online e il discutibile ruolo dei gestori dei motori di ricerca, in questa Rivista, 2020, 27 ss.  (7) Sica - D’Antonio, La procedura di deindicizzazione, in Aa.Vv., Il diritto all’oblio su internet dopo la sentenza Google Spain, a cura di Resta e Zeno-Zencovich, Roma, 2015, 893.

Ciò posto, la possibilità di poter ottenere la deindicizzazione (8) dell’informazione non è assoluta, ma va verificata caso per caso, poiché il diritto dell’interessato al rispetto della vita privata e alla protezione dei dati personali viene sottoposto ad un’operazione di bilanciamento con l’interesse pubblico a poter accedere, mediante una ricerca, all’informazione in questione, utilizzando il nome dell’interessato o combinazioni di parole chiave, e, solo nel caso in cui l’interesse del singolo risulti prevalente rispetto all’interesse pubblico, è possibile ottenerne la deindicizzazione.

3. Questioni preliminari: legittimazione passiva e sussistenza della giurisdizione

I principi enucleabili dalla sentenza “Google Spain” trovano una corretta applicazione nel percorso logico-giuridico su cui è improntata la decisione in esame. Nel corso dell’ordinato iter motivazionale i principi e le norme regolanti il caso concreto risultano richiamati in modo chiaro ed organizzato, favorendo la linearità della ricostruzione della vicenda. Il Tribunale, dopo aver ripercorso il fatto sostanziale e processuale, e prima di passare ad analizzare la sussistenza del diritto all’oblio, nella sua declinazione di c.d. diritto alla deindicizzazione, si è soffermato sulle questioni preliminari. La prima di esse ad essere affrontata è quella inerente la sussistenza della legittimazione passiva in capo alla Google LLC (essendo intervenuta, nella prima udienza, rinuncia all’azione nei confronti della Google Italy). Il difetto di legittimazione è stato prontamente respinto (in applicazione dell’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale), riconoscendo, in capo alla Google LLC, la qualità di titolare del trattamento dei dati e, di riflesso, di soggetto destinatario della richiesta di “right to request delisting” proveniente dall’interessato. Infatti, il motore di ricerca non può essere inquadrato come un semplice contenitore di informazioni (9), poiché esercita un’attività di diffusione di dati personali afferenti a persone fisiche e giuridiche. Pertanto, l’attività dello stesso si estrinseca nel trattamento di dati personali, poiché il servizio reso si concretizza nell’in-

(8) Bonavita, Il diritto all’oblio: la giurisprudenza del Garante Privacy, in Quotidiano giuridico, all’indirizzo <https://www.quotidianogiuridico. it>, 9 gennaio 2017; Russo, Diritto all’oblio e motori di ricerca: la pronuncia dei Tribunali italiani dopo il caso “Google Spain”, in Danno e resp., 2016, 303.  (9) Cavallari, Il diritto all’oblio in seguito al caso Google Spain vs. AEPD e Mario Costeja Gonzalez, all’ indirizzo <https://www.iusinitinere.it>, 6 marzo 2018; Di Ciommo, Quello che il diritto non dice. Internet e oblio, in Danno e resp., 2014, 1104.

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GIURISPRUDENZA CIVILE dicizzazione delle informazioni pubblicate o inserite da soggetti terzi in Internet (10). A tale riguardo nella pronuncia risulta precisato come la società Google LLC, nella qualità di gestore del motore di ricerca, sia responsabile del trattamento dei dati personali che appaiono nelle pagine web e che, per conseguenza, il soggetto interessato delle informazioni processate abbia facoltà di rivolgersi al gestore per chiederne la cancellazione (11). La risoluzione della problematica, inerente la titolarità dei dati personali, viene superata facilmente dal giudice meneghino che, dopo aver richiamato il principio guida (12) enucleabile dalla sentenza della Corte di Lussemburgo, ha provveduto a riconoscere, nel caso di specie, la legittimazione passiva della Google LLC, quale destinataria della richiesta di deindicizzazione avanzata dal ricorrente. Il riconoscimento della legittimazione passiva di Google LLC ha aperto la strada all’analisi della seconda questione preliminare, concernente la giurisdizione del giudice italiano (nel caso di specie il Tribunale di Milano), alla luce della particolare qualità dei soggetti coinvolti nella controversia. Un chiaro utilizzo dei canoni interpretativi offerti dall’art. 79 del citato Regolamento UE (13), traspare  (10) Tale inquadramento non trova conferma unicamente nelle pronunce della Corte di Giustizia, successive al leading case “Google Spain”, ma anche dall’interpretazione resa dal Garante per la protezione dei dati personali in occasione dell’adozione di provvedimenti in materia: cfr. Provv. Garante n. 10 del 19 gennaio 2019, all’indirizzo <https://www.garanteprivacy.it> (Il Garante ha ingiunto il motore di ricerca a rimuovere determinati URL e, per l’effetto, ha ingiunto Google LLC a provvedere alla loro rimozione). Tale inquadramento è suffragato anche dal Garante Europeo per la protezione dei dati personali che, nell’adozione delle Linee guida n. 5 del 2 dicembre 2019, ha ribadito che i motori di ricerca sono titolari dei dati personali che processano e, per tale motivo, può essere loro domandata la cancellazione degli stessi.  (11) Russo, Diritto all’oblio e motori di ricerca: la pronuncia dei Tribunali italiani dopo il caso “Google Spain”, cit., 303.  (12) “Il gestore di un motore di ricerca su Internet è responsabile del trattamento da esso effettuato dei dati personali che appaiono su pagine web pubblicate da terzi. Così, nel caso in cui, a seguito di una ricerca effettuata a partire dal nome di una persona, l’elenco di risultati mostri un link verso una pagina web che contiene informazioni sulla persona in questione, questa può rivolgersi direttamente al gestore”: cfr. CGUE 13 maggio 2014, Causa C-131/12, cit., punti 25-31, 41; cfr. altresì CGUE 24 settembre 2019, Causa C-136/17, cit.  (13) “1. Fatto salvo ogni altro ricorso amministrativo o extragiudiziale disponibile, compreso il diritto di proporre reclamo a un’autorità di controllo ai sensi dell’articolo 77, ogni interessato ha il diritto di proporre un ricorso giurisdizionale effettivo qualora ritenga che i diritti di cui gode a norma del presente regolamento siano stati violati a seguito di un trattamento. 2. Le azioni nei confronti del titolare del trattamento o del responsabile del trattamento sono promosse dinanzi alle autorità giurisdizionali dello Stato membro in cui il titolare del trattamento o il responsabile del trattamento ha uno stabilimento. In alternativa, tali azioni possono essere promosse dinanzi alle autorità giurisdizionali dello Stato membro in cui l’interessato risiede abitualmente, salvo che il titolare del trattamento o il responsabile del trattamento sia un’autorità pubblica di uno Stato membro nell’esercizio dei pubblici poteri”.

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dalla risoluzione della summenzionata questione preliminare. Il Tribunale ha concluso per la sussistenza della giurisdizione, in applicazione del principio di abituale residenza dell’interessato, valorizzando la nozione di centro di interessi del titolare del diritto della personalità (14), in quanto il ricorrente, nonostante sia residente in uno stato diverso dall’Italia, intrattiene i suoi affari prevalentemente in Italia. Prima di addivenire alla risoluzione della questione, il giudice ha ripercorso la normativa enucleabile dal regolamento vigente, soffermandosi sull’applicabilità del principio di stabilimento (requisito oggettivo) e di quello di abituale residenza (requisito soggettivo). La disciplina unionale del principio di stabilimento (15) prevede che un’impresa stabilita in un determinato Paese e che elabora dati nel medesimo contesto, è soggetta alla giurisdizione del Paese di stabilimento. Un’ impresa si intende stabilita in una determinato Paese, quando ivi possegga un’organizzazione stabile che svolge un’attività economica a tempo indeterminato. Qualora, invece, l’impresa (16) non risulti stabilita nell’Unione Europea, ma ivi effettui il trattamento dei dati personali di soggetti che si trovino nell’Unione Europea, è obbligata a designare un rappresentante (17) incaricato del trattamento dei dati, stabilito nel territorio dove si trovino gli interessati. Tale obbligo di designazione è posto a tutela degli interessati, poiché se questi fossero costretti ad interfacciarsi con un’impresa stabilita in uno Stato fuori dall’UE si vedrebbe frustrata la tutela dei diritti attribuita dalla disciplina europea. Nel caso di specie, lo stabilimento del titolare nell’UE è Google Italy, in quanto designato da parte della società capogruppo (Google LLC). Tuttavia, alla luce di questa ricostruzione, il giudice non ha ritenuto applicabile tale criterio, valorizzando non solo il fatto che solamente Google LLC è parte del giudizio (in quanto è intervenuta rinuncia all’azione da parte del ricorrente nei confronti di Google Italy) ma anche che il semplice possesso

(14) Rolfi, Dalla competenza alla giurisdizione: le “mobili frontiere” di Internet, in Corr. giuridico, 2012, 760 ss; Barletta, La tutela effettiva della privacy nello spazio (giudiziario) europeo nel tempo (della “aterritorialità”) di Internet, in Eur. dir. priv., 2017, 1179 ss..  (15) Valle - Greco, Transnazionalità del trattamento dei dati personali e tutela degli interessati, tra strumenti di diritto internazionale privato e la prospettiva di principi di diritto privato di formazione internazionale, in Dir. inf. e inform., 2017, 169 ss.  (16) Cfr. artt. 3, par. 2, e 27, par. 1 e 3, Regolamento (UE) 2016/679.  (17) “Il rappresentante è incaricato dal titolare del trattamento o dal responsabile del trattamento a fungere da interlocutore in aggiunta o sostituzione del titolare del trattamento o del responsabile del trattamento (…)”: cfr. art. 27, par. 4, Regolamento (UE) 2016/679.


GIURISPRUDENZA CIVILE da parte della società capogruppo di uno stabilimento in Italia non sia circostanza di per sé sufficiente ed idonea a determinare la giurisdizione del giudice nazionale. Successivamente, l’interprete è passato all’analisi del criterio sussidiario previsto dall’art. 79 del citato regolamento, cioè del requisito soggettivo dell’abituale residenza dell’interessato. Nel caso di specie, nonostante il ricorrente fosse residente in Svizzera, il Tribunale ha ritenuto sussistente la propria giurisdizione, in applicazione del suddetto requisito soggettivo, valorizzando la nozione di “centro di interessi del titolare”, cosi come interpretata (18) dai giudici di Lussemburgo. Infatti, il ricorrente ha stabilito il proprio centro di interessi nel territorio italiano, poiché, come ricavabile dal materiale probatorio del procedimento, questi intrattiene i suoi affari prevalentemente sul territorio italiano, ed inoltre i due articoli di giornale, di cui si chiede la deindicizzazione, afferiscono non solo a fatti accaduti e processati in Italia, ma anche riportati da testate giornalistiche nazionali. Il giudice milanese ha ritenuto che la sussistenza degli anzidetti elementi fosse idonea ad integrare il requisito soggettivo del c.d. centro di interessi, in quanto il trattamento dei dati effettuato da Google LLC è potenzialmente idoneo ad incidere sugli interessi del ricorrente che sono posti sul territorio italiano. Opportuna risulta la valorizzazione effettuata della nozione di centro di interessi del titolare del trattamento, specie in un’ottica di protezione dei diritti della personalità, che si pone in piena aderenza con la disciplina vigente in materia, finalizzata a garantire la piena tutela dell’interessato. Il Tribunale, nel superare le due questioni preliminari, ha seguito un iter logico-giuridico pienamente condivisibile, frutto di un’accurata attività di esegesi del sistema normativo e di una chiara e coerente interpretazione dei dettami unionali.

(18) “L’art. 5, punto 3, del regolamento (CE) del Consiglio 22 dicembre 2000, n. 44/2001, concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, deve essere interpretato nel senso che, in caso di asserita violazione dei diritti della personalità per mezzo di contenuti messi in rete su un sito Internet, la persona che si ritiene lesa ha la facoltà di esperire un’azione di risarcimento, per la totalità del danno cagionato, o dinanzi ai giudici dello Stato membro del luogo di stabilimento del soggetto che ha emesso tali contenuti, o dinanzi ai giudici dello Stato membro in cui si trova il proprio centro d’interessi. In luogo di un’azione di risarcimento per la totalità del danno cagionato, tale persona può altresì esperire un’azione dinanzi ai giudici di ogni Stato membro sul cui territorio un’informazione messa in rete sia accessibile oppure lo sia stata. Questi ultimi sono competenti a conoscere del solo danno cagionato sul territorio dello Stato membro del giudice adito”: CGUE 25 ottobre 2011, Cause riunite C-509/09 e C-161/10, eDate Advertising GmbH c. X e Olivier Martinez e Robert Martinez c. MGN Limited, in <https://www. curia.europa.eu>.

Dall’analisi delle summenzionate questioni emerge come l’interprete abbia voluto affermare che, tra le attività svolte da un motore di ricerca, si rinviene anche quella di trattamento dei dati personali, circostanza che rende applicabili le regole contenute nella direttiva e nel Regolamento vigenti. Infatti, tra le responsabilità gravanti in capo al gestore, si riconosce anche l’obbligo di dare attuazione alla pretesa dell’interessato volta ad ottenere che dall’elenco dei risultati, che compaiono in seguito ad una ricerca effettuata a partire dal proprio nome, siano espunti i link che rimandano a pagine web contenenti i dati che lo riguardano. Pertanto tutte le volte che sussista una violazione di tale normativa, volta a creare un pregiudizio all’interessato, questi può rivolgersi direttamente al motore di ricerca per chiedere l’oscuramento del dato lesivo. In secondo luogo, viene ribadito che il gestore del motore di ricerca, che elabora dati nel Paese in cui risulta stabilito, alla luce dei criteri summenzionati, è assoggettato alla giurisdizione del Paese di stabilimento, per cui, spetterà al giudice nazionale assicurare agli interessati una tutela giurisdizionale effettiva del diritto unionale. Epperò, la problematica inerente l’estensione territoriale (19) del diritto all’oblio, nella sua declinazione di diritto alla deindicizzazione, risulta essere, al riguardo, particolarmente attuale. Ancora molti Stati, infatti, non riconoscono il diritto alla cancellazione o comunque tendono a riconoscerlo con un approccio diverso, dovuto al necessario bilanciamento con il diritto all’informazione dei cittadini. Tale contemperamento risulta maggiormente agevole negli Stati unionali, poiché attraverso l’adozione del GDPR, sono stati previsti dei meccanismi e degli strumenti che consentono agli Stati di collaborare per raggiungere una decisione comune, basata su un giudizio di ragionevolezza, in grado di considerare sia l’interesse del pubblico ad avere accesso all’informazione, sia quello del singolo alla protezione dei dati personali. Tale approccio normativo consente all’interessato di vedere soddisfatta la sua richiesta di deindicizzazione, non solo nella versione del motore di ricerca adottata nello Stato in cui ricorre, ma anche negli Stati unionali. Epperò, il meccanismo illustrato (20), non essendo operativo anche nei confronti degli Stati extra UE, dà la stura ad un doppio binario di estensione dell’obbligo di

(19) Carbone, Diritto all’oblio, perché il limite territoriale è un dietro front sui diritti, all’indirizzo <https://www.agendadigitale.eu>, 27 settembre 2019; Nardocci, Deindicizzazione: Quando il diritto all’oblio incontra un limite territoriale, all’indirizzo <https://www.salvisjuribus.it>, 2 ottobre 2019.  (20) Sul punto cfr. Pollicino, L’autunno caldo della Corte di giustizia in tema di tutela dei diritti fondamentali in rete e le sfide del costituzionalismo alle prese con i nuovi poteri privati in ambito digitale, all’indirizzo <https://www. filodiritto.com>, 5 novembre 2019.

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GIURISPRUDENZA CIVILE deindicizzazione, rappresentato dall’efficacia sul territorio dell’Unione e dall’eventuale dimensione extra UE di tale obbligo. Di conseguenza, a causa di siffatto doppio binario, ben potrà accadere che la medesima notizia, lesiva delle ragioni dell’interessato, non risulti più reperibile negli Stati membri dell’UE ma continui ad esserlo negli Stati extra UE, provocando un’inevitabile compressione della tutela giurisdizionale del ricorrente, che non sarà assoluta, ma relativa, ponendo seri interrogativi in ordine all’effettività della tutela dell’interessato. Nell’ottica di uno sperabile superamento dell’efficacia delocalizzata dell’obbligo di cancellazione, sarà necessario eliminare tale “blocco geografico” e prevedere che la deindicizzazione sia effettuata su tutte le versioni di un motore di ricerca, in modo da assicurare una tutela uniforme ed effettiva dei diritti fondamentali dei cittadini.

4. Il bilanciamento tra diritto all’oblio e diritto di cronaca

Così delineati i profili della controversia nei suoi tratti essenziali, il giudice è giunto ad occuparsi della sussistenza del diritto all’oblio, nella sua declinazione di c.d. diritto alla deindicizzazione, ripercorrendo l’iter argomentativo già disegnato da alcuni precedenti arresti del Tribunale ambrosiano (21) sull’impronta dei principi scolpiti dall’innanzi richiamato leading case (22). In primo luogo, il giudice ha provveduto a delineare l’essenza ed i presupposti del diritto all’oblio, sub specie di diritto alla deindicizzazione, per poi soffermarsi sulla problematica inerente il bilanciamento del diritto all’oblio con il diritto di cronaca. Inizialmente il diritto all’oblio (23) era inteso quale diritto del singolo a non vedere pubblicata nuovamente una notizia in passato legittimamente divulgata; in seguito, con lo sviluppo di Internet, è stato interpretato

(21) Cfr. Trib. Milano 28 settembre 2016, n. 10374, in Danno e resp., 2017, 369 ss.; Trib. Milano 5 settembre 2018, n. 7846, cit., Trib. Milano 4 gennaio 2017, n. 12623, in Dir. inf. e inform., 2016, 959 ss.  (22) D’Arienzo, I nuovi scenari della tutela della privacy nell’era della digitalizzazione alla luce delle recenti pronunce sul diritto all’oblio, in Federalismi, all’indirizzo <https://www.federalismi.it>, 2015, 1 ss.; Finocchiaro, Il diritto all’oblio nel quadro dei diritti della personalità, in Aa.Vv., Il diritto all’oblio su Internet dopo la sentenza Google Spain, cit., 29 ss.; Stradella, Cancellazione e oblio: come la rimozione del passato, in bilico tra tutela dell’identità personale e protezione dei dati, si impone anche nella rete, quali anticorpi si possono sviluppare e, infine, cui prodest, in Rivista Aic, all’indirizzo <https:// www.rivistaaic.it>, 2016, 1 ss..  (23) Cfr. Cass. 9 aprile 1998, n. 3679, in Foro it., 1998, I, 1834, che identifica il diritto all’oblio come “il giusto interesse di ogni persona a non restare indeterminatamente esposta ai danni ulteriori che arreca al suo onore e alla sua reputazione la reiterata pubblicazione di una notizia in passato legittimamente divulgata. Fermo restando che quando il fatto passato dovesse – per altri eventi sopravvenuti – ritornare di attualità, rinasce un nuovo interesse pubblico all’informazione, non strettamente legato alla contemporaneità tra divulgazione e fatto pubblico”.

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come diritto alla cancellazione dei dati che si ritengono lesivi della propria persona in quanto non più attuali. In questo contesto è possibile parlare di diritto all’oblio anche quando il trattamento dei dati personali, originariamente lecito, divenga, per intervenuta revoca del consenso o per il trascorrere del tempo, incompatibile con la disciplina unionale. Pietre miliari del percorso di evoluzione del diritto all’oblio sono rappresentate dal famoso “leading case” dinanzi più volte richiamato e, in tempi più recenti, dall’adozione dell’art. 17 del Regolamento (UE) 2016/679 (24), che delinea i requisiti ed i presupposti per il suo riconoscimento. Nel previgente quadro normativo, la Corte di Giustizia aveva rinvenuto il fondamento normativo del diritto alla deindicizzazione negli artt. 12, lett. b, e 14, par. 1, lett. a, dir. 95/46/CE, ove sono indicate le condizioni da cui viene ad essere disciplinato. A tal fine è d’uopo ricordare che il diritto all’oblio non è una situazione a cui l’ordinamento offre una tutela incondizionata, poiché l’interprete, nell’apprezzarne i presupposti di applicazione, deve accertare la prevalenza dei diritti dell’interessato alla vita privata ed alla protezione dei dati personali ex artt. 7 e 8 Carta dir. fond. UE nel bilanciamento con i contrapposti diritti ed interessi sottesi al legittimo esercizio del diritto di cronaca (25), quale declinazione del diritto enucleato dall’art. 21 Cost. Infatti, il bilanciamento tra l’interesse del singolo ad essere dimenticato e quello opposto della collettività a conoscere fatti legittimamente divulgati nell’esercizio del diritto di cronaca, presuppone un complesso giudizio nel quale occorre valutare la notorietà dell’interessato (26), il suo coinvolgimento nella vita pubblica, il tempo trascorso e l’oggetto della notizia, sulla scorta degli insegnamenti del giudice di Lussemburgo (27).  (24) Il Garante Europeo per la protezione dei dati personali, in occasione dell’emanazione delle Linee guida n. 5 del 2 dicembre 2019 ha chiarito che l’art. 17 del Regolamento (UE) 2016/679 va interpretato alla luce di quanto stabilito nella sentenza “Google Spain”.  (25) Il diritto di cronaca è legittimo quando concorrono le seguenti tre condizioni: 1) l’utilità sociale dell’informazione; 2) la verità dei fatti esposti, dove la verità può essere oggettiva ma può essere anche solo putativa purché quando la verità è solo putativa sia frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca della verità; 3) la forma civile dell’esposizione dei fatti. I fatti devono essere esposti in forma civile, ed in forma civile deve essere fatta la valutazione di quei fatti, cioè non bisogna eccedere rispetto allo scopo informativo da conseguire.  (26) Cocuccio, Il diritto all’oblio fra tutela della riservatezza e diritto all’informazione, in Dir. fam. e pers., 2015, 745; Russo, Diritto all’oblio e motori di ricerca: la pronuncia dei Tribunali italiani dopo il caso “Google Spain”, cit., 303.  (27) Cass., SS.UU., 22 luglio 2019, n. 19681, in questa Rivista, 2019, 717 ss., con nota di Poletti - Casarosa, Il diritto all’oblio (anzi, i diritti all’oblio) secondo le Sezioni Unite, ove le sezioni unite confermano l’o-


GIURISPRUDENZA CIVILE Su questa scia, la giurisprudenza del Tribunale milanese (28) ha più volte affermato che la protezione dei diritti inviolabili della persona costituisce il principale criterio che deve orientare l’interprete nell’esegesi del sistema normativo e nel bilanciamento tra diritti fondamentali. Tale impostazione si impone in virtù del principio personalistico che informa la nostra Costituzione, la quale vede nella persona umana un valore etico in sé e vieta ogni strumentalizzazione della medesima per alcun altro fine eteronomo ed assorbente. Quando dall’operato bilanciamento risulta prevalente l’interesse della collettività ad avere conoscenza delle informazioni, di cui si chiede la cancellazione, rispetto al diritto del singolo ad ottenere che le informazioni lesive vengano “dimenticate”, il diritto all’oblio non può essere soddisfatto. Dopo aver ricostruito i presupposti del diritto all’oblio, nella sua declinazione di diritto alla deindicizzazione, ed aver richiamato i criteri giurisprudenziali utili per operare il bilanciamento tra gli interessi configgenti, il giudice ha condivisibilmente ritenuto che, nel caso di specie, non sussistessero le condizioni per il riconoscimento del diritto alla deindicizzazione, poiché nel nominato bilanciamento occorre considerare prevalente l’interesse della collettività ad essere informata. Pertanto, il Tribunale ha respinto la domanda di deindicizzazione, ponendo in risalto gli elementi fattuali e sostanziali che hanno determinato il prevalere dell’interesse di cronaca, in seguito all’operato giudizio di ragionevolezza. A tal riguardo è opportuno evidenziare come la conclusione a cui è addivenuto il giudice sia pienamente aderente alla normativa europea ed italiana e alle recenti pronunce giurisprudenziali (29). In particolare, pregevole risulta la ricostruzione con cui il giudice ha effettuato il bilanciamento, soffermandosi su tutti gli elementi che vanno a determinare la prevalenza dell’uno o dell’altro diritto. Infatti, nel caso di specie, il ricorrente era un uomo di affari operante nel campo della finanza ed i fatti processuali, oggetto dei due articoli, afferivano a reati commessi in violazione dell’art. 166 TUF (reato di abusivismo) rientamento giurisprudenziale favorevole al riconoscimento del diritto all’oblio, come disciplinato dal Regolamento (UE) n. 2016/679, qualora ricorrano determinate circostanze.  (28) In tal senso Trib. Milano 24 gennaio 2020, n. 4911, cit.; Trib. Milano 5 settembre 2018, n. 7846, cit.; Trib. Milano 19 ottobre 2017, n. 10447, cit.; Trib. Milano 28 settembre 2016, n. 5813, inedita.  (29) Cass. 27 marzo 2020, n. 7559, in questa Rivista, 2020, 439 ss., con nota di Pardolesi - Scarpellino, Sulle stratificazioni del diritto all’oblio: quando sì e come, ove le sezioni unite tornano a pronunciarsi sul difficile bilanciamento tra il diritto all’oblio ed il diritto alla conoscenza dell’informazione; tra le altre, Cass. 19 maggio 2020, n. 9147, in Dir. & giust., 3 giugno 2020; Cass., SS.UU., 22 luglio 2019, n. 19681, cit.; Cass. 24 giugno 2016, n. 13161, in Foro it., 2016, I, 2729.

e di associazione per delinquere. Pertanto, alla luce della tipologia di reati commessi e del campo di attività dell’interessato, l’interprete ha valutato come preminente l’interesse della collettività a conoscere le vicende processuali che hanno riguardato il ricorrente, poiché ha considerato irrilevante la circostanza che il soggetto abbia cambiato attività (la condanna è avvenuta per fatti commessi nell’esercizio dell’attività di intermediazione finanziaria, mentre attualmente lo stesso sarebbe passato ad occuparsi di trust), in quanto la nozione di “medesimo campo di attività” va interpretata in senso lato, avendo riguardo alla potenziale clientela del soggetto, che si riferisce sempre al medesimo ambito dell’attività di intermediazione finanziaria. In secondo luogo, il Tribunale ha ritenuto che non fosse trascorso un tempo ragionevole (30) in grado di far decadere l’interesse della collettività ad avere notizia dei fatti processuali, poiché ai fini del riconoscimento della deindicizzazione, non è possibile cristallizzare un termine rigido (31), entro il quale una notizia può essere ritenuta obsoleta, dovendo il tempo essere valutato in relazione alle peculiarità che caratterizzano il caso di specie (la sentenza veniva emessa nel 2017, ma i fatti erano accaduti nel 2012). Dalla pronuncia in esame emerge come la protezione dei dati personali non costituisca una “prerogativa” assoluta riconosciuta dall’ordinamento ma debba coesistere con gli altri diritti della persona ugualmente tutelati e, in particolare, con il diritto all’informazione e di cronaca. Questa coesistenza, che si sostanzia nell’attività di bilanciamento, si presenta altamente problematica, poiché viene effettuata tra l’interesse dei cittadini all’informazione e quello dell’interessato alla tutela dei propri dati personali. Di riflesso, tale giudizio di ragionevolezza avrà come conseguenza quella per cui più si espanderà il diritto di cronaca, più si comprimerà il diritto all’oblio, e viceversa. Ulteriore annotazione va fatta riguardo alla doglianza avanzata dal ricorrente circa la divulgazione della condanna, quale effetto non disposto a seguito di sentenza ex art. 444 c.p.p. Sul punto, nella pronuncia risulta correttamente messo in evidenza come l’assenza di menzione nel casellario giudiziario e la mancata pubblicazione della sentenza non siano dovuti alla discrezionalità dell’interprete, ma siano effetti automatici previsti dalla legge. A voler, poi, considerare congiuntamente gli effetti sanzionatori della sentenza penale con quelli dell’e-

(30) Bonavita, Il diritto all’oblio: la giurisprudenza del Garante Privacy, cit.  (31) In tal senso anche Iorio, Diritto all’oblio e deindicizzazione: fondamenti giuridici e risarcibilità del danno (nota ad App. di Milano 15 maggio 2020, n. 1106), in questa Rivista, 2020, 627 ss.

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GIURISPRUDENZA CIVILE sposizione mediatica, dovuta all’esercizio del diritto di cronaca, si andrebbe a determinare una indebita sovrapposizione di piani. In ultimo, merita un cenno la richiesta di sollevare una questione pregiudiziale ex art. 267 TFUE per il riconoscimento della tutela prevista dall’art. 17 del Regolamento (UE) 2016/679, nell’ipotesi in cui vi sia una violazione del diritto fondamentale alla libera iniziativa economica, come disciplinato dalla Carta dei diritti dell’uomo. Il giudice meneghino ha ritenuto di non porre siffatta questione pregiudiziale, ritenendo che non vi fosse alcun ostacolo a fare ricorso ai requisiti enucleati dalla sentenza “Google Spain”, ai fini del riconoscimento del diritto all’oblio, quando venga in questione il diritto fondamentale alla libera iniziativa economica.

5. Note conclusive

La sentenza esaminata si pone come uno degli ultimi arresti nel percorso giurisprudenziale avviato a partire da “Google Spain”, con il quale il Tribunale milanese si è soffermato sul riconoscimento del diritto all’oblio, nella sua declinazione di diritto alla deindicizzazione e nel suo bilanciamento con diritti confliggenti, in particolare con quello di cronaca. Il Tribunale meneghino, grazie ad un percorso argomentativo limpido ed organizzato, effettua un’apprezzabile ricostruzione degli istituti coinvolti; in particolare, degno di nota è lo sforzo di contestualizzarli nel complessivo sistema ordinamentale. Come è emerso dalla sentenza, il diritto all’oblio, particolarmente nei casi riguardanti i motori di ricerca, non è da intendersi in senso assoluto, poiché il relativo riconoscimento sottende la ricerca di un giusto equilibrio tra il diritto del pubblico ad accedere alle informazioni, da un lato, e i diritti e gli interessi della persona interessata, dall’altro. Pertanto, il diritto alla deindicizzazione non risulta esercitabile senza limiti, ma piuttosto si manifesta in forma di una reazione ad una specifica azione, vale a dire alla pubblicazione dell’informazione. Ed infatti riconoscere la deindicizzazione non significa determinare la cancellazione della pubblicazione, ma impedire che il contenuto lesivo venga trovato tramite motori ricerca esterni (non anche tramite quello interno, su cui la notizia resta pubblicata). Inoltre, come rimarcato anche dalla sentenza commentata, la richiesta di deindicizzazione deve essere proporzionata e lecita, proprio in quanto il corrispondente diritto non è fornito di una tutela incondizionata, dovendo necessariamente essere contemperato con ulteriori interessi parimenti tutelati dalla Costituzione, come il diritto di cronaca. L’interesse del singolo ad essere dimenticato deve, quindi, necessariamente essere bilanciato con l’interesse della collettività a conoscere

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fatti legittimamente divulgati in forza di un complesso giudizio nel quale assumono rilievo decisivo elementi come la notorietà dell’interessato, il suo coinvolgimento nella vita pubblica, l’oggetto della notizia ed il tempo trascorso. L’esigenza di un corretto bilanciamento tra diritti configgenti si è andata avvertendo ulteriormente in virtù dell’avvento delle nuove tecnologie dell’informazione che raccolgono masse di dati personali organizzati. Infatti, in un’era in cui la rete telematica rappresenta un luogo caratterizzato dalla proliferazione di violazioni di diritti fondamentali della persona, tra cui la protezione dei dati personali, è inevitabile sentire sempre più spesso parlare della c.d. deindicizzazione. Invero, il confine tra il diritto all’oblio ed il diritto di cronaca appare destinato a diventare sempre più labile e, per conseguenza, diverrà ancor più indispensabile lo svolgimento di un continuo bilanciamento tra diritti confliggenti, dimodoché, in forza dei criteri dettati dalla giurisprudenza, ogni qualvolta che il diritto di cronaca si espanderà, il diritto all’oblio si comprimerà e viceversa. Nel contesto delineato, infine, ulteriore profilo problematico sarà quello di garantire l’effettività della tutela giurisdizionale in tema di deindicizzazione, specie in relazione alla problematica dei limiti territoriali entro cui essa può estrinsecarsi. Tali limiti presuppongono che l’interessato, una volta ottenuto l’accoglimento della richiesta di cancellazione, potrà pretendere la rimozione dei link lesivi solo nei confini geografici degli Stati che riconoscono il diritto de quo, poiché l’estensione territoriale relativa all’esercizio del diritto all’oblio è quella che coincide con il territorio dell’Unione e non ha natura globale. È evidente che una tale scelta interpretativa lascia aperto un vulnus importante nel quadro delle tutele riconosciute nel campo della protezione dei dati personali. E, proprio per tali ragioni, più che un correttivo giurisprudenziale, risulta necessario un intervento normativo del legislatore che permetta di riconoscere all’ordine di rimozione un carattere worlwide, in grado cioè di oltrepassare i confini geografici e garantire una tutela piena ed universale delle ragioni dell’interessato.


GIURISPRUDENZA PENALE

Quale regime per le comunicazioni tra persone all’estero intercettate dal captatore informatico? Corte di Cassazione ; sezione II penale; sentenza 22 ottobre 2020, n. 29362; Pres. Verga; Rel. Di Pisa; P.G. Ceniccola. Lo spostamento in un altro Stato dell’utilizzatore di un dispositivo nel quale sia stato installato un captatore informatico non determina l’obbligo di attivare una rogatoria, in quanto l’installazione del malware avviene in territorio nazionale, dove la captazione si realizza nei suoi sviluppi finali e conclusivi attraverso le centrali di ricezione che fanno capo alla procura della Repubblica. Pertanto, le conversazioni intercettate possono essere utilizzate.

Svolgimento del processo 1. Con provvedimento in data 07/11/2019 il Tribunale di Reggio Calabria, in sede di riesame, confermava l’ordinanza in data 8 Agosto 2019 con la quale il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Reggio Calabria aveva applicato a C.D. la misura della custodia cautelare in carcere perchè indagato per il reato di cui all’art. 6 c.p., comma 2, art. 416 bis c.p., commi 1, 2, 3, 4, 5, 6 ed 8, L. 16 marzo 2006, n. 146, art. 3, lett. a), b) e c) e art. 61 bis c.p.. …Omissis… 2. Avverso la suddetta ordinanza l’indagato propone ricorso per cassazione, a mezzo del proprio difensore di fiducia, formulando quattro motivi. …Omissis… Evidenzia che le captazioni intercettate su suolo canadese avevano origine sul suolo internazionale (per l’appunto Canada), anche con cittadini canadesi ed erano state – una volta registrate dal Trojan (captatore informatico) – pacificamente scaricate (ed archiviate) sul server per la memorizzazione tramite una rete wi-fi che si trovava su territorio internazionale, ossia il Canada, quindi per il tramite di ponte wi-fi situato su territorio straniero. Trattavasi, quindi, a parere della difesa dell’ indagato, di captazioni ambientali, registrate in territorio canadese, il cui flusso comunicativo era transitato per il territorio italiano in modo direzionale solo dopo la captazione e registrazione, sicchè, in ossequio all’art. 727 cod. proc. pen., l’ autorità giudiziaria italiana procedente avrebbe dovuto fare ricorso alla rogatoria internazionale, pacificamente mancante nel caso in questione, con la conseguenza che le richiamate intercettazioni ambientali, registrate su suolo canadese, non erano utilizzabili dal momento che l’acquisizione era avvenuta tramite il captatore informatico installato sul telefono cellulare tanto del M. quanto del G. ma la archiviazione (memorizzazio-

ne) del flusso dati proveniente dal bersaglio in cui era attivo il captatore informatico era giunto alla destinazione per il tramite della rete di un dispositivo che consentiva la connessione WIFI (router, hotspot) a sua volta connesso alla rete internet su linea fissa esistente su suolo canadese, quindi di proprietà straniera. …Omissis… Considerato in diritto Il ricorso, valutate anche le argomentazioni di cui alla memoria in data 13 Luglio 2020, deve essere rigettato per le argomentazioni appresso specificate. 1. Il primo motivo è privo di fondamento. …Omissis… Risulta acclarato, in punto di fatto, che il captatore informatico in questione (“trojan”) è stato inoculato in Italia sugli apparecchi telefonici in uso a M.V. e G.G. collegati ad un gestore telefonico italiano, utenze che, secondo quanto è pacifico, sono state utilizzate nel periodo in esame sia in territorio italiano che in territorio estero (il Canada). Orbene è noto che i sistemi di captazione de quibus non sono costituiti solamente dal trojan, cioè dal semplice software (rectius, malware), che viene inoculato, ma anche dalle piattaforme necessarie per il loro funzionamento, che ne consentono il controllo e la gestione da remoto e che ricevono i dati inviati dal captatore in relazione alle funzioni investigative attivate. I dati raccolti sono, infatti, trasmessi, per mezzo della rete internet, in tempo reale o ad intervalli prestabiliti ad altro sistema informatico in uso agli investigatori. I giudici di merito hanno precisato che nella specie “i dati provenienti dal captatore informatico devono essere cifrati e devono transitare su un canale protetto sino al server della Procura che è il primo ed unico luogo di memorizzazione del dato. Ogni file è dunque cifrato e reca una password diversa rispetto a quella utilizzata per

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GIURISPRUDENZA PENALE la memorizzazione sul server; ne consegue che ogni file per essere ascoltato deve essere decripato”. Deve, quindi, ritenersi che, nella specie, la registrazione della conversazioni tramite wifi sito in Canada abbia costituito una fase intermedia di una più ampia attività di captazione iniziata ed oggetto registrazione, nella sua fase finale e conclusiva, sul territorio italiano, infatti, al di là dei dettagli tecnici, ciò che rileva è che, in ultima analisi, l’ascolto delle conversazioni avvenga in Italia su apparecchi collegati ad un gestore italiano e la cui captazione ha avuto origine sul territorio italiano. In conclusione, l’atto investigativo risulta, comunque, compiuto sul territorio italiano. 1.2. Premesso che la procedura di cui all’art. 727 e ss. cod. proc. pen. riguarda esclusivamente gli interventi da compiersi all’estero e che, quindi, richiedono l’esercizio della sovranità propria dello Stato estero e che, conseguentemente, non è ipotizzabile alcuna rogatoria per un’attività di fatto svolta in Italia e, quindi, ivi autorizzata e realizzata secondo le regole del codice di rito, deve ritenersi che quando il captatore informatico sia installato in Italia, e la captazione avvenga, di fatto, secondo le modalità sopra indicate e richiamate nel provvedimento impugnato in Italia attraverso le centrali di ricezione ivi collocate, la sola circostanza che le conversazioni siano state eseguite, in parte, all’estero e ivi “temporaneamente” registrate tramite wi-fi locale a causa dello spostamento del cellulare sul quale è stato inoculato il trojan non può implicare l’ inutilizzabilità della intercettazione per difetto di rogatoria. Appare mutuabile alla fattispecie in esame il principio di diritto secondo cui l’intercettazione di comunicazioni tra presenti eseguita a bordo di una autovettura attraverso una microspia installata nel territorio nazionale, dove si svolge altresì l’attività di captazione, non richiede l’attivazione di una rogatoria per il solo fatto che il suddetto veicolo si sposti anche in territorio straniero ed ivi si svolgano alcune delle conversazioni intercettate. (Sez. 2, n. 51034 del 04/11/2016 - dep. 30/11/2016, Potenza e altri, Rv. 26851401). Poiché, come detto, il captatore è stato installato in Italia e la captazione, nei suo sviluppi finali e conclusivi è avvenuta in Italia, attraverso le centrali di ricezione facenti capo alla Procura di Reggio Calabria, la sola circostanza che le conversazioni captate siano state (in parte) eseguite all’estero per lo spostamento dell’ apparecchio e del suo utilizzatore è ininfluente per ritenere la necessità della rogatoria, non potendosi, nel caso di intercet-

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tazione ambientale su strumento mobile conoscere tutti gli spostamenti, così vanificandosi le finalità del mezzo di ricerca della prova. Non può del resto non considerarsi che lo strumento dell’intercettazione ambientale mediante “captatore informatico” è per sua stessa natura itinerante, in quanto l’attività di captazione segue tutti gli spostamenti nello spazio dell’utilizzatore. I possibili reiterati spostamenti su territori esteri, resi possibili dalla facilità di frequenti collegamenti aerei con tutte le parti del pianeta, successivamente al momento dell’inizio delle operazioni, che, nella specie, è da individuarsi con certezza in Italia, diversamente comporterebbero una impossibilità tecnica di procedere alle intercettazioni, ben potendo l’Autorità Giudiziaria che le ha disposte ignorare il luogo dove si trova il soggetto titolare dell’utenza su cui è stato inoculato il captatore, ed, essere, quindi impossibilitata a chiedere la rogatoria, neppure con l’urgenza e con i modi previsti dall’art. 727 comma 5 cod. proc. pen., comma 5., venendo così frustrate le finalità investigative di tale prezioso strumento investigativo. 1.3. La motivazione della sentenza impugnata va, quindi, condivisa nella parte in cui ha ritenuto utilizzabili dette conversazioni in quanto “iniziate” e “svolte” in Italia risultando, quindi, rispettati i parametri di cui agli artt. 15 e 24 Cost. ed apparendo, anche, osservato il dettato di cui all’ art. 8 CEDU così come interpretato nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo, dovendosi escludere preclusioni riguardanti le intercettazioni effettuate mediante “captatore informatico” transitato all’estero. In tal senso vanno richiamate le pronunzie Iordachi c. Moldavia, 10 febbraio 2009, Natoli c. Italia, 9 gennaio 2001; McLeod c. Regno Unito, 23 settembre 1998) ove è stato affermato che le intercettazioni sono legittime se giustificate in base ai parametri indicati nell’articolo 8 § 2 CEDU, cioè la legalità, la legittimità dell’obiettivo perseguito, la necessità e la proporzionalità nonchè Corte EDU, 23.2.2016, Capriotti c. Italia, che ha affermato la compatibilità delle intercettazioni disposte nei procedimenti per delitti di criminalità organizzata con il diritto al rispetto della vita privata e il diritto al “processo equo”, sanciti rispettivamente dall’art. 8 e dall’art. 6 CEDU. …Omissis… P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. …Omissis…


GIURISPRUDENZA PENALE

IL COMMENTO

di Biagio Monzillo Sommario: 1. La decisione. – 2. Un errore di prospettiva. – 3. I limiti delle intercettazioni senza confini. – 4. Il captatore informatico nello spazio giudiziario europeo. La Corte di cassazione ha stabilito che i risultati di intercettazioni mediante captatore informatico di conversazioni avvenute in altro Stato sono pienamente utilizzabili. La decisione, per nulla condivisibile, offre l’occasione per un tentativo di delimitazione degli spazi in cui le intercettazioni “transnazionali” possono legittimamente operare. The Court of Cassation decided that it is lawful to wiretap by using a malware the private conversations between people being in a foreign country. The decision gives the opportunity to try to define the limits of “transnational” wiretappings.

1. La decisione

La casistica della giurisprudenza di legittimità sull’utilizzo del captatore informatico si è arricchita di una fattispecie inedita: le intercettazioni “transnazionali”. Con la sentenza in commento la Corte di cassazione ha preso posizione per la prima volta sul regime probatorio delle conversazioni tra persone presenti in territorio straniero, registrate con l’ausilio di un malware. L’occasione si è presentata con il ricorso proposto contro un’ordinanza di conferma di un precedente provvedimento cautelare disposto per fatti di criminalità organizzata emersi anche grazie ad intercettazioni di colloqui avvenuti in Canada tra l’indagato e altri membri della stessa consorteria criminale, alcuni dei quali di cittadinanza canadese. Al contrario della difesa, la Corte di legittimità ha ritenuto pienamente utilizzabili le registrazioni, escludendo la denunciata violazione dell’art. 729 cod. proc. pen. L’intera attività investigativa, infatti, si sarebbe svolta interamente in Italia, dove gli inquirenti avevano installato il malware e ascoltato le conversazioni captate. La Corte è giunta ad analoghe conclusioni rispetto a comunicazioni tra presenti intercettate mediante una microspia installata in Italia a bordo di un’autovettura. Secondo un orientamento ormai consolidato, il successivo spostamento all’estero del veicolo non rende inutilizzabili le conversazioni che vi si svolgano (1). Lo stesso principio varrebbe per le captazioni eseguite mediante l’attivazione da remoto del microfono del dispositivo infetto, quando il suo utilizzatore si trovi in altro Stato, in quanto, «al di là dei dettagli tecnici, ciò che rileva – argomentano i giudici della seconda sezione – è che, in ultima analisi, l’ascolto delle conversazioni avvenga in Italia su apparecchi collegati ad un gestore italiano e la cui captazione ha avuto origine sul territorio italiano».

(1) Cfr. Cass., Sez. II, 4 novembre 2016, n. 51034, in C.E.D. Cass., rv. 26851401.

2. Un errore di prospettiva

Opposti nelle conclusioni, tanto il ragionamento della difesa quanto quello della Corte sono accomunati da un errore di prospettiva. Entrambi muovono dal “dettaglio tecnico” della sede delle operazioni. Come si è visto, per la Corte di legittimità, queste si sarebbero svolte in Italia, a nulla rilevando che alcune delle conversazioni intercettate avessero avuto luogo in Canada; circostanza, questa, valorizzata dalla difesa per sostenere la necessità della trasmissione di un’apposita rogatoria, insieme alla considerazione che le registrazioni erano transitate sui server della Procura procedente tramite un router situato nel territorio di quello Stato. Tuttavia, il criterio della territorialità non si presta alla soluzione di problematiche relative a strumenti di indagine, quali le intercettazioni di comunicazioni, difficilmente contenibili entro spazi predefiniti (2). Tale difficoltà è esasperata dall’impiego del virus informatico. Un corretto approccio al problema della legittimità di questo tipo di intercettazioni impone di considerare che il trojan horse non conosce limiti: che si tratti delle mura di un domicilio o delle frontiere di uno Stato non fa differenza. Ecco perché, tra l’altro, non è pertinente l’assimilazione alle conversazioni intercettate con una microspia installata all’interno di un autoveicolo (3): uno smartphone entra in una tasca (e da qui nel domicilio di chiunque), un’automobile no. Il riferimento al luogo delle operazioni è un artificio che genera finzioni pericolose. La realtà è che ovunque siano eseguite, le intercettazioni ledono libertà fondamen-

(2) Cfr. Ruggieri, Le intercettazioni per instradamento sul canale internazionale: un mezzo di ricerca della prova illegittimo, in Cass. pen., 2000, 1062. Analogamente, Tiberi, L’instradamento delle telefonate straniere: una prassi discutibile, in Cass. pen., 2004, 959; La Rocca, Intercettazioni, utilizzo di impianti esterni, instradamento: garanzie tecniche e prassi devianti, in Giur. it., 2011, 731.  (3) Che, secondo l’orientamento prevalente in giurisprudenza, non può essere considerato luogo di privata dimora. Cfr., da ultimo, Cass., Sez. VI, 30 gennaio 2019, n. 23819, in C.E.D. Cass., rv. 275994-02.

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GIURISPRUDENZA PENALE tali. È alla “vittima”, non alle modalità, della lesione che occorre pertanto avere riguardo.

3. I limiti delle intercettazioni senza confini

Le intercettazioni incidono sulla libertà e segretezza delle comunicazioni, nonché sulla libertà domiciliare, laddove le conversazioni captate avvengano in luogo di privata dimora. Tali prerogative ricevono una tutela “multilivello” (4), essendo presidiate dalle “guarentigie” previste, non soltanto dalla Costituzione (in particolare, dagli artt. 14 e 15), ma anche dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (art. 8) e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (art. 7) (5). La legittimità di ogni intromissione in comunicazioni riservate (6) va, dunque, misurata sui parametri enucleabili dal codice di rito e, soprattutto, dalle fonti a questo sovraordinate. La costituzionalità della normativa italiana in tema di intercettazioni “ambientali” sembra ormai fuori questione (7).

(4) Cardone, voce Diritti fondamentali (tutela multilivello dei), in Enc. dir., Annali, IV, Milano, 2011, 335 ss.; Id., La tutela multilivello dei diritti fondamentali, Milano, 2012.  (5) I diritti fondamentali sono riconosciuti anche da altre “Carte dei diritti”, quali, per esempio, il Patto internazionale sui diritti civili e politici concluso a New York nel 1966. Peraltro, tra quelle rilevanti nel nostro ordinamento, soltanto la CEDU e la CDFUE prevedono meccanismi di tutela dei diritti in esse proclamate dinanzi ad organi giurisdizionali ed appartengono, perciò, al circuito della «tutela multilivello dei diritti fondamentali». Secondo la nozione accreditata in dottrina, con questa espressione si designa, infatti, «il complesso di istituti, tanto di origine normativa che giurisprudenziale, attraverso cui si articolano le competenze e le relazioni tra le varie istanze giurisdizionali degli ordinamenti nazionali e sovranazionali (quindi dell’Unione europea ed internazionale) davanti a cui è possibile far valere la tutela dei diritti fondamentali». Così Cardone, voce Diritti fondamentali (tutela multilivello dei), cit., 336. Ad ogni modo, per una ricognizione esaustiva dei trattati e degli atti internazionali in materia di tutela dei diritti fondamentali, v., per tutti, A. Cassese, I diritti umani nel mondo contemporaneo, Roma-Bari, 1994.  (6) Sul necessario requisito della riservatezza della comunicazione intercettata, v. Illuminati, La disciplina processuale delle intercettazioni, Milano, 1983, 33: «senza violazione della segretezza, di intercettazioni non si può parlare. Deve trattarsi di conversazioni riservate, o che comunque per il mezzo usato o per le condizioni oggettive in cui si svolgono, non consentono in linea di principio l’ascolto da parte di estranei». In giurisprudenza, fondamentale resta la nozione elaborata in Cass., Sez. un., 28 maggio 2003, n. 36747, in C.E.D. Cass., rv. 225465: «L’intercettazione di comunicazioni interprivate richiede, quindi, perché sia qualificata tale, una serie di requisiti: a) i soggetti devono comunicare tra loro col preciso intento di escludere estranei dal contenuto della comunicazione e secondo modalità tali da tenere quest’ultima segreta […]».  (7) Cfr., da ultimo, Cass., Sez. II, 13 febbraio 2013, n. 21644, in C.E.D. Cass., rv. 255541. È il caso di considerare, tuttavia, come la stessa Corte di cassazione (Sez. III, ord. 11 giugno 2003, n. 29169, in C.E.D. Cass., rv. 224894) abbia in passato dubitato della costituzionalità dell’art. 266, co. 2, cod. proc. pen., laddove consentirebbe la collocazione di microspie all’interno di un luogo di privata dimora con l’uso di mezzi fraudolenti. Dal canto suo, Corte cost., ord. 20 luglio 2014, n. 251, in Giur. cost., 2004, 2584, nel dichiarare inammissibile la questione, sembra aver confermato

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Dal canto suo, la Corte europea dei diritti dell’uomo non ha finora rilevato profili di incompatibilità con le norme convenzionali. Al riguardo, i giudici della seconda sezione hanno invocato la sentenza resa nel caso “Capriotti c. Italia” (8) per «escludere preclusioni riguardanti le intercettazioni effettuate mediante “captatore informatico” transitato all’estero». In realtà, nemmeno questo riferimento è pertinente. In quell’occasione, infatti, la Corte europea considerò legittima la discutibile prassi dell’instradamento (9), che, nella specie, aveva consentito di intercettare le chiamate avvenute tra il ricorrente, cittadino italiano residente in Italia, e persone di varia nazionalità che si trovavano all’estero (10). Non decise, invece, la specifica questione relativa alla legittimità dell’utilizzo a carico dell’indagato dei risultati di intercettazioni “a strascico” di conversazioni telefoniche intercorse esclusivamente tra cittadini stranieri, data l’impossibilità per il ricorrente di dolersi di interferenze subite da terze persone. È evidente come le captazioni mediante virus informatico di colloqui avvenuti all’estero presentino maggiori affinità con la seconda fattispecie. La sottoposizione a controllo di un’utenza intestata a persona residente

la inutilizzabilità dei risultati di intercettazioni compiute mediante apparecchiature collocate nel domicilio senza una previa autorizzazione specifica da parte dell’autorità giudiziaria. L’entrata in vigore della disciplina delle intercettazioni tramite trojan horse ha reso, infine, infondate le perplessità relative al rispetto della riserva di legge suscitate dall’impiego del malware in mancanza di puntuali disposizioni di legge. Alcune perplessità permangono, tuttavia, in relazione a disposizioni introdotte in occasione dell’ultima riforma della materia. Con specifico riguardo alla costituzionalità delle modifiche all’art. 270 cod. proc. pen., laddove è ammessa l’indiscriminata circolazione dei risultati delle intercettazioni eseguite ai sensi della disciplina derogatoria di cui al “nuovo” co. 2-bis dell’art. 266 cod. proc. pen., sia consentito rinviare a Monzillo, L’utilizzazione in altri procedimenti dei risultati di intercettazioni eseguite mediante captatore informatico tra Sezioni unite e novelle, in questa Rivista, 2020, 716.  (8) Corte EDU, 23 febbraio 2016, ric. 28819/12, Capriotti c. Italia, in Cass. pen., 2016, 4236 ss., con nota di Balsamo, Intercettazioni ambientali mobili e cooperazione giudiziaria internazionale: le indicazioni desumibili dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo.  (9) La giurisprudenza italiana ritiene pacificamente utilizzabili i risultati delle intercettazioni eseguite con questa tecnica. In questo senso, cfr., per tutte, Cass., Sez. III, 12 febbraio 2016, n. 5818, in Giur. it., 2016, 718 ss., con nota di Bene, Transnazionalità dei crimini nella società confessionale: i pericoli della tecnologia e del diritto. La dottrina è unanime nel criticare questo orientamento. Si vedano, tra gli altri, Sica, Le intercettazioni di conversazioni o comunicazioni per “instradamento” o “a fascio”, in Nuov. Dir., 2000, 1115 ss.; Ruggieri, Le intercettazioni per instradamento sul canale internazionale: un mezzo di ricerca della prova illegittimo, cit.; Diddi, Il regime delle intercettazioni telefoniche per “instradamento”, in Giust. pen., 2001, 120 ss.; Tiberi, L’instradamento delle telefonate straniere: una prassi discutibile, cit.; La Rocca, Intercettazioni, utilizzo di impianti esterni, instradamento: garanzie tecniche e prassi devianti, cit.  (10) In particolare, si osservò che questa tecnica di indagine costituiva una misura prevedibile – e, dunque, «prevista dalla legge», ai sensi del secondo paragrafo dell’art. 8 CEDU – in base all’interpretazione delle disposizioni codicistiche di riferimento consolidatasi in giurisprudenza.


GIURISPRUDENZA PENALE all’estero consente, infatti, di captare, in modo indiscriminato, tutte le comunicazioni che la coinvolgano. Analogamente, il trojan horse che approdi in un altro Stato è in grado di accedere al domicilio di persone di nazionalità diversa da quella della persona sorvegliata e intercettare le conversazioni che vi si svolgano, indipendentemente dal loro contenuto. Al contrario di quanto preteso dalla Corte nomofilattica nella decisione in commento, la casistica convenzionale non offre, dunque, parametri alla cui stregua vagliare l’ammissibilità dell’impiego del captatore informatico per intercettare le comunicazioni tra presenti che abbiano luogo oltre i confini nazionali (11). Ad ogni modo, non si può trascurare che, indipendentemente dalla tecnologia impiegata, la registrazione di conversazioni tra cittadini stranieri realizza un’interferenza nell’esercizio di libertà sottoposte alla sovranità di un altro Stato. Senonché, il diritto internazionale impone che le funzioni statali siano esercitate esclusivamente all’interno dei confini nazionali. Tale limitazione è direttamente applicabile nel nostro ordinamento per il tramite dell’art. 10, co. 1, Cost., in quanto espressiva di una delle «norme del diritto internazionale generalmente riconosciute». Di essa è corollario anche il divieto per gli organi inquirenti di compiere attività investigativa senza il consenso dello Stato dove si trovino le prove di interesse (12). Detto altrimenti, se il legislatore non può emanare leggi applicabili al di fuori del territorio nazionale (pena, la violazione dell’art. 10 Cost.), a maggior ragione, il giudice non può esercitare la giurisdizione con effetti che travalichino le frontiere. Un atto dell’autorità giudiziaria che autorizzasse attività da compiere direttamente all’estero sarebbe, dunque, affetto da nullità assoluta, per carenza di potere giurisdizionale (13). Altrettanto certo è che le prove nondimeno acquisite sarebbero inutilizzabili, ai sensi dell’art. 191 cod. proc. pen., per violazione dei divieti posti dall’art. 10, co. 1, Cost. e dalle varie fon-

(11) Sull’applicazione “decontestualizzata” dei principi enunciati dalle Corti europee, v. Manes, Il giudice nel labirinto. Profili delle intersezioni tra diritto penale e fonti sovranazionali, Roma, 2017, 28 ss. Per alcune considerazioni, da una prospettiva più ampia, sull’utilizzo inadeguato delle massime giurisprudenziali, v. Vacca, Metodo casistico e sistema prudenziale. Ricerche, Padova 2006, 257; Id., Interpretazione e scientia iuris. Problemi storici e attuali, in Eur. dir. priv., 2011, 678.  (12) Cfr. Vigoni, Dalla rogatoria all’acquisizione diretta, in Rogatorie penali e cooperazione giudiziaria internazionale, a cura di La Greca e Marchetti, Torino, 2003, p. 461, la quale qualifica il consenso dello Stato interessato come «elemento di fondo condizionante l’esercizio stesso dell’attività giurisdizionale all’estero».  (13) Cfr., per tutti, Gaito, Rogatorie, in aa. vv., Procedura penale, Torino, 2017, 1002, il quale ritiene che «potrebbe configurarsi anche l’abnormità quale categoria connaturata al fatto che una pronuncia giurisdizionale si ponga in contrasto con l’intero sistema della legge processuale».

ti internazionali «in vigore per lo Stato» (art. 696 cod. proc. pen.) che impongono il ricorso agli strumenti di cooperazione giudiziaria, al fine di assicurare il rispetto della lex loci (14). A questi limiti il captatore informatico non può sfuggire. La logica del «maiora premunt», sempre invocata per non disperdere prove necessarie all’accertamento di reati particolarmente gravi, non può arrivare a giustificare l’annientamento delle garanzie previste a tutela della persona contro «poteri coercitivi non chiaramente individuabili, perché non riferibili ad un preciso spazio territoriale» (15). In proposito, è il caso di ricordare come, in base ai principi espressi nella sentenza resa dalle Sezioni unite nel caso “Scurato”, le intercettazioni “ambientali” mediante trojan horse debbano sempre essere eseguite con modalità rispettose della dignità della persona, anche laddove si proceda per delitti di criminalità organizzata; con la conseguenza che sono travolte da inutilizzabilità le «risultanze di “specifiche” intercettazioni che nelle loro modalità di attuazione e/o nei loro esiti abbiano acquisito “in concreto” connotati direttamente lesivi della persona e della sua dignità» (16). La portata di questo principio è stata di recente estesa dai giudici della quinta sezione della Corte di cassazione con l’opportuna precisazione che l’inutilizzabilità dei risultati di captazioni operate con l’ausilio di un captatore informatico discende, in generale, dalla violazione di «precisi divieti di legge» (17). Tra questi vanno, di certo, annoverati anche quelli posti

(14) Cfr., ancora, Gaito, ibidem. Per l’affermazione che i «vizi della prova ... possono trovare la loro fonte in tutto il corpus normativo a livello di legge ordinaria o superiore», v. Cass., Sez. un., 24 settembre 2003, n. 36747, in C.E.D. Cass., rv. 225466, richiamata da Ubertis, La prova acquisita all’estero e la sua utilizzabilità in Italia, in Cass. pen., 2014, 700, nt. 21, cui si rinvia per gli opportuni riferimenti bibliografici.  (15) Così La Rocca, Intercettazioni, utilizzo di impianti esterni, instradamento: garanzie tecniche e prassi devianti, cit., 734.  (16) Così Cass., Sez. un., 28 aprile 2016, n. 26889, in C.E.D. Cass., rv. 266905, motivazione, § 10.1, che, a sua volta, cita un brano della memoria depositata dal Procuratore generale presso la Corte di cassazione, consultabile all’indirizzo <https://archiviodpc.dirittopenaleuomo.org/ upload/1462201608Memoria%20Procura%20generale%20Trojan.pdf>.  (17) Cass., Sez. V, 30 settembre 2020, n. 31604, in Guida dir., 49, 2020, 107. Pare opportuno riportare per intero il punto della motivazione di interesse: «Per quel che riguarda l’eventualità che lo strumento captativo in argomento possa consentire l’intercettazione di conversazioni di cui è vietata la captazione (come quelle tra imputato e suo difensore) o produrre, in casi estremi, esiti lesivi della dignità umana, va osservato che tali situazioni non possono incidere “a monte” sulla legittimità del decreto - poiché altrimenti si imporrebbe un requisito non previsto dalla legge - ma si riverberano, “a valle”, sulla inutilizzabilità delle risultanze di “specifiche” intercettazioni che abbiano violato precisi divieti di legge o che, nelle loro modalità di attuazione e/o nei loro esiti, abbiano acquisito “in concreto” connotati direttamente lesivi della persona e della sua dignità».

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GIURISPRUDENZA PENALE da disposizioni attuative del principio di sovranità e indipendenza degli Stati. Del resto, l’inutilizzabilità è un esito non desiderabile: innanzitutto, per la persona che, a monte, subisce l’abuso; ma anche per gli stessi inquirenti, che vedono vanificata la propria attività, tanto più proficua quanto maggiore sia l’intrusività dei mezzi investigativi impiegati. Data l’inevitabilità degli inconvenienti che si profilano a fronte della probabile violazione di divieti probatori, quella di disattivare il captatore che si sposti in territorio straniero rappresenta l’unica scelta preferibile. Come si è detto, infatti, è verosimile che l’utilizzatore del dispositivo infetto incontri altre persone nel loro domicilio, così consentendo una pluralità di intercettazioni domiciliari, i cui risultati non potrebbero, tuttavia, essere utilizzati, perché acquisiti in violazione delle norme che riservano allo Stato “di approdo” il potere di intromettersi nella vita privata dei propri cittadini. Peraltro, ciò che è inutilizzabile per la nostra legge processuale non lo è necessariamente altrove. Potrebbe darsi che le conversazioni intercettate dal virus prima della disattivazione abbiano valore per la legislazione del Paese “ospite”; ma la relativa valutazione compete soltanto all’autorità giudiziaria locale, che dalle registrazioni delle comunicazioni con soggetti sottoposti alla sua giurisdizione potrebbe trarre preziosi spunti investigativi. La trasmissione tempestiva delle risultanze delle captazioni avrebbe risvolti vantaggiosi per gli stessi inquirenti italiani. È molto probabile, infatti, che le informazioni emerse nell’ambito del procedimento avviato in seguito dalle autorità locali vengano spontaneamente condivise con le omologhe autorità italiane e potrebbero, per tale via, trovare ingresso nel giudizio celebrato in Italia (18) (ferma, ovviamente, la necessità di una preliminare delibazione sulla loro conformità agli standard prescritti dal nostro codice di rito (19)).

4. Il captatore informatico nello spazio giudiziario europeo

Quasi a coronamento di una lunga evoluzione, avviata con la conclusione della Convenzione europea di Strasburgo del 1959, la direttiva 2014/41/UE (20) ha get (18) La giurisprudenza ammette ormai pacificamente l’utilizzo delle informazioni trasmesse spontaneamente ed autonomamente dall’autorità giudiziaria estera. In questo senso, da ultimo, Cass., Sez. III, 30 novembre 2018, n. 22, in Cass. pen., 2019, 10, 3735. In dottrina, sull’argomento, v., tra i molti, Calvanese, Cooperazione giudiziaria tra Stati e trasmissione spontanea di informazioni: condizioni e limiti di utilizzabilità, ivi, 2003, 449 ss.  (19) Cfr. Lupària, Note conclusive nell’orizzonte d’attuazione dell’ordine europeo di indagine, in L’ordine europeo di indagine. Criticità e prospettive, a cura di Bene - Lupària - Marafioti, Torino, 2016, 252.  (20) Direttiva 2014/41/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 3 aprile 2014 relativa all’ordine europeo di indagine penale, in GUUE, 1 maggio 2014, L. 30/1.

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tato le fondamenta di uno spazio di libera circolazione della «merce probatoria» (21) all’interno del territorio europeo. La sua adozione rappresenta l’espressione più compiuta della consapevolezza degli Stati membri circa l’importanza della reciproca assistenza ai fini di un contrasto efficace al crimine transfrontaliero (22). La direttiva ha rimediato alla frammentarietà del previgente quadro normativo in materia di raccolta transnazionale delle prove, sostituendo i tradizionali strumenti di assistenza e di cooperazione giudiziaria (23) con un unico strumento investigativo – l’ordine europeo di indagine penale – valido per qualsiasi tipo di prova, incluse le intercettazioni di comunicazioni. A queste ultime sono dedicate le disposizioni degli artt. 30 e 31 (24), che prevedono un regime differente a seconda del grado di coinvolgimento di un altro Stato membro nello svolgimento delle operazioni (25). Come dimostra la vicenda da cui origina la decisione in commento, grazie al captatore informatico gli investigatori possono operare in autonomia; cionondimeno, sono gravati da un obbligo di notifica. L’art. 31 della direttiva dispone, in particolare, che le autorità competenti dello Stato membro in cui si trova  (21) Marafioti, Orizzonti investigativi europei, assistenza giudiziaria e mutuo riconoscimento, in L’ordine europeo di indagine., cit., 14.  (22) Già nelle conclusioni del Consiglio europeo di Tampere del 15 e 16 ottobre 1999 – pubblicate in Cass. pen., 2000, 302 ss. – si prese constatò, tra l’altro, che le diversità esistenti tra i sistemi giudiziari in vigore nei singoli Stati membri agevolavano la commissione di crimini. Cfr., sul punto, Aprile, Nuovi strumenti e tecniche investigative nell’ambito U.E.: intercettazioni all’estero, operazioni di polizia oltre frontiera, attività sotto copertura e videoconferenze con l’estero, in Cass. pen., 2009, 440.  (23) V., però, art. 34 della direttiva, che stabilisce: «Fatta salva la loro applicazione tra Stati membri e Stati terzi e la loro applicazione temporanea in virtù dell’articolo 35, la presente direttiva sostituisce, a decorrere dal 22 maggio 2017, le corrispondenti disposizioni delle seguenti convenzioni applicabili tra gli Stati membri vincolati dalla presente direttiva: a) convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale del Consiglio d’Europa, del 20 aprile 1959, i relativi due protocolli aggiuntivi e gli accordi bilaterali conclusi a norma dell’articolo 26 di tale convenzione; b) convenzione di applicazione dell’accordo di Schengen; c) convenzione relativa all’assistenza giudiziaria in materia penale tra gli Stati membri dell’Unione europea e relativo protocollo», nonché le decisioni quadro 2008/978/GAI e 2003/577/GAI. La disposizione in esame lascia inoltre impregiudicata la possibilità per gli Stati membri di «concludere o continuare ad applicare accordi o intese bilaterali o multilaterali con altri Stati membri successivamente al 22 maggio 2017, solo laddove i medesimi consentano di rafforzare ulteriormente gli obiettivi della presente direttiva e contribuiscano a semplificare o agevolare ulteriormente le procedure di acquisizione delle prove e a condizione che sia rispettato il livello delle salvaguardie di cui alla presente direttiva».  (24) Su cui Grassia, La disciplina delle intercettazioni: l’incidenza della direttiva 2014/41/UE sulla normativa italiana ed europea, in L’ordine europeo di indagine., cit., 199 ss., cui si rinvia anche per i riferimenti bibliografici.  (25) Differenziazione già operata dagli articoli 19 e 20 della Convenzione di Bruxelles del 29 maggio 2000 relativa all’assistenza giudiziaria in materia penale tra gli Stati membri dell’Unione europea, pubblicata in G.U.C.E., 12 luglio 2000, C. 197/1.


GIURISPRUDENZA PENALE o si troverà la persona sorvegliata devono esserne informate, anche se non vi è necessità di assistenza tecnica. Si tratta di un adempimento ineludibile, che può essere eseguito, al più tardi, «ad intercettazione effettuata, non appena [si] venga a conoscenza del fatto che la persona soggetta a intercettazione si trova, o si trovava durante l’intercettazione, sul territorio dello Stato membro notificato». Tale obbligo è funzionale a consentire agli organi destinatari della notifica di controllare che ricorrano i presupposti richiesti dalla legislazione nazionale per svolgere intercettazioni in relazione a fattispecie analoghe a quelle per cui si procede nel Paese di origine. Laddove manchino, «l’autorità competente dello Stato membro notificato può, senza ritardo e al più tardi entro 96 ore dalla ricezione della notifica … notificare all’autorità competente dello Stato membro di intercettazione che: a) l’intercettazione non può essere effettuata o si pone fine alla medesima; e b) se necessario, gli eventuali risultati dell’intercettazione già ottenuti mentre la persona soggetta ad intercettazione si trovava sul suo territorio non possono essere utilizzati o possono essere utilizzati solo alle condizioni da essa specificate». Questa disposizione dimostra come la pervicace riluttanza a cedere porzioni della propria sovranità resista anche tra gli Stati europei. Emblematica in questo senso è, d’altronde, la soluzione di compromesso codificata nell’art. 9 della direttiva del 2014, laddove si deroga al principio del mutuo riconoscimento, prevedendo una «forma ibrida tra lex loci e lex fori, alla stregua della quale trovano applicazione le regole probatorie vigenti nello Stato in cui si svolge il processo (lex fori) finché queste ultime non entrino in conflitto con i “principi fondamentali di diritto” dello Stato d’esecuzione» (26). Chiara è la ratio: «tutelare al massimo grado la sovranità nazionale, assicurando che le prove siano acquisite in base alle regole che attuano i bilanciamenti tra i valori considerati preferibili dal legislatore dello Stato in cui esse sono reperibili» (27). La direttiva è stata fedelmente trasposta nel nostro ordinamento dal d.lgs. 21 giugno 2017, n. 108 (28). Con

riguardo alle intercettazioni attive, l’art. 44 impone al pubblico ministero di informare l’autorità giudiziaria competente dello Stato membro nel cui territorio si trova il dispositivo o il sistema da controllare prima dell’avvio delle operazioni di captazione (co. 1), oppure, quando queste siano già iniziate, non appena ne abbia notizia (co. 2). Se le autorità straniere comunicano, a loro volta, che le intercettazioni non possono essere eseguite o proseguite, il pubblico ministero ne dispone l’immediata cessazione; tuttavia, i risultati dell’intercettazione possono essere utilizzati alle condizioni stabilite dall’autorità giudiziaria dello Stato membro (co. 3). Nulla è espressamente previsto per l’eventualità che l’informativa non venga trasmessa. Del resto, è di facile intuizione che le conversazioni intercettate siano inutilizzabili, operando il divieto probatorio posto dall’art. 271 cod. proc. pen. contro captazioni «eseguite fuori dei casi consentiti dalla legge». Indefettibile condizione di legittimità delle intercettazioni “transnazionali” è, dunque, sempre il rispetto della sovranità dello Stato – europeo o non – dove si trovi la persona controllata. Al di là dei confini non esistono zone franche.

(26) Marafioti, Orizzonti investigativi europei, assistenza giudiziaria e mutuo riconoscimento, cit., 22.  (27) Daniele, La metamorfosi del diritto delle prove nella direttiva sull’ordine europeo di indagine penale, in Dir. pen. cont. - Riv. trim., 2015, 88.  (28) Decreto legislativo 21 giugno 2017, n. 108, recante Norme di attuazione della direttiva 2014/41/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 3 aprile 2014, relativa all’ordine europeo di indagine penale, pubblicato in G.U., 13 luglio 2017, n. 162. Tra i primi commenti al provvedimento, Mangiaracina, L’acquisizione “europea” della prova cambia volto: l’Italia attua la Direttiva relativa all’ordine europeo di indagine penale, in Dir. pen. proc., 2018, 158 ss.; Marchetti, Ricerca e acquisizione probatoria all’estero: l’ordine europeo di indagine, in Arch. pen., 2018, 827 ss.; Paulesu, Operazioni sotto copertura e ordine europeo d’indagine penale, in Arch. pen., 2018, 25 ss.; Rug-

gieri,

Le nuove frontiere dell’assistenza penale internazionale: l’ordine europeo di indagine penale, in Proc. pen. giust., 2018, 12; Selvaggi, L’ordine europeo di indagine - EIO: come funziona?, in Cass. pen., 2018, 44 ss.; Camaldo, La normativa di attuazione dell’ordine europeo di indagine penale: le modalità operative del nuovo strumento di acquisizione della prova all’estero, in Cass. pen., 2017, 4196 ss.

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Offerte di criptoattività e abusivismo finanziario. I margini di rilevanza penale dell’esercizio non autorizzato di servizi di investimento Corte

di

Cassazione ; sezione II; sentenza 25 settembre 2020, n. 26807; Pres. Gallo; Est. Coscioni

In tema di intermediazione finanziaria, la vendita on line di moneta virtuale pubblicizzata quale forma di investimento per i risparmiatori – ai quali vengano offerte informazioni sulla redditività dell’iniziativa – è attività soggetta agli adempimenti previsti dalla normativa in materia di strumenti finanziari, di cui agli artt. 91 ss. TUF, la cui omissione integra il reato di cui all’art. 166, comma 1, lett. c), TUF. Qualora la vendita di valute virtuali venga reclamizzata come una vera e propria proposta di investimento con informazioni idonee a mettere i risparmiatori in grado di valutare i profili di rischio dell’investimento essa si sostanzia in un’attività soggetta agli adempimenti e alle autorizzazioni previsti dal Testo unico dell’intermediazione finanziaria, con conseguenze responsabilità penale ai sensi dell’art. 166 TUF in caso di abusivo esercizio.

…Omissis…

Ritenuto in fatto 1. Con ordinanza del 21 gennaio 2020 il Tribunale di Milano, in funzione di giudice del riesame respingeva il ricorso avverso il decreto di sequestro preventivo emesso dal giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano del 16 dicembre 2019, che aveva disposto il sequestro preventivo a carico di D.R.G., indagato per i reati di cui all’art. 110 c.p. e art. 648 bis c.p., D. Lgs. n. 58 del 1998, art. 166, comma 1, lett. c) e art. 493 ter c.p. della somma di Euro 206.442,32 e degli ulteriori beni (carte che abilitano al prelievo di denaro, dispositivi elettronici, telefonini) già oggetto di sequestro probatorio emesso dal Pubblico Ministero l’8 novembre 2019. 1.1 Avverso l’ordinanza ricorre per Cassazione il difensore di D.R., eccependo la violazione dell’art. 325 c.p.p. e art. 648 bis c.p., art. 125 c.p.p., comma 3 e in relazione al combinato disposto dell’art. 324 c.p.p., comma 7 e art. 309 c.p.p.: il Tribunale aveva infatti completamento omesso di motivare sui motivi nuovi depositati dalla difesa, che attenevano all’elemento soggettivo del reato e che così si riassumevano: gli accrediti sui conti correnti riconducibili agli indagati (presso l’istituto di credito N26 e presso Widiba) erano relativi a vendite di criptovalute eseguite sul sito (OMISSIS), sito non riconducibile agli indagati; le transazioni per l’acquisto dei bitcoin avvenivano in modo assolutamente spersonalizzato, senza nessun contatto tra venditore e acquirente, per cui il venditore non poteva avere alcuna consapevolezza circa la provenienza della provvista utilizzata dal compratore

per l’acquisto di criptovalute; gli indagati non potevano quindi avere nessuna certezza rilevante ai sensi dell’art. 648 bis c.p. della provenienza illecita del denaro usato da D.R.A. e da M.S.G. (o da chi aveva utilizzato le generalità di questi ultimi) per l’acquisto di bitcoin (come, del reato, alcuna prova, vi era del loro concorso nei presunti delitti di truffa presupposti); nessuna rilevanza aveva la tempistica di apertura dei conti correnti, visto che mancava l’elemento soggettivo del reato e non si poteva ricorrere alla figura del dolo eventuale, posto che non vi era alcun indice sintomatico che potesse far maturare il sospetto che le somme oggetto delle transazioni fossero di provenienza illecita; neppure il dolo eventuale poteva desumersi da una omissione degli obblighi di identificazione imposti dalla normativa anticiriclaggio, essendo tali obblighi imputabili solo alla (OMISSIS). Su tali punti, osserva il difensore, il Tribunale si era limitato ad evidenziare le vicende relative alle transazioni sul sito (OMISSIS), per poi affermare che tali vicende, qualificate come truffaldine, sarebbero state “tutte convergenti ai conti correnti riconducibili agli odierni indagati”, convergenza che non era stata posta in discussione, visto che le contestazioni avevano riguardato l’elemento soggettivo del reato. …Omissis… 1.3 Il difensore eccepisce poi la violazione dell’art. 1, comma 2 e del D. Lgs. n. 58 del 1998, art. 166, comma 1, lett. c) (TUF), dell’art. 125c.p.p., comma 3, dell’art. 321 c.p.p. e del combinato disposto dell’art. 324 c.p.p., comma 7 e art. 309 c.p.p., comma 9: l’attività di cam-

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GIURISPRUDENZA PENALE biavalute virtuale era stata definita dal D. Lgs. n. 90 del 2017, delineando per i cambiavalute uno stato proprio e sottraendoli quindi al perimetro applicativo della normativa in materia di strumenti finanziari in quanto le valute virtuali non erano considerati prodotti da investimento, ma mezzi di pagamento (l’art. 1, comma 2 TUF prevede che “gli strumenti di pagamento non sono strumenti finanziari”); tale scelta era perfettamente coerente con l’ordinamento comunitario e, in particolare, con l’orientamento espresso dalla Corte di Giustizia UE nella sentenza pregiudiziale del 22 ottobre 2016 avente ad oggetto proprio le operazioni di cambio della valuta virtuale bitcoin contro valuta tradizionale, nella quale era stato chiarito che i bitcoin non avevano altre finalità oltre a quella di mezzo di pagamento; a fronte di tali dati era un fuor d’opera quanto affermato dal Tribunale, secondo cui i bitcoin costituiscono uno strumento finanziario, anche se lo stesso Tribunale sembrava perfettamente consapevole della assoluta incongruità della valutazione giuridica offerta, laddove compiva un generico ed impreciso riferimento ad “atti comunitari e provvedimenti Consob” e sovvertiva la gerarchia delle fonti del nostro ordinamento, ritenendo una decisione della Corte di Giustizia UE ed un decreto legislativo minusvalenti rispetto ad un parere della Banca Centrale Europea o ad un parere della Consob o ancora ad una direttiva comunitaria priva di effetto per i cittadini perchè non ancora recepita dall’ordinamento interno. Il difensore aggiunge che il Tribunale aveva richiamato l’attività che gli indagati avrebbero svolto tramite il sito bitcoingo.it che, come risultava già dalla provvisoria contestazione mossa al capo A) della rubrica, non era formalmente riferibile al ricorrente D.R.G., ma a D.R.A. per cui, se il Tribunale avesse voluto ipotizzare una responsabilità del ricorrente, avrebbe dovuto dimostrare che tale ditta individuale era in realtà simulata, e cioè volta a celare una società di fatto tra il ricorrente e l’intestatario, prospettiva estranea all’orizzonte valutativo del Tribunale e in contrasto con le allegazioni difensive (D.R. operava non con il sito bicoingo.it, ma con quello (OMISSIS)). Il difensore eccepisce poi l’erronea determinazione del profitto sequestrabile: avendo il giudice per le indagini preliminari disposto il sequestro finalizzato alla confisca per sproporzione, sarebbe stato necessario individuare il profitto del delitto ex art. 166 TUF asseritamente connesso alla attività della (OMISSIS), profitto che avrebbe potuto rintracciarsi esclusivamente tramite una effettiva ricostruzione dei flussi finanziari riferibili alla ditta indicata, non potendo identificarsi la somma sequestrabile con il profitto della (OMISSIS); volendo poi individuare il profitto sequestrabile, avrebbe dovuto calcolarsi il saldo positivo tra i valori relativi all’acquisto di bitcoin e quelli relativi alla vendita della criptovaluta, al netto

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delle tasse; il Tribunale aveva rigettato tale sottolineatura fatta per tuziorismo, visto che nessun profitto della (OMISSIS) risultava dimostrato- con motivazione apparente mediante richiamo alla sentenza di questa Corte n. 37120/19, che aveva per oggetto il delitto di riciclaggio ove, per l’individuazione del profitto, non sono necessari conteggi particolari, dovendosi avere esclusivamente riferimento alle somme oggetto del reato, meccanismo di computo non estendibile ad altre figure di reato, di modo che non pareva dubbio che il reato di abusivismo finanziario avesse un profitto immediatamente identificabile nell’eventuale saldo attivo tra il prezzo di acquisto dei prodotti e quello di collocamento, da computarsi al netto delle imposte pagate sulle transazioni finanziarie. Considerato in diritto …Omissis… 1.2 Infondato è anche il terzo motivo di ricorso, con il quale viene sostenuto che poiché le valute virtuali non sono prodotti di investimento, ma mezzi di pagamento, le stesse siano sottratte alla normativa in materia di strumenti finanziari: tale censura non si confronta però con la motivazione contenuta a pag.13 dell’ordinanza impugnata, ove si sottolinea che la vendita di bitcoin veniva reclamizzata come una vera e propria proposta di investimento, tanto che sul sito ove veniva pubblicizzata si davano informazioni idonee a mettere i risparmiatori in grado di valutare se aderire o meno all’iniziativa, affermando che “chi ha scommesso in bitcoin in due anni ha guadagnato più del 97%”; trattasi pertanto di attività soggetta agli adempimenti di cui agli artt. 91 e seguenti TUF, la cui omissione integra la sussistenza del reato di cui all’art. 166, comma 1, lett. c) TUF. Quanto alla censura secondo cui il sito (OMISSIS) non sarebbe riconducibile all’indagato, si deve osservare come il conto N26 acceso mediante la comunicazione del numero di telefono riconducibile all’utenza di D.R.G. sia stato utilizzato per l’acquisto e la successiva cessione di bitcoin da parte di F.F., avvenuta tramite quel sito (pag.8 ordinanza impugnata), il che rende evidente che, a prescindere dalla formale riferibilità del sito a D.R.A., lo stesso era adoperato anche da D.R.G.. 1.3 Relativamente all’ultimo motivo di ricorso, questa Corte ha precisato che “Anche l’uso di una carta di credito da parte di un terzo, autorizzato dal titolare, integra il reato di cui al D.L. 3 maggio 1991, n. 143, art. 12, convertito nella L. 5 luglio 1991, n. 197 (ora art. 493-ter c.p.), in quanto la legittimazione all’impiego del documento è contrattualmente conferita dall’istituto emittente al solo intestatario, il cui consenso all’eventuale utilizzazione da parte di un terzo è del tutto irrilevante, stanti la necessità di firma all’atto dell’uso, di una dichiarazione di riconoscimento del debito e la conseguente illiceità di un’autorizzazione a sottoscriverla con


GIURISPRUDENZA PENALE la falsa firma del titolare, ad eccezione dei casi in cui il soggetto legittimato si serva del terzo come “longa manus” o mero strumento esecutivo di un’operazione non comportante la sottoscrizione di alcun atto. (Fattispecie in cui l’agente, che conosceva gli estremi della carta di credito della persona offesa in ragione di un precedente utilizzo per conto di quest’ultima, acquistava un biglietto aereo destinato esclusivamente a sè stesso)”(Sez. 2,

Sentenza n. 17453 del 22/02/2019, PMT/ Pautasso, Rv. 276422 - 01); il fatto che nel caso in esame si tratti di una carta di debito anzichè di credito è del tutto irrilevante, considerato che il bancomat è un “documento analogo” (alla carta di credito) che abilita al prelievo di denaro contante e quindi rientra nell’art. 493 ter c.p.. …Omissis…

IL COMMENTO

di Luca D’Agostino Sommario: 1. La vicenda processuale e la quaestio facti. – 2. Criptovalute ed esercizio abusivo di attività finanziaria. – 3. La cornice autorizzatoria per l’attività dei cambiavalute virtuali. – 4. Considerazioni conclusive. Il contributo riflette sugli attuali margini di rilevanza penale dell’esercizio non autorizzato di servizi e attività di investimento compiuti mediante sollecitazione all’acquisto di valori virtuali. L’autore si sofferma, in particolare, sulla categoria dei “prodotti finanziari” richiamata dall’art. 166, lett. c) TUF, mettendo in luce la necessità, dal versante penalistico, di una maggiore certezza nell’inquadramento della natura giuridica delle criptoattività. The essay deals with the criminal offences that punish virtual currencies financial operators who do not comply with registration requirements. The author focuses on the category of “financial products” contained in Art. 166 of the Italian financial intermediaries Code (TUF), arguing the opportunity (by a criminal law perspective) to clarify the legal nature of the so called crypto-asset activity.

1. La vicenda processuale e la quaestio facti

Con la sentenza in epigrafe la Suprema Corte si è pronunciata, in sede di impugnazione cautelare reale, sulla legittimità di un decreto di sequestro preventivo emesso in un procedimento per i plurimi fatti di riciclaggio, indebito utilizzo di carte di credito ed esercizio abusivo di attività finanziaria. Nel procedimento principale la pubblica accusa contestava all’imputato il compimento di operazioni di riciclaggio attuato mediante transazioni in valuta virtuale e attraverso l’apertura di conti correnti, sui quali confluivano i proventi di delitti di truffa posti in essere dai relativi autori. Nel ricorrere avverso l’ordinanza del Tribunale di Milano, reiettiva del riesame, il difensore lamenta – per quel che qui interessa – la violazione dell’art. 166, comma 1, lett. c) del D. Lgs. 58/1998 (di seguito, TUF) sul presupposto della natura non finanziaria dell’attività esercitata dall’imputato. La difesa riteneva che i fatti contestati integrassero una mera attività di cambiavalute virtuale (come definita dal D. Lgs. n. 90/2017), dotata di un proprio status giuridico, e dunque sottratta al perimetro applicativo della normativa in materia di strumenti finanziari “in quanto le valute virtuali non erano considerati prodotti da investimento, ma mezzi di pagamento”. La Corte disattende la censura rilevando come, nel caso di specie, la vendita di bitcoin fosse reclamizzata come

una “vera e propria proposta di investimento”, tanto che sul sito ove veniva pubblicizzata si davano informazioni idonee a mettere i risparmiatori in grado di valutare se aderire o meno all’iniziativa “affermando che ‘chi ha scommesso in bitcoin in due anni ha guadagnato più del 97%’”. Le specifiche modalità con cui era stata prospettata l’offerta d’investimento assume un rilievo assorbente per i giudici di legittimità, che concludono che una simile sollecitazione all’acquisto fosse “soggetta agli adempimenti di cui agli artt. 91 e seguenti TUF, la cui omissione integra la sussistenza del reato di cui all’art. 166, comma 1, lett. c) TUF”.

2. Criptovalute ed esercizio abusivo di attività finanziaria

La sentenza in commento si è pronunciata sui rapporti tra offerta di criptoattività e disciplina di settore, concludendo per la sussistenza del fumus di commissione del reato di abusivismo finanziario. Poiché i fatti posti alla base della decisione non sono ricostruiti con sufficiente chiarezza, anche in ragione della natura cautelare del giudizio, il presente commento si asterrà da valutazioni di merito sulla corretta del decisum, esaminando il tema da una prospettiva generale. L’offerta al pubblico di criptoattività può sollevare numerosi dubbi in punto di disciplina applicabile, a causa delle aporie classificatorie che caratterizzano i c.d. valori

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GIURISPRUDENZA PENALE virtuali e della mancanza di una normativa settoriale ad hoc. Nell’ordinamento nazionale, come noto, le attività e i servizi di investimento sono riservati ai soggetti che possiedono particolari requisiti, sottoposti al vaglio preventivo delle autorità di vigilanza. Ciò spiega il motivo dell’esistenza di fattispecie criminose che, nel tutelare le prerogative di controllo pubblico sul sistema bancario o finanziario, assolvono indirettamente alla funzione di assicurare che l’intermediazione finanziaria sia svolta da soggetti affidabili sul versante organizzativo e patrimoniale. Ciononostante, la rilevanza penale dell’attività svolta dagli intermediari e dagli emittenti del mercato valutario virtuale rischia di scontrarsi con le esigenze imposte dalla certezza del diritto e dalla tassatività penale, non essendo ad oggi espressamente codificata una categoria apposita per gli asset finanziari virtuali. Per quel che qui interessa, l’art. 166 TUF punisce distinte condotte, precisamente quella di chi senza esservi abilitato: a) svolge servizi o attività di investimento o di gestione collettiva del risparmio; b) offre in Italia quote o azioni di OICR; c) offre fuori sede, ovvero promuove o colloca mediante tecniche di comunicazione a distanza, prodotti finanziari o strumenti finanziari o servizi o attività di investimento; c-bis) svolge servizi di comunicazione dati. Si tratta di un reato di pericolo astratto, che riflette l’esigenza del legislatore di anticipare la tutela apprestata in sede penale prima ancora che si verifichi un effettivo nocumento al pubblico dei risparmiatori e all’integrità del mercato finanziario (1). Sebbene la disposizione non specifichi che le attività debbano essere esercitate nei confronti del pubblico, un tale elemento può ritenersi assorbito nella descrizione delle condotte esecutive. La prestazione di servizi e di attività di investimento e l’offerta di strumenti o prodotti finanziari implicano infatti una apertura al pubblico dei servizi da intendersi in senso non quantitativo, ma qualitativo, come astratta idoneità a raggiungere un numero non determinato di soggetti. Dalla lettura della disposizione emerge piuttosto chiaramente la volontà del legislatore ci circoscrivere l’area del penalmente rilevante a un ristretto numero di ipotesi. Ciononostante, non si ravvisano ostacoli significativi all’applicazione della fattispecie laddove siano esercitati attività e servizi collegati all’emissione di valori virtuali al di fuori del regime autorizzatorio previsto dal TUF. La questione va approfondita.  (1) Una parte della giurisprudenza ritiene che si tratti di un reato istantaneo eventualmente permanente, la cui consumazione si protrae per tutto il tempo in cui vengono posti in essere dal soggetto attivo gli atti tipici della funzione di intermediazione finanziaria.

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I servizi e le attività di investimento sono definiti elencando una serie di attività (2) aventi per oggetto “strumenti finanziari”. Considerato che tra questi ultimi rientrano anche i valori mobiliari di cui all’art. 1, comma 1-bis del TUF (3) l’ambito di rilevanza penale dell’abusivismo finanziario si estende a tutte le attività di negoziazione aventi ad oggetto quelle valute virtuali che, oltre ad essere negoziabili su un mercato secondario, presentino un sottostante riferito a valute, indici, merci o commodities di altro tipo. Si deve dunque effettuare una distinzione in base alle caratteristiche specifiche dei token e/o del contratto di investimento, ammettendo la riconducibilità ai valori mobiliari – e dunque agli strumenti finanziari – delle unità rappresentative di quote di società o di debito oppure di valori reali regolati a pronti. Ben più ampio il campo di applicazione dell’ipotesi sub c), idonea a ricomprendere tutte le condotte di promozione, offerta e collocamento di cripto-attività finanziarie da parte di soggetti non abilitati (4). L’oggetto materiale della condotta è qui riferito non solo gli strumenti finanziari ma anche ai prodotti finanziari, cioè a ogni forma di investimento di natura finanziaria. Considerato che in tale categoria rientrano le più varie formule negoziali in cui vi è un impiego di un capitale caratterizzato dall’aspettativa di un rendimento e dall’assunzione

(2) Vengono elencate, per la precisione, la negoziazione per conto proprio, esecuzione di ordini per conto dei clienti, gestione di portafogli ricezione e trasmissione di ordini, consulenza in materia di investimenti, gestione di sistemi multilaterali di negoziazione. Tali attività di prestano a ricomprendere le attività tipiche dei prestatori di servizi connessi all’utilizzo di valute virtuali. Così, ad esempio, la “gestione di portafogli” potrebbe essere estesa ai fornitori di servizi e-wallet, mentre la “negoziazione per conto proprio” ricorda l’attività di trading diretto. Per “gestione collettiva del risparmio” si intende invece il servizio che si realizza attraverso la gestione di organismi di investimento collettivo e i relativi rischi (art. 1, comma 1, lett. k TUF).  (3) Per “valori mobiliari” si intendono le categorie di valori che possono essere negoziati nel mercato dei capitali, quali ad esempio: a) azioni di società e altri titoli equivalenti ad azioni di società, di partnership o di altri soggetti e ricevute di deposito azionario; b) obbligazioni e altri titoli di debito, comprese le ricevute di deposito relative a tali titoli; c) qualsiasi altro valore mobiliare che permetta di acquisire o di vendere i valori mobiliari indicati o che comporti un regolamento a pronti determinato con riferimento a valori mobiliari, valute, tassi di interesse o rendimenti, merci o altri indici o misure.  (4) La lettera è stata modificata dall’art. 5 del D. Lgs. 3 agosto 2017 n. 129 (Attuazione della direttiva 2014/65/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 15 maggio 2014, relativa ai mercati degli strumenti finanziari) che ha inserito il riferimento ai prodotti finanziari, prima assente. L’art. 31 del Testo unico prevede che per l’offerta fuori sede i soggetti abilitati debbano avvalersi di consulenti finanziari a ciò autorizzati, e che il soggetto abilitato conferente l’incarico sia responsabile in solido dei danni arrecati a terzi dal consulente finanziario abilitato all’offerta fuori sede.


GIURISPRUDENZA PENALE di un rischio di natura finanziaria (5), la tutela penale contro l’abusivismo riuscirà a raggiungere anche le attività d’investimento realizzate mediante l’offerta di valori virtuali. Gli intermediari saranno in particolare tenuti all’osservanza della disciplina del collocamento a distanza di prodotti finanziari (6), sottoposto all’autorizzazione preventiva della Consob in base alle informazioni contenute nel prospetto. Secondo la definizione fornita dall’art. 1, comma 1, lettera t) TUF per “offerta al pubblico di prodotti finanziari” deve intendersi “ogni comunicazione rivolta a persone, in qualsiasi forma e con qualsiasi mezzo, che presenti sufficienti informazioni sulle condizioni dell’offerta e dei prodotti finanziari offerti così da mettere un investitore in grado di decidere di acquistare o di sottoscrivere tali prodotti finanziari, incluso il collocamento tramite soggetti abilitati” (7). Si ritiene che i promotori di criptoattività finanziarie – tali cioè da integrare la nozione domestica di prodotto finanziario – debbano rispettare non solo le regole generali in materia di servizi di investimento, ma anche la stringente disciplina dettata per la sollecitazione (8). L’inosservanza delle disposizioni autorizzatorie sull’offerta e sul collocamento a distanza potrà assumere rilevanza come esercizio abusivo di attività finanziaria ai sensi della disposizione in esame (9).

Considerata da questa prospettiva, la sintetica presa di posizione della Corte di Cassazione nel caso in esame appare coerente con il dato normativo.

(5) In essa rientra ogni strumento, comunque denominato, che sia rappresentativo dell’impiego di un capitale in misura prevalente rispetto al godimento del bene. Cfr. Girino, Criptovalute: un problema di legalità funzionale, in Rivista di Diritto Bancario, 2018, 55, 2 ss.; Carrière P, Le “criptovalute” sotto la luce delle nostrane categorie giuridiche di “strumenti finanziari”, “valori mobiliari” e “prodotti finanziari”; tra tradizione e innovazione, in Rivista di diritto bancario, 2019, 2.

dalla Consob con delibera n. 16190 del 29 ottobre 2007), volta ad assicurare la correttezza e la completezza delle informazioni da fornirsi ai potenziali investitori e la parità di trattamento dei destinatari dell’offerta. Gli intermediari dovranno rispettare le norme sull’offerta al pubblico di prodotti finanziari (art. 94 ss. TUF) che impongono una serie di obblighi di trasparenza e di informazione nei confronti degli investitori. Nel dettaglio, la proposta dovrà essere accompagnata dalla pubblicazione di un prospetto informativo redatto secondo gli schemi predisposti dalla Consob; in caso di omissione gli interessati saranno esposti alle onerose sanzioni pecuniarie di cui all’art. 191 del TUF.

(6) Per tecniche di comunicazione a distanza si intendono «le tecniche di contatto con la clientela, diverse dalla pubblicità, che non comportano la presenza fisica e simultanea del cliente e del soggetto offerente o di un suo incaricato». La materia è oggi regolata dalla delibera Consob n. 20307 del 15.2.2018 che ha sostituito la precedente delibera n. 16190 del 29 ottobre 2007 (c.d. Regolamento Intermediari).  (7) Si realizza una offerta al pubblico anche qualora i prodotti finanziari che abbiano costituito oggetto in Italia o all’estero di un collocamento riservato a investitori qualificati siano, nei dodici mesi successivi, sistematicamente rivenduti a soggetti diversi da investitori qualificati (art. 100-bis, comma 2, TUF).  (8) Prima della pubblicazione dell’offerta l’intermediario dà comunicazione alla Consob circa le caratteristiche dell’operazione (art. 94, comma 1, TUF) compilando un prospetto informativo che, previa autorizzazione rilasciata dall’Autorità, dovrà essere diffuso affinché i risparmiatori possano «pervenire a un fondato giudizio sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria e sull›evoluzione dell›attività dell›emittente nonché sui prodotti finanziari e sui relativi diritti» (art. 94, comma 2). Laddove la proposta d’investimento sia condotta a distanza, l’intermediario sarà assoggettato alla disciplina prevista per la l’offerta fuori sede regolata da disposizioni specifiche a tutela dell’investitore/consumatore.  (9) L’offerta al pubblico di prodotti finanziari è sottoposta ad una specifica disciplina (Capo I del Titolo II della Parte IV del TUF; Titolo I del Regolamento emittenti, approvato dalla Consob con delibera n.11971 del 14 maggio 1999; Libro VII del Regolamento Intermediari, approvato

3. La cornice autorizzatoria per l’attività dei cambiavalute virtuali

Con l’emanazione del D. Lgs. n. 90/2017 il legislatore nazionale ha fornito una definizione di valuta virtuale (10) e introdotto una normativa specifica per l’esercizio dell’attività di cambiavalute. L’intervento riformatore ha toccato numerose disposizioni del Decreto Legislativo 21 novembre 2007, n. 231; tra le novità più rilevanti spicca l’inclusione dei prestatori di servizi relativi all’utilizzo di valuta virtuale tra i destinatari degli obblighi antiriciclaggio. L’art. 1, comma 2, lett. ff) del D. Lgs. 21 novembre 2007 n. 231 definisce questi ultimi come “ogni persona fisica o giuridica che fornisce a terzi, a titolo professionale, servizi funzionali all’utilizzo, allo scambio, alla conservazione di valuta virtuale e alla loro conversione da ovvero in valute aventi corso legale” (11). Gli intermediari professionali del mercato valutario virtuale erano inseriti nel novero degli operatori non finanziari di cui all’art. 3, comma 5, solo “limitatamente allo svolgimento dell’attività di conversione di valute virtuali da ovvero in valute aventi corso forzoso” (12), prima che con

(10) Sulla definizione di valuta virtuale v. art. 1, comma 2, del D. Lgs. 21 novembre 2007 n. 231 lett. qq): “la rappresentazione digitale di valore, non emessa da una banca centrale o da un’autorità pubblica, non necessariamente collegata a una valuta avente corso legale, utilizzata come mezzo di scambio per l’acquisto di beni e servizi, o per finalità d’investimento, e trasferita, archiviata e negoziata elettronicamente”. Tale nozione è il risultato dell’interpolazione da ultimo effettuata con il D. Lgs. 125/2019.  (11) Anche tale definizione è stata emendata dal D. Lgs. 125/2019 che, con il chiaro intento di ampliarne la portata applicativa, ha coniato la seguente nozione di prestatori di servizi relativi all’utilizzo di valuta virtuale: “ogni persona fisica o giuridica che fornisce a terzi, a titolo professionale, anche online, servizi funzionali all’utilizzo, allo scambio, alla conservazione di valuta virtuale e alla loro conversione da ovvero in valute aventi corso legale o in rappresentazioni digitali di valore, ivi comprese quelle convertibili in altre valute virtuali nonché i servizi di emissione, offerta, trasferimento e compensazione e ogni altro servizio funzionale all’acquisizione, alla negoziazione o all’intermediazione nello scambio delle medesime valute”.  (12) L’art. 3 riporta una lunga lista di soggetti obbligati, distinguendo tra operatori finanziari, non finanziari e prestatori di servizi di gioco. Per quel che qui rileva, la lettera i) del quinto comma prevede che rientrino “nella categoria di altri operatori non finanziari: […] i prestatori di servizi relativi all’utilizzo di valuta virtuale, limitatamente allo svolgimento dell’attività di conversione di valute virtuali da ovvero in valute aventi corso forzoso”. Con

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GIURISPRUDENZA PENALE la recente novella legislativa, l’ambito oggettivo fosse ampliato a tutti i prestatori di servizi, tra cui anche i wallet provider. La scelta di collocare detti intermediari tra gli operatori non finanziari poteva essere intesa come un segnale della volontà di escludere implicitamente la natura finanziaria delle valute virtuali, prima che il legislatore, tornando su suoi passi, emendasse la relativa nozione includendovi anche le rappresentazioni digitali di valore utilizzate per finalità speculative (13). La novella del 2017 ha anche modificato alcune disposizioni del D. Lgs. 13 agosto 2010, n. 141, imponendo agli exchangers l’iscrizione in una sezione speciale del registro dei cambiavalute tenuto dall’Organismo degli Agenti e dei mediatori creditizi (14). L’intervento del legislatore voleva porre fine allo status di profonda incertezza sul regime giuridico applicabile all’esercizio nei confronti del pubblico dell’attività di scambio di valori virtuali. Tuttavia ciò ha reso dubbio – come prospettato dal ricorrente nella vicenda in esame – che l’esercizio autorizzato dell’attività di cambiavalute virtuali, previsto dalla normativa antiriciclaggio, potesse in parte derogare all’applicazione della disciplina dei mercati finanziari. Nel dettaglio, la difesa sostiene che la qualificazione in termini monetari dei valori virtuali escluda indirettamente il connotato finanziario, tant’è che l’art. 17-bis del D. Lgs. 141/2010 prevede autonomi presupposti e modalità di controllo pubblico sull’attività dagli exchangers (15). Viene in rilievo, in particolare, l’art. 8, comma 1, del D. Lgs. 90/2017, che nel modificare le disposizioni del D. Lgs. 141/2010 dispone che: “Le previsioni di cui al presente articolo si applicano, altresì, ai prestatori di servizi relativi all’utilizzo di valuta virtuale […] tenuti, in forza della presente disposizione, all’iscrizione in una sezione speciale del registro di cui al comma 1. […] Con decreto del Ministro dell’economia l’entrata in vigore del D. Lgs. 125/2019 anche i “prestatori di servizi di portafoglio digitale” sono entrati a far parte della categoria degli operatori non finanziari (lett. i-bis); è stato inoltre soppressa la limitazione all’attività prestata dai cambiavalute virtuali, con la conseguenza che oggi sono divenuti destinatari della disciplina tutti i prestatori di servizi connessi all’utilizzo delle valute virtuali.  (13) Sembra che il legislatore abbia voluto mettere in evidenza la funzione di mezzo di scambio della moneta virtuale rispetto ai possibili impieghi finanziari. Si tratta comunque di una classificazione rilevante ai soli fini dell’applicazione delle disposizioni del D. Lgs. 231/2007, che difficilmente potrebbe risolvere la questione relativa alla configurabilità del reato di cui all’art. 166 TUF (v. infra).  (14) In argomento, D’Agostino, Operazioni di emissione, cambio e trasferimento di criptovaluta: considerazioni sui profili di esercizio (abusivo) di attività finanziaria a seguito dell’emanazione del D. Lgs. 90/2017, in Rivista di diritto bancario, 2018, 1, 3  (15) Tra le novità introdotte dal D. Lgs. 90/2017 vi è appunto quella di aver introdotto un comma 8-bis all’art. 17-bis del D. Lgs. 13 agosto 2010 n. 141, che prevede l’obbligo per i cambiavalute virtuali di iscriversi in un registro costituito presso l’Organismo di cui all’art. 128-undecies TUB.

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e delle finanze sono stabilite le modalità e la tempistica con cui i prestatori di servizi relativi all’utilizzo di valuta virtuale sono tenuti a comunicare al Ministero dell’economia e delle finanze la propria operatività sul territorio nazionale. La comunicazione costituisce condizione essenziale per l’esercizio legale dell’attività da parte dei suddetti prestatori […]”. Tale disposizione potrebbe essere interpretata nel senso che l’avvenuta iscrizione nell’elenco costituisca un valido titolo di legittimazione per la prestazione di servizi connessi all’offerta e allo scambio di valori virtuali, finanche a ricomprendere le attività investimento richiamate dall’art. 18 TUF. Ad avviso di chi scrive, non vi sono dubbi che l’intenzione del legislatore fosse quella di sottoporre gli intermediari del mercato valutario virtuale agli obblighi della normativa antiriciclaggio per porre un freno all’utilizzo delle criptovalute per fini criminosi: l’obbligo di registrazione assolve dunque alla funzione primaria di rendere esperibile i controlli da parte delle Autorità di vigilanza. Poiché la procedura non prevede alcun vaglio preventivo sul possesso dei requisiti indicati dal Testo unico finanziario, può ragionevolmente ritenersi che la prestazione di servizi di investimento non rientri tra le attività che tali intermediari sono legittimati a svolgere. La disciplina dei mercati finanziari si muove dunque su un piano parallelo e complementare rispetto a quella dettata dal D. Lgs. 90/2017, di modo che l’applicazione dell’una non esclude l’altra e viceversa. Appare pertanto condivisibile l’exitus decisionale della Corte nel caso in esame.

4. Considerazioni conclusive

L’indagine fin qui svolta consente di affermare che, nell’ordinamento vigente, una l’offerta non autorizzata di criptoattività finanziarie è idonea a integrare gli estremi del reato di abusivismo finanziario. Ciò non esonera dal chiedersi se, in quadro dominato dal rapido sviluppo del Fintech e della ampia diffusione di valori virtuali, sia opportuno un intervento del legislatore per disciplinare in modo organico la materia. La risposta positiva appare nettamente preferibile, per evidenti ragioni di prevedibilità e certezza del diritto. Per quanto l’assimilazione dei valori virtuali ai prodotti finanziari possa ritenersi appropriata, esiste un ineliminabile margine di discrezionalità nella valutazione dei requisiti propri di questi ultimi. Risulta infatti tutt’altro che agevole l’apprezzamento, ad esempio, della negoziabilità su un mercato secondario: occorre la quotazione su una piattaforma di exchange, o è sufficiente l’astratta idoneità del token ad essere trasferito peer to peer mediante registri distribuiti? Lo stesso dicasi a proposito del criterio di prevalenza tra aspettativa finanziaria e utilizzo del bene: quid iuris per quei valori che, pur incorporando diritti, siano quotati su piattaforme di trading?


GIURISPRUDENZA PENALE In assenza di indicazioni legislative può ben darsi che l’inquadramento delle cripto-attività nelle categorie del diritto finanziario sia, per gli operatori del settore, un esito tutt’altro che prevedibile. L’opportunità di un intervento del legislatore si avverte in misura anche maggiore sul fronte repressivo. L’applicazione dell’art. 166 TUF alle attività esercitate dagli intermediari del mercato valutario virtuale potrebbe di fatto risultare imprevedibile, a causa degli evidenti difetti redazionali della fattispecie di abusivismo finanziario pocanzi esaminata. La condotta è descritta mediante la tecnica del rinvio “aperto” alle norme di disciplina senza indicare con precisione le disposizioni di riferimento (“È punito […] chiunque, senza esservi abilitato ai sensi del presente decreto”), lasciando all’interprete l’arduo compito di ricostruire il precetto in base al regime amministrativo delle diverse attività di intermediazione finanziaria. Probabilmente il legislatore ha scelto di sacrificare la determinatezza

della fattispecie nella consapevolezza delle spasmodiche modifiche e dei continui aggiornamenti al Testo unico finanziario. Se fossero stati inseriti precisi riferimenti alle norme di disciplina, il rischio di lacune di tutela sarebbe stato decisamente elevato. Evidenti sono però le ricadute sul piano della conoscibilità della norma penale che risente tanto dell’indeterminatezza del divieto, quanto dell’assenza di una definizione legislativa dei valori virtuali. La codificazione di una categoria ad hoc per le “cripto-attività finanziarie” permetterebbe di individuare più facilmente la regola di condotta, evitando il passaggio obbligato sullo scivoloso terreno dei prodotti finanziari. L’auspicio per il futuro è che il legislatore possa fare chiarezza in un panorama dominato da dubbi e incertezze sull’inquadramento giuridico dei valori virtuali che, oltre a nuocere allo sviluppo delle nuove forme di circolazione della ricchezza, rischia di frustrare le esigenze di tutela del mercato finanziario.

IL COMMENTO

di Marco Tullio Giordano Sommario: 1. Le questioni sottese. – 2. Inquadramento giuridico dei cryptoasset quali prodotti finanziari e loro interpretazione ai sensi della normativa penale sull’abusivismo finanziario. – 3. Considerazioni conclusive. Il contributo trae spunto da un recente sentenza di legittimità in tema di compravendita di bitcoin ed integrazione del reato di abusivismo previsto dal Testo Unico della Finanza, per analizzare lo stato dell’arte delle norme regolatorie ed interpretative delle attività finanziarie gravitanti intorno ai c.d. cryptoasset, contraddistinte dall’assenza di certezza definitoria. The essay takes its cue from a recent high court’s ruling on the selling and purchasing of bitcoin and the crime of financial abuse provided by Art. 166 of the Italian financial intermediaries Code (TUF), to analyze the state of the art of regulatory and interpretative rules of financial activities gravitating around the so-called crypto-assets, characterized by the absence of definitional certainty.

1. Le questioni sottese

All’inizio del mese di ottobre 2020 sono state depositate le motivazioni della sentenza in oggetto, resa dalla Seconda Sezione Penale della Suprema Corte di Cassazione il 17 settembre u.s., in sede di verifica di legittimità di un provvedimento cautelare reale, già validato dal Tribunale del riesame di Milano. La corte territoriale aveva, infatti, confermato un decreto di sequestro preventivo emesso del giudice per le indagini preliminari a carico di un indagato chiamato a rispondere – a valle di altrettante condotte illecite, consistenti in una serie di truffe immobiliari, perpetrate da terzi (1) – dei reati di

(1) L’originario procedimento aveva ad oggetto una serie di truffe collegate a finte aste immobiliari, nel corso delle quali i presunti aggiudicatari, una volta versato l’acconto, non erano stati posti nella condizione di concludere l’acquisto, poiché i siti interessati erano stati repentinamente

riciclaggio ex art 648-bis c.p., abusivismo finanziario ex art. 166 comma 1) lett. c) del TUF (2) ed indebito utilizzo di carte di credito e di pagamento ex art. 493-ter c.p.

cancellati dal web e le relative somme, dopo numerose movimentazioni atte a celare l’effettiva provenienza e destinazione finale, erano state infine convertiti in bitcoin, anche per il tramite della cooperazione del ricorrente nel procedimento di interesse in questa sede. Maggiori dettagli possono essere desunti dalla lettura delle cronache reperibili all’indirizzo web <https://www.ilgiorno.it/milano/cronaca/truffe-bitcoin-1.4885391> (articolo del 14 novembre 2019 Il Giorno dal titolo “Finte aste di immobili e riciclaggio tramite bitcoin: tre indagati”) e sul Corriere della Sera, edizione di Milano (articolo del 15 novembre 2019 dal titolo “Aste-truffa soldi riciclati in bitcoin”).  (2) Recante “Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria” e nel prosieguo indicato anche come Testo Unico della Finanza, alternativamente abbreviato con l’acronimo TUF.

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GIURISPRUDENZA PENALE La pronuncia, benchè resa in un giudizio cautelare e quindi oggetto esclusivamente di valutazione parziale, specificamente circa l’effettività del fumus bonis iuris necessario alla convalida dell’originario provvedimento di sequestro, risulta di particolare interesse poiché con essa, per la prima volta, la Cassazione si esprime sulla astratta applicabilità di una delle fattispecie – il reato di abusivismo finanziario ex art. 166 del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (3), ad oggi sostenuta in numerosi casi analoghi in altrettanti dibattimenti in primo grado, ma mai giunta al vaglio di legittimità – maggiormente accostate al sempre più frequente fenomeno legato alla compravendita di valute virtuali e, così facendo, contribuisce di fatto al dibattito sulla natura giuridica dei c.d. cryptoasset e sulle conseguenti implicazioni giuridiche, caratterizzato nel nostro ordinamento dall’assenza di una effettiva interpretazione maggioritaria e, molto probabilmente, sofferente di un ormai necessario intervento regolatorio ad hoc. Nel dettaglio, la Suprema Corte è intervenuta sulla valutazione dell’attività di compravendita di valute virtuali svolta dal ricorrente, attività che l’originario provvedimento di sequestro contestava essere stata posta in essere pubblicizzando, sul sito dell’indagato stesso, denominato bitcoingo.it, e tramite l’omonima pagina sul popolare social network Facebook “fornendo ai potenziali clienti notizie e informazioni sulle caratteristiche delle proposta di investimento idonee a mettere i risparmiatori in grado di valutare se aderire o meno all’iniziativa”. Secondo il Tribunale vi sarebbe stata la necessità che tali comunicazioni pubblicitarie avvenissero a valle dell’espletamento di alcuni adempimenti, tra i quali la pubblicazione del prospetto e la preventiva comunicazione alla CONSOB, in applicazione dell’art. 91 e seguenti del TUF. In difetto, conclude la Cassazione, l’offerta di tal genere di prodotti finanziari ben può essere considerata idonea ad integrare gli estremi del reato di abusivismo di cui all’art. 166 comma 1) del citato Testo Unico della Finanza. A riguardo, la principale tesi difensiva, esplicitata in sede di gravame dall’imputato, argomentava esclusivamente evidenziando come il d.lgs. 90/2017, nel disciplinare a fini antiriciclaggio l’attività dei c.d. Virtual Asset Service Providers, di seguito definiti anche con l’acronimo VASP, avesse tratteggiato uno specifico inquadramento giuridico, così sottraendoli di fatto al perimetro applicativo della normativa in materia di strumenti finanziari,

(3) La disposizione punisce con la reclusione da uno a otto anni e con la multa da euro quattromila a euro diecimila “chiunque, senza esservi abilitato: […] offre fuori sede, ovvero promuove o colloca mediante tecniche di comunicazione a distanza, prodotti finanziari o strumenti finanziari o servizi o attività di investimento”.

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in quanto le c.d. valute virtuali (4) non avrebbero potuto essere considerate prodotti finalizzati all’investimento. Sul punto, si deve, in realtà, evidenziare come già da alcuni anni la normativa antiriciclaggio abbia assoggettato ai relativi obblighi i VASP, inserendoli nella più ampia categoria di soggetti obbligati, definiti “operatori non finanziari”, tramite una modifica della disciplina dell’attività di cambiavalute, di cui all’art. 17-bis del D.lgs. n. 141/2010 e successive modifiche. Proprio in tal senso, è stato aggiunto alla norma indicata un nuovo comma 8-bis, in base al quale “le previsioni di cui al presente articolo si applicano, altresì, ai prestatori di servizi relativi all’utilizzo di valuta virtuale (5), come definiti nell’art. 1, comma 2, lettera ff), del d.lgs. n. 231/2007 e successive modificazioni, tenuti, in forza della presente disposizione, all’iscrizione in una sezione speciale del registro di cui al comma 1)”, ossia il c.d. registro dei cambiavalute (6). Ad onor del vero, deve a riguardo essere aggiunto che gli obblighi antiriciclaggio a carico dei prestatori di tali servizi devono intendersi in vigore nonostante l’avvio in concreto della sezione speciale del registro sia subordinata all’emanazione di uno specifico decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze, chiamato a stabilire le modalità e le tempistiche con cui i prestatori di servizi relativi all’utilizzo di valuta virtuale siano tenuti a comunicare allo Ministero la propria operatività sul territorio nazionale, che ad oggi non è ancora stato emanato. In ogni caso, in considerazione di quanto sopra, la difesa del ricorrente aveva provato a sostenere che l’attività svolta dall’indagato non potesse essere qualificata ai sensi dell’art 166 lett c) del TUF, poichè non si trattava di attività soggetta ad autorizzazione amministrativa (specificamente licenziata da CONSOB in quanto qualificabile come offerta di prodotti finanziari), ma alla sola registrazione nella sezione speciale del registro dei cambiavalute.

(4) Il d.lgs. n. 231/2007, come modificato dal d.lgs. 90/2017, definisce in effetti all’ art. 1, comma 2, lett. qq le valute virtuali come “la rappresentazione digitale di valore, non emessa né garantita da una banca centrale o da un’autorità pubblica, non necessariamente collegata a una valuta avente corso legale, utilizzata come mezzo di scambio per l’acquisto di beni e servizi o per finalità di investimento e trasferita, archiviata e negoziata elettronicamente”, di fatto sembrando escluderne la natura finanziaria in favore della prevalente finalità essere utilizzare quali mezzo di pagamento.  (5) Sono definiti nel medesimo decreto n. 231/2007, all’art. 1, comma 2, lett. ff operatori in valute virtuali: “persona fisica o giuridica che fornisce a terzi, a titolo professionale anche online, servizi funzionali all’utilizzo, allo scambio, alla conservazione di “valuta virtuale” e alla loro conversione da ovvero in valute aventi corso legale o in rappresentazioni digitali di valore, ivi comprese quelle convertibili in altre valute virtuali nonché i servizi di emissione, offerta, trasferimento e compensazione e ogni altro servizio funzionale all’acquisizione, alla negoziazione o all’intermediazione nello scambio delle medesime valute”.  (6) Registro curato dall’Organismo Agenti e Mediatori – O.A.M., istituito dall’art. 128 – undecies del d.lgs. n. 385/1993 o Testo Unico Bancario – TUB.


GIURISPRUDENZA PENALE Con la sentenza in oggetto, la Cassazione ha ritenuto infondato il relativo motivo di ricorso ed ha considerato sufficientemente motivata l’ordinanza impugnata, che sul punto evidenziava come “la vendita di bitcoin veniva reclamizzata come una vera e propria proposta di investimento, tanto che sul sito ove veniva pubblicizzata si davano informazioni idonee a mettere i risparmiatori in grado di valutare se aderire o meno all’iniziativa, affermando che “chi ha scommesso in bitcoin in due anni ha guadagnato più del 97% (7)””. Proprio questo particolare sarebbe idoneo a giustificare, secondo i giudici di legittimità, l’obbligo di adempiere ai requisiti autorizzativi previsti dal TUF, negli artt. 91 e segg., la cui omissione integra appunto la sussistenza del reato di abusivismo finanziario, di cui all’art. 166 comma 1, lett. c). Dunque, seguendo il ragionamento della Cassazione, l’attività promozionale posta in essere dall’indagato ben avrebbe potuto essere interpretata come una vera e propria “proposta di investimento (8)”, in relazione alla quale – a norma dell’art. 94 del TUF – vi era l’obbligo di mettere a disposizione del pubblico un prospetto avente le caratteristiche previste dallo stesso art. 94 al comma 2) e anticiparne il contenuto alla CONSOB ed attendere l’eventuale autorizzazione alla diffusione. Da qui l’attrazione della condotta contestata nell’alveo della fattispecie di abusivismo di cui all’art. 166 del TUF.

2. Inquadramento giuridico dei cryptoasset quali prodotti finanziari e loro interpretazione ai sensi della normativa penale sull’abusivismo finanziario

La natura multiforme ed eterogenea che caratterizza le varie tipologie di criptoattività, unitamente a una certa assenza di indicazioni interpretative univoche offerte sino ad oggi dal legislatore internazionale e da quello comunitario, rende sicuramente impegnativo per l’interprete italiano definire una collocazione sistematica all’interno della quale iscrivere il fenomeno dei crypto-

(7) Il contenuto originario, ancora pubblico sulla pagina dedicata all’attività dell’imputato sulla nota piattaforma Facebook, è reperibile all’indirizzo web <https://www.facebook.com/bitcoingoo/photos /a.1762190510566061/1762190537232725/>. Quale nota di colore, si noti che l’effettivo riferimento alla criptovaluta bitcoin indica testualmente che “chi ha scommesso in #bitcoin in 2 anni ha guadagnato + 997%”, dettagliando quindi un incremento di valore (dal 19 luglio 2016 al 19 luglio 2018) di dieci volte superiore a quanto erroneamente riportato nel capo di imputazione.”  (8) Si verserebbe, pertanto, in un caso di c.d. “abusivismo sollecitatorio”. Sul punto, si veda Mainieri, La Cassazione penale esamina le valute virtuali sotto il profilo del Testo Unico della Finanza, in < https://www.giurisprudenzapenale.com/2020/10/20/la-cassazione-penale-esamina-le-valute-virtuali-sotto-il-profilo-del-testo-unico-della-finanza-le-precedenti-qualificazioni-e-i-richiami-della-direttiva-penale-sulla-lotta-al-riciclaggio-med/>.

asset (9). Così come all’estero, anche in ambito nazionale sono state avanzate diverse ipotesi classificatorie in ordine alla qualificazione giuridica di valute virtuali ed affini, nessuna delle quali appare tuttavia pienamente soddisfacente ed in grado di adattarsi alla perfezione alle peculiarità del fenomeno. Va poi tenuto presente che iscrivere le molteplici attività possibili grazie alla tecnologia blockchain all’interno di una medesima collocazione teorica non appare una soluzione definitiva, posto che le differenze sostanziali che intercorrono all’interno delle diverse specie di token e dei differenti utilizzi pratici o teorici cui, essi possono essere eventualmente destinati, rendono ogni progetto diverso dagli altri e meritevole di una riflessione autonoma. In questa sede, pertanto, si tralasceranno – anche per economia concettuale – le interpretazioni maggioritarie, pur battute da gran parte della dottrina e della giurisprudenza nazionale ed estera, che spingono verso la qualificazione di bitcoin & Co. quali strumenti di pagamento (10) o quali veri e propri asset equiparabili a beni immateriali (11), e ci si concentrerà su quegli interventi ermeneutici direzionati verso l’accostamento – quantomeno di alcuni tra i cryptoasset attualmente più diffusi – ai prodotti finanziari tradizionali. La Banca D’Italia ad esempio, nel marzo del 2019 ha pubblicato un contributo sul tema (12), nel quale, si prova a fornire una dettagliata classificazione delle diverse tipologie di token basati sulle distributed ledger technolo-

(9) Così Rinaldi, Approcci normativi e qualificazione giuridica delle criptomonete, in Contratto e impresa, 2019, I, 257 ss.  (10) Per lungo tempo questa tesi è apparsa come quella maggiormente accreditata in funzione del fatto che è stata quella accolta dalla stessa Corte di Giustizia Europea (C-264/14, sentenza 22 ottobre 2015) nonché condivisa dalla nostrana Agenzia delle Entrate (risoluzione n. 72/E del 2016). In particolare è stato affermato dalla Corte di Giustizia Europea che le “operazioni relative a valute non tradizionali, vale a dire diverse dalle monete con valore liberatorio in uno o più paesi, costituiscono operazioni finanziarie in quanto tali valute siano state accettate dalle parti di una transazione quale mezzo di pagamento alternativo ai mezzi di pagamento legali e non abbiano altre finalità oltre a quella di un mezzo di pagamento” e che “la valuta virtuale a flusso bidirezionale ‘bitcoin’, che sarà cambiata contro valute tradizionali nel contesto di operazioni di cambio, non può essere qualificata come ‘bene materiale’ ai sensi dell’articolo 14 della direttiva IVA, dato che (...) questa valuta virtuale non ha altre finalità oltre a quella di un mezzo di pagamento”.  (11) Questa ad esempio l’interpretazione della sentenza n. 18 del 21 gennaio 2019, emessa dal Tribunale di Firenze, Sezione fallimentare, in questa Rivista, 2019, 337, con nota di Krogh, La responsabilità del gestore di piattaforme digitali per il deposito e lo scambio di criptovalute, nella quale viene espressamente affermato che “le criptovalute possono essere considerate “beni” ai sensi dell’art. 810 c.c., in quanto oggetto di diritti, come riconosciuto oramai dallo stesso legislatore nazionale, che le considera anche, ma non solo, come mezzo di scambio”.  (12) Caponero–Gola, N. 484 - Aspetti economici e regolamentari delle <<cripto-attività>>, 2019, reperibile all’indirizzo <https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/qef/2019-0484/index.html>.

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GIURISPRUDENZA PENALE gies (13). La prima, le «valute virtuali», ricomprendono i token privi di diritti incorporati, negoziabili e convertibili con moneta legale o con altre valute virtuali. Alla seconda categoria appartengono i c.d. «payment token», con cui si replicano le funzionalità della moneta, mantenendo con essa un valore fisso. Ancora, i «security token» sarebbero simili a titoli dematerializzati, che vengono scambiati tramite le DLT, tipicamente a seguito di una offerta iniziale d’acquisto (14); il relativo status giuridico sarebbe in questo caso «incerto» e non vi sarebbe, dunque, uniformità di opinioni, tanto a livello europeo, quanto nelle altre giurisdizioni. Infine, gli «utility token» sarebbero caratterizzati dal fatto di non essere – almeno in teoria – negoziabili e di offrire unicamente diritti amministrativi o licenze d’uso, come l’accesso ad una piattaforma o un network di persone. Gli autori del contributo veicolato da Banca d’Italia precisano, infatti, che questi ultimi, se nel corso del loro uso mutassero in token portatori non solo di un diritto, ma anche pienamente trasferibili e negoziabili su un mercato negoziato, allora diventerebbero a tutti gli effetti «security token», con la conseguente ipotetica applicazione delle norme in materia di strumenti finanziari. Del resto, anche altri interpreti istituzionali, corti giudiziarie e commentatori privati, provando a valorizzare la componente di riserva di valore, che almeno in parte caratterizza bitcoin e le altre criptovalute, hanno posto l’accento sulla innegabile finalità d’investimento che esse hanno acquisito in capo a buona parte dei loro utilizzatori e sostenitori, anche allo scopo di inquadrare il fenomeno in un contesto regolatorio che consenta di applicare le norme previste dall’ordinamento a protezione dei consumatori ed a tutela dell’integrità dei mercati (15). La tematica è evidentemente oggetto, quindi, di un dibattito ancora aperto tra i vari interpreti. In proposito, si è d’altro canto da più parti sollevato il valore dirimente dell’art. 1, comma 4, del TUF, secondo cui «i mezzi  (13) Locuzione che viene solitamente tradotta in “tecnologie a registri distribuiti”, nel prosieguo anche abbreviata mediante l’acronimo DLT.  (14) Initial coin offering, locuzione spesso abbreviata con l’acronimo ICO (in italiano, letteralmente: offerta di moneta iniziale): si tratta di un mezzo non regolamentato di crowdfunding nel settore finanziario. Generalmente, sono venduti dei token per raccogliere fondi, con l’esistenza dei token ed il loro comportamento definiti da algoritmi matematici. A differenza di ciò che avviene nella similare OPA (offerta pubblica di acquisto), l’acquisizione dei token non è regolamentata dal governo e potrebbe non garantire la proprietà o altri diritti.  (15) Questa ad esempio è la strada seguita dal Tribunale Civile di Verona nella sentenza n. 195 del 24 gennaio 2017, nella quale viene affrontato il tema della qualificazione giuridica di un contratto che prevedeva l’acquisto di criptovaluta contro euro, concluso tra una persona fisica e una società promotrice di una piattaforma di investimenti. La corte di merito ha qualificato bitcoin, in quel caso, quale <strumento finanziario utilizzato per compiere una serie di particolari forme di transazioni online>.

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di pagamento non sono strumenti finanziari», circostanza che sarebbe pure idonea a precludere la riconducibilità delle valute virtuali nella definizione di strumento finanziario (16), a meno di voler escludere del tutto l’attitudine di buona parte di esse a costituire un mezzo di pagamento. Inoltre, l’elencazione degli strumenti finanziari contenuta nel TUF presenta, secondo l’interpretazione prevalente, carattere tipico e tendenzialmente chiuso. Questo asserito numerus clausus risulta tuttavia soltanto ipotetico, in quanto il quinto comma dell’art. 18 TUF attribuisce, in realtà, al Ministro dell’Economia e delle Finanze, la facoltà di individuare, attraverso l’emanazione di un eventuale rinnovato regolamento, nuove categorie di strumenti finanziari o di servizi e attività di investimento, allo scopo di tener conto dell’evoluzione dei mercati finanziari e delle norme di adattamento stabilite al contempo dalle autorità europee. Appare invece sicuramente più condivisibile, per chi scrive, il tentativo – di un orientamento meno tranchant di quello offerto dalla sentenza qui commentata – di ricondurre soltanto alcune fra le operazioni aventi ad oggetto le i cryptoasset nel genus dei prodotti finanziari, circostanza che consentirebbe di estendere ad essi – in modo circostanziato e non generalizzato, come si è provato a sostenere fino ad ora – la disciplina prevista dal TUF, specie con riferimento alle disposizioni previste dagli artt. 94 e ss., che sottopongono gli operatori economici ai poteri di controllo dell’AGCM e della CONSOB (17). La lettera u) dell’art. 1 del TUF, infatti, individua i prodotti finanziari, infatti, negli strumenti finanziari ed in “ogni altra forma di investimento di natura finanziaria”. Tale tassonomia ricomprenderebbe, dunque, oltre al sottoinsieme costituito dai prodotti finanziari propriamente detti, un secondo gruppo di operazioni di natura aperta e decisamente non tipizzata, i cui contorni risultano meno chiari e vanno necessariamente valutati caso per caso. Alcuni interpreti reputano che, a determinate condizioni, i cryptoasset siano suscettibili di un’inclusione nel novero dei prodotti finanziari (e, più precisamente, nella categoria dei prodotti finanziari c.d. “innominati”), in quanto la nozione di prodotto finanziario appare astrattamente capace di abbracciare «ogni strumento idoneo alla raccolta del risparmio, comunque denominato o

(16) Cfr. Bocchini, Lo sviluppo della moneta virtuale: primi tentativi di inquadramento e disciplina tra prospettive economiche e giuridiche, in Dir. inf. e inform., 2017, 1, 40 ss.  (17) Cfr. in questo senso Gasparri, Timidi tentativi giuridici di messa a fuoco del bitcoin: miraggio monetario crittoanarchico o soluzione tecnologica in cerca di un problema?, in Dir. inf. e inform., 2015, 426.


GIURISPRUDENZA PENALE rappresentato, purchè rappresentativo di un impiego di capitale (18)». Più precisamente, quindi, affinchè una operazione economica avente ad oggetto beni immateriali quali i cryptoasset possa rientrare nel campo dei prodotti finanziari, sarebbe necessario e sufficiente il concorso di tre elementi: l’utilizzo di capitale, l’assunzione di un rischio connesso al suo impiego e l’aspettativa di un rendimento di natura finanziaria (19). Ulteriormente, si deve rilevare che al fine di collocare un rapporto economico all’interno dei prodotti finanziari occorre effettuare «un’indagine sulla causa dell’operazione alla ricerca delle concrete finalità ad essa sottese (20)»: infatti, la natura finanziaria dell’investimento può essere valutata soltanto nell’ottica complessiva dell’operazione prospettata dall’offerente. Di conseguenza, volendo aderire a tale interpretazione, soltanto le operazioni che presentano congiuntamente detti requisiti (e quindi non il semplice svolgimento di qualsiasi attività connessa all’acquisto, alla vendita o allo scambio di cryptoasset), rientrerebbero nel campo dei prodotti finanziari atipici. Da ultimo, deve essere evidenziato che anche l’attività sanzionatoria della stessa CONSOB, con specifico riferimento a soggetti che operano nel mercato delle criptovalute, così come espletata in alcune recenti delibere (21) assunte nel corso degli ultimi anni, ha ritenuto di qualificare le attività in questione quali operazioni relative a prodotti o strumenti finanziari, non in virtù di un’apodittica equiparazione tra questi ed i cryptoasset, bensì in ragione degli elementi che connotavano in con (18) Cfr. in questo senso Laurini, I titoli di credito, Torino, 2009, 390. Altra parte della dottrina esclude, invece, che le criptovalute possano rientrare nella nozione di prodotto finanziario, ritenendo che l’elencazione delle fattispecie di prodotti finanziari fornita dal TUF abbia carattere tassativo: in questo senso, si veda Vardi, “Criptovalute” e dintorni: alcune considerazioni sulla natura giuridica dei bitcoin, in Dir. inf. e inform., 2015, III, 449.  (19) Cfr. il sito della CONSOB, Area pubblica, scheda 3 (reperibile all’indirizzo web <http://www.consob.it/web/area-pubblica/scheda-3>): “Cosa sono gli investimenti di natura finanziaria”: Gli elementi qualificanti la nozione di investimento di natura finanziaria sono rinvenibili nella compresenza: (i) di un impiego di capitale; (ii) di un’aspettativa di rendimento di natura finanziaria; (iii) dell’assunzione di un rischio direttamente connesso e correlato all’impiego di capitale. Gli investimenti di natura finanziaria costituiscono una specie del genere prodotto finanziario”.  (20) Così Comporti, La sollecitazione all’investimento, in Intermediari finanziari, mercati e società quotate, a cura di Patroni Griffi, Sandulli e Santoro, Torino, 1999, 550.  (21) Specificamente le delibere n. 19866/2017 (sospensione dell’attività pubblicitaria avente ad oggetto l’acquisto di pacchetti di estrazione di criptovalute); n. 20207/2017 (divieto dell’offerta di portafogli di investimento in criptomonete); nn. 20241/2017, 20660/2018, 20693/1018 e 20741/2018 (sospensione dell’offerta al pubblico avente ad oggetto investimenti in criptovalute); nn. 20346/2018, 20536/2018, 20720/2018 e 20742/2018 (ordine di porre termine alla violazione dell’art. 18 del TUF).

creto le suddette operazioni economiche. Ad esempio, nel caso della delibera n. 19866/2017, è stata sottoposta al vaglio dell’Autorità l’attività di un operatore che promuoveva l’acquisto di pacchetti di estrazione di criptovalute, prospettando ai potenziali clienti la possibilità di conseguire profitti fino al 50% nel corso di un solo anno, con un’ovvia ed implicita assunzione di rischio da parte dell’investitore. La CONSOB ha osservato che le attività presentate «sembrano possedere le caratteristiche di un prodotto finanziario sub specie di investimento di natura finanziaria, la cui nozione implica la compresenza di: (i) un impiego di capitale; (ii) un’aspettativa di rendimento di natura finanziaria; (iii) l’assunzione di un rischio connesso all’impiego di capitale». La CONSOB, inoltre, ha ritenuto che la proposta di acquisto dei suddetti pacchetti di estrazione integrasse gli estremi di un’offerta al pubblico, come definita dall’art. 1, comma 1, lett. t) del TUF. Di conseguenza, deve trovare applicazione l’art. 101, comma 2, del TUF, che subordina la diffusione di qualsiasi annuncio pubblicitario relativo all’offerta al pubblico di prodotti finanziari diversi da quelli comunitari alla pubblicazione del prospetto previsto dall’art. 94, comma 1, del TUF ed alla preventiva comunicazione alla CONSOB. L’Autorità, riscontrando la mancata pubblicazione del suddetto prospetto, ha prima sospeso in via cautelare e poi vietato (con la delibera n. 19968/2017) le attività pubblicitarie svolte dal soggetto promotore.

3. Considerazioni conclusive

Sebbene la sentenza in oggetto abbia tutti i requisiti per considerarsi di estremo interesse, perché l’originario giudizio appare imperniato su un tema innovativo e la fattispecie concreta risulti di sicura attualità, non si può certo affermare che, con questo primo arresto, l’intervento della Suprema Corte abbia contribuito a fugare ogni dubbio sul complesso argomento dell’interpretazione della compravendita di cryptoasset quale attività di promozione abusiva di strumenti o prodotti finanziari. La sentenza, del resto, non specifica in quale delle tre categorie – prodotti finanziari, strumenti finanziari o attività di investimento – richiamate dal citato art. 166, comma 1, lett. c) del TUF, debba eventualmente essere ricondotta l’attività di promozione di compravendita di bitcoin, nel caso in cui sia accertata una condotta di sollecitazione all’acquisto con finalità speculative, restando probabilmente volutamente generica, anche in funzione della natura preliminare e della finalità conservativa del giudicato cautelare oggetto di gravame. Senza dubbio, alla conferma della sommaria contestazione di abusivismo finanziario, mossa dall’accusa e posta a sostegno della misura cautelare reale applicata ai beni dell’indagato, può aver contribuito il giudizio contestualmente espresso dalla Cassazione con riferimento all’elemento soggettivo del reato di riciclaggio ex

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GIURISPRUDENZA PENALE art. 648-bis c.p., pure oggetto di valutazione nella stessa sede. Sostiene, infatti, la motivazione degli Ermellini che la ricostruzione operata dal Tribunale a riguardo sia del tutto legittima, in quanto “l’indagato non si è limitato ad occuparsi di acquisto e cessione di criptovalute, ma si è inserito attivamente nella apertura di conti correnti sui quali confluivano i proventi delle truffe, che venivano poi utilizzati per le relative transazioni” e che “le citate circostanze appaiono incompatibili con un atteggiamento psicologico diverso dal dolo”. Permangono, invece, dubbi residui sulla effettiva portata sollecitatoria dell’attività promozionale – o presunta tale –oggetto della condotta materiale contestata al ricorrente, posto il tenore del messaggio promozionale citato dall’impugnata ordinanza del Tribunale del riesame, che dovrebbe essere più approfonditamente valutato, a parere dello scrivente, nel contesto della complessiva attività di compravendita di criptovalute effettuata dall’indagato, attività pure riconosciuta e regolata dal nostro ordinamento come da quello comunitario, sebbene per diverse finalità, dalle disposizioni di cui alla normativa antiriciclaggio. In ottica più generale e volendo volgere l’attenzione alle probabili tematiche di un futuro prossimo che appare già oggi presente innegabile, seppur non ancora formalmente nel radar delle authorities, l’approdo della Cassazione evidenzia ulteriormente la necessità di un repentino, ma ragionato, intervento di aggiornamento dell’intera cornice normativa e regolatoria dedicata ai cryptoasset e, ancor più in generale, al settore del c.d. “fintech”. La capitalizzazione dell’intero mercato delle sole criptovalute – che possiamo ormai considerare soltanto una species nel più ampio genus delle criptoattività – ha toccato, proprio alla data di redazione del presente contributo, il valore complessivo di mille miliardi di dollari. Contestualmente, sembra che fenomeni nuovi come i c.d. Not Fungible Tokens – più comunemente definiti NFT (22) – e la diffusione di sempre più sofisticati protocolli di decentralized finance (23) promettono di appor-

(22) Un token non fungibile (NFT) è un tipo di token crittografico su una blockchain che rappresenta un asset unico. Può essere un asset interamente digitale od una versione tokenizzata di un asset fisico, esistente nel mondo reale. Dalla pagina in lingua inglese di Wikipedia dedicate all’argomento: “A non-fungible token (NFT) is a special type of cryptographic token which represents something unique; non-fungible tokens are thus not mutually interchangeable. This is in contrast to cryptocurrencies like bitcoin, and many network or utility tokens that are fungible in nature. […] Non-fungible tokens are used to create verifiable digital scarcity, as well as digital ownership, and the possibility of asset interoperability across multiple platforms. NFTs are used in several specific applications that require unique digital items like crypto art (rare art), crypto-collectibles and crypto-gaming”. Cfr. <https://en.wikipedia.org/ wiki/Non-fungible_token>.  (23) La c.d. finanza decentralizzata (Decentralized Finance – termine solitamente abbreviato in DeFi) fa riferimento ad un ecosistema di applicazioni finanziarie sviluppate sulla base di network blockchain decentralizzati, che ha l’obbiettivo di creare un ecosistema di veri e propri servizi

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tare ulteriori benefici a quello che non può più essere considerato un mercato di nicchia ed ai margini della finanza tradizionale, ma che deve essere definitivamente riconosciuto come una nuova asset class. In questo senso, rassicura il fatto che, recentemente, la Commissione Europea abbia varato un “pacchetto per la finanza digitale” articolato su più fronti: tra i temi principali quello di una “prima regolamentazione europea sui cryptoasset, per sfruttare le possibilità offerte dalle stesse, mitigando i rischi per gli investitori e la stabilità finanziaria (24).

finanziari (prestiti, pagamenti, rimesse, derivati o investimenti in genere) caratterizzati dall’essere open source, permissionless e trasparenti, che siano disponibili a tutti e operino senza nessuna autorità centrale. Il fenomeno, di recente apparizione nell’ecosistema dei cryptoasset, è già arrivato a capitalizzare alcuni miliardi di dollari e l’aspettativa di lungo periodo è la completa integrazione con la finanza tradizionale.  (24) Cfr. Commissione europea, 24 settembre 2020, Digital finance package, disponibile all’ indirizzo web <https://ec.europa.eu/info/publications/200924-digital-finance-proposals_it>.


GIURISPRUDENZA PENALE

Le registrazioni di colloqui ad opera di uno degli interlocutori tra contrasti interpretativi ed evoluzione tecnologica Corte

di

Cassazione ; sezione II penale; sentenza 25 settembre 2020, n. 26766; Pres. Rago; Rel. Pellegrino.

La registrazione di conversazioni da parte del privato vittima di condotte estorsive o usurarie con il soggetto autore di comportamenti violenti e/o minacciosi, effettuata su iniziativa esclusiva, in quanto né sollecitata né in altro modo suggerita dagli inquirenti, dello stesso privato e con l’utilizzo di mezzi propri, anche qualora – ai fini dell’ascolto e della verifica dei contenuti minatori per possibili successive iniziative di carattere processuale – venga immediatamente girata alle forze dell’ordine già in tal senso previamente allertate dell’iniziativa ed indipendentemente dalle modalità dell’ascolto (in diretta o in differita), non presuppone né implica lo svolgimento di alcun atto di indagine da parte delle stesse forze dell’ordine: in tal caso la registrazione effettuata, anche se veicolata attraverso la successiva trascrizione dei contenuti da parte delle stesse forze dell’ordine, rappresenta una semplice trasposizione del contenuto del supporto magnetico e costituisce una mera forma di memorizzazione fonica di un fatto storico utilizzabile quale prova documentale.

…Omissis…

Ritenuto in fatto 1. Con sentenza in data …Omissis…, la Corte di appello di Ancona confermava la pronuncia resa all’esito di giudizio abbreviato dal Giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Ancona in data …Omissis…che aveva condannato: - S.N., alla pena di anni cinque di reclusione ed Euro 3.400 di multa per i reati di usura (capi A, C, D, E. F, G, H, I) ed estorsione aggravata continuata in concorso (capo B), estorsione (capo K) e tentata estorsione (capo 3); - R.C., alla pena di anni tre, mesi sei di reclusione ed Euro 1.400 di multa per i reati di usura (capo A) ed estorsione aggravata continuata in concorso (capo B). La confermata sentenza di primo grado aveva altresì disposto l’interdizione temporanea dai pubblici uffici nei confronti di entrambi gli imputati nonché la confisca di quanto in sequestro nonché di ogni bene mobile o immobile, nella disponibilità degli imputati, sino alla concorrenza di Euro …Omissis… 2. Avverso detta sentenza, nell’interesse di S.N. e di R.C., vengono proposti distinti ricorsi per cassazione, i cui motivi vengono di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. c.p.p.. 3. Ricorso nell’interesse di S.N.. Lamenta il ricorrente quanto segue. -Primo motivo: erronea e/o falsa applicazione degli art. 266 e 267 c.p.p. anche in relazione agli artt. 191,268 e 271 c.p.p.; inutilizzabilità patologica di un atto di indagine ed in particolare della registrazione/ intercettazione eseguita ad iniziativa della polizia giudi-

ziaria il …Omissis… senza che tale attività fosse stata in alcun modo autorizzata dall’autorità giudiziaria. Nell’occorso, questi i fatti: - in data …Omissis… F.R. e M.S. si recavano presso la Stazione Carabinieri di Ancona …Omissis… per sporgere denuncia nei confronti di S.N. per presunti fatti di usura; - in data …Omissis…, mentre era in corso un colloquio personale tra lo S. e la M., perveniva sull’utenza telefonica di servizio di militare del Comando Carabinieri di Ancona …Omissis…, proprio nel mentre la polizia giudiziaria stava raggiungendo gli uffici della Procura della Repubblica di Ancona, una telefonata dall’utenza mobile …Omissis… in uso alla M.; - la predetta telefonata veniva ascoltata e registrata da parte della polizia giudiziaria tramite l’applicazione … Omissis…; - alle ore …Omissis… il pubblico ministero decretava d’urgenza l’intercettazione delle utenze telefoniche in uso allo S. e alla R. nonché di quella della persona offesa, M.S.; - in data …Omissis…, il giudice per le indagini preliminari convalidava la decretazione d’urgenza del pubblico ministero. La decisione della Corte territoriale non appare condivisibile anche perché, travisando le risultanze istruttorie, ha omesso di valutare e di richiamare la circostanza che le forze dell’ordine non si sono limitate ad ascoltare “in diretta” la conversazione tra la M. e lo S. tramite il telefono, ma hanno provveduto alla contestuale registrazione della conversazione su supporto magnetico, utilizzando, peraltro, apparecchiature e linee telefoniche in uso alla polizia giudiziaria, e senza che fosse stato in quel

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GIURISPRUDENZA PENALE momento ancora emesso alcun provvedimento dell’autorità giudiziaria autorizzativo delle intercettazioni. Inoltre, l’attività svolta dalla polizia giudiziaria deve ritenersi rientrare nella disciplina di cui all’art. 266 c.p.p. e ss., atteso che le operazioni di ascolto (contestuale e remoto) e di simultanea registrazione erano gestite dalla stessa polizia giudiziaria (e non da M.S.) e si svolgevano attraverso apposite apparecchiature in uso alla polizia giudiziaria, atte a captare e registrare, in tempo reale, la comunicazione. …Omissis… 4. Ricorso nell’interesse di R.C. …Omissis… -Terzo motivo: erronea e/o falsa applicazione dell’art. 267 c.p.p. anche in relazione agli artt. 125, 268 e 271 c.p.p., nullità per carenza, assenza e/o mera apparenza di motivazione del decreto di convalida delle intercettazioni telefoniche emesso dal giudice per le indagini preliminari il …Omissis… che ha convalidato la decretazione d’urgenza alle intercettazioni del pubblico ministero del …Omissis… nonché inutilizzabilità delle intercettazioni telefoniche con riferimento alla posizione dell’imputata. Il decreto di convalida riporta testualmente che la decretazione d’urgenza alle intercettazioni era stata disposta il …Omissis… nell’ambito del procedimento a carico di S.N. per il reato di cui all’art. 644 c.p. commesso in …Omissis… Alla data di emissione del decreto di convalida, quindi, la R. non risultava essere indagata, né il procedimento penale per il quale erano state disposte le intercettazioni d’urgenza risultava essere a carico della prevenuta; inoltre, gli elementi motivazionali e giustificativi del decreto di convalida non riguardavano in alcun modo la R. La motivazione del decreto sembra essersi risolta nella mera ripetizione della formula normativa, nell’indicazione di elementi esclusivamente a carico dello S. e nel richiamo ad un atto di indagine affetto da inutilizzabilità patologica. …Omissis… 5. Nei motivi nuovi depositati nell’interesse di R.C., si è insistito: …Omissis… - con riferimento al terzo e al quarto motivo del ricorso principale, nella convalida del decreto di intercettazione di urgenza emesso dal pubblico ministero, il giudice per le indagini preliminari motiva la propria decisione adducendo elementi esclusivamente riferibili al coimputato S.N., marito della R., ma nessun elemento, costituente gravità indiziaria, è riconducibile alla R. Si ribadisce l’inutilizzabilità dell’atto di indagine costituito dalla registrazione di una conversazione intercorsa tra M.S. e S.N., ascoltata in diretta dagli investigatori, tramite il telefono della donna: detta registrazione/intercettazione non è mai stata autorizzata da un magistrato, anche perché l’ascolto e la contestuale registrazione è avvenuta

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con strumentazione in uso alla Polizia giudiziaria. Nella fattispecie, le ragioni e le motivazioni per sottoporre ad intercettazione l’utenza telefonica in capo alla R. sembrano del tutto assenti; …Omissis… Considerato in diritto …Omissis… Alcune considerazioni di carattere preliminare si rendono doverose. 2.1.1. La giurisprudenza della Corte EDU, da tempo, ha riconosciuto come le intercettazioni telefoniche e ambientali costituiscano un’interferenza con il diritto al rispetto della vita privata ai sensi dell’art. 8 p. 1 della Convenzione (cfr., 20/12/2005, Wisse c. Francia; 06/12/2005, Agaouglu c. Turchia; 31/05/2005, Vetter c. Francia; 27/04/2004, Deorga c. Paesi Bassi; 05/11/2002, Allan c. Regno Unito; 17/07/2003, Craxi c. Italia). La Corte di Strasburgo ha, altresì, reiteratamente affermato, che la registrazione di una conversazione (telefonica o tra presenti) operata da uno degli interlocutori costituisce interferenza con la vita privata, qualora sia eseguita con mezzi messi a disposizione delle autorità investigative e nel contesto di un’indagine ufficiale: sicché, ove l’attività in questione non risulti regolata, nell’ordinamento dello Stato interessato, da alcuna specifica normativa, deve ravvisarsi una violazione dell’art. 8 CEDU (in questo senso la Corte EDU si è espressa, ad esempio, nella sentenza del 25/10/2007, Van Vondel c. Paesi Bassi, con riguardo a fattispecie nella quale la polizia aveva fornito gli strumenti di registrazione e, in un caso, anche indicato le domande da porre all’interlocutore ignaro o nella pronuncia dell’01/03/2007, Heglas c. Repubblica Ceca, con riguardo a fattispecie nella quale la registrazione era stata effettuata su iniziativa della polizia. Significativa anche la sentenza 08/04/2003, M.M. c. Paesi Bassi, in riferimento a fattispecie nella quale la polizia aveva suggerito ad una donna, vittima di proposte di tipo sessuale, di registrare le eventuali telefonate del soggetto attivo, effettuando le operazioni tecniche a ciò necessarie e istruendo la denunciante circa la maniera di condurre la conversazione). Proprio in riferimento alla problematica delle intercettazioni tra presenti (e delle videoregistrazioni), viene in rilievo la valenza da attribuire alla locuzione “previste dalla legge” (“prevue par la loi”), che figura nell’art. 8, p. 2 CEDU. Al riguardo, la Corte di Strasburgo ha chiarito che il termine “legge” va inteso in senso sostanziale, comprendendo, oltre alla legge formale, anche la normativa ad essa subordinata (inclusa quella non-scritta) ed il diritto di creazione giurisprudenziale, proprio dei paesi di common law (cfr., ex plurimis, 24/04/1990, Kruslin c. Francia; 02/08/1984, Malone c. Regno Unito; 26/04/1979, Sunday Times c. Regno Unito).


GIURISPRUDENZA PENALE Nondimeno, la mera esistenza di una disciplina normativa non è, peraltro, sufficiente ad assicurare il rispetto dell’art. 8, essendo necessaria anche una verifica della c.d. “qualità della legge” (quality of the law), che si specifica nei requisiti della accessibilità (ovvero della possibilità, per l’individuo, di conoscere il precetto legislativo e di comprenderne la portata) e della formulazione sufficientemente precisa (ovvero della possibilità, per l’individuo – avvalendosi, se del caso, di esperti – di prevedere, ad un livello ragionevole, le conseguenze che possono derivare da una data azione). Tale problematica è assai rilevante, in generale, per le intercettazioni, ma lo è, in particolare, per le intercettazioni di conversazioni tra presenti, proprio in ragione della circostanza che, per queste ultime, difetta nell’ordinamento italiano una specifica disciplina, ricavabile solo attraverso principi giurisprudenziali. 2.1.2. I giudici di Strasburgo, con riguardo in generale alle intercettazioni, hanno affermato che, per “legge”, ai fini dell’art. 8 p. 2 CEDU (come di ogni altra norma della Convenzione che chiede una base statutaria per la limitazione dei diritti in essa consacrati) deve intendersi una disposizione “prevedibile” “quanto al senso ed alla natura delle misure applicabili”, che offra “una certa protezione contro gli atti arbitrari del potere pubblico”, indicando in modo sufficientemente chiaro ai cittadini in quali circostanze e a quali condizioni le pubbliche autorità possono porre in essere misure di sorveglianza segrete: specificando, segnatamente, (a) quali soggetti possono essere sottoposti alle misure, (b) la natura dei reati in rapporto ai quali esse sono utilizzabili, (c) i limiti di durata, le formalità per assicurare l’integrità delle registrazioni, ecc.. In tale prospettiva, la Corte Europea ha escluso, ad esempio, che potessero costituire idonea base legale per le intercettazioni ambientali le disposizioni riguardanti le intercettazioni telefoniche, applicate analogicamente, anche perché tale applicazione analogica risultava, nel caso considerato, priva di qualsiasi precedente giurisprudenziale (31/05/2005, Vetter c. Francia, cit.). La Corte Europea ha ritenuto, inoltre, sussistente la violazione dell’art. 8 in ipotesi nella quale l’ordinamento interno prevedeva genericamente il potere della pubblica autorità di procedere ad intercettazioni telefoniche, senza alcuna indicazione dettagliata riguardo al tipo di reati e alle garanzie procedimentali del soggetto la cui comunicazione era stata intercettata (02/08/1984, Malone c. Regno Unito, cit.). Per altro verso, la Corte EDU ha escluso che l’intercettazione delle comunicazioni telefoniche di un detenuto potesse trovare adeguata base legale in una circolare del ministero della giustizia, finalizzata ad assicurare l’ordine nelle carceri e la sicurezza pubblica in genere (27/04/2004, Deorga c. Paesi Bassi, cit.).

2.1.3. L’ordinamento giuridico italiano, attualmente, non fornisce una definizione dell’istituto delle intercettazioni e, a seguito della L. 23 dicembre 1993, n. 547, introduttiva degli artt. 617-bis, 617-ter, 617-quater e 617-quinquies c.p., sono sorte ulteriori perplessità interpretative, poiché, tale espressione viene adottata per definire, promiscuamente, non soltanto attività tipicamente investigative, ma anche di diritto penale sostanziale. Anche una ricerca giurisprudenziale, volta alla soluzione dei problemi definitori, risulterebbe vana, in quanto scarsa è stata l’attenzione del giudice di legittimità, il quale ha preferito il ricorso ad un’accezione atecnica o ad un significato mutuato dal diritto processuale. A ciò deve aggiungersi un costante dinamismo evolutivo che obbliga, da un lato, il legislatore e, dall’altro, la giurisprudenza, ad integrare il quadro normativo ed il diritto vivente alla luce progresso scientifico e tecnologico. A sua volta, la dottrina ha cercato di individuare una struttura minima dello strumento investigativo, ricorrendo ad una definizione di intercettazione processuale, quale mezzo di ricerca della prova, consistente nell’apprensione occulta e contestuale del contenuto di una conversazione o comunicazione tra soggetti, anche nella forma di flusso comunicativo informatico o telematico, come previsto dall’art. 266-bis c.p.p., mediante modalità oggettivamente idonee allo scopo, con intromissioni clandestine che superano il normale livello di percettibilità umana, operate da soggetti terzi rispetto ai conversanti, con apparecchiature in grado di fissarne l’evento e tali da vanificare le cautele ordinariamente poste a protezione del carattere riservato dell’atto dialogico. 2.1.4. Dalla disamina delle principali norme codicistiche in materia di intercettazioni è possibile desumere i seguenti obiettivi che il legislatore ha inteso raggiungere: a) rendere più rigoroso sia l’obbligo di vaglio dei presupposti che quello motivazionale nell’ambito dei provvedimenti del pubblico ministero e del giudice per le indagini preliminari, sia con riferimento alle intercettazioni telefoniche che a quelle c.d. ambientali (art. 267 c.p.p.); b) rendere più rigido il divieto di pubblicazione degli atti relativi alle intercettazioni, assicurandone un uso esclusivamente endoprocessuale e restringendo la conservazione delle comunicazioni intercettate non utili ai fini processuali (art. 269 c.p.p.); c) rendere consapevole l’interessato dell’avvenuta intercettazione nei suoi confronti e, anche laddove l’indagine preliminare non fosse ancora conclusa, della facoltà di esaminare gli atti ovvero prendere cognizione dei flussi di comunicazione e informatici (art. 268 c.p.p., comma 6), al fine di non ledere quel principio di diritto alla difesa garantito costituzionalmente nei tempi del giusto processo (art. 24 Cost., comma 2 e art. 111 Cost., comma 1);

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GIURISPRUDENZA PENALE d) rendere più trasparente l’azione investigativa, garantendo un uso delle informazioni ottenute attraverso le intercettazioni che sia limitato esclusivamente alle conversazioni rilevanti ai fini del procedimento (art. 271 c.p.p., commi 1 e 2). 2.1.5. Ma qual è lo stato attuale della giurisprudenza di legittimità? Per rispondere, occorre partire dalla pronuncia delle Sezioni Unite n. 36747 del 28/05/2003 (ric. Torcasio ed altro), con la quale la S.C. ha precisato, in primo luogo, quando una certa attività possa essere definita di “intercettazione”. In tal senso, si è riconosciuta la necessità: a) che i soggetti, fra loro comunicanti, intendano escludere gli altri dalla percezione; b) che gli strumenti utilizzati per captare il colloquio siano insidiosi e non agevolmente riconoscibili; c) che il soggetto che capta il colloquio sia estraneo al colloquio medesimo. La concomitante ricorrenza delle tre condizioni consente di ritenere l’esistenza dell’intercettazione che deve seguire lo schema tipico: richiesta del pubblico ministero, autorizzazione del giudice per le indagini preliminari, decreto del pubblico ministero ed esecuzione del provvedimento da parte dello stesso pubblico ministero o di ufficiali di polizia giudiziaria. In assenza anche di una sola di queste condizioni, non si può parlare di intercettazione, ricadendosi nella diversa fattispecie della documentazione del colloquio da parte di una persona che vi partecipa, o che comunque non ne viene esclusa: in questi casi, la registrazione è un aiuto alla memoria, per fissare meglio il ricordo ed evitare contestazioni su quanto è stato detto ed il supporto su cui vengono impresse le tracce di tale conversazione è, pertanto, un vero e proprio documento, acquisibile in dibattimento ai sensi dell’art. 234 c.p.p.. L’intervento delle Sezioni Unite non ha tuttavia sopito il dibattito concernente il regime di utilizzabilità delle registrazioni di conversazioni eseguite da uno dei partecipanti al colloquio e di una serie di problemi di contorno tra cui spicca quello dell’acquisizione della dichiarazione in aperta violazione di una norma (riconoscendosi – in diverse pronunce – come la registrazione e la successiva documentazione non farebbero venir meno l’illiceità dell’acquisizione con conseguente inutilizzabilità della stessa intercettazione) quello relativo alla disciplina applicabile nel caso in cui vi sia un provvedimento dell’autorità giudiziaria che autorizzi le intercettazioni ma il privato, d’intesa con la polizia giudiziaria, proceda con mezzi propri ovvero forniti da quest’ultima a documentare la conversazione e, soprattutto, quello ancora più rilevante rappresentato dal fatto se si possa considerare un discrimine (tra prova documentale “pura” e documentazione di attività d’indagine) il fatto che la captazione del privato avvenga d’intesa con la po-

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lizia giudiziaria e con apparecchiature da questa fornite. Su quest’ultimo punto, si pongono e permangono due opposti orientamenti, essendosi affermato sia che: - la registrazione fonografica di colloqui tra presenti, eseguita d’iniziativa da uno dei partecipi al colloquio, costituisce prova documentale, come tale utilizzabile in dibattimento, e non intercettazione “ambientale” soggetta alla disciplina dell’art. 266 c.p.p. e ss., anche quando essa avvenga su impulso della polizia giudiziaria e/o con strumenti forniti da quest’ultima con la specifica finalità di precostituire una prova da far valere in giudizio (Sez. 2, n. 3851 del 21/01/2016, dep. 2017, Spada e altro, Rv. 269089), ma anche che: - la registrazione di conversazioni effettuata da un privato, mediante apparecchio collegato con postazioni ricetrasmittenti attraverso le quali la polizia giudiziaria procede all’ascolto delle stesse e alla contestuale memorizzazione, non costituisce una mera forma di documentazione dei contenuti del dialogo né una semplice attività investigativa, bensì un’operazione di intercettazione di conversazioni ad opera di terzi, come tale soggetta alla disciplina autorizzativa dettata dall’art. 266 c.p.p. e ss., con la conseguente inutilizzabilità probatoria di tale registrazione, ove preceduta dalla sola autorizzazione del pubblico ministero (Sez. 3, n. 39378 del 23/03/2016, C., Rv. 267806, nella quale si afferma che, a conferma di tale opzione interpretativa, militerebbe l’ascolto e la registrazione contestuale da parte della polizia giudiziaria, quale soggetto estraneo alla conversazione). 2.1.6. Fermo quanto precede, ritiene il Collegio come nel caso di specie non si possa “cadere” nel contrasto sopra descritto ovvero versare in situazione di incertezza interpretativa, in quanto il fatto verificatosi, alla luce della sua reale dinamica, non può farsi rientrare nella casistica della documentazione di un atto di indagine, come tale sottoposto al regime autorizzatorio dell’art. 266 c.p.p. e ss.: in particolare, risulta che la persona offesa ( M.S.), avendo ricevuto una telefonata da parte dello S., “girò” la telefonata sull’utenza dei Carabinieri per farla sentire a costoro che, infatti, la registrarono. Quindi, i Carabinieri non effettuarono alcun atto di indagine, né sollecitarono la persona offesa a registrare il colloquio con lo S., né le fornirono alcun registratore. I Carabinieri furono coinvolti dalla M. perché ascoltassero il colloquio che era in corso con lo S. e di cui i Carabinieri nulla sapevano. 2.2. Pertanto, più correttamente, la registrazione effettuata dai Carabinieri, va ritenuta come una mera forma di memorizzazione fonica di un fatto storico, utilizzabile quale prova documentale, rispetto alla quale la trascrizione rappresenta una mera trasposizione del contenuto del supporto magnetico contenente la registrazione (così, Sez. 2, n. 50986 del 06/10/2016, Occhineri e altro, Rv. 268730; cfr. anche, Sez. 6, n. 1422 del 03/10/2017, dep.


GIURISPRUDENZA PENALE 2018, Gambino ed altri, non massimata sul punto; Sez. 6, n. 53375 del 05/10/2017, Lombardi ed altri, Rv. 271656; Sez. 5, n. 41421 del 11/06/2018, Di Luzio, Rv. 275111; Sez. 5, n 13810 del 11/02/2019, Megna, Rv. 275237; Sez. 6, n. 5782 del 17/12/2019, Savoini, Rv. 278452). Da qui l’affermazione del seguente principio di diritto: “La registrazione di conversazioni da parte del privato vittima di condotte estorsive o usurarie con il soggetto autore di comportamenti violenti e/o minacciosi, effettuata su iniziativa esclusiva, in quanto né sollecitata né in altro modo suggerita dagli inquirenti, dello stesso privato e con l’utilizzo di mezzi propri, anche qualora – ai fini dell’ascolto e della verifica dei contenuti minatori per possibili successive iniziative di carattere processuale – venga immediatamente girata alle forze dell’ordine già in tal senso previamente allertate dell’iniziativa ed indipendentemente dalle modalità dell’ascolto (in diretta o

in differita), non presuppone né implica lo svolgimento di alcun atto di indagine da parte delle stesse forze dell’ordine: in tal caso la registrazione effettuata, anche se veicolata attraverso la successiva trascrizione dei contenuti da parte delle stesse forze dell’ordine, rappresenta una semplice trasposizione del contenuto del supporto magnetico e costituisce una mera forma di memorizzazione fonica di un fatto storico utilizzabile quale prova documentale”. La riprova della correttezza della soluzione rappresentata la si ha se si riflette sulla circostanza che nulla sarebbe cambiato se i Carabinieri, dopo avere ascoltato (legittimamente) la telefonata, si fossero limitati a verbalizzare quanto ascoltato. Quell’atto, infatti, sarebbe stato sicuramente utilizzabile per porlo a base della motivazione del decreto di sequestro. …Omissis…

IL COMMENTO

di Alessandro Malacarne Sommario: 1. L’inquadramento della quaestio iuris. – 2. Il caso concreto. – 3. La nozione di procedimento penale e le tesi volte a negare tout court l’utilizzabilità delle dichiarazioni rese dall’indagato. – 4. L’iniziativa in ordine all’esecuzione della registrazione. – 4.1. La registrazione “d’intesa” con la polizia giudiziaria nel corso del procedimento. – 4.1.1. Osservazioni critiche. – 4.2. La registrazione sua sponte nel corso del procedimento. – 5. Brevi considerazioni conclusive. Con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione torna nuovamente ad occuparsi del discrimen fra l’attività di intercettazione e la registrazione di colloqui fra presenti. La pronuncia merita di essere esaminata poiché, in primo luogo, offre lo spunto per interrogarsi sull’attualità della nozione di intercettazione che, allo stato, sembra essere incapace di far fronte a quelle nuove istanze di tutela dei diritti che costituiscono il frutto dell’inarrestabile progresso tecnologico. In secondo luogo, consente di sottolineare come il labile confine che separa i due istituti debba indurre il giudice ad identificare in modo chiaro e preciso la fattispecie oggetto di decisone, al fine di individuare la disciplina concretamente applicabile. The Court of Cassation is called to deal with the difference between wiretapping and recording activity. The decision needs to be analyzed because, first of all, it offers the opportunity to question the relevance of the notion of wiretapping. The latter has proved to be unable to accept the new need for the protection of rights, which is the result of inexorable technological progress. Secondly, the blurred border between the two institutes should require the judge to identify clearly and accurately the case in order to determine the applicable discipline.

1. L’inquadramento della quaestio iuris

La pronuncia in commento è emblematica della persistente attualità del dibattito in ordine alla qualificazione giuridica della registrazione di un colloquio fra presenti operata da uno dei partecipanti, con o senza l’ausilio e l’impulso dell’autorità inquirente. A questo proposito, la Suprema Corte, nella sentenza in epigrafe, ha affermato che la registrazione di conversazioni da parte della persona offesa con il presunto autore del reato, effettuata su iniziativa esclusiva e con mezzi propri, costituisce una mera forma di memorizzazione fonica di un fatto storico – utilizzabile quale prova documentale – anche qualora ai fini dell’ascolto «venga immediatamente gi-

rata alle forze dell’ordine già in tal senso previamente allertate» (1). In tal senso, è opportuno sin da subito os (1) Il principio di diritto, per la sua peculiarità e rilevanza ai fini dell’analisi, merita di essere riportato per esteso: «La registrazione di conversazioni da parte del privato vittima di condotte estorsive o usurarie con il soggetto autore di comportamenti violenti e/o minacciosi, effettuata su iniziativa esclusiva, in quanto né sollecitata né in altro modo suggerita dagli inquirenti, dello stesso privato e con l’utilizzo di mezzi propri, anche qualora – ai fini dell’ascolto e della verifica dei contenuti minatori per possibili successive iniziative di carattere processuale – venga immediatamente girata alle forze dell’ordine già in tal senso previamente allertate dell’iniziativa ed indipendentemente dalle modalità dell’ascolto (in diretta o in differita), non presuppone né implica lo svolgimento di alcun atto di indagine da parte delle stesse forze dell’ordine: in tal

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GIURISPRUDENZA PENALE servare come dalla lettura complessiva della pronuncia emergano non poche difficoltà in ordine alla ricostruzione dei fatti oggetto di causa, con la conseguenza che, come si avrà modo di osservare, il principio di diritto appare assolutamente slegato dalla fattispecie concreta. Ad ogni modo, è noto come la tematica in oggetto costituisca una vera e propria «zona grigia quanto a confini teorici ed incertezza di disciplina» (2) in ordine alla corretta qualificazione giuridica del cd. “agente segreto attrezzato per il suono”. Rinviando ad altra sede (3) per l’approfondimento della genesi e delle problematiche sorte in merito all’inquadramento della registrazione tra presenti, giova comunque sottolineare come ciò che contribuisce a rendere così insidioso l’argomento in esame – tale da rendere ancora irrisoluto il contrasto de quo – sia la molteplicità di questioni controverse che ne costituiscono il substrato giuridico: la portata applicativa dell’art. 15 Cost. (4), la nozione di intercettazione e di documento, la corretta esegesi dell’art. 189 c.p.p., l’am-

caso la registrazione effettuata, anche se veicolata attraverso la successiva trascrizione dei contenuti da parte delle stesse forze dell’ordine, rappresenta una semplice trasposizione del contenuto del supporto magnetico e costituisce una mera forma di memorizzazione fonica di un fatto storico utilizzabile quale prova documentale». Per un primo commento alla sentenza, si vedano Suraci, La nozione “post-moderna” di intercettazioni di conversazioni e comunicazioni, in Quotidiano giuridico, all’indirizzo <http:// www.quotidianogiuridico.it>, 9 novembre 2020; Chelo, Colloqui privati e intercettazioni telefoniche: la Cassazione forza i limiti, in Ilpenalista, all’indirizzo <http://www.ilpenalista.it>, 2 novembre 2020.  (2) Così, Sisto, Intercettazioni di conversazioni o di comunicazioni – Ancora dubbi sulla natura delle intercettazioni, in Giur. it., 2017, 492.  (3) Sul tema, senza alcuna pretesa di esaustività, Camon, Le intercettazioni nel processo penale, Milano, 1996, 42 ss.; Filippi, L’intercettazione di comunicazioni, Milano, 1997, 30-39; Dinacci, L’irrilevanza processuale delle registrazioni di conversazioni tra presenti, in Giur. it., 1994, 1 ss.; Bargi, Sulla distinzione tra registrazione di un colloquio ad opera di uno dei partecipanti ed intercettazione di una conversazione da parte di estranei, in Cass. pen., 1982, 2028 ss.; Caprioli, Colloqui riservati e prova penale, Torino, 2000, 195 ss.; Id., Intercettazione e registrazione di colloqui tra persone presenti nel passaggio dal vecchio al nuovo codice di procedura penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1991, 143 ss.; Turco, La registrazione di colloqui effettuata dall’interlocutore longa manus della polizia giudiziaria in assenza del decreto autorizzativo del g.i.p.: scatta l’inutilizzabilità, in AA.VV., Il rito accusatorio a vent’anni dalla grande riforma. Continuità, fratture, nuovi orizzonti, Milano, 2012, 93-97; Id., La registrazione di colloqui effettuata dall’interlocutore longa manus della polizia giudiziaria tra intercettazione, prova documentale e prova atipica incostituzionale, in Cass. pen., 2009, 3093 ss.; Scaparone, In tema di indagini di polizia giudiziaria condotte per mezzo di un agente segreto “attrezzato per il suono”, in Giur. it., 1998, 220 ss.; Dell’Andro, Colloqui registrati ed uso probatorio, in Riv. it. dir. proc. pen., 1984, 102 ss.; Marinelli, Intercettazioni processuali e nuovi mezzi di ricerca della prova, Torino, 2007, 37 ss.; Fabbri, Uso processuale della registrazione di conversazione fra presenti, in Foro It., 1987, 127 ss.  (4) A tal proposito, appaiono quantomai conferenti al tema in oggetto le affermazioni di chi ha definito l’art. 15 Cost. «la norma tecnicamente più infelice di tutta la Costituzione» che «per avere voluto tutelare troppo il diritto dell’individuo, rischia in certe ipotesi di non tutelarlo affatto, pur recando abitualmente un serio pregiudizio all’efficienza delle pubbliche autorità» (cfr. Baschieri – Bianchi D’Espinosa – Giannattasio, La Costituzione italiana. Il commento analitico, Firenze, 1949, 89-90).

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missibilità della cd. prova incostituzionale sono solo alcuni degli interrogativi su cui l’interprete è chiamato a confrontarsi.

2. Il caso concreto

La questione posta all’attenzione della seconda sezione trae origine dalla sentenza con la quale la Corte d’Appello di Ancona aveva ritenuto la penale responsabilità di due imputati, in concorso fra loro, per i reati di usura ed estorsione. La prova della responsabilità era stata raggiunta anche grazie ad una serie di telefonate fra gli indagati e la vittima, una delle quali, ascoltata e registrata in diretta dagli inquirenti, è stata oggetto di specifica doglianza in sede di impugnazione. Dalla lettura del provvedimento in epigrafe emerge – invero non senza difficoltà interpretative – che la persona offesa, dopo aver sporto denuncia, riceveva una telefonata da uno degli indagati ed immediatamente «gira[va]» quest’ultima verso un’utenza di servizio in uso ad un militare del comando dei carabinieri, il quale ascoltava e registrava la conversazione tramite l’applicazione Call Recorder. Al fine di comprendere se la decisione in oggetto abbia fatto buon governo dei principi regolatori la materia de qua, risulta indispensabile analizzare nel dettaglio il concreto andamento dei fatti che stanno alla base della pronuncia. È evidente, infatti, che nel tema della registrazione di colloqui fra presenti – più che in altri – la corretta identificazione della fattispecie nella sua reale dinamica costituisce lo strumento principale per individuare la disciplina giuridica applicabile. A tal fine, può essere utile impiegare taluni parametri – quali l’individuazione della fase del procedimento nella quale viene eseguita la registrazione, la modalità di ascolto, la titolarità del mezzo intrusivo, l’iniziativa dell’operazione, l’esecuzione materiale etc. – allo scopo di valutare in quale delle differenti fattispecie astratte possa essere ricondotto il caso in oggetto.

3. La nozione di “procedimento penale” e le tesi volte a negare tout court l’utilizzabilità delle dichiarazioni rese dall’indagato

Procedendo con ordine, occorre anzitutto distinguere a seconda che la registrazione ad opera del colloquiante sia avvenuta nel corso del procedimento ovvero al di fuori di esso. Nel caso di specie, si può affermare che il dialogo intercorso fra la vittima ed il presunto autore degli illeciti ricada nella prima ipotesi prospettata. L’espressione “nel corso del procedimento” dev’essere intesa, in questa sede, alla stregua del caso in cui la registrazione sia stata eseguita in seguito all’emersione di semplici dati indicativi di un fatto penalmente apprezzabile, a nulla rilevando l’elemento cronologico dell’eventuale iscrizione della notitia criminis. Viceversa, allorquando si versi


GIURISPRUDENZA PENALE nell’ipotesi in cui la vittima registri al di fuori e prima della pendenza “sostanziale” di un procedimento penale – e, pertanto, agisca sempre di sua iniziativa – si ritiene comunemente che il materiale raccolto sia legittimamente utilizzabile quale prova documentale (5). È noto, tuttavia, come una parte della dottrina ritenga essenzialmente inutile – e concettualmente errata – una siffatta partizione (6). Le dichiarazioni rese dall’indiziato-indagato e registrate nel corso di un colloquio fra presenti, infatti, devono ritenersi sempre e comunque inutilizzabili indipendentemente dall’ascolto, contestuale o differito, ad opera di un terzo estraneo al colloquio. Una conclusione così tranchant, per vero, è stata sostenuta attraverso percorsi argomentativi diversi fra loro. Secondo una prima linea di pensiero (7), la giustificazione di tale assunto sarebbe da individuarsi nell’art. 15 Cost. che sancisce l’inviolabilità della segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione, la cui limitazione può avvenire soltanto nei casi espressamente previsti dalla legge e con provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria. In generale, si ritiene che la segretezza sia violata allorquando un soggetto, terzo rispetto alla comunicazione, percepisca il contenuto della stessa. La riservatezza, invece, sarebbe lesa se colui che ha partecipato legittimamente al colloquio riservato riveli ad estranei, ex post, il contenuto della predetta. La tesi in esame, avversata dall’orientamento maggiorita (5) Cfr. Cass. Sez. Un. 28 maggio 2003, n. 36747, in Dejure con note di Filippi, Le Sezioni Unite decretano la morte dell’agente segreto «attrezzato per il suono», in Cass. pen., 2004, 2094 ss. e Potetti, Questioni sulla testimonianza indiretta della polizia giudiziaria, in Cass. pen., 2004, 1996 ss. È noto come la qualificazione della registrazione fra presenti alla stregua di un documento venga sostenuta, in primo luogo, con riferimento alla nozione di «fatti» di cui all’art. 234 c.p.p., nella quale – si afferma – dovrebbero essere ricondotti anche i cd. fatti naturali, quali le dichiarazioni. Il documento così prodotto, peraltro, sarebbe ammissibile anche alla luce della circostanza che esso è formato prima e al di fuori del procedimento penale cui è destinato ad essere utilizzato; elemento, quest’ultimo, che le stesse Sezioni Unite hanno valorizzato quale discrimine fra la prova documentale e la documentazione dell’attività di indagine (cfr. Cass. Sez. Un. 28 marzo 2006, n. 26795, in Dejure. Nello stesso senso, Laronga, La prova documentale nel processo penale, Torino, 2004, 6 secondo cui «il documento rappresenta fatti o atti extra judicium»). In senso difforme rispetto alla tesi qui richiamata, Dinacci, L’irrilevanza processuale delle registrazioni, cit., 2 per il quale «un documento composto da una dichiarazione di scienza non può essere utilizzato per quanto attiene al contenuto della dichiarazione».  (6) Centorame, Registrazioni “occulte” di conversazioni tra presenti e ricerca della prova, in Giur. it., 2011, 1400 secondo cui «risulta inconferente distinguere tra dichiarazioni rilasciate nel corso di specifici atti del procedimento e dichiarazioni rese al di fuori di un contesto investigativo. Ciò che conta, invero, è che tali dichiarazioni, in quanto autoincriminanti, non siano suscettibili di alcuna utilizzazione in sede processuale».  (7) Così, Caprioli, Intercettazione e registrazione di colloqui, cit., 146-148. Negli stessi termini Dinacci, L’irrilevanza processuale delle registrazioni, cit., 2; Centorame, Registrazioni “occulte” di conversazioni, cit., 1399; Fifi, Note in tema di registrazioni ambientali «occulte» tra documento e prova atipica, in Giur. it., 2004, 4.

rio (8), sembra porre l’attenzione sull’esatta qualificazione giuridica del termine “rivelare”. Il contenuto di una comunicazione, infatti, può essere per l’appunto “rivelato”, essenzialmente, con due modalità: il partecipante al colloquio può divulgare con la propria voce quanto appreso ovvero può rendere edotto il terzo dell’esatto contenuto del dialogo attraverso l’ascolto in differita della registrazione. Tutto ciò si riflette sul binomio segretezza-riservatezza poiché – si sostiene – con la seconda modalità «si consente al terzo di percepire e non solo di sapere» (9). Evidente è l’approdo del discorso. Se si ritiene di accogliere quest’ultima impostazione, la registrazione operata da uno degli interlocutori e successivamente messa nella disponibilità di terzi viola il diritto alla riservatezza tutelato dall’art. 15 Cost.: il contenuto di quella conversazione sarebbe potuto entrare nel processo solo attraverso un’intercettazione legittimamente autorizzata. Tuttavia, anche volendo condividere una simile lettura della disposizione costituzionale, è stato osservato come vi sia comunque la necessità di operare un bilanciamento fra due interessi contrapposti: da un lato, il diritto alla riservatezza dei colloquianti (e, in particolare, del presunto autore del reato) e, dall’altro, il diritto della vittima all’autotutela ed alla garanzia per la propria difesa. In questo senso, in particolare, sembra essere orientata la giurisprudenza di legittimità allorquando afferma che «una disposizione di legge ordinaria volta ad inibire, senza l’autorizzazione del giudice, la registrazione di conversazione ad opera ed iniziativa di uno degli interlocutori o la divulgazione del contenuto del colloquio all’autorità giudiziaria […] non appare in alcun modo imposta dall’art. 15 Cost., se non altro per l’irragionevolezza di una norma che volesse impedire alla vittima […], come forma di autotutela, la precostituzione di elementi di prova di un grave illecito penale subito» (10).

(8) Cfr., per tutti, Camon, Le intercettazioni, cit., 39. L’opinione largamente condivisa ritiene che allorquando un soggetto registri, sua sponte, un colloquio cui ha preso parte e successivamente renda note a terzi le dichiarazioni così apprese, non dovrebbe ritenersi leso il diritto alla segretezza bensì esclusivamente quello alla riservatezza. Di talché, trovando quest’ultimo tutela solo in via mediata, «ossia solo nei limiti in cui lo stesso vada ad incidere su altri diritti di libertà», si dovrebbe ritenere che nelle ipotesi de qua il dettame dell’art. 15 Cost. sia certamente rispettato (cfr. Sisto, Intercettazioni di conversazioni o di comunicazioni, cit., 492). Peraltro, come sostenuto anche dalle Sezioni Unite Torcasio, la comunicazione fra presenti, una volta esauritasi senza intromissioni, «entra a far parte del patrimonio di conoscenza degli interlocutori e di chi vi ha non occultamente assistito» (cfr. Cass. Sez. Un. 28 maggio 2003, n. 36747, cit.).  (9) Caprioli, Intercettazione e registrazione di colloqui, cit., 157.  (10) Cfr. Cass. 1° dicembre 2009, n. 49511, in Dejure. Mostra di condivide questa impostazione Milani, Ancora irrisolto il problema della riconducibilità delle captazioni operate dall’agente attrezzato per il suono alla disciplina delle intercettazioni nel corso delle indagini, in Giur. cost., 2009, 4843, nota

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GIURISPRUDENZA PENALE Come si è accennato, la conclusione in ordine all’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese nel corso della registrazione fra presenti – indipendentemente dalla sede – viene giustificata anche in base ad una seconda linea di pensiero. Un’autorevole dottrina (11) ha affermato che «l’imputato ha diritto a non vedere confluire nell’alveo del procedimento penale non solamente quello che può aver dichiarato davanti a un organo inquirente o nel corso del procedimento […] ma [anche] tutto ciò che ha dichiarato prima o in pendenza del procedimento» in quanto «le dichiarazioni da lui rese in ogni tempo non possono essere utilizzate contro di lui se non per sua libera ed insindacabile scelta» (12). Tali dichiarazioni, in quanto incriminanti, non posso essere utilizzate nella sede processuale. La tesi, indubbiamente suggestiva, offre lo spunto per talune considerazioni. Indipendentemente dalla circostanza che la registrazione venga eseguita sua sponte (13) da uno dei partecipanti ovvero d’intesa con la polizia giudiziaria (14), una cosa è certa: l’indagato – colloquiante ignaro – terrà un contengo che sarà indirizzato e manipolato, anche involontariamente, da colui che effettua la registrazione. Specialmente quando si tratta della vittima, infatti, è difficilmente revocabile in dubbio che quest’ultima abbia interesse a condurre una conversazione in modo tale da carpire dichiarazioni a sé favorevoli (15). Ora, tale manipolazione (indiretta) della volontà del dichiarante – si sostiene – non è ravvisabile nell’ipotesi delle intercettazioni di comunicazioni poiché, come affermato anche dalla Corte costituzionale (16), in tali circostanze il soggetto è libero di autodeterminarsi in ordine alle dichiarazioni da rendere, tant’è vero che la garanzia del

40 secondo cui adottando la tesi minoritaria «si finirebbe per privare irragionevolmente un’ampia categoria di soggetti di uno strumento capace di favorire l’attuazione di un altro fondamentale diritto inviolabile, qual è quello di difesa».  (11) Giarda, Persistendo ‘l reo nella negativa, Milano, 1980, 8 ss. Nello stesso senso Dinacci, L’irrilevanza processuale delle registrazioni, cit., 2.  (12) Cfr., per le due ultime citazioni, Giarda, Di passo in passo, come i gamberi, in Corr. giur., 1993, 1294-1295. In senso difforme si veda, per tutti, Camon, Le intercettazioni, cit., 46 secondo cui ai fini dell’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dall’indagato «sembra più ragionevole la tesi (d’altronde prevalente sia in dottrina sia in giurisprudenza) che richiede un collegamento più preciso col “procedimento”».  (13) Cfr. infra par. 4.2.

(17) Fortemente critico rispetto a tale orientamento Giarda, Relazione al Convegno dell’Associazione fra gli studiosi del processo penale, reperibile al seguente link <http://www.youtube.com/watch?v=D3DbZZb38Og>.

(14) Cfr. infra par. 4.1.

(18) Così, Dinacci, L’irrilevanza processuale delle registrazioni, cit., 6.

(15) Cfr. Gaeta, Dichiarazioni dell’indagato “provocate” da agenti infiltrati: la libertà di autodeterminazione quale canone di utilizzabilità, in Cass. pen., 2000, 602 il quale, seppur con riferimento alle dichiarazioni rilasciate specificatamente ad agenti di polizia giudiziaria sotto copertura, parla di «manipolazione narrativa».

(19) L’assunto non pare contrastare con l’opinione di chi ha rilevato come non si possa «considerare il privato che effettui la registrazione ausiliario di Polizia Giudiziaria, posto che tale figura può fare ingresso nel processo in casi tassativi ed assai limitati» (Decaroli, Revirement sulle registrazioni effettuate con mezzi forniti dalla polizia giudiziaria – Il commento, in Dir. pen. e proc., 2009, 1276). A ben vedere, infatti, nel caso in esame la vittima non assumerebbe alcuna qualifica di carattere formale.

(16) Cfr. Corte cost. 4 aprile 1973, n. 34, in Dejure.

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diritto al silenzio deve ritenersi inapplicabile. Non essendoci un contatto diretto con l’autorità inquirente, infatti, non vi è motivo per dubitare della effettiva spontaneità e volontarietà delle dichiarazioni. Pur essendo tale approdo ermeneutico ormai largamente condiviso (17), non v’è chi non veda come la libertà di autodeterminazione non possa dirsi altrettanto tutelata nel caso della registrazione fra presenti: la persona offesa, come già detto, ha interesse a stimolare l’indagato affinché questi renda dichiarazioni contra se. È proprio alla luce di ciò, allora, che si giustifica la tesi di coloro che, valorizzando l’elemento della spontaneità delle dichiarazioni rese dal colloquiante ignaro, sostengono l’inutilizzabilità processuale di quest’ultime per violazione del nemo tenetur se detegere. La vittima che registra, anche di sua iniziativa ed in funzione di costituirsi una prova per un futuro procedimento penale, infatti, assumerebbe surrettiziamente il ruolo di autorità inquirente, di talché le dichiarazioni rese dinnanzi ad essa dovrebbero sottostare alla disciplina degli artt. 62, 63 e 64 c.p.p. (18). Orbene, anche qualora non si condividessero le predette argomentazioni con riferimento all’ipotesi in cui la vittima, sua sponte, si precostituisca una prova documentale (rectius, la registrazione), le considerazioni sopra richiamate potrebbero assumere un diverso significato nel caso in cui la persona offesa agisca “d’intesa” con la polizia giudiziaria e nel corso del procedimento penale. In tale circostanza, il bilanciamento fra il diritto alla riservatezza-segretezza e quello all’autotutela dovrebbe tener conto anche dell’esigenza – assente nel primo caso – di tutelare il diritto di difesa del soggetto sottoposto a procedimento penale. A tal proposito, allora, se il diritto al silenzio mira a garantire la libertà di autodeterminazione dell’indagato, potrebbe non apparire infondato sostenere, quantomeno in quest’ultima ipotesi, l’identità sostanziale fra vittima ed autorità investigativa. In tale evenienza, infatti, la persona offesa agisce, seppur informalmente, nella veste di organo d’accusa; ed è proprio tale coincidenza che, procedimentalizzando l’atto (19), dovrebbe rendere operante la garanzia del diritto al silenzio.

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GIURISPRUDENZA PENALE Ad ogni modo, anche volendo rigettare le tesi favorevoli all’inutilizzabilità delle dichiarazioni oggetto di registrazione, devono essere respinte con forza talune affermazioni giurisprudenziali, tutt’altro che infrequenti, secondo cui la registrazione fra presenti «costituisce prova documentale valida e particolarmente attendibile, poiché cristallizza in via definitiva ed oggettiva un fatto storico» e, difatti, le moderne tecniche di registrazione, alla portata di tutti, «consentono una documentazione inconfutabile ed oggettiva del contenuto di colloqui e/o di telefonate» (20). Anzitutto, non corrisponde a verità che le dichiarazioni rese dal colloquiante ignaro siano «oggettive». Tale assunto, a ben vedere, sembra fondarsi sulla risalente distinzione tra documenti diretti e documenti indiretti (21): «mentre i primi (fotografie, film, registrazioni fonografiche eccetera) offrirebbero una rappresentazione del fatto indipendente dalla memoria dell’uomo, nei secondi (le scritture) la rappresentazione sarebbe filtrata dall’autore» (22), cosicché solamente nel primo caso si potrebbe sostenere che il documento così formato sia privo di contaminazioni. Ora, anche supponendo che la registrazione sia tecnicamente genuina, vale a dire che non sia il frutto di fotomontaggi – artifizio, quest’ultimo, che nella società odierna è facilmente attuabile anche dall’utente comune – un’attenta dottrina ha già da tempo osservato come colui che registra un colloquio possa azionare o disattivare l’apparecchio fonico a seconda della propria convenienza e dell’obiettivo che intende perseguire. Di talché, vi è il fondato rischio che quella registrazione sia «falsa», nel senso che «le parole registrare sono state effettivamente dette […] ma quelle parole si inserivano in un contesto più ampio» (23) nel quale, ad esempio, potevano essere ricomprese anche dichiarazioni favorevoli al presunto autore del reato. Ma non è tutto. Anche volendo concedere – per assurdo – che la prova così raccolta sia «oggettiva» ed «inconfutabile», pare lecito domandarsi quale debba essere il ruolo ricoperto dal contraddittorio dibattimentale. Detto altrimenti, non si comprende quale sia l’utilità e lo scopo di condurre l’esame della persona offesa che ha eseguito la registrazione se, comunque, il contenuto di quest’ultima non può essere in alcun modo scalfito né intaccato dalla cross-examination.

(20) Così, Cass. 12 maggio 2016, n. 5241, in Dejure.  (21) Carnelutti, Lezioni sul processo penale, vol. I, Roma, 1946, 222.  (22) Cfr. Camon, Le intercettazioni, cit., 40.  (23) Così, ancora, Camon, Le intercettazioni, cit., 41.

4. L’iniziativa in ordine all’esecuzione della registrazione

Laddove non si ritenga di aderire ad una delle tesi sopra richiamate – che, com’è intuibile, imporrebbe di terminare qui l’esame della sentenza – si tratta di stabilire se la registrazione, nel caso di specie, sia stata eseguita dalla vittima sua sponte oppure d’intesa con gli organi inquirenti. Sennonché, la risposta al quesito appare alquanto difficoltosa: la sentenza pecca di genericità, approssimazione e persino di contraddittorietà. Nel par. 2.1.6, infatti, la Corte afferma che «i carabinieri nulla sapevano» in merito alla telefonata fra l’estorsore e la vittima ma, nell’enucleare il principio di diritto, si precisa che le forze dell’ordine erano state «già in tal senso previamente allertate dell’iniziativa». Ora, al di là della contraddittorietà intrinseca dell’affermazione, la questione appare alquanto rilevante poiché la presenza o meno della polizia giudiziaria in attività di questo tipo si riverbera direttamente nell’individuazione della natura dell’atto. A questo proposito, peraltro, non si potrebbe replicare sostenendo che la circostanza per cui gli agenti dei carabinieri fossero stati «preventivamente allertati» non significhi necessariamente che il privato abbia agito su iniziativa, suggerimento o “mandato” degli stessi. La considerazione, seppur certamente condivisibile, è inconferente. Ciò che rileva, infatti, è che l’operazione sia stata eseguita dalla vittima “d’intesa” con la polizia giudiziaria, anche laddove quest’ultima non abbia fornito l’impulso o il suggerimento per lo svolgimento dell’operazione. Non v’è chi non veda, inoltre, come sarebbe comunque particolarmente complesso valutare concretamente quando la vittima abbia agito su “mandato” dell’organo investigativo oppure di propria iniziativa (24). In ogni caso, poiché dalla lettura della sentenza non è possibile ricostruire questo dato fattuale in maniera

(24) In questo senso, Nicolicchia, I controlli occulti e continuativi come categoria probatoria, Padova, 2020, 27. Contra, Aprile, Sull’applicabilità della disciplina codicistica delle intercettazioni nel caso della registrazione di conversazioni da parte di uno degli interlocutori, con utilizzazione di strumentazione messa a disposizione della polizia giudiziaria, in Giur. merito, 2001, 1009 secondo cui «l’unico criterio che consenta di definire un accettabile discrimine tra il lecito e l’illecito non può che essere quello […] rappresentato dall’interesse che in concreto anima il soggetto che effettua la registrazione. Ed invero “quando è dovuto all’iniziativa della polizia giudiziaria […] la polizia si sta in realtà servendo di un mezzo di captazione delle conversazioni tra terzi facendolo a posteriori apparire come registrazione di conversazione tra presenti”. Al contrario se […] la decisione di registrare una conversazione alla quale l’interessato prende personalmente parte, è il frutto di un’autonoma determinazione, rispetto alla quale non vi è alcuna “spinta” o “interferenza” da parte del personale di polizia giudiziaria, la posizione dell’autore della registrazione è […] identica a quella di chi abbia deciso di eseguire l’operazione senza alcun previo intervento delle forze dell’ordine».

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GIURISPRUDENZA PENALE precisa e puntuale, occorre affrontare, separatamente, entrambe le ipotesi.

4.1. La registrazione “d’intesa” con la polizia giudiziaria nel corso del procedimento

Ipotizziamo che, nel caso di specie, la vittima abbia agito d’intesa con la polizia giudiziaria. Inoltre, e questo è un dato che risulta pacificamente, supponiamo, che il mezzo utilizzato fosse nella titolarità della persona offesa (telefono cellulare). In questa prospettiva, è preliminarmente opportuno precisare come la circostanza che la vittima utilizzi un mezzo di registrazione proprio ovvero uno strumento fornitole dagli inquirenti appaia, oggigiorno, assolutamente irrilevante dal punto di vista classificatorio e, quindi, di disciplina. Non può non convenirsi sulla circostanza per cui il cittadino comune deve ritenersi autonomamente in grado di recuperare un mezzo di registrazione occulto. Alla luce di ciò, non appaiono condivisibili le affermazioni di chi ritiene improbabile «che il cittadino vittima di reato il quale intenda precostituirsi una prova della condotta delittuosa tenuta a suo danno […] sia sempre e comunque in grado di dotarsi autonomamente di tutta la strumentazione tecnica necessaria per raggiungere il fine prefissato» (25). A tutto concedere, qualora il mezzo utilizzato sia nella titolarità della vittima, si potrebbe auspicare che, al fine di evitare una possibile alterazione volontaria del contenuto della registrazione (26) (operazione, quest’ultima, che alla luce della moderna tecnologia può essere eseguita anche dal semplice cittadino), si proceda all’acquisizione della stessa sempre attraverso la cd. copia forense, cui potrebbe altresì conseguire la trascrizione sotto forma di perizia del contenuto vocale di quest’ultima (27). Alla luce di tali puntualizzazioni, occorre adesso individuare la modalità di ascolto da parte dell’organo investigativo.

Nel caso in oggetto, risulta chiaramente che quest’attività sia stata contestuale, poiché la vittima ha inoltrato la chiamata in corso con l’indiziato proprio sull’utenza di un carabiniere in servizio presso la Procura della Repubblica di Ancona. Sennonché, prima di soffermarsi sulle possibili conseguenze dell’ascolto contestuale, devono essere premesse alcune considerazioni in merito ad un passaggio della sentenza nel quale si afferma che la modalità dell’ascolto (in diretta o in differita) è assolutamente irrilevante ai fini della determinazione della disciplina applicabile (28). L’assunto, per come formulato, non può essere condiviso. È noto, infatti, che laddove l’ascolto avvenga in differita (indipendentemente, lo si ribadisce, dalla titolarità del mezzo utilizzato) si ricada in quel contrasto giurisprudenziale che, anche a seguito dell’intervento delle Sezioni Unite Troise (29), vede contrapporsi, essenzialmente, tre filoni interpretativi differenti. In sintesi, secondo una prima impostazione (30) – ad oggi minoritaria – la registrazione, costituendo una mera memorizzazione di un fatto storico, risulterebbe legittimamente utilizzabile in dibattimento ai sensi dell’art. 224 c.p.p. In base ad una diversa lettura (31), invece, la registrazione fra presenti così eseguita non sarebbe altro che una modalità per aggirare surrettiziamente la disciplina delle intercettazioni e le regole che impongono strumenti tipici per degradare la segretezza delle comunicazioni costituzionalmente protetta. Infine, negli ultimi anni si è sviluppato un cospicuo filone interpretativo (32), cd. intermedio, in base al quale si ritiene che – anche sulla scorta delle indicazioni fornite  (28) Così si legge nel principio di diritto enunciato in sentenza.  (29) Cfr. Cass. Sez. Un. 28 maggio 2003, n. 36747, cit.

(25) È l’impostazione sostenuta da Decaroli, Revirement sulle registrazioni, cit., 1277. In senso difforme, Colamussi, Comunicazioni a distanza apprese dall’inquirente per volontà di un conversatore, in Le indagini atipiche a cura di Scalfati, Torino, 2019, 53 secondo la quale «non conta che lo strumento della captazione sia fornito o meno dalla polizia».  (26) Al riguardo la giurisprudenza ha affermato che «nel caso in cui risulti accertato che detta registrazione presenta delle manipolazioni che rendono discontinua la conversazione, è necessaria una specifica valutazione della sua capacità probatoria, avuto riguardo alle ragioni della manipolazione medesima» (cfr. Cass. 3 novembre 2017, n. 1422, in Dejure).  (27) A tal proposito, è opportuno richiamare quelle pronunce della Corte eur. dir. umani secondo le quali devono considerarsi lesive del giusto processo tutte quelle ipotesi in cui uno Stato non disciplini le modalità attraverso cui l’indagato – ed il difensore – possono valutare la «qualità della prova» con specifico riferimento alla sua affidabilità ed accuratezza (cfr., fra le molte, C. eur. dir. umani 17 settembre 2013, Horvatic c. Croazia).

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(30) All’interno di tale filone giurisprudenziale si possono riscontrare due orientamenti differenti che, tuttavia, possono essere equiparati. Talune pronunce, infatti, si concentrano esclusivamente sull’ipotesi nella quale chi partecipa al colloquio registri su impulso o suggerimento della polizia giudiziaria (cfr., ex plurimis, Cass. 6 ottobre 2016, n. 50986, in Dejure; Cass. 29 settembre 2015, n. 4287, in Dejure; Cass. 24 febbraio 2009, n. 16986, in Dejure). Altre, invece, affrontano il caso in cui è la stessa autorità inquirente a fornire il mezzo captativo (cfr., ex multis, Cass. 21 ottobre 2016, n. 3851, in Dejure; Cass. 4 dicembre 2013, n. 7767, in Dejure; Cass. 24 febbraio 2010, n. 9132 con nota critica di Centorame, Registrazioni “occulte” di conversazioni, cit., 1399 ss.; Cass. 11 aprile 2007, n. 16886, in Dejure).  (31) Cfr. Cass. 6 novembre 2008, n. 44128, in Dejure; Cass. 20 novembre 2000, n. 3846, in Dejure.  (32) Cfr., fra le molte, Cass. 11 luglio 2017, n. 48084, in Dejure; Cass. 23 marzo 2016, n. 39378, in Dejure; Cass. 2 marzo 2016, n. 24288, in Dejure; Cass. 20 marzo 2015, n. 19158, in Dejure, nella quale è stata ritenuta sufficiente una mera autorizzazione orale del p.m.; Cass. 29 gennaio 2014, n. 7035, in Dejure; Cass. 10 ottobre 2012, n. 42939, in Dejure.


GIURISPRUDENZA PENALE dalle Sezioni Unite Prisco (33) in merito alla differenza fra documento e documentazione dell’attività di indagine – la registrazione così effettuata sia caratterizzata da un’intrinseca “vocazione processuale”, con la conseguenza che essa dovrebbe essere qualificata come atto di indagine e non come documento (34). Tuttavia, lo strumento d’indagine in oggetto, pur non costituendo documento – si afferma – non potrebbe essere ricondotto, sic et simpliciter, nell’alveo delle intercettazioni, data l’assenza del requisito della terzietà del captante. Nella ricerca di una soluzione di compromesso, l’orientamento in esame fa proprio il monito della Corte costituzionale (35) che «ha invitato […] il giudice a valutare, ove ritenga che l’attività investigativa in questione contrasti con diritti fondamentali, la praticabilità di una soluzione analoga, mutatis mutandis, a quella adottata dal Sez. Un., n. 26795 del 28/3/2006, Prisco» (36). In quella sede, com’è noto, il Supremo consesso ha stabilito che nelle ipotesi di videoriprese eseguite in luoghi non riconducibili al concetto di domicilio, ma comunque meritevoli di tutela ai sensi dell’art. 2 Cost., vi è la necessità di un provvedimento autorizzativo del pubblico ministero o del g.i.p. affinché risulti effettivo quel «livello minimo di garanzia» cui la stessa Corte delle leggi ha fatto più volte riferimento (37). Tale modus operandi viene ripreso dal filone giurisprudenziale in oggetto per sostenere l’utilizzabilità delle dichiarazioni registrate solo in presenza di un provvedimento autorizzativo, ancorché diverso da quello di cui agli artt. 266 ss. c.p.p. Le registrazioni fonografiche così eseguite, infatti, incidono certamente sul diritto alla segretezza tutelato dall’art. 15 Cost. producendo, tuttavia, un livello di intrusione minore nella sfera di libertà del singolo rispetto a quanto è dato rilevare nel caso delle intercettazioni. In questo senso, la tesi da ultimo ricordata sembrerebbe accogliere quell’impostazione dottrinale minoritaria, di cui si è detto sopra (38), che già da tempo metteva in risalto come nell’ipotesi della registrazione fra presenti vi fosse una lesione, oltre che della riservatezza, anche della segretezza tutelata dall’art. 15 Cost. Ma è proprio con riguardo a tale ultimo aspetto, indubbiamente positivo, che parte della dottrina (39) ha obiettato come, sep-

(33) Cfr. Cass. Sez. Un. 28 marzo 2006, n. 26795, cit.

pur le premesse in ordine alla violazione della segretezza delle comunicazioni siano da condividere, la soluzione a cui giunge l’interpretazione giurisprudenziale appare comunque lesiva dell’art. 15 Cost. A ben vedere – si sostiene – «occorreva, comunque, inferirne la illegittimità dell’operazione, dal momento che la norma costituzionale impone non solo l’obbligo del provvedimento motivato dell’organo giurisdizionale, ma anche (e soprattutto) l’espressa previsione di legge» (40). La registrazione fra presenti eseguita su impulso della polizia giudiziaria, secondo quest’ultima esegesi, indipendentemente dalle modalità di ascolto (in diretta o in differita), dovrebbe essere ricondotta nella disciplina delle registrazioni ambientali (41). Orbene, l’errore interpretativo in cui incorre la sentenza in commento sembra trovare la sua spiegazione proprio all’interno di un ulteriore passaggio della medesima pronuncia. Nel par. 2.1.5 il giudice di legittimità, infatti, pare non cogliere a pieno la tripartizione del contrasto sopra brevemente illustrato, in quanto pone in contrapposizione due pronunce che, a ben vedere, si occupano di fattispecie concrete differenti fra loro. Da un lato, richiama la prima delle tesi giurisprudenziali sopra esposte e, dall’altro, riferisce dell’orientamento giurisprudenziale volto a qualificare come vere e proprie intercettazioni tutte quelle ipotesi nelle quali la registrazione avviene d’intesa con polizia giudiziaria e mediante ascolto contestuale. Completamente ignorato, da parte del giudice di Cassazione, è l’orientamento intermedio ed attualmente maggioritario. Peraltro, quest’approssimazione ricostruttiva si riflette anche nel paragrafo successivo (2.1.6) allorquando si precisa che «il fatto verificatosi, alla luce della sua reale dinamica, non può farsi rientrare nella casistica della documentazione di un atto di indagine, come tale sottoposto al regime autorizzatorio degli artt. 266 ss. cod. proc. pen.». Ora, come si è già avuto modo di ricordare, laddove la registrazione fra presenti sia qualificata come documentazione di un atto di indagine (circostanza, quest’ultima, oggetto del contrasto) la giurisprudenza non richiede il regime autorizzatorio degli artt. 266 ss. c.p.p., bensì ritiene sufficiente un mero decreto autorizzativo del pubblico ministero. Affermare, pertanto, che «la documentazione di un atto di indagine» è, come tale, «sottoposta al regime autorizzatorio degli artt. 266

(34) Cfr. Cass. 20 marzo 2015, n. 19158, cit.  (35) Cfr. Corte cost. 3 novembre 2009, n. 320, in Dejure.  (36) Così, Cass. 11 luglio 2017, n. 48084, cit.  (37) Cfr. Corte cost. 26 febbraio 1993, n. 81, in Dejure; Corte cost. 7 luglio 1998, n. 281, in Dejure.  (38) Cfr. supra nota 7.  (39) Angeloni, Note in tema di registrazioni fonografiche, in Giur. it., 2011, 1; Del Coco, Registrazioni audio-video effettuate da un privato su impulso

dell’investigatore, in Le indagini atipiche a cura di Scalfati, Torino, 2019, 3 ss.  (40) Del Coco, Registrazioni audio-video effettuate da un privato, cit., 16. In termini non dissimili, Nicolicchia, I controlli occulti e continuativi, cit., 25.  (41) È la tesi sostenuta da Del Coco, Registrazioni audio-video effettuate da un privato, cit., 18. Nello stesso senso, Angeloni, Note in tema di registrazioni fonografiche, cit., 1.

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GIURISPRUDENZA PENALE ss. cod.proc.pen.» è contrario all’attuale orientamento giurisprudenziale maggioritario. Sennonché, si potrebbe replicare sostenendo che non si tratti di una svista ricostruttiva, bensì di una scelta consapevole: la Corte intenderebbe alludere ad un’interpretazione secondo la quale laddove l’operazione sia concretamente qualificata come documentazione di attività di indagine dovrebbe trovare applicazione, sempre e comunque, la disciplina più garantistica degli artt. 266 ss. c.p.p. Se così fosse, tuttavia, i giudici di legittimità avrebbero dovuto esporre analiticamente le ragioni di una scelta siffatta; attività, quest’ultima, della quale non vi è traccia. 4.1.1. Osservazioni critiche

Tanto osservato, e tornando all’esame della fattispecie concretamente prospettatasi – vale a dire l’ipotesi di un ascolto indiscutibilmente contestuale – la Corte, dopo aver escluso che si possa ricadere nel contrasto giurisprudenziale poc’anzi ricordato, conclude affermando che «la registrazione effettuata […] rappresenta una semplice trasposizione del contenuto del supporto magnetico e costituisce una mera forma di memorizzazione fonica di un fatto storico utilizzabile quale prova documentale» (42). Preliminarmente, si deve osservare come anche rispetto a tale circostanza emerga un palese “strabismo fattuale”: da un lato, nel par. 2.1.6 si sostiene che i carabinieri «registrarono» la telefonata intercorsa tra la vittima ed il reo; dall’altro, nell’affermare il principio di diritto, si precisa che «la registrazione di conversazioni da parte del privato […] vien[e] immediatamente girata alle forze dell’ordine». Delle due l’una: la registrazione è materialmente eseguita dalla vittima oppure dalle forze dell’ordine. Il dato, di per sé irrilevante ai fini dell’individuazione della disciplina applicabile, rende contezza, ancora una volta, dell’approssimazione ricostruttiva della fattispecie concreta che permea l’intera pronuncia. Ma, al di là di questa considerazione, la conclusione alla quale giunge la Corte appare poco convincente. Giova ricordare, infatti, che stiamo ipotizzando un caso in cui la vittima inoltri la chiamata telefonica intercorrente con il presunto autore del reato alle forze dell’ordine, preventivamente allertate, che procedono all’ascolto ed alla contestuale registrazione. Orbene, rispetto a casi di questo tipo la Corte costituzionale ha affermato – nella pronuncia volta a differenziare la disciplina applicabile nelle ipotesi di ascolto contestuale da quelle di ascolto differito – che «anche quando è lo stesso denunciante a sollecitare l’intercettazione ed è quindi quasi sempre partecipe […] gli artt. 266-271

(42) Cfr. par. 2.2 della sentenza in commento.

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cod. proc. pen. debbono trovare applicazione» (43). Parte della giurisprudenza successiva ha fatto proprio il monito della Corte delle leggi ritenendo necessaria l’autorizzazione dell’autorità giudiziaria nel caso in cui taluno, d’intesa con le forze di polizia, registri una conversazione all’insaputa dell’interlocutore permettendo, altresì, l’ascolto contestuale dell’organo inquirente. In simili circostanze, infatti, «sussisterebbe una vera e propria intromissione nella sfera di segretezza e libertà delle comunicazioni costituzionalmente presidiata e si realizzerebbe indirettamente una intercettazione ambientale senza la previa autorizzazione dell’autorità giudiziaria» (44). Invero, anche senza un espresso richiamo alla pronuncia della Corte costituzionale – la cui lettura appare, secondo taluno, alquanto «ostica» (45) – la reiezione della tesi accolta dalla sentenza in epigrafe viene sostenuta da una parte della dottrina attraverso il richiamo alla cd. prova incostituzionale. L’acceso dibattito sul tema è noto (46). Per quel che interessa in questa sede, è sufficiente ricordare che secondo una certa impostazione l’art. 189 c.p.p. non potrebbe operare in quei casi nei quali l’acquisizione della prova avvenga in violazione di diritti fondamentali costituzionalmente garantiti. Cosicché, nell’ipotesi di registrazioni occulte, pur non potendo assoggettare quest’ultime alla disciplina delle intercettazioni, la violazione della doppia riserva di legge e di giurisdizione di cui all’art. 15 Cost. dovrebbe comportare l’inutilizzabilità delle dichiarazioni ai sensi dell’art. 191, comma 1, c.p.p. (47). Senonché, al fine di sostenere l’infondatezza dell’assunto giurisprudenziale potrebbe farsi riferimento anche ad un percorso argomentativo differente. È proprio valorizzando la pronuncia della Corte delle leggi testé richiamata, infatti, che sembra emergere con

(43) Corte cost., 3 novembre 2009, n. 320, cit.  (44) Così, Cass. 24 febbraio 2010, n. 9132, cit. Conforme, da ultimo, Cass. 23 marzo 2016, n. 39378, cit.  (45) Così, Tonini, Manuale di procedura penale, Milano, 2019, 424. Sul punto, altresì, Maggio, Ascolto occulto delle conversazioni tra presenti, in Le indagini atipiche a cura di Scalfati, Torino, 2014, 396 secondo la quale «le postulate differenziazioni fra ascolto “diretto” e “differito” non appaiono del tutto univoche e convincenti».  (46) Per una sintesi delle posizioni dottrinali, con particolare riferimento al tema in oggetto, si vedano Maggio, La registrazione occulta curata da una persona presente al colloquio, in Le indagini atipiche a cura di Scalfati, Torino, 2019, 81-87; Villani, La Corte ribadisce i rapporti tra legalità costituzionale, legalità sostanziale e legalità processuale, in Giur. cost., 2009, 48294833.  (47) In questo senso, Maggio, La registrazione occulta, cit., 83; Giunchedi, Captazioni “anomale” di comunicazioni: prova incostituzionale o mera attività di indagine?, in Proc. pen. giust., 2014, 136-137; Dinacci, L’irrilevanza processuale delle registrazioni, cit., 6; Angeloni, Note in tema di registrazioni fonografiche, cit., 184.


GIURISPRUDENZA PENALE tutta la sua forza l’inattualità di una nozione di intercettazione (quella cd. tradizionale, avallata anche dalla sentenza in commento (48)) che, nella società odierna, non riesce più a garantire un’effettiva tutela dei diritti costituzionali. Con riguardo a tale ultimo aspetto, la crescente evoluzione e diffusione dei mezzi di captazione delle conversazioni, presenti in grande quantità anche negli smartphone di uso quotidiano, induce a riflettere sulla ostinata tendenza a voler valorizzare, sempre e comunque, la terzietà (e clandestinità) del soggetto captante come elemento imprescindibile ai fini dell’integrazione della fattispecie captativa. Com’è stato condivisibilmente osservato, «l’evoluzione tecnologica fa sì che il mezzo utilizzato per la comunicazione (es. un cellulare) si presti a costituire allo stesso tempo un facile e maneggevole mezzo di captazione» (49); prova ne sia, nel caso di specie, la registrazione materialmente eseguita dalla polizia giudiziaria con l’applicazione Call Recorder presente nel telefono di servizio di un carabiniere. I tempi, allora, sembrano maturi per una riflessione in ordine alla possibilità di rendere concretamente operativa quella risalente (e minoritaria), ma quantomai attuale, esegesi dottrinale (50) volta ad includere nel concetto di intercettazione anche tutte quelle ipotesi in cui la captazione avvenga all’insaputa di almeno uno dei partecipanti. Affinché si abbia intercettazione, perciò, non sarebbe necessario che tutti i colloquianti ignorino la presenza del terzo captante. Ebbene, sulla scorta di tali considerazioni si potrebbe sostenere che la tesi in esame debba trovare applicazione tutte le volte in cui il colloquio fra presenti venga contestualmente ascoltato e registrato, esclusivamente, dalla polizia giudiziaria (51). L’assunto si fonda, in primo luogo, sulla presa d’atto della distinzione che sussiste fra il caso in cui la vittima, d’intesa con la polizia, registri un colloquio che viene contestualmente ascoltato da quest’ultima e, viceversa, l’ipotesi di un’intercettazione ambientale. A ben vedere,

(48) Cfr. par. 2.1.5 della sentenza in epigrafe.  (49) Suraci, La nozione “post-moderna” di intercettazioni, cit.  (50) Cfr. Camon, Le intercettazioni, cit., 20-22; Filippi, L’intercettazione di comunicazioni, cit., 20 secondo cui «perché si abbia intercettazione non è necessario che tutti i conversanti o comunicanti ignorino che un terzo è in condizioni di captare il loro messaggio». Più di recente, Del Coco, Registrazioni audio-video effettuate da un privato, cit., 18. Contra, fra i molti, Illuminati, La disciplina processuale delle intercettazioni, Milano, 1983, 35 ss.  (51) Contrario ad un’impostazione di questo tipo sembra essere Giunchedi, Captazioni “anomale” di comunicazioni, cit., 136 secondo il quale l’ipotesi in esame non soddisfa i tre requisiti «unanimemente riconosciuti» per l’integrabilità della fattispecie captativa, difettando la terzietà di colui che esegue l’intercettazione. Nello stesso senso D’Alessio, Osservazioni a Cass. pen., Sez. IV, 11 luglio 2017, n. 48084, in Cass. pen., 2018, 2937 per il quale «le due fattispecie [in esame] non sembrano essere assimilabili».

infatti, nel primo caso l’organo inquirente non può essere definito come terzo assolutamente estraneo rispetto ai dialoganti, poiché «l’operazione [è] effettuata di nascosto, ma non all’oscuro di tutti: la collaborazione di uno dei colloquianti si rivela infatti indispensabile, e il suo comportamento sarà comunque influenzato dalla conoscenza dell’attività investigativa in corso» (52). Tuttavia, l’impostazione potrebbe essere criticata nel momento in cui finisce per operare un’ingiustificata differenziazione fra il caso in cui l’estraneo al colloquio, che capta il segnale per volontà della vittima, sia un agente di polizia giudiziaria, dall’ipotesi nella quale il soggetto esterno sia un terzo qualunque. La censura, a tutto concedere, non sarebbe comunque fondata. Indipendentemente dalla lettura che si intenda offrire dell’art. 15 Cost., infatti, l’art. 8, comma 2, CEDU stabilisce che, di regola, la riservatezza della vita privata non può essere limitata dall’ingerenza di «un’autorità pubblica». A questo proposito, la Corte di Strasburgo, già da tempo, ha precisato che la registrazione fra presenti gestita dagli organi investigativi costituisce un’indebita ingerenza nella vita privata dei cittadini, salvo che tale limitazione sia prevista dalla legge e sia necessaria per la tutela, fra le altre, della pubblica sicurezza (53). Ora, benché il terzo “comune” e la polizia giudiziaria debbano essere entrambi qualificati alla stregua di soggetti “formalmente” terzi rispetto alla captazione, non sfugge tuttavia che l’art. 8 CEDU, così per come interpretato dalla Corte, consenta di creare una «“speciale riservatezza” opponibile solo alla polizia giudiziaria» (54). Di talché, la distinzione – asseritamente illegittima – si giustificherebbe proprio alla luce della circostanza che il terzo captante si identifica con «un’autorità pubblica». Ma non è tutto. La reiezione della soluzione offerta dalla sentenza in commento riguarda anche un ulteriore passaggio, diverso ma strettamente legato a quanto detto poc’anzi, nel quale si afferma che «nulla sarebbe cambiato se i carabinieri, dopo aver ascoltato (legittimamente) la telefonata, si fossero limitati a verbalizzare quanto ascoltato» (55). Orbene, pur essendo evidente che nell’ipotesi alternativa prospettata dalla Corte – la cd. prova di resisten-

(52) Così, Milani, Ancora irrisolto il problema della riconducibilità delle captazioni operate dall’agente attrezzato per il suono, cit., 4841.  (53) Cfr., tra le tante, C. eur. dir. umani 10 febbraio 2009, Iordachi c. Moldavia, in Cass. pen., 2009, 4021 con nota di Balsamo, Intercettazioni: gli standards europei, la realtà italiana, le prospettive di riforma.  (54) Così Leo, Necessario il provvedimento autorizzativo dell’autorità giudiziaria per il ricorso al cd. agente segreto attrezzato per il suono, in Dir. pen. cont. - Riv. Trim-, 2016, 166.  (55) Cfr. par. 2.2 della pronuncia in commento.

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GIURISPRUDENZA PENALE za – la polizia giudiziaria ricopra un ruolo meramente “passivo”, in quanto si limita all’ascolto senza registrare, non può tuttavia essere sottaciuto come la mera verbalizzazione costituisca un’attività di indagine atipica sottoposta, volendo seguire l’orientamento giurisprudenziale attualmente maggioritario – ma ignorato dalla sentenza in esame – a quel regime autorizzatorio “ridotto” cui si è fatto cenno. Per vero, una certa dottrina ha osservato come attività di questo tipo, eseguite in assenza di un’autorizzazione da parte dell’autorità giudiziaria, debbano ritenersi utilizzabili esclusivamente quali spunti investigativi. Le informazioni così acquisite, si è osservato, «dovranno essere oggetto di approfondimenti, riscontri e verifiche ulteriori attraverso strumenti, tipizzati dal legislatore, che consentano di soddisfare le esigenze investigative senza creare pregiudizio alle garanzie dei diritti fondamentali» (56). Ad ogni modo, indipendentemente dall’accoglimento della tesi giurisprudenziale ovvero dell’esegesi dottrinale, l’assunto fatto proprio dalla sentenza in commento desta non poche perplessità: l’attività di mera documentazione, a ben vedere, differisce non poco dalla registrazione del colloquio operata dalla polizia giudiziaria d’intesa con la vittima e contestualmente all’ascolto.

4.2. La registrazione sua sponte nel corso del procedimento

Occorre adesso analizzare la seconda ipotesi che si potrebbe essere concretamente verificata nel caso di specie – data l’assoluta ambiguità della pronuncia – vale a dire il caso in cui la vittima abbia utilizzato un proprio strumento (lo smartphone), ma senza alcuna preventiva intesa con la polizia giudiziaria. In premessa, merita di essere condiviso l’orientamento giurisprudenziale che ritiene viziata da una «consequenzialità [il]logica» l’affermazione di quanti sostengono che «poiché la polizia giudiziaria era a conoscenza dei fatti per avere ricevuto la denuncia [da parte della persona offesa], essa abbia necessariamente concordato e coordinato le successive registrazioni effettuate dalla vittima con il proprio cellulare» (57). La mera presentazione di una denuncia-querela, infatti, non è sufficiente per escludere l’ipotesi di una registrazione eseguita, nel corso del procedimento, dalla persona offesa di sua libera iniziativa. Ciò detto, è evidente che anche il colloquio così strutturato possa essere ascoltato dagli inquirenti in diretta ovvero in differita. Nel caso di specie, come già osservato, è pacifico che l’ascolto sia avvenuto con la prima modalità.  (56) Colamussi, Comunicazioni a distanza apprese dall’inquirente, cit., 58.  (57) Così, Cass. 22 gennaio 2013, n. 6339, in Dejure.

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Orbene, applicando le stesse argomentazioni utilizzate nell’ipotesi precedente (cioè nella registrazione d’intesa) si potrebbe concludere nel senso che anche qualora la registrazione sia effettuata sua sponte dalla vittima nel corso del procedimento, la polizia giudiziaria «continua a rimanere, comunque, un soggetto che capta segnali» (58) e ciò, a ben vedere, sarebbe sufficiente a procedimentalizzare l’operazione. Infatti, pur in assenza di un iniziale accordo tra la vittima e l’organo investigativo, nel momento in cui il colloquiante “chiama in causa” la polizia consentendole di ascoltare in diretta la conversazione, non v’è dubbio che l’atto assuma, comunque, una valenza procedimentale. A questo punto, due sembrano essere le soluzioni astrattamente prospettabili. Per un verso, valorizzando ed implementando l’orientamento giurisprudenziale attualmente maggioritario (cd. intermedio), si potrebbe affermare che, pur in assenza di un accordo iniziale, la vocazione procedimentale “sopravvenuta” dell’atto in questione imponga, comunque, la necessità di un provvedimento autorizzatorio, seppur diverso da quello di cui agli artt. 266 ss. c.p.p. Per altro verso, laddove si ritenga di aderire a quell’impostazione volta a mutare radicalmente il concetto di intercettazione, si dovrebbe concludere nel senso che anche in questo caso l’assenza del decreto ex art. 267 c.p.p. importi l’inutilizzabilità delle dichiarazioni apprese nel corso del colloquio registrato.

5. Brevi considerazioni conclusive

Ciò che appare oltremodo evidente dalla lettura della pronuncia in commento è l’assenza di una ricostruzione chiara e precisa circa l’andamento dei fatti. Tutto ciò si riflette sulla corretta individuazione della disciplina giuridica applicabile, tant’è vero che il principio di diritto enucleato dal giudice di legittimità appare del tutto slegato dalla fattispecie concreta che ne dovrebbe costituire il substrato argomentativo (59). Cosicché, in presenza di una massima avulsa dal contesto fattuale di riferimento, la sentenza in epigrafe sarà destinata ad essere “inutilizzata” nelle aule dei tribunali; ed in effetti, il magistrato o l’avvocato che intenda servirsene si troverà a doversi confrontare con una fattispecie, in concreto, non identificabile. Ma vi è di più. L’attività nomofilattica della Suprema Corte si fonda, essenzialmente, sui principi di diritto enunciati dalle varie pronunce. Questi ultimi vengono comunemente de (58) Così, Suraci, La nozione “post-moderna” di intercettazioni, cit.  (59) Nello stesso senso, Chelo, Colloqui privati e intercettazioni telefoniche, cit., secondo la quale «emerge, dunque, un evidente contrasto tra le premesse contenute nel richiamato principio di diritto e la decisione assunta nel caso concreto».


GIURISPRUDENZA PENALE finiti come la «generalizzazione della interpretazione ed applicazione della norma ad una fattispecie concreta»; infatti, una volta individuata quest’ultima, il giudice, mediante un percorso argomentativo volto a giustificare l’esegesi utilizzata, ricava una regola capace di «universalizzare la decisione individuale» (60). Ora, il presupposto implicito per procedere a tale “universalizzazione” – in assenza della quale «le pronunce non sarebbero mai destinate ad essere applicate con certezza nel futuro» (61) – è che la massima giurisprudenziale si riferisca a fatti concreti che siano espliciti e chiaramente individuati. Quest’ultima considerazione, a ben vedere, risulta ancora più attuale se si pone l’accento sulla circostanza per cui, negli ultimi anni, stiamo assistendo ad una vera e propria «supplenza legislativa» (62) da parte della giurisprudenza di legittimità. In un sistema come il nostro che tende a valorizzare sempre di più la nomofilachia attraverso il precedente (63), l’individuazione della fattispecie concreta oggetto di causa costituisce l’antecedente logico-necessario per giustificare l’enunciazione di una regola generale applicabile erga omnes. Se così non fosse – come sembra essere avvenuto nel caso di specie – l’enucleazione di quest’ultima risulterebbe viziata all’origine. Da ultimo, mette conto rilevare come la tematica concernente l’utilizzabilità probatoria della registrazione di colloqui fra presenti si inserisca, a pieno titolo, in quel dibattito – molto più ampio – in ordine a ciò che è stato efficacemente definito, a ragione, come «un dato dell’esperienza giudiziaria penale che è da sempre tra i più tormentati […]: l’apporto testimoniale dell’imputato» (64). Dall’analisi della quaestio iuris sottesa alla pronuncia in epigrafe, infatti, emerge chiaramente una tendenza giurisprudenziale incline a valorizzare la figura dell’imputato quale fonte di prova, in un’ottica di irrinuncia-

bilità processuale dell’apporto conoscitivo offerto da quest’ultimo. Sennonché, un simile contegno, com’è stato osservato, rischia di sfociare in un «atteggiamento inquisitorio nei confronti dell’imputato, nei cui riguardi finisce per scolorirsi la garanzia del diritto di difesa» (65).

(60) Cfr., per entrambe le citazioni, De Amicis, La formulazione del principio di diritto e i rapporti tra sezioni semplici e sezioni unite penali della corte di cassazione, in Dir. pen. cont., 4 dicembre 2019.  (61) Si veda, ancora, De Amicis, La formulazione del principio di diritto, cit.  (62) L’icastica espressione è riferibile a Mazza, Conciliare l’inconciliabile: il vincolo del precedente nel sistema di stretta legalità (civil law), in Arch. pen. Suppl., 2018, 731.  (63) In questo senso, si veda il nuovo testo dell’art. 618, comma 1-bis, c.p.p. In argomento, seppur con diverse sfaccettature, Fidelbo, Verso il sistema del precedente? Sezioni unite e principio di diritto, in Dir. pen. cont., 29 gennaio 2018; Insolera, Nomofilachia delle Sezioni unite, non obbligatoria, ma dialogica: il fascino discreto delle parole e quello indiscreto del potere, in Arch. pen. - Suppl., 2018, 733 ss.; Iasevoli, Le nuove prospettive della Cassazione penale: verso l’autonomia dalla Costituzione?, in Giur. it., 2017, 2300 ss.; De Caro, Riflessioni sparse sul nuovo assetto nomofilattico. Le decisioni vincolanti delle Sezioni unite al cospetto del principio del giudice soggetto solo alla legge: un confine violato o una frontiera conquistata?, in Arch. pen. - Suppl., 2018, 749 ss.  (64) Cfr. Giarda, Persistendo ‘l reo, cit., 8.

(65) Così, ancora, Giarda, Persistendo ‘l reo, cit., 8.

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Immagini indebitamente carpite e diffusione sul web: sulla rilevanza scriminante della difesa da “pericolo informatico” Ufficio del Giudice per le I ndagini P reliminari di L atina ; decreto di archiviazione 3 agosto 2020; Gip dott. Giuseppe Molfese; Imp. De Martino Stefano, Rodrigues Maria Belen, Perez Blanco Sorge Sebastian, che richiama integralmente le argomentazioni esposte dal Pubblico Ministero, dott. Carlo Lasperanza, con la richiesta di archiviazione del 5 giugno 2020, di seguito riportata (*). Il discrimen tra il delitto di rapina (art. 628 c.p.) e il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone (art. 393 c.p.) risiede nell’effettiva volontà dell’agente, laddove nel primo caso la violenza è esercitata per la pretesa di un profitto ingiusto che non compete, privo cioè di tutela legale, mentre nel secondo caso, la finalità della violenza è la difesa di un diritto tutelabile (o ritenuto tale), che potrebbe formare oggetto di azione giudiziaria. Infatti, entrambe le condotte potrebbero sovrapporsi sul piano applicativo poiché entrambe potrebbero estrinsecarsi in una azione violenta o minacciosa espletata al fine di ottenere un bene che rientri nella disponibilità del soggetto passivo del reato, di tal che la valutazione del solo elemento materiale non può essere utile a stabilire la linea di confine tra le due figure criminose. Nell’indagine dell’elemento soggettivo del reato risulta rilevante, ai fini della qualificazione della fattispecie nell’art. 393 c.p., la finalità degli indagati di scongiurare un qualsiasi uso di immagini carpite indebitamente e lesive della reputazione e del decoro della persona ritratta, attraverso l’impossessamento, tramite violenza, dei supporti contenti dette immagini, costituendo detta appropriazione l’unico modo per impedirne la diffusione, considerando anche che le stesse immagini avrebbero potuto essere caricate nel web in tempo reale, grazie a quanto consentito dall’attuale tecnica informatica, e che neppure la cancellazione immediata del contenuto dei supporti avrebbe consentito di escludere una possibile pubblicazione delle immagini, posto che con appositi software, facilmente reperibili sul web, possono essere sempre riestratte anche dopo la eventuale formattazione del supporto medesimo.

(*) Motivi della decisione L’imputazione iniziale a carico degli indagati è stata di esercizio arbitrario delle proprie ragioni mediante violenza alle persone, ex art. 393 c.p. oltre che di lesioni ex 582 c.p. Nel corso del giudizio avanti al Tribunale Monocratico, all’esito dell’esame delle persone offese si è ritenuto di qualificare l’imputazione, contestando in luogo del reato di cui all’art. 393 c.p., quello di cui all’art. 628, terzo comma, c.p., alla quale è seguita la restituzione degli atti al P.m., attesa la competenza del Tribunale collegiale che si era venuta a determinare. Di conseguenza è stato notificato agli indagati ed ai loro difensori l’avviso di cui all’art. 415bis c.p.p., contenente la nuova ipotesi accusatoria, come in rubrica indicata. I difensori, nei termini previsti, hanno depositato memorie difensive finalizzate ad ottenere la richiesta di archiviazione, evidenziando punti di criticità della nuova accusa.

In breve sintesi, va detto che il fatto si è svolto tra le acque dell’isola di Palmarola ed il Porto di Ponza ed è consistito nella sottrazione alle persone offese delle macchine fotografiche appena utilizzate per cogliere Maria Belen Rodriguez nell’atto di urinare dopo essersi sporta fuori del natante, ove si trovava insieme agli indagati ed alla sorella Cecilia Rodriguez. Emerge dagli atti, che ritenendo lo scatto inadeguato, il De Martino ed il Perez Blanco, accostarono al natante dei fotografi e vi salirono a bordo per presentare le loro rimostranze. Ne nacque una colluttazione durante la quale i fotografi ebbero la peggio, riportando lievi lesioni personali. Di Martino e Perez Blanco presero le fotocamere e durante il rientro al Proto di Ponza vi estrassero le schede di memoria. Giunti al Proto restituirono subito le apparecchiature ai due fotografi, ma prive delle schede. Dallo svolgimento dei fatti emerge quindi, distintamente, il fine perseguito dagli indagati di scongiurare un

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GIURISPRUDENZA PENALE qualsiasi uso delle immagini indebitamente carpite e non certo quello di appropriarsi di alcunché. La pressoché immediata restituzione delle fotocamere avvalora la tesi. Quanto ai supporti, invece, il fatto che contenessero le immagini in questione deve ritenersi rilevante e dirimente, poiché l’appropriazione degli stessi in quel frangente costituiva l’unico modo per impedirne la diffusione. Tanto è vero che astrattamente avrebbero potuto essere messe sul web, in tempo reale, stante lo state attuale della tecnica informatica. Peraltro, nemmeno la cancellazione immediata del contenuto avrebbe posto al sicuro dalla possibile pubblicazione degli scatti, posto che con appositi software facilmente reperibili sul web, possono essere comunque sempre riestratti, financo dopo la eventuale formattazione del supporto medesimo. Se quest’ultima considerazione verosimilmente il magistrato che fosse stato interessato per l’emissione di un provvedimento d’urgenza avrebbe tolto la disponibilità dei supporti alle persone offese e successivamente decidendo nel merito, ne avrebbe ordinato la distruzione. Dunque, non v’è alcun dubbio sulla effettiva volontà degli indagati di agire nella ragionevole convinzione di difendere un loro diritto. Volontà che emerge chiaramente anche dalle tracce audio versate in atti dalle persone offese ed ascoltate in udienza. Circostanza questa assolutamente dirimente ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 628 c.p., ovvero quello di cui all’art. 393 c.p. posto che nel primo caso, la violenza è esercitata per la pretesa di un profitto ingiusto, che non compete, privo cioè di tutela legale, mentre nel secondo caso, la finalità della violenza è la difesa di un diritto tutelabile, che potrebbe formare oggetto di azione giudiziaria. Vieppiù, in questo caso, è sufficiente che l’autore del reato agisca anche nella sola ragionevole convinzione di difendere un diritto, che pertanto potrebbe poi in concreto non essere gratificato d’accoglimento in sede giudiziale. Dunque, ne deriva che a fronte della possibile comunanza dell’elemento materiale delle due figure criminose, soltanto il differente atteggiamento psicologico dell’agente è idoneo a stabilire il discrimine tra l’una e l’altra. In effetti, entrambe le condotte potrebbero sovrapporsi sul piano applicativo poiché entrambe potrebbero

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estrinsecarsi in un’azione violenta o minacciosa espletata al fine di ottenere un bene che rientri nella disponibilità del soggetto passivo del reato, di tal che la valutazione del solo elemento materiale non può essere utile a stabilire la linea di confine tra le due figure criminose. A tal fine, occorre indagare il coefficiente psichico dell’agente, che nella figura di cui all’art. 393 c.p. è rivolto ad ottenere un diritto che gli competerebbe giudizialmente, mentre nella figura di cui all’art. 628 c.p. è rivolto ad ottenere un vantaggio non riconosciuto dalla legge neanche astrattamente, che si identifica nella consapevolezza di ottenere un profitto ingiusto (così Cass. 23678/2015; Cass. 43325/2007). Orbene, nel caso che ci occupa il fine è palese: evitare la pubblicazione delle immagini. Una pretesa legittima ed assistita concretamente da ampia tutela giudiziale. Gli artt. 10 c.c. e 97, secondo comma, della legge 633/1941 costituiscono le principali norme di riferimento, laddove sottraggono al possessore dello scatto (ritratto) ogni possibile uso dello stesso quanto l’esposizione o la messa in commercio rechi pregiudizio alla reputazione o anche al decoro della persona ritratta, sicché non v’è dubbio che gli scatti che ci interessano avendo sorpreso Maria Belen Rodriguez nell’atto di urinare rientrino in detta tutela. Ciò vale anche tenuto conto della notorietà del personaggio, la cui diffusione delle immagini di regola è senz’altro consentita senza bisogno di consenso, ma solo se non le rechi pregiudizio alla reputazione o al decoro. La tutela è completata dal cosiddetto Codice della Privacy, L. 196/2003 e successive modifiche. Pertanto, in ragione della indiscutibile effettiva intenzione degli indagati nel compiere l’azione, s’impone il ripristino della qualificazione originaria dell’imputazione, ai sensi dell’art. 393 c.p. Di conseguenza, va anche esclusa l’aggravante dei futili motivi di cui all’art. 576 contenuta nel capo B dell’imputazione essendo ontologicamente incompatibile con la figura criminosa di cui all’art. 393 c.p. Ne deriva che, in ragione della remissione della querela intervenuta all’ultima udienza tenutasi avanti al Tribunale Monocratico il 27 gennaio 2020 e della contestuale accettazione, l’azione penale per i reati di entrambi i capi di imputazione, va ritenuta improcedibile.


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IL COMMENTO

di Alessandra Gualazzi Sommario: 1. La vicenda processuale. – 2. Le argomentazioni poste a fondamento della richiesta di archiviazione. – 3. La critica: corrette le premesse, “evitata” la soluzione. – 4. La sussistenza dei requisiti per l’applicazione dell’art. 52, c.p. – 5. Considerazioni finali. Il presente contributo, nell’esaminare la decisione di derubricazione del delitto di rapina in quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone, prende in esame gli elementi valorizzati dal P.m. per la corretta qualificazione dell’elemento soggettivo del reato, ritenuto il discrimern tra i due illeciti. La finalità degli indagati di impedire la pubblicazione di immagini carpite indebitamente, tramite l’impossessamento dei supporti che le contenevano, era infatti espressione della volontà di esercitare un diritto e non, come richiesto per il delitto di rapina, di conseguire un profitto ingiusto. Tuttavia, la portata pregiudizievole di quelle immagini e la consapevolezza delle potenzialità delle moderne tecnologie informatiche, che consentono la pubblicazione e diffusione immediata di contenuti sul web, non sono state sufficienti a indurre il P.m. a ravvisare gli estremi per l’applicabilità della scriminante della legittima difesa che, invece, avrebbero potuto ritenersi sussistenti. The essay, in examining the decision to downgrade the crime of robbery (Art. 628, c.p.) to arbitrary exercise of one’s rights through violence to people (Art. 393 c.p.), analyses the factors highlighted by the prosecutor to correctly qualify the subjective elements of the offence, deemed to be the discrimen between the two crimes. Indeed, the defendants’ aim to prevent the publication of illegally obtained images by the acquisition of their storing devices, showed the intention to exercise a right rather than to acquire an unlawful gain which is one of the characterising elements of robbery. Nonetheless, according to the prosecution, neither the detrimental effect of those images nor the potential of the modern technology leading to the wide dissemination of illegal contents on the Internet, were sufficient to support a claim of self-defence that we consider subsisting.

1. La vicenda processuale

Le considerazioni che seguono prendono spunto dalle argomentazioni svolte dal Pubblico ministero di Latina a fondamento della richiesta di archiviazione nell’ambito di un procedimento penale che vede come indagati due personaggi dello spettacolo, ai quali veniva inizialmente contestato il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, ex art. 393 c.p., con violenza alle persone, insieme al il delitto di lesioni ex art. 582, c.p. Le motivazioni a supporto della richiesta di archiviazione venivano integralmente richiamate e fatte proprie dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Latina il quale, con provvedimento del 31 luglio 2020, emetteva Decreto di archiviazione nei confronti dei tre indagati. I fatti da cui è scaturita l’originaria accusa di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone e di lesioni lievi si svolgevano tra l’isola di Palmarola (arcipelago delle Isole Ponziane) e il Porto di Ponza e vedevano protagonisti, come indagati, tre soggetti di cui due personaggi dello spettacolo all’epoca legati tra loro da un rapporto sentimentale stabile, come persone offese, due fotografi freelancers che si trovavano in quel luogo per carpire immagini dei due personaggi noti in un contesto di “vita privata”. Il contesto in cui si svolgevano le condotte incriminate, infatti, vedeva i due personaggi noti, in compagnia di altri due soggetti (la sorella e il fidanzato della sorella della soubrette), a bordo di un gommone, nei pressi di Palmarola, approdato in una caletta per cercare un po’ di intimità. Durante questa sosta, il compagno della nota soubrette televisiva si accorgeva della

presenza di due soggetti, a bordo di un altro gommone, impegnati a scattare fotografie di nascosto della ragazza nell’atto di urinare sporgendosi dal bordo del natante. Dopo aver inutilmente ingiunto a detti “paparazzi” di consegnare il supporto degli scatti, e ritenendo che gli stessi violassero la riservatezza della persona ritratta, il compagno della soubrette e l’altro uomo in compagnia dello stesso avvicinavano il gommone dei fotografi e, salendovi a bordo, sottraevano le macchine fotografiche ai due “paparazzi”, usando violenza scaturita da una colluttazione dovuta alla resistenza degli stessi nel consegnare i supporti richiesti. L’attrezzatura fotografica veniva poi restituita integra ai fotografi successivamente, al Porto di Ponza, dopo aver disinserito la scheda di memoria contenente gli scatti fotografici “abusivi”, al fine di sottrarla alla loro disponibilità. Come accennato, l’imputazione iniziale rivolta ai tre indagati (i due uomini aggressori, in concorso materiale, e la soubrette in concorso morale) riguardava i delitti di cui agli artt. 393 e 582, c.p. Tuttavia, nel corso del dibattimento avanti il Tribunale monocratico di Latina, all’esito dell’esame delle persone offese, il Pubblico ministero di udienza riteneva di dover riqualificare la contestazione in rapina aggravata (ex art. 628, c. 3, c.p.) in luogo dell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone. Ne conseguiva la restituzione degli atti al P.m., stante la diversa e più garantita competenza del Tribunale collegiale per il delitto di rapina, e la successiva notifica agli indagati e ai loro difensori, per il “nuovo” reato dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari ex art. 415bis, c.p.p.

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GIURISPRUDENZA PENALE A seguito del deposito di memorie difensive da parte dei difensori degli indagati, il Pubblico ministero procedente si determinava per una richiesta di archiviazione con la quale, per le motivazioni che si andranno ad analizzare, concludeva per l’insussistenza degli elementi integranti il delitto di rapina, riqualificando i fatti nell’ambito dello schema di reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni mediante violenza alle persone che, tuttavia, doveva ritenersi improcedibile – insieme al delitto di lesioni – per l’intervenuta remissione di querela dichiarata nel corso dell’ultima udienza del precedente procedimento avanti il Tribunale monocratico.

2. Le argomentazioni poste a fondamento della richiesta di archiviazione

Le motivazioni offerte dal P.m. di Latina nella sua richiesta di archiviazione – integralmente richiamate dal Decreto in commento – concludevano per l’esclusione della sussistenza del delitto di rapina, (ri)affermando la configurabilità del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone (ex art. 393, c.p.), ritenuto comunque improcedibile per remissione di querela. In particolare, l’organo di accusa, partendo dal presupposto della astratta “sovrapponibilità” delle condotte dei due reati  (1), esclude il delitto di rapina avendo riguardo all’elemento soggettivo che richiede, per questo reato, che la violenza sia esercitata con la finalità di perseguire un profitto ingiusto (e, quindi, non dovuto in quanto privo di tutela legale)  (2); diversamente, nel caso di cui all’art. 393 c.p., la finalità della violenza deve individuarsi nello scopo di difendere un diritto tutelabile giudizialmente, o anche nella mera, pur ragionevole,

(1) Il P.m. ritiene, infatti, che sul piano applicativo, le condotte di rapina e di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone possano sovrapporsi, in quanto “entrambe potrebbero estrinsecarsi in una azione violenza o minacciosa espletata al fine di ottenere un bene che rientri nella disponibilità del soggetto passivo del reato, di tal che, la valutazione del solo elemento materiale non può essere utile a stabilire la linea di confine tra le due figure criminose”: così, Richiesta arch. P.m. Latina, p. 2. Negli stessi termini, in argomento, vedi Cass. pen., sez. II, 23 settembre 2008, n. 38517.  (2) Vedi Cass. pen., sez. VI, 1° aprile 2015, n. 23678: “Ciò che distingue l’art. 393 c.p. (esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone) dall’art. 628 (rapina) è l’elemento soggettivo. Nel primo caso, esso consiste nella coscienza dell’agente che l’oggetto della propria pretesa gli competa giuridicamente, mentre nella rapina, l’agente ha la consapevolezza che quanto si pretende non compete e non è giuridicamente azionabile”. Sul punto, la giurisprudenza è costante: Cass. pen., sez. II, 14 dicembre 2016, n. 11484; Id., sez. II, 18 ottobre 2007, n. 43325, in Cass. pen., 2008, 3319; Id., sez. II, 27 febbraio 1997, Marino, ivi, 1998, 1625; Id., sez. V, 25 gennaio 1989, Lucci, ivi, 1990, 1034. Negli stessi termini, con riguardo alla differenza con il reato di violenza privata, si veda Cass. pen., sez. II, 28 giugno 2016, n. 46288, Musa, in Cass. pen., 2017, 1485; Id., sez. V, 16 maggio 2014, n. 23923, Demattè.

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convinzione di difendere un diritto proprio o altrui  (3). Dall’analisi dei fatti  (4) emergeva inequivocabilmente che il fine perseguito dagli imputati, infatti, non era quello di impossessarsi di beni altrui, ma “di scongiurare un qualsiasi uso delle immagini indebitamente carpite” dai due fotografi, al fine di “evitare la pubblicazione delle immagini” ritenute pacificamente lesive della reputazione e del decoro della persona ritratta. Nell’indagare l’effettiva volontà degli indagati, il P.m. compie alcune considerazioni, relative al caso concreto, volte a sostenere la consistenza dell’elemento soggettivo nei termini anzidetti, qualificando conseguentemente la fattispecie in esercizio arbitrario delle proprie ragioni ai sensi dell’art. 393 c.p. L’appropriazione dei supporti fotografici contenenti le immagini pregiudizievoli – osserva il P.m. – “costituiva l’unico modo per impedirne la diffusione”, in quanto astrattamente dette immagini avrebbero potuto essere messe sul web in tempo reale, stante lo stato attuale della tecnica informatica; peraltro – prosegue il P.m. – neppure la cancellazione immediata del contenuto dei supporti avrebbe posto al sicuro dalla probabile (recte: sicura) pubblicazione degli scatti, “posto che con appositi software facilmente reperibili sul web possono essere comunque sempre riestratti, financo dopo l’eventuale formattazione del supporto medesimo”  (5). La tutela giurisdizionale disponibile, in tale ipotesi, sarebbe consistita nell’emissione di un provvedimento di urgenza che avrebbe tolto la disponibilità dei supporti alle persone offese, ordinandone successivamente la distruzione. In sostanza, l’organo di accusa, pur svolgendo corrette considerazioni in merito al pericolo di pubblicazione immediata di immagini “abusive” derivante dalle potenzialità incontrollabili delle nuove tecnologie informatiche, qualifica erroneamente la reazione a tale pericolo come un esercizio “arbitrario” di un diritto ritenuto diversamente (recte: giudizialmente) tutelabile e non, invece, come una difesa immediata e legittima di un diritto, perpetrata di fronte a un pericolo concreto di subire un’offesa ingiusta e irreparabile.

(3) In argomento, si vedano, di recente Cass. pen., sez. II, 11 settembre 2020, n. 26982; Id., sez. II, 15 marzo 2019, n. 22490; Id. 28 giugno 2016, n. 46288.  (4) Le circostanze valorizzate dal P.m. sono, da un lato, il fatto che gli indagati salivano a bordo del natante delle persone offese presentando le proprie rimostranze rispetto all’inadeguatezza degli scatti, dall’altro, il gesto compiuto dagli indagati di estrarre le schede di memoria dalle apparecchiature fotografiche per poi restituire queste ultime ai legittimi proprietari, una volta rientrati nel Porto di Ponza.  (5) Così, Richiesta arch. P.m. Latina, p. 2.


GIURISPRUDENZA PENALE 3. La critica al provvedimento: corrette le premesse, “evitata” la soluzione

La sensazione di chi scrive è che l’organo di accusa, pur avendo svolto a monte un’analisi dei fatti puntuale e rigorosa, non abbia intesto spingersi fino al punto di riconoscere, nella condotta degli indagati, una reazione legittima – l’unica possibile – al concreto pericolo di un’offesa grave alla persona, limitandosi alla derubricazione della fattispecie di rapina nel reato di cui all’art. 393 c.p., non più procedibile – insieme a quello di lesioni – per avvenuta remissione di querela. Si ritiene, infatti, che nel caso analizzato siano rinvenibili tutti i presupposti, di fatto e di diritto, per l’operatività della scriminante della difesa legittima di cui all’art. 52, c.p., in quanto la condotta degli indagati più che finalizzata ad esercitare – seppur in maniera “arbitraria” – un diritto, veniva posta in essere con lo scopo preciso di difendere l’onore e la reputazione della persona ripresa dagli scatti fotografici, scongiurando un’offesa non altrimenti evitabile. Ciò in quanto, come ammesso dallo stesso P.m. nel provvedimento in analisi, la pubblicazione delle immagini indebitamente carpite poteva avvenire in tempo reale e una tutela giudiziale successiva, anche ove attivata tempestivamente, non avrebbe potuto impedire l’immediata diffusione nel web di immagini non solo lesive della riservatezza, ma soprattutto pregiudizievoli per l’onore e il decoro della persona ivi ritratta. In altri termini, difettava, in concreto, il presupposto della “possibilità di ricorrere al giudice” per una tutela del proprio diritto in quanto detto presupposto, come chiarito dalla giurisprudenza, non può ritenersi sussistente ogni qualvolta si sia realizzata una situazione di fatto che risulti idonea – per le sue concrete modalità esecutive – ad ostacolare la tempestiva adozione del provvedimento di tutela da parte dell’autorità stessa  (6). La conferma di quanto qui ipotizzato richiede, da un lato, l’analisi di alcuni presupposti logici (quali la natura e il rango del diritto da difendere; la portata dell’offesa che si vuole evitare con la condotta violenta; l’effettività e l’efficacia dei mezzi “ordinari” di tutela del diritto per scongiurare l’offesa), dall’altro, la verifica della sussistenza dei requisiti giuridici per l’applicabilità della causa di giustificazione della difesa legittima  (7). Con riguardo ai diritti in gioco, che sarebbero stati oggetto di un arbitrario esercizio da parte degli indagati, emerge anzitutto il diritto all’immagine, che – come noto – rappresenta un aspetto del più ampio bene della “riservatezza” della persona nonché una specificazione del diritto all’identità personale.

(6) Così, Cass. pen., sez. VI, 27 gennaio 2011, n. 3014.  (7) Nello specifico: ingiustizia dell’aggressione, attualità del pericolo, necessarietà della difesa, proporzionalità della condotta offensiva.

Il diritto alla riservatezza ha il suo fondamento costituzionale nella disposizione generale dell’art. 2 Cost., essendo ritenuto pacificamente un diritto inviolabile della persona: le fattispecie di tutela specifica della riservatezza si rinvengono, invece, nelle disposizioni costituzionali di cui agli artt. 13, 14, 15, 21, 27, 29, 30, 31, 32 e 41  (8). Sul piano internazionale, i cardini della tutela del diritto alla riservatezza si rinvengono nell’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo  (9), negli artt. 7 e 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea  (10) e nell’art. 17 del Patto Internazionale sui diritti civili e politici (firmato a Ney York il 16 dicembre 1966)  (11). Il diritto alla riservatezza, generalmente inteso, consta di due aspetti, l’uno negativo, da intendersi come non intromissione nella propria sfera privata, l’altro dinamico, da intendersi come potere di controllare in maniera autonoma la diffusione dei propri dati, intervenendo a fronte di comportamenti “abusivi”.

(8) In attuazione delle norme costituzionali, l’ordinamento offre la tutela della riservatezza su diversi piani (civilistico, amministrativo, di protezione dei dati personali), fino a quello penalistico, prevedendo una serie di delitti e contravvenzioni volti a garantire tale diritto soggettivo nei suoi più disparati aspetti. Si pensi, in via esemplificativa, alle norme poste a tutela dell’inviolabilità del domicilio (artt. 614, 615, 615bis, c.p.), a quelle rivolte alla protezione del sistema informatico (artt. 615ter, 615quater, 615quinquies, c.p.) e alla inviolabilità dei segreti (artt. 616-623bis, c.p.), nonché a quelle poste a tutela della libertà sessuale (artt. 600bis, c.p. e ss.). Da ultimo, e non meno importante, la previsione delle fattispecie più specifiche, rispetto alla maggiore sfera della riservatezza, che coinvolgono le lesioni al diritto all’onore e alla reputazione del soggetto offeso (artt. 594 e 595, c.p.) nonché quelle previste dal Codice Privacy, agli artt. 167, 167bis e 167ter, in materia di trattamento illecito di dati personali.  (9) L’art. 8 Cedu dispone, in termini generali, che “ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza”. Per una completa panoramica della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sull’art. 8 Cedu, si veda il documento pubblicato dal Ministero della Giustizia – Direzione generale degli Affari giuridici e legali, Guida all’articolo 8 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo. Diritto al rispetto della vita privata e familiare, del domicilio e della corrispondenza, agg.to al 31 agosto 2018, pp. 30 e ss., in <www.echr.coe. int>.  (10) Le disposizioni rilevanti, previste dalla Carta di Nizza del 7 dicembre 2000, sono essenzialmente l’art. 7 (“Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e delle proprie comunicazioni”) – che prevede diritti corrispondenti a quelli descritti dall’art. 8 Cedu – e l’art. 8 (“1. Ogni persona ha diritto alla protezione dei dati di carattere personale che la riguardano. 2. Tali dati devono essere trattati secondo il principio di lealtà, per finalità determinate e in base al consenso della persona interessata o a un altro fondamento legittimo previsto dalla legge. Ogni persona ha diritto di accedere ai dati raccolti che la riguardano e di ottenerne la rettifica. 3. Il rispetto di tali regole è soggetto al controllo di un’autorità indipendente”), che attiene alla tutela dei dati personali e alla legittimità del loro utilizzo.  (11) L’art. 17 del Patto dell’Organizzazione delle Nazioni Unite dispone: “1. Nessuno può essere sottoposto ad interferenze arbitrarie o illegittime nella sua vita privata, nella sua famiglia, nella sua casa o nella sua corrispondenza, né a illegittime offese al suo onore e alla sua reputazione. 2. Ogni individuo ha diritto ad essere tutelato dalla legge contro tali interferenze od offese”.

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GIURISPRUDENZA PENALE Con riferimento a tale ultimo profilo, per il diritto all’immagine il nostro ordinamento prevede una tutela specifica volta a garantire al soggetto che il suo ritratto non venga diffuso o esposto, in assenza del suo consenso (art. 96, l. 22 aprile 1941, n. 633). Il requisito del consenso, tuttavia, non è richiesto laddove ricorra una delle situazioni descritte dal c. 1 dell’art. 97, l. 633/1941  (12), tra le quali vi rientra la riproduzione dell’immagine giustificata dalla notorietà della persona ritratta: in questo caso, il limite alla tutela del diritto all’immagine si giustifica in considerazione della prevalenza dell’interesse alla divulgazione dell’immagine stessa per la notorietà della persona o per soddisfare l’interesse pubblico alla conoscenza, rispetto all’interesse del singolo a che la propria immagine non sia diffusa  (13). Va da sé che, laddove l’esposizione o messa in commercio (recte: la pubblicazione) dell’immagine di una persona, anche nota, rechi pregiudizio all’onore, alla reputazione o al decoro del soggetto ritratto viene meno l’interesse pubblico di cui si è detto e, pertanto, detta pubblicazione deve ritenersi “abusiva” (c. 2, art. 97, l633/1941). Di “abuso dell’immagine altrui” si parla anche nella disposizione contenuta all’art. 10 c.c., da considerarsi norma integratrice della legge speciale sul diritto d’autore, in quanto disposizione che prevede l’azione a tutela dell’immagine, nel caso in cui la pubblicazione avvenga con offesa al decoro o alla reputazione della persona ritratta  (14): si tratta di una tutela inibitoria, azionabile con la richiesta, ex art. 700 c.p.c., di emissione di un provvedimento d’urgenza in via cautelare per la cessazione dell’abuso, ove vi sia la possibilità o il pericolo della continuazione o ripetizione dell’illecito. Le norme fin qui citate concorrono tutte alla tutela del diritto all’immagine su un piano strettamente civilistico: l’azione inibitoria, dunque, rappresenta quella possibilità di ricorrere al giudice che, colui che commette il delitto di “ragion fattasi” sceglie di bypassare, esercitando autonomamente e arbitrariamente il diritto riconosciutogli dall’ordinamento. Dopo aver affermato la natura pregiudizievole delle immagini scattate dai fotografi – con la conseguente applicabilità delle norme in materia di diritto d’autore – l’organo di accusa ravvisa, dunque, la configurabilità della

fattispecie di cui all’art. 393 c.p., dando evidentemente per scontata la sussistenza del presupposto del reato della possibilità di ricorrere al giudice, intesa però da lui (solo) come generale sussistenza di un’azione a tutela del diritto. Infatti, la conclusione del P.m. (configurabilità della fattispecie di cui all’art. 393 c.p.) appare del tutto in contraddizione con le (corrette) affermazioni svolte in merito alla sostanziale non effettività di una tutela attuata per vie giudiziali e alla impossibilità di impedire la diffusione delle immagini, se non attuando la condotta di impossessamento dei supporti fotografici perpetrata dagli indagati  (15). Il problema della consistenza del pericolo a cui le nuove tecnologie informatiche espongono costantemente la reputazione di una persona viene, invero, affrontato – indirettamente – dall’organo di accusa laddove ammette che la condotta di appropriazione, anche con la violenza, dei supporti contenenti gli scatti fotografici “abusivi” costituiva “l’unico modo per impedirne la diffusione”: tuttavia, a tali corrette premesse, non si fa conseguire la corretta soluzione giuridica. Infatti, ove si riconosce che gli attuali strumenti informatici consentono la pubblicazione immediata di immagini (e non solo) sul web, senza alcun controllo preventivo in merito alla loro potenzialità offensiva, si deve necessariamente escludere che il ricorso ad una tutela giudiziale sia davvero in grado di evitare il pregiudizio alla reputazione e che, quindi, gli indagati avessero concretamente la possibilità di percorrere la strada della tutela giudiziale. In altri termini, se è vero che la possibilità di ricorrere al giudice esiste (in quanto prevista dall’ordinamento) ed è in grado di consentire l’esercizio di un diritto costituzionalmente garantito, non può dirsi che il ricorso ad un giudice civile, nel caso di specie, sia in grado di evitare l’offesa ad un bene di rango costituzionale quale quello dell’onore e della reputazione. E’ necessario chiedersi, cioè, se, nel caso in cui il ricorso all’A.G. non garantisca la tutela “primaria” (consistente nell’impedire la pubblicazione e la conseguente immediata diffusione, delle immagini e nell’ottenere la cancellazione definitiva delle stesse dal web), ma solo quella “secondaria” (risarcimento del danno), si possa davvero rimproverare, al soggetto che teme un’offesa imminente e irreparabile, una reazione difensiva, anche violenta, volta ad impedire la commissione del delitto di diffamazione aggravata

(12) Si tratta dei casi in cui “la riproduzione dell’immagine è giustificata dalla notorietà o dall’ufficio pubblico coperto, da necessità di giustizia o di polizia, da scopi scientifici, didattici o culturali, o quando la riproduzione è collegata a fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico”.  (13) Così Gutierrez, La tutela del diritto d’autore, Milano, 2008, 206.  (14) In materia di tutela contro la pubblicazione abusiva dell’immagine, quando arrechi pregiudizio al decoro e alla reputazione, si vedano, per tutte, Cass. civ. III, 27 agosto 2015, n. 17211 e sez. I, 29 settembre 2006, n. 21172.

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(15) Il P.m., nella sua richiesta di archiviazione (p. 2), osserva in merito: “Quanto ai supporti, invece, il fatto che contenessero le immagini in questione deve ritenersi rilevante e dirimente, poiché l’appropriazione degli stessi in quel frangente costituiva l’unico modo per impedirne la diffusione. Tanto è vero che astrattamente avrebbero potuto essere messe sul web, in tempo reale, stante lo stato attuale della tecnica informatica”.


GIURISPRUDENZA PENALE con la diffusione incontrollata di immagini pregiudizievoli sul web  (16). Non può negarsi, infatti, che la possibilità di pubblicare immagini digitali in tempo reale, l’impossibilità di cancellare un’immagine diffusa nel web (specialmente in siti particolari e “oscuri”), i brevissimi tempi di diffusione dei contenuti pubblicati e la loro riproducibilità su siti Internet anche non soggetti alla giurisdizione italiana – soprattutto quando si tratti di personaggi noti dello spettacolo che attraggono la curiosità morbosa del pubblico – e la possibilità di recuperare le immagine, tramite l’uso di specifici software anche laddove cancellate dai supporti, siano tutti elementi che conducono alla prefigurazione, nell’agente, di un pericolo concreto e imminente di una consumazione pressoché immediata del delitto di diffamazione aggravata, in quanto non è discutibile l’esistenza del rischio di un’imminente compromissione della reputazione (intesa anche come lesione al decoro) della persona ritratta in gesti di estrema intimità con il proprio corpo, come quello di urinare  (17). Non si comprende, allora, la ragione per cui l’organo di accusa si sia limitato a valutare la condotta degli indagati unicamente come esercizio di un diritto (diritto all’immagine) e non, invece, anche come un agere volto a scongiurare l’offesa di un bene giuridico inviolabile, quale è quello dell’onore e reputazione. Si consideri, infatti, che la disciplina dettata dalla legge sul diritto d’autore e dal codice civile è posta a tutela del (solo) diritto all’immagine, mentre la protezione dell’onore e del decoro della persona viene garantita dall’ordinamento con la sanzione prevista dall’art. 595 c.p., per il delitto di diffamazione.

(16) Come è noto, infatti, la dottrina e la giurisprudenza concordano nel ritenere applicabile l’aggravante di cui al c. 3, art. 595 c.p. di pubblicazione sul web di immagini offensive dell’altrui reputazione, rientrando il mezzo Internet tra le ipotesi di “qualsiasi altro mezzo di pubblicità”: ciò in quanto si ritiene che le immagini riversate nei siti web possono ritenersi divenute di pubblico dominio visto che l’accesso agli stessi è solitamente libero e frequente, sicché la fruibilità dei dati è assicurata ad un numero elevato di utenti: così Macrillò, Presunzione iuris tantum di pubblicazione e prova del delitto di diffamazione con il mezzo della rete telematica, in Dir. Internet, 2007, 167. In giurisprudenza, si vedano, per tutte: Cass. pen., sez. V, 23 gennaio 2017, n. 8482, in Guida dir., 2017, 12, 88; Id., sez. V, 14 novembre 2016, n. 4873, in Riv. pen., 2018, 171; Id., sez. V, 1° luglio 2008, n. 31392, in Dir. informatica, 2008, 808.  (17) Non v’è dubbio che il diritto ad impedire la diffusione della propria immagine in una situazione di tale intimità, come quella del gesto di urinare, rappresenti, per ciascun individuo in quanto persona, la tutela di un “onore minimo”, che prescinde dalla collocazione sociale del soggetto o dal lavoro che svolge. La lesione di tale “reputazione minima”, a cui può affiancarsi o meno un onore “qualificato” (inteso in senso lato, come il complesso delle condizioni da cui dipende il valore sociale di una persona) dipendente da particolari qualità, è di per sé idonea ad integrare il delitto di diffamazione: parla di “reputazione minima”, Pezzella, La diffamazione. Le nuove frontiere della responsabilità penale e civile e della tutela della privacy nell’epoca delle chat e dei social forum, Torino, 2016, 11.

Di qui, la convinzione di chi scrive che la fattispecie de qua debba inquadrarsi in un’ipotesi di difesa legittima contro un’offesa imminente e non altrimenti evitabile e ciò, in ragione della particolarità degli strumenti informatici attualmente disponibili che consentono di concretizzare un’azione offensiva di un bene inviolabile, quale è la reputazione di un individuo, in tempi brevissimi e con un semplice “click”.

4. La sussistenza dei requisiti per l’applicazione dell’art. 52, c.p.

Come è noto, le cause di giustificazione sono particolari situazioni in presenza delle quali un fatto, che altrimenti sarebbe reato, tale non è perché la legge lo impone o lo consente: nello specifico, il presupposto di applicabilità della scriminante della difesa legittima è la sussistenza di un conflitto di interessi il cui bilanciamento si risolve con la prevalenza dell’interesse ingiustamente aggredito. In questo caso, il fatto lesivo è giuridicamente accettato come autotutela privata per l’impotenza dello Stato a prevenire o arrestare l’ingiusta aggressione a un diritto proprio o altrui  (18): si realizza, dunque, l’offesa in senso naturalistico, ma non in senso giuridico in quanto giustificata. Ebbene, nel caso in cui si versa, l’autotutela perpetrata dagli indagati con l’uso di violenza fisica, strumentale e necessaria all’impossessamento dei supporti contenenti le immagini lesive, si giustificava proprio per la consapevolezza dell’impotenza dello Stato non solo a prevenire l’offesa alla reputazione della persona ritratta, ma anche ad arrestare la permanenza della stessa nel tempo e nei “luoghi”, anche i più oscuri, del web, una volta realizzatasi la pubblicazione. Come è noto, infatti, anche un (successivo) intervento dell’Autorità giudiziaria penale, in sede cautelare, non sarebbe risultato efficacie ad impedire la semplice realizzazione dell’offesa (ovvero, la diffusione potenzialmente planetare delle immagini lesive dell’onore e decoro della soubrette) e non avrebbe, inoltre, assicurato neppure l’interruzione della condotta offensiva (una volta realizzatasi) nel tempo  (19), in quanto il più delle volte gli strumenti a disposizione dell’autorità procedente nazionale per intervenire su server stranieri, in più parti del mondo, non sono concretamente esperibili per la limitatezza dei mezzi di coopera-

(18) In questi termini, Mantovani, Diritto penale, Padova, 2013, 242.  (19) Con riferimento al maggior impatto, sotto il profilo temporale, di una pubblicazione in rete – che consente una fruibilità della notizia o dell’immagine a tempo indeterminato e da parte di un numero indeterminato di utenti – si è parlato di “eternità mediatica” che contraddistingue il web: si veda, Cass. pen., sez. unite, 17 luglio 2015, n. 31022, in Giur. it., 2015, 2003, con nota di Lorusso, Un’innovativa pronuncia in tema di sequestro preventivo di testata giornalistica on line.

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GIURISPRUDENZA PENALE zione giudiziaria  (20). Peraltro, si consideri che, nel caso che qui interessa, la persona ritratta nell’atto di urinare è personaggio di origine straniera, nota anche al di fuori dei confini italiani, e gli scatti effettuati in tale momento di intimità ben avrebbero potuto approdare, ed essere condivisi, in siti web di dubbia moralità e, comunque, “protetti” in quanto non raggiungibili da qualsiasi tipo di intervento della magistratura italiana. Si è già detto della natura del diritto oggetto della difesa da parte degli indagati: si tratta non solo, e non tanto, del mero diritto all’immagine, ma, più ampiamente, del diritto a non vedersi pregiudicata la propria reputazione e il proprio decoro tramite l’abuso di un’immagine carpita indebitamente  (21). Lo stesso P.m., pur richiamando il solo diritto all’immagine, individua quale scopo della condotta degli agenti quello della salvaguardia della reputazione e del decoro della protagonista delle immagini carpite, attraverso l’impedimento alla diffusione e pubblicazione delle immagini pregiudizievoli. Il diritto all’onore viene posto in pericolo, nel caso di specie, tramite la violazione della riservatezza della persona ripresa durante l’atto di urinare nonché delle norme poste a tutela dell’immagine, ove essa sia tale da recare pregiudizio alla reputazione e al decoro della persona ritratta  (22).  (20) In questi termini, con riferimento alle difficoltà che incontra l’A.G. nell’attuazione di misure specifiche di blocco di accesso ai siti e di rimozione dei materiali illeciti dal web, si veda Flor, Sequestro preventivo di siti web e abusiva trasmissione telematica di programmi televisivi. Nota a G.i.p. Trib. Milano (ord.), 07.1.2013, Giud. Ghinetti, in <www.penalecontemporaneo.it>, 15 marzo 2013. Per una panoramica delle problematiche tecniche connesse al sequestro informatico, si segnala anche il contributo di Monti, Casi e problemi sul sequestro informatico anche a distanza, in Il diritto di Internet nell’era digitale, a cura di G. Cassano e S. Previti, Milano, 2020, 955 e ss.  (21) Come è noto, l’espressione “diritto” abbraccia qualsiasi interesse individuale tutelato dall’ordinamento: il diritto all’onore, comprensivo della reputazione e del decoro, viene ricompreso tra i diritti della personalità e trova, dunque, fondamento costituzionale negli artt. 2 e 3 della Costituzione, nonché tutela specifica nelle norme del codice penale di cui agli artt. 594 e 595.  (22) Il P.m. richiama, seppur genericamente, a completamento della disciplina a tutela del diritto all’immagine, le disposizioni in materia di privacy, oggetto di recente modifica, a seguito dell’entrata in vigore del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del consiglio adottato il 27 aprile 2016, divenuto operativo il 25 maggio 2018. Il Decreto di adeguamento al Regolamento (UE) 2016/679 (Decreto legislativo 10 agosto 2018, n. 101) ha modificato il Codice in materia di protezione dei dati personali, con previsioni maggiormente garantistiche, in linea con la disciplina europea. La normativa privacy, anche seguito delle recenti modifiche, non ha avuto effetto abrogativo della Legge sul diritto d’Autore e delle altre norme poste a tutela del diritto all’immagine ma, al contrario, con le disposizioni in materia di protezione dei dati personali, il legislatore ha imposto un maggiore livello di attenzione per l’utilizzo dell’immagine – considerata anch’essa “dato personale” ove idonea ad identificare, anche indirettamente, un soggetto (cfr. Autorità Garante per la protezione dei dati personali, Decisione del 15 maggio 2020 e Decisione del 19 febbraio 2002) – introducendo, tra l’altro, alcuni obblighi in capo ai soggetti che raccolgono e utilizzano le immagini per fini professionali. In tema di diritti d’autore e diritti sui dati personali, si veda

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Per quanto attiene alla necessità della difesa, quale requisito oggettivo della scriminante in argomento, è risultato evidente come gli indagati abbiano agito per difendere un diritto altrui, non essendo presente altra alternativa per evitare l’offesa, stante il rifiuto, da parte dei fotografi, di consegnare i supporti contenenti gli scatti. Anche sotto il profilo della c.d. inevitabilità altrimenti  (23), si è evidenziato come non vi fosse altro mezzo, nel caso concreto, per evitare l’offesa: la sottrazione dei supporti, a fronte del rifiuto a consegnarli, si palesava come l’unico modo per evitare la pubblicazione e diffusione delle immagini e la conseguente offesa della reputazione e dell’onore della persona ritratta; per altro verso, la resistenza dei proprietari dei supporti contenenti dette immagini non consentiva altra modalità per realizzare l’impossessamento, se non quella di forzare la situazione con il mezzo della violenza fisica. Si consideri, peraltro, che tale resistenza manifestata a fronte della richiesta di consegna degli scatti rafforzava negli indagati la convinzione dell’inequivocabile volontà dei fotografi di pubblicare dette immagini o, comunque, di farne un uso illegittimo e pregiudizievole per la reputazione e il decoro della persona ritratta. Particolare attenzione richiede, poi, la qualificazione del pericolo dell’ingiusta offesa contro il quale l’agente reagisce: deve trattarsi, come è noto, di un pericolo attuale – quindi non passato né futuro – da intendersi come pericolo incombente, che implica, cioè, che se la situazione creatasi non viene interrotta, essa è destinata a sfociare subito nella lesione. La necessità della difesa, dunque, deve derivare da un pericolo attuale, consistente in una concreta minaccia già in corso di attuazione nel momento della reazione ovvero in una minaccia  (24) od offesa imminenti  (25). Si è già detto, in merito, che gli strumenti dell’attuale tecnologia informatica consentano la pubblicazione immediata delle immagini contenute in supporti digitali, senza necessità di sviluppare obiettivi e offrirli a testate giornalistiche, come accadeva un paio di decadi fa. Si aggiunga, poi, che – come osservato dallo stesso P.m. – la

di recente Servanzi, Le eccezioni e limitazioni relative ai diritti d’autore ed ai diritti sui dati personali, in questa Rivista, 2020, 569 e ss.  (23) Si tratta di un requisito introdotto dalla dottrina, la quale richiede, per la configurabilità della scriminante della difesa legittima, “l’impossibilità del soggetto di difendersi con un’offesa meno grave di quella arrecata”: non basta, cioè “che il soggetto si trovi nella necessità di difendersi, ma occorre che egli non possa evitare l’offesa se non attraverso quel fatto offensivo” (così Mantovani, Diritto penale, Padova, 2013, 263).  (24) Nel senso che una mera minaccia possa integrare un pericolo attuale, Cass. pen., sez. V, 17 maggio 2019, n. 25810, Onnis.  (25) Così Cass. pen., sez. VI, 26 aprile 2017, n. 31598; Id., sez. I, 23 maggio 2013, n. 29481; Id., sez. I, 27 gennaio 2010, n. 6591, Celeste, in Cass. pen., 2011, 569.


GIURISPRUDENZA PENALE stessa cancellazione delle immagini avrebbe consentito comunque il loro recupero tramite appositi software e, pertanto, neppure obbligare i fotografi alla cancellazione delle stesse avrebbe consentito di evitare l’offesa. Con queste premesse, non può dunque che concludersi per l’affermazione dell’attualità del pericolo. Il pericolo, inoltre, secondo la giurisprudenza, deve essere involontario, il che significa che il soggetto agente (o la persona il cui diritto viene difeso) non debba essersi posto nella situazione di pericolo deliberatamente  (26): il provvedimento del P.m., laddove parla di immagini indebitamente carpite, ammette indirettamente che l’azione di urinare a bordo del proprio gommone veniva compiuta dalla ragazza in un contesto “privato” creato dagli stessi indagati i quali, pur trovandosi in una piccola isoletta pressoché deserta, accostavano il natante in una caletta appartata, mostrando un comportamento volto proprio a ricercare un po’ di riservatezza e intimità. Inoltre, si consideri che detti fotografi venivano solo casualmente colti nell’atto di immortalare la soubrette nel momento di urinare, in quanto detta attività veniva effettuata occultandosi e, proprio l’attenzione degli indagati nell’assicurare intimità alla ragazza, consentiva di accorgersi dell’effettuazione degli scatti. L’ulteriore requisito necessario per una verifica dell’operatività della scriminante della difesa legittima è quello della proporzione tra difesa e offesa. Come è noto, dottrina e giurisprudenza pongono l’accento sia sulla congruità dei mezzi difensivi rispetto a quelli offensivi, sia sul rapporto di valore tra i beni o interessi in conflitto  (27). Il raffronto tra i beni in conflitto va operato non in modo astratto e statico, ma tenendo conto del rispettivo grado di messa in pericolo o di lesione a cui sono esposti i beni dinamicamente confliggenti nella situazione concreta  (28). In ogni caso, non è necessario che il bene difeso prevalga su quello sacrificato, né occorre che tra i  (26) Dottrina e giurisprudenza sono, infatti, concordi nel sostenere che, laddove il pericolo è volontariamente cagionato dal soggetto che reagisce, viene meno il requisito della necessità della difesa o quello dell’ingiustizia dell’offesa: si veda, in argomento, Fiandaca-Leineri, sub Art. 52, in Commentario breve al Codice penale, a cura di Forti-Seminara-Zuccalà, Padova, 2017, 228. In giurisprudenza, si vedano Cass. pen., sez. V, 4 ottobre 2019, n. 47589, F., in Ced Cass. 277154; Id., sez. I, 13 settembre 2017, n. 56330, La Gioiosa, in Ced Cass. 272036; Id., sez. V, 19 febbraio 2015, n. 32381, D’Alesio, in Ced Cass., 265304.  (27) Così Cass. pen., sez. I, 10 novembre 2004, n. 45407, in Cass. pen., 2006, 2176; Id. sez. I, 15 aprile 1999, De Rosa, ivi, 2000, 1951; Id., sez. I, 20 giugno 1997, Sergi, ivi, 1998, 2351; Id., sez. I, 1° dicembre 1995, Vellino, ivi, 1997, 707. Negli stessi termini, più recentemente, Cass. pen., sez. V, 24 settembre 2020, n. 32414; Id. sez. IV, 13 febbraio 2019, n. 9463.  (28) In questi termini si è espressa la dottrina più autorevole: Fiandaca-Musco, Diritto penale. Parte generale, Bologna, 2014, 283; Mantovani, Diritto penale, Padova, 2013, 263; Padovani, voce Difesa legittima, in Dig. Pen., III, 1989, 513.

due beni intercorra un rapporto di equivalenza  (29): l’agente che reagisce all’offesa potrà ledere un bene anche di rango superiore, purché il divario di valore tra i due beni non sia eccessivo. Con riguardo ai criteri di comparazione tra beni eterogenei deve farsi riferimento, da un lato, alle dominanti concezioni etiche, dall’altro, alla valutazione degli interessi umani compiuta dall’ordinamento  (30). Ebbene, è evidente che, in termini assoluti, l’incolumità fisica della persona, messa in pericolo con l’uso della violenza, costituisce un bene di rango superiore rispetto all’onore e alla reputazione di un soggetto, seppure in questo caso, la peculiarità della situazione immortalata nelle immagini scattate sia riconducibile, invero, al generale ambito della dignità umana  (31). In ogni caso, nell’operare il raffronto tra i due beni in gioco, si deve necessariamente verificare anche il grado di messa in pericolo o lesione dell’uno e dell’altro. Nel caso di specie, gli indagati, nell’usare violenza nei confronti dei “paparazzi”, causavano loro delle lesioni lievi (con prognosi di dieci giorni) a seguito della colluttazione avvenuta nel tentativo di superare la resistenza degli stessi alla consegna dei supporti contenenti gli scatti. La “violenza” usata dagli indagati, dunque, non sembra manifestare una reazione ultronea rispetto al fine perseguito, e di ciò ne è riprova la stessa entità delle lesioni (oltre che la preventiva richiesta di consegna dei  (29) Ciò che si richiede non è la prevalenza del bene difeso rispetto a quello sacrificato, né l’equivalenza tra i due beni, infatti l’aggredito può ledere un bene anche di rango superiore, sempreché il divario di valore tra i due beni non sia eccessivo: così Marinucci-Dolcini-Gatta, Manuale di diritto penale. Parte generale, Milano, 2020, 325. In giurisprudenza, si veda per tutte Cass. pen., sez. I, 10 novembre 2004, n. 45407, Podda, in Ced Cass. 200392.  (30) Il fondamento costituzionale del diritto all’onore (comprensivo della reputazione e del decoro) è pacificamente individuato nell’art. 2 Cost., tra i diritti inviolabili dell’uomo, in quanto concernente la sfera intima del soggetto offeso (cfr. Corte cost., 27 marzo 1974, n. 86). La Convenzione europea dei diritti dell’uomo, d’altro canto, considera la “protezione della reputazione” da parte dello Stato quale limite (insieme ad altri) alla libertà di espressione (art. 10, par. 2), profilo che qui non viene in gioco, in quanto appare pacifico che i contenuti dell’immagine in argomento non attengono in alcun modo a profili rientranti nella libertà di espressione dei soggetti coinvolti.  (31) In tema di tutela della “dignità umana”, nel suo più ampio e generale significato, si è detto (Silvestri, L’individuazione dei diritti della persona, in Diritti della persona e nuove sfide del processo penale, Milano, 2019, 31) come essa, essendo premessa dei diritti fondamentali, non sia un diritto fondamentale a sé stante, ma sintesi di tutti i principi e diritti costituzionalmente tutelati e che ogni bilanciamento, pertanto, si iscrive nell’ambito generale della sua tutela. Per questo motivo, la dignità umana “non è bilanciabile, in quanto è essa stessa bilancia sulla quale disporre i beni costituzionalmente tutelati, che subiscono compressioni”: la dignità della persona “è criterio di misura della compatibilità dei bilanciamenti, continuamente operati dal legislatore e dai giudici, con il quadro costituzionale complessivo”. Ne deriva che “sarebbe necessario, in occasione di ogni operazione di bilanciamento, chiedersi se il risultato incide negativamente sulla dignità della persona, o se rimane intatta la sua consistenza”.

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GIURISPRUDENZA PENALE supporti). Dall’altro lato, invece, la lesione della riservatezza determinava, anche per la particolare attività svolta degli agenti (c.d. paparazzi), un’imminente messa in pericolo dell’onore e reputazione della ragazza ritratta nelle immagini “abusive”, che avrebbe potuto causare alla stessa un danno permanente nel tempo e senza confini territoriali. Ciò, evidentemente, per una combinazione di fattori generalmente compresenti in situazioni del genere di cui si tratta, in cui è coinvolta una persona nota (notorietà, curiosità morbosa del pubblico con riguardo alla intimità del personaggio noto, particolarità dell’azione immortalata), ma soprattutto per i particolari strumenti tecnologici e informatici disponibili, ormai, a qualunque soggetto. Alla pubblicazione sul web delle immagini in questione – che può, oggi, avvenire, per mano di chiunque e nell’immediatezza, senza particolare strumentazione informatica – sarebbe seguita una diffusione, potenzialmente planetaria, con una velocità incontrollabile e senza confini territoriali: la reputazione e l’onore del personaggio pubblico, dunque, avrebbe raggiunto un livello di lesione estremamente ampio, dal punto di vista dei soggetti destinatari, con tutte le conseguenze ulteriori determinate dalla possibilità, offerta dal web, di condividere e commentare le immagini, il più delle volte, senza alcun limite alla decenza. In aggiunta a ciò, quale ulteriore elemento sintomatico di un grado di lesione del bene in argomento particolarmente elevato, si consideri che – come accennato – la cancellazione delle immagini dal web, una volta pubblicate, risulta estremamente ardua, stante le difficoltà che gli strumenti giudiziari interni incontrano nell’attuazione dei provvedimenti cautelari reali. In altri termini, come si è già osservato, alla facilità di diffusione di immagini attraverso il mezzo informatico corrisponde la difficoltà di cancellazione delle stesse dalla rete, soprattutto ove dette immagini approdino in deep web sites o dark web sites, in siti pornografici o, comunque, in siti i cui server hanno sede all’estero o extra-Europa. La gravità dell’offesa e, soprattutto, l’irreparabilità della lesione manifestano, dunque, una indiscutibile prevalenza del bene difeso dagli indagati, rendendo legittima la difesa dello stesso anche per il tramite della violenza, sempre che non si sconfini nell’eccesso colposo.

5. Considerazioni finali

In conclusione, si ritiene che, per un caso come quello in analisi, vi fossero gli strumenti giuridici per fornire una corretta risposta alla tutela e al bilanciamento degli interessi in gioco: il provvedimento in commento, peraltro, dimostra una chiara coscienza della natura e portata del pericolo insito nell’utilizzo degli strumenti informa-

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tici, ma palesa allo stesso tempo la mancata iniziativa a servirsi degli strumenti giuridici disponibili per fornire una risposta ad “attacchi” pericolosi e incontrollabili ai diritti fondamentali. L’interprete non deve dimenticare che all’“eternità mediatica” del web può corrispondere l’“eternità dell’offesa” che, nel caso di immagini pregiudizievoli, è di ancor più facile percezione da parte di un numero indeterminato di utenti. Lo strumento Internet attribuisce ai propri contenuti una serie di caratteristiche che rendono inadeguata e non effettiva la risposta giudiziaria: si pensi alla delocalizzazione, che rende difficile indirizzare un provvedimento giurisdizionale ad un competenza territoriale determinata; alla globalizzazione, che impedisce di controllare la diffusione illimitata dei contenuti e determina un’immediatezza degli effetti; alla dematerializzazione, che presenta seri ostacoli per l’apprensione del bene da sequestrare; e, infine, alla facile accessibilità, che determina una potenzialità criminale molto elevata. Spetta, dunque, all’interprete farsi carico di “rafforzare la tutela dei diritti fondamentali alla luce dell’evoluzione della società, del progresso sociale e degli sviluppi scientifici e tecnologici”, come richiesto dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, soprattutto quando sono presenti nell’ordinamento gli strumenti per farlo.


GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA

Banda ultralarga: il Tar boccia i ricorsi contro il Piano Voucher T.a .r. L azio ; sezione terza ter; ordinanza 23 novembre 2020, n. 7239; Pres. Luca De Gennaro; Est. Paola Anna Gemma Di Cesare, Aires (Avv. Guerra, Vannucci Zauli) c. Mise (Avvocatura generale dello Stato) La finalità del contributo previsto dal Piano Voucher non è quella di acquistare i dispositivi ma quella di sostenere la domanda di connessione ad Internet per le famiglie meno abbienti nel momento di emergenza sanitaria

…Omissis… Ritenuto - impregiudicata la questione preliminare relativa alla legittimazione ad agire delle associazioni ricorrenti, che sarà valutata nella fase di merito- ad una prima sommaria delibazione, propria della presente fase che: -la finalità del contributo non è tanto quella di acquistare i dispositivi, ma quella di sostenere la domanda di connessione ad Internet per le famiglie meno abbienti e (art. 1 del D.M. impugnato) nel momento di emergenza sanitaria per l’accesso ai servizi educativi e al lavoro; -la fornitura del solo terminale non realizza l’interesse pubblico perseguito ed è per questo che è stata imposta l’erogazione del contributo tramite l’operatore di rete attraverso la necessaria sottoscrizione di un contratto di connessione a Internet; -peraltro, il D.M. impugnato non impone l’utilizzo di un particolare dispositivo per la connessione, salvo il rispetto delle caratteristiche minime indicate nel manuale operativo INFRATEL né affida all’operatore di rete la scelta di un determinato apparato; -la mancata previsione di due passaggi distinti, uno presso il rivenditore di dispositivi elettronici e l’altro presso l’operatore di rete, non appare in linea con la natura emergenziale della misura, finalizzata ad assicurare, in modo celere, attraverso una procedura semplificata diritti costituzionalmente garantiti (allo studio e al lavoro) nella fase emergenziale; considerato, quanto alla questione di compatibilità della misura con il diritto eurounitario, che: - ai fini della fruizione del contributo, l’art. 7 del D.M. impugnato prevede che il beneficiario possa presenta-

re la propria richiesta presso un “qualsivoglia canale di vendita reso disponibile dagli operatori registrati nell’elenco di cui all’art. 6…”; - la vastità degli operatori di rete (con conseguente variabilità dei dispositivi offerti) e la possibilità per i venditori degli stessi di sottoscrivere accordi commerciali con gli operatori di rete costituiscono circostanze sufficienti ad escludere che possa verificarsi il presupposto della limitazione della libertà del consumatore nella scelta del dispositivo per la fruizione del servizio di accesso ad Internet. Ritenuto, infine - fermo restando la natura assorbente delle considerazioni svolte in merito all’assenza del requisito del “fumus boni iuris”- quanto al “periculum” posto a fondamento della domanda cautelare, che, nell’attuale fase emergenziale, il pregiudizio economico lamentato per le imprese fornitrici e venditrici di dispositivi appare recessivo a fronte dell’interesse pubblico alla sollecita erogazione del contributo in favore delle fasce economicamente più deboli, in modo da consentire loro l’immediato accesso ai servizi digitali per l’esercizio di diritti costituzionalmente garantiti; rilevata, in conclusione, l’insussistenza dei presupposti per l’accoglimento della domanda cautelare; visto l’art. 57 c.p.a., alla luce della novità della questione, le spese di fase sono compensate. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Terza Ter) respinge la domanda cautelare. Compensa le spese della presente fase cautelare. …Omissis…

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IL COMMENTO

di Gianluca Favaro Sommario: 1. Il caso di specie. – 2. Profili di concorrenza ed interesse pubblico ad un generalizzato accesso ad Internet. – 3. Il Piano nel contesto dell’emergenza sanitaria. – 4. I principi di neutralità tecnologica e di neutralità della rete. – 5. Rilevanza costituzionale dell’accesso ad Internet: diritto o strumento di accesso a diritti costituzionali? – 6. Alcuni spunti giurisprudenziali. – 7. Considerazioni conclusive. Il presente contributo prende in esame il contenzioso originato dall’impugnazione da parte di Aires, Ancra e Mediamarket del Piano Voucher, mediante il quale il Ministero dello Sviluppo Economico ha stabilito di erogare un contributo per l’acquisto od il noleggio di personal computer e tablet, unitamente alla fornitura di una connessione ad Internet da parte degli operatori attivi nel settore della telefonia mobile, escludendo dal Piano i rivenditori di elettronica al consumo. This contribution examines the litigation originating from the challenge brought by Aires, Ancra and Mediamarket against the voucher plan through which the Ministry of Economic Development established a contribution for the purchase or rental of Personal computers and tablets together with the provision of an internet connection by operators active in the mobile telephony sector, excluding consumer electronics retailers from the plan.

1. Il caso di specie

Per far meglio comprendere la decisione resa nel caso di specie occorre necessariamente ripercorrere le tappe fondamentali del contezioso in cui la pronuncia interviene. Il Decreto Ministeriale 7 agosto 2020, adottato dal Ministero dello Sviluppo Economico e recante “il Piano Voucher per le famiglie a basso reddito” ha previsto, all’articolo 3, lo stanziamento in favore delle famiglie a basso reddito, aventi un reddito Isee inferiore ai 20.000 euro, di un contributo massimo di 500 euro erogato sotto forma di sconto sul prezzo di vendita dei canoni di connessione ad Internet in banda ultralarga per un periodo di almeno dodici mesi, unitamente alla fornitura dei relativi dispositivi elettronici, tablet e personal computer. Il contributo è erogato, nel rispetto del principio di neutralità tecnologica, per la fornitura di servizi di connettività ad almeno 30 Mbit/s in download a famiglie che non detengono alcun contratto di connettività o che detengono un contratto di connettività a banda larga di base, inferiore ai 30 Mbit/s in download. I tre ricorrenti, Aires (Associazione Italiana Retailers Elettrodomestici specializzati), Ancra (Associazione Nazionale Commercianti Radio Televisione Elettrodomestici e Affini) e Mediamarket, con l’appoggio in giudizio dell’Associazione dei Fabbricanti di Terminali di Telecomunicazione e del Codacons, hanno impugnato il provvedimento adottato dal Ministero con contestuale richiesta di sospensione cautelare. Le doglianze sottese all’impugnativa sono costituite dall’esclusione degli operatori del mercato retail dalla fruizione del beneficio economico, secondo lo schema delineato da Infratel, società in house del Mise. Il contributo, secondo tale schema, viene erogato congiuntamente alla fornitura di una connessione ad In-

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ternet da parte degli operatori telefonici, determinando l’esclusione dal Piano Voucher dei rivenditori di elettronica al consumo. Il fatto che solamente gli operatori di telecomunicazione possano fornire anche i dispositivi informatici, determinerebbe una distorsione delle logiche del mercato concorrenziale attuata con un finanziamento reso mediante lo stanziamento di risorse pubbliche. L’istanza cautelare è stata giustificata dai ricorrenti alla luce dell’affermata irreparabilità del danno causato alle imprese operanti nel settore della vendita dei prodotti elettronici. Il Tar Lazio ha respinto la richiesta di sospensione cautelare sulla base di alcune importanti considerazioni. Il Collegio ha, in primo luogo, chiarito che la finalità del contributo non coincide con l’acquisto dei dispositivi ma è, al contrario, costituita dall’esigenza di sostenere la domanda di connessione ad Internet per le famiglie meno abbienti, in un contesto di emergenza sanitaria per l’accesso ai servizi educativi e al lavoro. Inoltre, ha ritenuto che la fornitura del solo terminale non sia in grado di realizzare il pubblico interesse perseguito ed è questa la ragione che ha indotto a prevedere l’erogazione del contributo tramite gli operatori di rete e attraverso la necessaria e contestuale sottoscrizione di un contratto di connessione ad Internet. Con l’ordinanza in commento il Tar ha, altresì, sottolineato da un lato, che il decreto ministeriale non impone l’utilizzo di un particolare dispositivo per la connessione; dall’altro, che ai fini della percezione del contributo dispone comunque che i soggetti beneficiari possano presentare la propria richiesta presso uno qualsiasi dei canali di vendita resi disponibili dagli operatori registrati. Alla luce delle suesposte considerazioni, dunque, il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio ha riget-


GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA tato l’istanza cautelare, rinviando la decisione all’esame nel merito della fattispecie.

2. Profili di concorrenza ed interesse pubblico ad un generalizzato accesso ad Internet

L’ordinanza in commento, pur circoscrivendo la sua valutazione ad uno scrutinio prima facie proprio della fase cautelare, fornisce alcune interessanti indicazioni. Il contenzioso, come visto, origina da un conflitto tra diverse esigenze: da un lato i ricorrenti, rappresentanti di categoria, si sono fatti portatori di istanze tese a garantire la tutela di un libero mercato in un regime pienamente concorrenziale; dall’altro, il Ministero ha fatto valere la necessità di fornire in tempi brevi la connessione ad Internet ai soggetti meno coinvolti dal processo di digitalizzazione del nostro paese. In particolare, i ricorrenti hanno dedotto il rischio che dall’adozione del decreto derivino limitazioni alla libertà dei consumatori nella scelta dei dispositivi elettronici oggetto del contributo. Secondo la loro ricostruzione, la circostanza secondo cui sia consentito solamente agli operatori del servizio di connettività di fornire i dispositivi, precludendo tale possibilità a tutti gli altri rivenditori, spiegherebbe effetti distorsivi con pregiudizio dei rivenditori stessi. Un secondo profilo di censura è costituito dal fatto che acquistare i dispositivi direttamente presso i fornitori del servizio di connessione ad Internet richiede un esborso economico maggiore e, al contempo, una scelta più limitata rispetto alle offerte disponibili sul libero mercato. Sarebbe proprio l’accesso al libero mercato, invece, a tutelare le fasce più deboli, alla luce del minore costo di acquisto, soddisfacendo il fine ultimo che il decreto ministeriale intende perseguire. Da tali elementi discenderebbe la paradossale conseguenza che proprio in una fase critica come quella pandemica in atto, la fruizione della banda ultralarga diverrebbe più complicata proprio per la fascia di popolazione che il decreto ministeriale intende tutelare. Tali argomentazioni non sono state accolte dal Tar. Il Collegio, al contrario, ha manifestato la convinzione che la vastità degli operatori di rete (con conseguente variabilità dei dispositivi elettronici offerti) e la possibilità per i venditori di procedere alla sottoscrizione di appositi accordi commerciali con gli operatori Tlc, costituiscano circostanze sufficienti ad escludere che possa verificarsi un effetto limitativo della libertà della clientela finale nella scelta dei dispositivi per la fruizione del servizio di accesso alla rete Internet. Il Tribunale amministrativo, inoltre, ha ritenuto che le esigenze dei rivenditori siano fatte salve dalla previsione contenuta nel D.M. secondo cui i soggetti ammessi al Piano Voucher possono presentare la propria richiesta

presso uno qualsiasi dei canali di vendita resi disponibili dagli operatori registrati. In definitiva, il Tar, pur non disconoscendo l’esistenza di ulteriori e diversi interessi di matrice economico – concorrenziale e di un connesso possibile pregiudizio economico subito dai ricorrenti, ha ritenuto di non dover garantire un pieno bilanciamento (1) tra questi interessi e quello pubblico coincidente con la celere erogazione del contributo, ritenendo che i primi siano recessivi rispetto al secondo.

3. Il Piano nel contesto dell’emergenza sanitaria

Si è visto come il Tar abbia ritenuto che l’interesse economico di cui sono portatori i ricorrenti sia da considerarsi recessivo rispetto all’esigenza di garantire la celere erogazione del contributo. Tale esigenza trova la sua causa nel contesto emergenziale in cui è stato adottato il decreto ministeriale. È lo stesso preambolo del decreto, infatti, a chiarire che nel contesto dell’emergenza sanitaria determinata dal Covid-19, i collegamenti Internet a banda ultralarga costituiscono il presupposto per l’esercizio di diritti essenziali, costituzionalmente garantiti, quali il diritto allo studio, al lavoro, nonché ad assicurare la stessa sopravvivenza delle imprese. È dunque la pandemia da Covid - 19 a fornire legittimità all’intervento del Governo (2). È dello stesso avviso l’AgCom, la quale ha a più riprese affermato la rilevanza sociale dell’accesso ad Internet (3). Tale rilevanza sociale, in grado di giustificare l’adozione del decreto ministeriale, è stata ribadita altresì dalla Commissione europea, che ha dato il suo placet all’intervento del Governo ritenendolo non in conflitto con la disciplina eurounitaria in materia di aiuti di stato (4).  (1) Sandulli, La fase cautelare, in Dir. Proc. Amm., 2010, 1135: “La decisione cautelare, come quella di merito, diventa un delicato problema di bilanciamento dei diversi interessi, legato alla proporzionalità della misura adottata non soltanto tra l’interesse del ricorrente e quello dei suoi legittimi contraddittori, ma anche tra i diversi interessi pubblici coinvolti”.  (2) Il preambolo del D.M. richiama la delibera con la quale il Comitato Banda Ultralarga (CoBul), nel corso della riunione tenutasi il 5 maggio 2020, ha approvato il Piano Voucher, “finalizzato a favorire la disponibilità di connessione ad Internet da parte di famiglie e imprese per supportare immediatamente le esigenze di teledidattica e lavoro agile”.  (3) Cfr. Segnalazione n. S3904 del 1° luglio 2020, nella quale ha affermato che l’erogazione di voucher e dispositivi elettronici per le famiglie poco abbienti è apprezzabile nella misura in cui consente “una rapida diffusione delle reti di telecomunicazione, promuovendo al contempo l’inclusione sociale ed evitando che, soprattutto nel periodo di emergenza, tali soggetti vengano esclusi dalla vita sociale ed economica”.  (4) L’articolo 107, lett. A del TFUE stabilisce che sono compatibili con il mercato interno gli aiuti a carattere sociale concessi ai singoli consumatori, a condizione che siano accordati senza discriminazioni determinate dall’origine dei prodotti.

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GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA L’Istituzione europea ha sostenuto che il Piano delineato dal Governo italiano è finalizzato a soddisfare l’esigenza di garantire alle famiglie a basso reddito la fruizione di servizi di connessione ad Internet, consentendo in tal modo, a tali soggetti, di continuare a godere pienamente dei diritti allo studio, al lavoro, e ad una socialità piena (5). L’esigenza di celerità derivante dal contesto pandemico (e dalle criticità a questo connesse e rilevanti in termini socio-economici) appena descritto è stato tradotto dal Tar nella giustificazione di una impostazione che rende, di fatto, protagonisti del Piano Voucher gli operatori di rete, a discapito di una (pur astrattamente possibile) articolazione del voucher in due importi (come caldeggiato dai rivenditori ricorrenti), alla luce del fatto che “la mancata previsione di due passaggi distinti, uno presso il rivenditore di dispositivi elettronici e l’altro presso l’operatore di rete, non appare in linea con la natura emergenziale della misura, finalizzata ad assicurare, in modo celere, attraverso una procedura semplificata, diritti costituzionalmente garantiti (allo studio e al lavoro) nella fase emergenziale”.

4. I principi di neutralità tecnologica e di neutralità della rete

Uno degli elementi sottesi al percorso logico – giuridico che ha condotto il Tar alla reiezione dell’istanza cautelare, coincide con l’aver escluso che il D.M. impugnato abbia determinato una violazione del principio di neutralità tecnologica. Tale principio, cui fa espresso richiamo l’art. 3, secondo comma (6), è disciplinato dal d.lgs. n. 259/2003 (c.d. Codice delle comunicazioni elettroniche) il quale, all’art. 4, comma 3, lett. h), lo qualifica come non discriminazione tra particolari tecnologie, non imposizione dell’uso di una particolare tecnologia rispetto alle altre e possibilità di adottare provvedimenti ragionevoli al fine di promuovere taluni servizi indipendentemente dalla tecnologia utilizzata (7). Con riferimento alle comunicazioni a mezzo Internet, al principio di neutralità tecnologica si affianca il principio di neutralità della rete (8), alla luce del quale ogni co-

(5) Nello specifico, la Commissione ha affermato che “without the measure the eligible families may face difficulties to bear the costs of acquiring the eligible services”.

municazione elettronica dev’essere oggetto di un eguale trattamento a prescindere dalla qualità dei soggetti, dal contenuto dei servizi e dal dispositivo utilizzato. Il regolamento Ue n. 2015/2120 ha previsto l’introduzione di una disciplina comune al fine di evitare disparità di trattamento nella fornitura dei servizi di accesso alla rete Internet e al fine di tutelare i diritti dell’utenza finale. Il regolamento, più nello specifico, cristallizza un diritto di accesso alla rete al fine di ricevere e diffondere contenuti di informazione, indipendentemente dalla sede dell’utente e del fornitore o della localizzazione e dall’origine e destinazione delle informazioni. Il principio di net neutrality, più nello specifico, garantendo l’accesso ad Internet mediante terminali di propria scelta, fa riferimento agli apparecchi per la connessione via cavo e fibra ottica. I router dotati di modem usati come apparecchi intermedi rientrano nella categoria degli apparecchi terminali. Considerato che il decreto ministeriale stanzia il contributo per l’acquisto di personal computer e tablet e non di modem, sembrerebbe che facesse riferimento più propriamente al principio di neutralità tecnologica in luogo del principio di neutralità della rete (9). Come anticipato poco sopra, il Tar ha escluso che dall’adozione del D.M. derivi una violazione di tale principio il quale, al contrario, sarebbe fatto salvo dalla vastità degli operatori di rete attivi sul mercato, con conseguente variabilità dei dispositivi offerti e dalla possibilità per i venditori di sottoscrivere accordi commerciali con gli operatori di rete.

5. Rilevanza costituzionale dell’accesso ad Internet: diritto o strumento di accesso ai diritti costituzionali?

L’ordinanza in commento offre degli spunti interessanti anche in relazione ad un’altra tematica, coincidente con la possibilità di ricondurre in capo all’accesso ad Internet una forma di rilevanza costituzionale. Il Collegio sembra ricostruire tale accesso in termini ancillari rispetto ad altri diritti di rango certamente costituzionale. Il Tar ha, infatti, ritenuto che il pregiudizio economico lamentato dai ricorrenti debba essere considerato recessivo rispetto all’interesse pubblico ad una sollecita erogazione del contributo in favore delle fasce economicamente più deboli, in modo da consentire

(6) Ai sensi del D.M. “il contributo è erogato nel rispetto del principio di neutralità tecnologica”.

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(7) La necessità che sia rispettato il principio di neutralità tecnologica è stata confermata dalla Direttiva n. 2018/1972 del Parlamento europeo e del Consiglio, con la quale è stato adottato il Codice delle comunicazioni elettroniche.

per garantire un’internet aperta, in <Federalismi.it> – Focus Comunicazione, Media e Nuove Tecnologie, n. 2/2016, 12 e ss.; Interlandi, Neutralità della rete, diritti fondamentali e beni comuni digitali, in <Giustamm.it>, n. 2/2018.

(8) Per un approfondimento si rimanda a Otranto, Net neutrality e poteri amministrativi, in <Federalismi.it>, n. 3/2019; Orofino, La declinazione della net neutrality nel regolamento europeo 2015/2120. Un primo passo

(9) Otranto, Piano voucher del Governo, accesso a internet e diritti costituzionali, (nota a Tar Lazio, sez. III ter, n. 7239/2020), in <Giustiziainsieme. it>.

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GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA loro l’immediato accesso ai servizi digitali per l’esercizio di diritti costituzionalmente garantiti. La formula utilizzata sembra, dunque, confermare che l’accesso ai servizi Internet possa essere, al più, configurabile come strumentale a garantire quei diritti il cui pieno godimento è stato ostacolato dalla crisi pandemica. Il riferimento è al diritto all’informazione, alla corrispondenza, all’istruzione, all’associazione e al lavoro. In dottrina, v’è chi ha definito l’accesso alla rete un diritto sociale, da intendersi quale pretesa soggettiva alla fruizione di prestazioni pubbliche, come l’istruzione o la previdenza (10). In tale ottica, il diritto di accesso ad Internet si sostanzierebbe nella pretesa a veder garantita, mediante il ricorso ad interventi statali atti a ridurre il divario digitale, la possibilità di usare in modo efficace la rete. Ancora, l’accesso ad Internet è stato definito un diritto umano (11). Altri l’hanno inteso come vero e proprio diritto costituzionale (12). Prescindendo dagli autorevoli tentativi di configurare un vero e proprio diritto costituzionale all’accesso ad Internet, occorre sottolineare come non esista una esplicita copertura costituzionale a suffragio di tali ricostruzioni (13). Sarebbe quindi forse più opportuno, ad avviso di chi scrive, vedere in tale accesso un mezzo tramite il quale esercitare delle libertà costituzionalmente orientate. In tal senso, è stato sostenuto che occorrerebbe ragionare in termini non di tutela del mezzo ma di tutela della libertà di fare ricorso al mezzo al fine di poter esercitare i diritti costituzionali quali la libertà di comunicazione, manifestazione del pensiero, associazione ed istruzione (14). Allo stesso tempo, occorre comunque prendere atto del fatto che è possibile ormai qualificare il rapporto tra soggetti privati e Pubblica Amministrazione come un rapporto di identità digitale (15), caratterizzata da una pre (10) Cuocolo, La qualificazione giuridica dell’accesso ad internet, tra retoriche globali e dimensione sociale, in Pol. dir., 2012, 263 e ss., spec. 284.  (11) Borgia, Riflessioni sull’accesso ad Internet come diritto umano, in La Comunità internazionale, n. 3/2010, 395 e ss.  (12) Frosini, L’accesso a Internet come diritto fondamentale, in Pollicino -Bertolini – Lubello (a cura di), Internet: regole e tutela dei diritti fondamentali, Roma, 2013, 69 e ss.  (13) Per una compiuta analisi del tema Otranto, Internet nell’organizzazione amministrativa. Reti di libertà, Bari, 2005.  (14) Bassini, Internet e libertà di espressione. Prospettive costituzionali e sovranazionali, Roma, 2019, 92.  (15) Otranto, Piano voucher del Governo, accesso a internet e diritti costituzionali, (nota a Tar Lazio, sez. III ter, n. 7239/2020), in <Giustiziainsieme. it>.

senza sempre più pervasiva dello strumento di Internet nell’interazione del cittadino con le Amministrazioni. Basti pensare ai contributi previdenziali erogati nel 2020 in seguito a richieste presentate sulle apposite piattaforme on line delle casse previdenziali o, ancora, all’imprescindibilità della connessione ad Internet per lo svolgimento di attività lavorative da remoto. Sono queste le ragioni che dovrebbero indurre il legislatore a porre in essere tutte quelle misure che siano necessarie per garantire un universale accesso alla rete Internet (16), nel rispetto del principio di cui all’art. 3 della Costituzione. Sotto tale profilo, è stato affermato che il principio di uguaglianza, nella sua accezione sostanziale, ben potrebbe essere utilizzato come strumento atto a perseguire la rimozione delle situazioni di discriminazioni di matrice socio – economica, assurgendo a parametro da valutare nell’ottica di una garanzia di Internet che sia funzionale all’esercizio dei diritti di cittadinanza (17). Perseguendo questa strada, si potrebbe giungere alla conclusione che in quanto strumento di godimento di libertà costituzionali, l’accesso ad Internet sia ontologicamente già l’oggetto di un diritto fondamentale a prescindere da una espressa previsione nella Costituzione, potendo contare, di fatto, su una copertura costituzionale, seppur indiretta. Una simile copertura, sostengono alcuni, potrebbe essere rinvenuta nell’articolo 21 della costituzione (18).

6. Alcuni spunti giurisprudenziali

Interessanti indicazioni giungono dalle pronunce con le quali la Consulta è stata chiamata a pronunciarsi sulla rilevanza costituzionale dell’accesso ad Internet. In particolare, nella sentenza n. 307/2004 la Corte costituzionale, in relazione alla dedotta illegittimità costituzionale delle disposizioni con le quali il Governo aveva incentivato l’acquisto di dispositivi informatici in favore di minori e famiglie a basso reddito, ha affermato che occorre individuare la finalità dell’intervento normativo censurato nel garantire la diffusione della cultura tra i giovani e le famiglie, diffusione che è connessa all’interesse generale dello sviluppo della cultura, attraverso lo strumento informatico, il cui perseguimento fa capo

(16) Per un’analisi più approfondita si rimanda a Passaglia, Internet nella Costituzione italiana: considerazioni introduttive, in Nisticò – Passaglia (a cura di), Internet e Costituzione. Atti del convegno, (Pisa 21-23 novembre 2013), Torino, 2014, 1 e ss.  (17) Bassini, op. cit., 289.  (18) Ainis, Il diritto ad Internet che c’è già, la Repubblica, 27 novembre 2020, afferma che “nel blocco di marmo c’è già, in nuce, la figura che verrà scolpita. C’è anche in un angolo della Costituzione, come è il caso del diritto ad Internet. Ma in generale, per vedere l’essenziale, occorre distogliere lo sguardo dal superfluo”.

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GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA alla Repubblica in tutte le sue articolazioni (art. 9 della costituzione), anche al di là del riparto di competenze per materia Stato - Regioni.

7. Considerazioni conclusive

Ad avviso di chi scrive, la fattispecie oggetto del contenzioso sotteso all’ordinanza in commento affronta una questione centrale alla luce delle sfide che la nostra società è chiamata ad affrontare nel periodo post Covid - 19. La questione attiene alla possibilità di garantire un accesso il più universale possibile ai servizi a banda ultralarga di connessione alla rete Internet, basato cioè sullo scambio veloce ed efficiente dei dati e delle informazioni. La centralità è connessa all’imprescindibile esigenza di accelerare il processo di digitalizzazione e informatizzazione del nostro paese. L’Italia, infatti, è uno degli stati che versano in condizioni di maggiore ritardo sotto tale profilo e si caratterizza per una modesta fruizione della banda ultralarga. La diffusione del virus ha costretto in quarantena e al lavoro e allo studio da remoto la maggioranza della popolazione, facendo emergere, in breve tempo, i problemi legati all’inadeguatezza delle abitazioni e delle connessioni alla rete Internet. In un simile contesto, l’Istat ha rilevato che il 33,8% delle famiglie non ha un computer o un tablet in casa. Inoltre, nel 2019, tra gli adolescenti di fascia 14-17 anni ben due su tre mostrano competenze digitali di basso livello. Tali dati si rivelano ancor più marcati nel mezzogiorno, dove il numero delle famiglie non dotate di almeno un personal computer sale al 41,6%. È proprio al fine di fronteggiare quella che può essere definita una vera e propria emergenza digitale che è stato adottato il decreto 7 agosto 2020. In una società che, come visto, si presenta sempre più interconnessa, i sopra descritti divari digitali costituiscono una condizione ostativa in grado di porre a serio rischio una compiuta ed effettiva realizzazione del principio di uguaglianza sancito dall’articolo 3 della Costituzione. Si evince dal digital economy and society index (19) , infatti, che l’Italia è in quart’ultima posizione in Europa a livello di performance digitali. In questo scenario, ricondurre in via definitiva in capo all’accesso ai servizi Internet un valore para - costituzionale costituirebbe un buon punto di partenza per ridurre le disuguaglianze sopra descritte e messe a nudo in questi ultimi mesi.

(19) Si tratta di un indice che misura i risultati in ambito digitale conseguiti dagli Stati dell’Unione europea.

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Potrebbe essere questa la strada per far sì che ampie fasce della popolazione non debbano più essere costrette “ad assistere all’avvento della società dell’informazione passivamente”, scongiurando il rischio che “il futuro diventi un oscuro medioevo digitale per la maggioranza degli uomini: i poveri, i non istruiti, i cosiddetti non necessari” (20). Su questa scia, l’ordinanza in commento, pur senza aver riconosciuto espressamente che tale accesso abbia una chiara copertura costituzionale, nel fare tuttavia riferimento ai diritti costituzionalmente garantiti e tutelati per suo tramite apre importanti scenari, che dovranno essere più approfonditamente valutati sul piano giurisprudenziale e dottrinale.

(20) Rifkin, L’era dell’accesso. La rivoluzione della new economy, 2001, 305, riportato da Otranto, Piano Voucher del Governo, accesso a Internet e diritti costituzionali, (nota a Tar Lazio, sez. III ter, n. 7239/2020) in <Giustiziainsieme.it>.


GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA

Emergenza COVID-19: termine “non perentorio” per il deposito dell’istanza di discussione orale nel processo amministrativo T.a .r. E milia Romagna ; sezione I; decreto 10 novembre 2020, n. 208; Pres. Migliozzi; Facciolini s.r.l. (avv. F. Troilo) c. Consorzio della Bonifica Burana (avv. F. Ventura) e nei confronti di Pro.Lav. s.r.l. (avv. C. Manzo) Il termine di cinque giorni liberi prima dell’udienza per il deposito dell’istanza di discussione orale, previsto dall’art. 25, comma 3, del d.l. n. 137 del 2020, va interpretato come non perentorio.

…Omissis… Visti il ricorso e i relativi allegati; Vista l’opposizione proposta dalla parte ricorrente in data 9 /11/2020 in ordine alla richiesta di discussione da remoto da tenersi all’udienza camerale del 12 novembre 2020 avanzata dalla parte controinteressata, in pari data; Viste in particolare le ragioni di tale opposizione riconducibili a due circostanze: a) l’essere la domanda di discussione da remoto tardiva in quanto presentata nella non osservanza di quanto previsto dall’art. 25 comma 4 del d.l n. 137/2020 secondo cui “l’istanza di discussione orale di cui al quarto periodo del decreto legge n.28 del 2020 può essere presentata fino a cinque giorni liberi prima dell’udienza pubblica”; b) l’essere il difensore della parte ricorrente impegnato nello stesso giorno in udienza (12/11/2020) presso il Consiglio di Stato in discussione da remoto per altre cause dal medesimo patrocinate Rilevato che le ragioni poste a sostegno dell’opposizione non appaiono ostative all’accoglimento della richiesta avanzata dalla parte controinteressata in quanto: 1) relativamente al punto sub a) la norma di cui al comma 4 dell’art. 25 del d.l. n. 137/2020 va interpretata nel

senso che il termine fino a cinque giorni liberi prima dell’udienza non è perentorio; 2) con riferimento al punto sub b) ben può il difensore farsi sostituire all’udienza camerale da altro collega debitamente a ciò delegato. Rilevato altresì che la controversia introdotta col ricorso di cui all’epigrafe involge situazioni e questioni alquanto delicate sia in punto di fatto che di diritto e tenuto altresì conto degli interessi in essa coinvolti, elementi tutti inclinano a far ritenere quanto mai utile la discussione orale sia pure da remoto della causa P.Q.M. IL Tribunale Amministrativo regionale per l’Emilia Romagna sede di Bologna Sezione I ° così dispone: a) Rigetta l’opposizione proposta in data 9 novembre 2020 dalla parte ricorrente in ordine alla istanza di discussione orale da remoto avanzata dalla parte controinteressata; b) dispone la discussione orale da remoto per l’udienza camerale del 12 novembre 2020 della trattazione collegiale dell’incidente cautelare di cui al ricorso n.655/2020 …Omissis…

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IL COMMENTO

di Antonino Mazza Laboccetta Sommario: 1. Il caso. – 2. Brevi considerazioni sul quadro normativo (art. 4 del d.l. n. 28/2020 e art. 25 del d.l. 137 del 2020). – 3. Una normativa emergenziale che condiziona l’oralità del processo. – 4. La regola della “pubblicità” del processo. – 5. I riflessi dell’oralità “condizionata” sul processo amministrativo. – 6. Conclusioni. Il lavoro si propone di esaminare le ragioni e le finalità del termine previsto dal decreto legge n. 28 del 2020 per il deposito dell’istanza di discussione orale della causa. Dopo aver evidenziato i riflessi che la normativa emergenziale produce sui principi dell’oralità e della pubblicità del processo, si conclude nel senso di ritenere il termine non perentorio. La ratio e la finalità sono quelle di garantire l’organizzazione dell’udienza in modalità telematica, e non quella di regolare il contraddittorio. The work aims to examine the reasons and purposes of the term provided for by d.l. no. 28 of 2020 for the filing of the petition for oral discussion of the case. After highlighting the repercussions that the emergency legislation produces on the principles of orality and publicity of the process, it concludes in the sense that the term is not mandatory. The rationale and purpose are to ensure the organization of the hearing electronically, and not to regulate the cross-examination.

1. Il caso

Con decreto n. 208 del 2020 il Tribunale amministrativo regionale per l’Emilia Romagna (1), nell’ambito di una controversia avente ad oggetto l’aggiudicazione di un contratto di appalto, ha rigettato l’istanza con la quale parte ricorrente si opponeva alla domanda di discussione da remoto proposta da parte controinteressata, eccependone la tardività ai sensi dell’art. 25, comma 3, del d.l. n. 137 del 2020 (2). Il Tribunale, per quanto qui interessa, ha rigettato l’opposizione sul rilievo che la norma appena menzionata «va interpretata nel senso che il termine fino a cinque giorni liberi prima dell’udienza non è perentorio». La pronuncia si colloca nell’alveo di un indirizzo giurisprudenziale che si è formato a seguito della normativa emergenziale legata alla pandemia da Covid-19 e diretta ad assicurare, pur tra le difficoltà e gli oggettivi impedimenti dovuti alle misure di contenimento del contagio, la funzionalità del sistema giudiziario (3). Le misu (1) T.a.r. Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, 10 novembre 2020, n. 208, in Diritto & Giustizia, 2020, 12 novembre.  (2) La norma, appena menzionata, prevede, com’è noto, che «l’istanza di discussione orale di cui al quarto periodo del decreto legge n. 28 del 2020 può essere presentata fino a cinque giorni liberi prima dell’udienza pubblica».  (3) C. Stato, Sez. II, 15 maggio 2020, n. 3109, in Diritto & Giustizia, 2020, 19 maggio; T.a.r. Molise, Sez. I, 4 giugno 2020, n. 43, in <http:// www.giustizia-amministrativa.it>. Interessante T.a.r. Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, 5 giugno 2020, n. 102, in Diritto & Giustizia, 2020, 10 giugno, perché offre una lettura coordinata delle disposizioni legislative disciplinanti la trattazione delle istanze cautelari nella sede collegiale della camera di consiglio (d.l. n. 28 del 2020, art. 4; art. 55 c.p.a.), nonché della relativa normativa di applicazione. Una lettura che induce il collegio bolognese ad escludere che la possibilità di replicare fino a due giorni prima della celebrazione della camera di consiglio (art. 55, comma 5, c.p.a.) alla memoria prodotta dalla parte avversaria comporti la preclusione della discussione orale da remoto della causa in sede cautelare, una volta che sia stata presentata domanda di discussione orale; infatti,

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re straordinarie, introdotte in via derogatoria rispetto alle previsioni del codice del processo amministrativo, hanno suscitato anche in dottrina un significativo e, a tratti, vivace dibattito (4), che ha interessato, tra l’altro, la soppressione della «discussione orale» prevista, tra il 15 aprile 2020 e il 30 giugno 2020, dall’art. 84, comma 5, della l. n. 27 del 2020 (5).

l’interesse a sentire le parti ex art. 73, comma 2, c.p.a. è un’opzione assolutamente prevalente rispetto al passaggio in decisione dell’istanza di sospensiva allo stato degli atti, essendo la discussione orale un’incomprimibile estrinsecazione del diritto di difesa; T.a.r. Campania-Napoli, Sez. III, 4 giugno 2020, n. 301, in <http://www.giustizia-amministrativa.it>.  (4) Sandulli, Un brutto risveglio? L’oralità “condizionata” del processo amministrativo, in <http://lamministrativista.it>, 1 maggio 2020; Francario, L’emergenza Coronavirus e la “cura” per la giustizia amministrativa. Le nuove disposizioni straordinarie per il processo amministrativo, in <http://federalismi. it>, Focus – Osservatorio Emergenza Covid-19, 13 marzo 2020; Volpe, Riflessioni dopo una prima lettura dell’art. 84, d.l. 17 marzo 2020, n. 18 in materia di processo amministrativo, in <http://LexItalia.it>, 18 marzo 2020; Id., La ulteriore disciplina emergenziale del processo amministrativo, ivi, n. 5/2020; D’Angiolillo, Prime osservazioni sulle misure derogatorie definite dall’art. 84 del d.l. 17 marzo 2020 n. 18 (c.d. “Cura Italia”) in tema di processo amministrativo “condizionato” dall’emergenza “Covid-19”, ivi, n. 3/2020; Dalfino – Poli, Emergenza epidemiologica da COVID-19 e Protocolli d’udienza: presente incerto e futuro possibile della trattazione delle controversie civili, in <http:// foroitaliano/news>, 7 maggio 2020; Paolantonio, Il processo amministrativo dell’emergenza: sempre più “speciale”, in <http://lamministrativista.it>, 10 aprile 2020.  (5) L’art. 84, comma 5, nella formulazione introdotta in sede di conversione, dalla l. 24 aprile 2020, n. 27, stabiliva che «Successivamente al 15 aprile 2020 e fino al 30 giugno 2020, in deroga alle previsioni del codice del processo amministrativo, tutte le controversie fissate per la trattazione, sia in udienza camerale sia in udienza pubblica, passano in decisione, senza discussione orale, sulla base degli atti depositati, ferma restando la possibilità di definizione del giudizio ai sensi dell’articolo 60 del codice del processo amministrativo, omesso ogni avviso. […]». In dottrina Sandulli, Vademecum sulle ulteriori misure anti-covid19 in materia di giustizia amministrativa: l’art. 84 del decreto “Cura Italia, in lamministrativista.it, 17 marzo 2020; Id, I “primi chiarimenti” del Presidente del Consiglio di Stato sul “Decreto cura Italia”, ivi, 20 marzo 2020.


GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA Com’è noto, la disposizione è stata poi “corretta” dall’art. 4, comma 1, del d.l. n. 28 del 2020 che, a decorrere dal 30 maggio fino al 31 luglio 2020 (6), prevede che le parti possano chiedere la discussione orale della causa con istanza depositata entro il termine per il deposito delle memorie di replica e, per gli affari cautelari, fino a cinque giorni liberi prima dell’udienza, qualunque sia il rito (7). La discussione avviene mediante collegamento da remoto secondo modalità tali da salvaguardare «il contraddittorio e l’effettiva partecipazione dei difensori all’udienza» (8). Ove presentata congiuntamente dalle parti, l’istanza è accolta dal presidente del collegio, mentre negli altri casi è valutata «anche sulla base delle eventuali opposizioni espresse dalle altre parti alla discussione da remoto» (9). La norma soggiunge che, ove il presidente ritenga necessaria la discussione della causa in modalità da remoto, la dispone con decreto, «anche in assenza di istanza di parte». In alternativa alla discussione, le parti possono depositare note fino alle ore 12 del giorno antecedente a quello dell’udienza o del passaggio in decisione dell’affare, e il difensore si intende così presente ad ogni effetto in udienza. Alla luce del quadro normativo così delineato per quanto qui rileva, il decreto del Tribunale dell’Emilia Romagna induce a riflettere, come meglio spiegheremo subito infra, sulla ratio e sulla natura del termine previsto per il deposito della richiesta di discussione orale. Il Tribunale, con il decreto in commento, lo considera non perentorio.  (6) L’art. 25, comma 1, del d.l. n. 137 del 2020 dispone che le misure introdotte nei periodi quarto e seguenti del comma 1 dell’art. 4 del d.l. n. 28 del 2020, convertito, con modificazioni, dall’art. 1 della legge n. 70 del 2020, si applicano altresì alle udienze pubbliche e alle camere di consiglio del Consiglio di Stato, del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana e dei tribunali amministrativi regionali che si svolgono dal 9 novembre 2020 al 31 gennaio 2021 e, fino a tale ultima data, il decreto di cui al comma 1 dell’articolo 13 dell’allegato 2 al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, prescinde dai pareri previsti dallo stesso articolo 13; in dottrina v. De Nictolis, Il processo amministrativo ai tempi della pandemia, in <www.federalismi.it>, 15 aprile 2020; Francario, Diritto dell’emergenza e giustizia nell’amministrazione. No a false semplificazioni e a false riforme, in <http://www.federalismi.it>, 15 aprile 2020; Zucchelli, Sull’udienza telematica, ivi, 13 maggio 2020.  (7) Il comma 3 del d.l. n. 137 del 2000 dispone che «Per le udienze pubbliche e le camere di consiglio che si svolgono tra il 9 e il 20 novembre 2020, l’istanza di discussione orale, di cui al quarto periodo dell’articolo 4 del decreto-legge n. 28 del 2020, può essere presentata fino a cinque giorni liberi prima dell’udienza pubblica o camerale».  (8) In ogni caso, va assicurata, come il legislatore ha cura di precisare, la sicurezza e la funzionalità del sistema informatico della giustizia amministrativa, sia pure nei limiti delle risorse assegnate agli uffici. Il legislatore ha dimostrato così di raccogliere le preoccupazioni sollevate, come vedremo infra, dalla dottrina e dalla giurisprudenza sul c.d. processo cartolare “coatto” introdotto dall’art. 84 del d.l. n. 18 del 2020.  (9) Al riguardo è utile il rinvio a Grasso, Sull’opposizione alla discussione e allegazione documentale alternativa nel regime della oralità mediata eventuale, in <http://www.giustizia-amministrativa.it>.

2. Brevi considerazioni sul quadro normativo (art. 4 del d.l. n. 28/2020 e art. 25 del d.l. 137 del 2020)

Sul piano generale, deve premettersi che il termine perentorio è stabilito dalla legge a pena di decadenza. Di conseguenza, il decorso del tempo preclude (o pone fine al) l’esercizio di un potere o di una facoltà (10). L’art. 152, comma 2, c.c. prevede che i termini stabiliti dalla legge siano perentori solo se tali vengono «espressamente» dichiarati. Detto questo, il termine per il deposito dell’istanza di discussione orale non è “espressamente” previsto come perentorio dall’art. 4, comma 1, del d.l. n. 28 del 2020, tanto nel caso dell’udienza di merito quanto nel caso della trattazione degli affari cautelari. Nella prima ipotesi, è previsto che l’istanza vada presentata entro il termine per il deposito delle memorie di replica, mentre nell’altra «fino a cinque giorni liberi prima dell’udienza in qualunque rito». Neppure il termine di cui all’art. 25, comma 3, del d.l. n. 137 del 2020, applicabile alle «udienze pubbliche e alle camere di consiglio che si svolgono tra il 9 e il 20 novembre 2020», è previsto “espressamente” come perentorio. È vero, però, che la natura perentoria del termine fissato per l’esercizio di un diritto può essere desunta anche in via interpretativa, purché la legge stessa autorizzi tale interpretazione comminando, sia pure implicitamente, ma in modo univoco, la perdita del diritto in caso di mancata osservanza del termine (11).

(10) Giannini, Diritto amministrativo, II, Milano, 1970, 921. Sulla natura del termine in generale Trimarchi, Termine (diritto civile), in Noviss. dig. it., XIX, 1973, 95 e ss.; Di Maio, Termine (dir. priv.) – Talice, Termine (dir. amm.) – Glendi, Termine (dir. trib.), in Enc. dir., XLIV,1992, 187 ss..  (11) In questo senso Cass., Sez. lav., 7 giugno 2018, n. 14840, in Giust. civ., Mass., 2018; Cass., Sez. I, 26 giugno 2000, n. 8680, 2010, ivi, 2000, secondo cui «la natura perentoria di un termine fissato per l’esercizio di un diritto, non espressamente prevista dalla legge, può desumersi anche in via interpretativa, purché la legge stessa autorizzi tale interpretazione, comminando, sia pure implicitamente, ma in modo univoco, la perdita del diritto in caso di mancata osservanza del termine di cui si tratta»; C. Stato, Sez. IV, 12 ottobre 2018, n. 5878, in <http://www.giustizia-amministrativa.it>. A questo riguardo, appare utile un riferimento all’art. 73 c.p.a.. I termini previsti dalla norma non sono previsti espressamente come perentori, ma dalla lettura sistematica del codice se ne ricava la perentorietà: l’art. 54 prevede, infatti, che la presentazione tardiva di memorie e documenti «può essere eccezionalmente autorizzata, su richiesta di parte, dal collegio», purché sia assicurato il diritto delle controparti al contraddittorio su tali atti e qualora la produzione nel termine di legge sia risultata estremamente difficile. Allo stesso modo, l’art. 55, comma 5, non prevede espressamente come perentorio il termine assegnato alle parti per depositare memorie e documenti in vista della camera di consiglio, ma la perentorietà si ricava, sul piano sistematico, sulla base del comma 8 della stessa norma che prevede che il collegio «per gravi ed eccezionali ragioni, possa autorizzare la produzione in camera di consiglio dei soli documenti», a condizione che venga consegnata copia alle parti fino all’inizio della discussione. Sul punto, più ampiamente infra.

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GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA Alla luce di queste precisazioni, va subito rilevato che la norma in esame rimette alla valutazione del presidente del collegio l’istanza di discussione, condizionandola anche alle eventuali opposizioni alla discussione da remoto espresse dalle altre parti. Non solo il presidente del collegio è chiamato a “valutare” l’istanza, ma può persino disporre con decreto la discussione da remoto «anche in assenza di istanza di parte», là dove lo ritenga necessario. In sostanza, la norma consegna al presidente un potere officioso che pare trovare un unico limite, quello cioè connesso all’ipotesi in cui l’istanza venga presentata «congiuntamente da tutte le parti costituite». È l’ipotesi in cui la norma, senza attribuire alcun potere di valutazione, prevede sic et simpliciter che «l’istanza è accolta dal presidente del collegio». Un quadro, quello delimitato dalle norme appena richiamate, che consiglia, come abbiamo brevemente anticipato, di indagare sulla ratio, sulle finalità, sulle specifiche esigenze di interesse pubblico sottese alla previsione del termine stabilito dal d.l. n. 28 del 2020 e dal d.l. n. 137 del 2020 e, ancor più a fondo, di verificare le ragioni per le quali il presidente del collegio non possa comprimere il diritto alla discussione della causa (sia pure) da remoto se tale pretesa sia avanzata congiuntamente da tutte le parti costituite, e possa, invece, farlo quando a presentare l’istanza sia una sola parte. Va anche approfondito il potere officioso di disporre la discussione della causa anche in assenza di istanza di parte, e in quale misura esso trovi giustificazione.

3. Una normativa emergenziale che condiziona l’oralità del processo

L’art. 4 del d.l. n. 28 del 2020 si inserisce nell’ambito della normativa emergenziale. Interessa, in particolare, la giustizia amministrativa ed è finalizzato ad assicurarne il funzionamento, sia pur tra le non poche difficoltà legate all’emergenza sanitaria. Certamente meritevole di apprezzamento è la finalità perseguita dal legislatore. E, tuttavia, la possibilità di celebrare le udienze con modalità di collegamento da remoto non può non suscitare perplessità legate innanzitutto all’assenza dell’oralità intesa come presenza fisica delle parti, in contraddittorio tra loro, davanti al giudice. Senza dire dei rischi legati alla connessione tra le parti e alla riservatezza e alla protezione dei dati, il contraddittorio è inevitabilmente condizionato, oltre che dal necessario e rigido contingentamento dei tempi, dalla “forma” dell’esposizione che, contrariamente a quanto accade nel quadro del collegamento da remoto, si alimenta, nel caso della presenza fisica delle parti e del giudice, di liturgie, di atti solenni, di scambi e di gestualità. Si tratta, in sostanza, di quella gestualità nella quale le parti colgono linguaggi inespressi, avvertono

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sensazioni, percepiscono umori, intuiscono pensieri e orientano, di conseguenza, le proprie strategie difensive. Chiamato a pronunciarsi sulla rilevanza dell’interesse alla discussione orale nel quadro della fase emergenziale, il Consiglio di Stato, con ordinanza n. 2539 del 2020 (12), ha rilevato che, diversamente da quanto accade nel processo penale, il processo amministrativo non è improntato al principio dell’oralità e del «contradditorio in senso “forte”» (13), ben potendo il confronto tra le parti davanti al giudice svolgersi in forma meramente cartolare. Ha, tuttavia, precisato che non è compatibile con un’interpretazione conforme a Costituzione una lettura che, pur nel quadro della normativa emergenziale, propugni il «contraddittorio cartolare “coatto”»: una soluzione di tal segno costituisce violazione dei principi del “giusto processo” (14).

(12) C. Stato, Sez. VI, 21 aprile 2020, nn. 2538 e 2539, in <http:// Il processocivile.it>, 29 luglio 2020, si pronuncia nell’ambito del quadro disegnato dall’art. 84, comma 5, del d.l. n. 18 del 2020, per il periodo che va dal 15 aprile 2020 e fino al 30 giugno 2020. La norma stabilisce che «in deroga alle previsioni del codice del processo amministrativo, tutte le controversie fissate per la trattazione, sia in udienza camerale sia in udienza pubblica, passano in decisione, senza discussione orale, sulla base degli atti depositati», aggiungendo che «le parti hanno facoltà di presentare brevi note sino a due giorni liberi prima della data fissata per la trattazione».  (13) C. Stato, Sez. VI, 21 aprile 2020, n. 2539, cit., precisa che il contraddittorio si caratterizza in senso forte nel processo penale sia quanto alla formazione della prova sia quanto al diritto dell’accusato di confrontarsi de visu con l’accusatore.  (14) A questo riguardo C. Stato, Sez. VI, 21 aprile 2020, n. 2539, cit., afferma che il comma 2 dell’art. 111 della Costituzione, quando stabilisce che il “giusto processo” – con ciò riferendosi ad ogni processo – deve svolgersi «nel contraddittorio delle parti, in condizioni di parità», impone non solo un procedimento nel quale tutti i soggetti potenzialmente incisi dalla funzione giurisdizionale devono esserne necessariamente “parti”, ma anche che «queste ultime abbiamo la possibilità concreta di esporre puntualmente (e, ove lo ritengano, anche oralmente) le loro ragioni, rispondendo e contestando quelle degli altri». Il Consiglio di Stato aggiunge che un’interpretazione che precluda l’oralità è in contrasto anche con l’art. 6, paragrafo 1, della CEDU. Secondo il Consiglio di Stato, «l’imposizione dell’assenza forzata, non solo del pubblico, ma anche dei difensori, finirebbe per connotare il rito emergenziale in termini di giustizia “segreta”, refrattaria ad ogni forma di controllo pubblico». Cfr. Saitta, Da Palazzo Spada un ragionevole no al “contraddittorio cartolare coatto” in sede cautelare, in <http://www.federalismi.it>, 5 maggio 2020; Volpe, Riflessioni dopo una prima lettura dell’art. 84, D.L. 17 marzo 2020, n. 18 in materia di processo amministrativo, cit.; Id., Il superamento del “processo cartolare coatto”. Legislazione della pandemia o pandemia della legislazione?, in <http://www.giustizia-amministrativa.it>; Spangher, Covid-19 e udienza penali: brevi riflessioni, in questa Rivista, 2020, 327. Il problema delle norme derogatorie di natura emergenziale è stato analizzato anche dal punto di vista delle fonti: Luciani, Il sistema delle fonti alla prova dell’emergenza, in Liber Amicorum per Pasquale Costanzo, <http://giurcost.it>, 11 aprile 2020; Sorrentino, Riflessioni minime sull’emergenza coronavirus, in <http:// costituzionalismi.it>, fasc. 1/2020; Caravita, L’Italia ai tempi del coronavirus: rileggendo la Costituzione italiana, in <http://www.federalismi.it>, 18 marzo 2020. Sul giusto processo amministrativo v. Merusi, Il codice del giusto processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2011, 1 ss.; Id., Sul giusto processo ammi-


GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA Vero è che il processo amministrativo si è arricchito di mezzi di trattazione scritta attraverso lo scambio delle memorie e delle repliche in vista dell’udienza pubblica (15) e delle note da depositare fino a due giorni liberi prima dell’udienza cautelare. Tuttavia, tale tendenza, se, da un lato, rafforza la tesi di chi sostiene che il processo amministrativo sia un processo “scritto” (16), non cancella però il principio dell’oralità che, sia pur in forma più attenuata rispetto a quella tipica del processo penale (17), rimane centrale quale luogo di incontro tra le parti e tra le parti e il giudice (18). In altri termini, il processo amministrativo, pur essendo essenzialmente documentale (19), non può ridurre all’irrilevanza la discussione orale, senza con ciò menomare l’apporto complessivo del difensore in sede processuale (20). La nistrativo, in Foro amm., CdS, 2011, 4, 1353; Coutre, La garanzia costituzionale del «dovuto processo legale», in Riv. dir. proc., 1954, 86.  (15) L’art. 73 c.p.a., rispetto alla legge n. 1034 del 1971, ridefinisce i termini connessi con l’udienza di discussione, prevedendo il nuovo termine per la presentazione delle note di replica alle memorie, sicché, com’è noto, la produzione di documenti è fissata fino a 40 giorni liberi prima dell’udienza, la produzione di memorie fino a trenta giorni e la produzione di memorie di replica fino a 20 giorni. Si tratta di termini perentori; di conseguenza, se documenti e memorie sono prodotti fuori termine, il giudice non può tenerne conto ai fini della decisione, nemmeno con il consenso delle parti. Al riguardo C. Stato, Sez. V, 17 novembre 2009, n. 7166, in Guida dir., Dossier, 2, 2010, 99, secondo cui «Nel giudizio amministrativo, il termine assegnato alle parti per il deposito delle memorie è perentorio e non può subire deroghe nemmeno con il consenso delle parti, essendo esso previsto non solo a tutela del contraddittorio ma anche a garanzia del corretto svolgimento del processo e dell’adeguata e tempestiva conoscenza degli atti di causa da parte del collegio giudicante; C. Stato, Sez. VI, 11 agosto 2009, n. 4934, in Redazione Giuffrè, 2009; v. anche C. Stato, Sez. V, 7 novembre 2012, n. 5649, in Foro amm., CdS, 2012,11, 2877, secondo cui i termini per il deposito di documenti e memorie hanno carattere perentorio, «in quanto espressione di un precetto di ordine pubblico processuale posto a presidio del contraddittorio e dell’ordinato lavoro del giudice, sicché la loro violazione conduce all’inutilizzabilità processuale delle memorie e dei documenti».  (16) Caianiello, Lineamenti del processo amministrativo, Torino, 1976, 241; Id., Manuale di diritto processuale amministrativo, Torino, 1994, 413.  (17) Nigro, Giustizia amministrativa, Bologna, 1983, 333.  (18) Tarullo, L’udienza telematica nel processo amministrativo: perché non si debba rimpiangere un’occasione perduta, in <http://giustizia-amministrativa. it>; Marengo, Udienza (dir. proc. civ.), in Enc. dir., XVI, Milano, 1992.  (19) Cfr. Benvenuti, Processo amministrativo. A) Ragioni e struttura, in Enc. dir., VI, Milano, 1987, 454 ss.; Id., L’istruzione nel processo amministrativo, Padova, 1953; Perfetti, Prova (dir. proc. amm.), ivi, Annali II-1, Milano, 2008, 917-946. Anche Orsi Battaglini, Alla ricerca dello Stato di diritto. Per una giustizia “non amministrativa”, Milano, 2005; Ferrara, Dal giudizio di ottemperanza al processo di esecuzione. La dissoluzione del concetto di interesse legittimo nel nuovo assetto della giurisdizione amministrativa, Milano, 2003.  (20) In generale, e senza pretesa di esaustività, Migliorini, Il contraddittorio nel processo amministrativo, Napoli, 1996, 82; Merusi, Il contraddittorio nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 1985, 17; Mazzarolli, Il processo amministrativo come processo di parti e l’oggetto del giudizio, in Dir. proc. amm., 1997, 463 ss.; Domenichelli, La parità delle parti nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2001, 861 ss.; Follieri, Il contraddittorio in condizioni di parità nel processo amministrativo, ivi, 2006, 502 ss.; utile

compressione dell’udienza orale condiziona la possibilità delle parti di costituirsi direttamente in udienza mediante le “sole” difese orali, in questo caso le uniche ammissibili (21). Non prevedendo il codice del processo amministrativo le preclusioni proprie del processo civile, una tale limitazione avrebbe ricadute anche su altro piano, quello cioè relativo alla possibilità delle parti di proporre eccezioni, non rilevabili d’ufficio, in sede di discussione, a meno che non vengano sollevate sino a due giorni prima nelle note difensive. E, tuttavia, la controparte, in questo caso, non avrebbe modo di replicare. Verrebbe anche condizionato il potere officioso del collegio di sollevare nel corso della discussione orale una questione che ritenesse di dover porre a fondamento della decisione (22), a meno di rinviare la trattazione con conseguente dilatazione dei tempi processuali. Di qui la rilevanza della discussione orale quale strumento difensivo a disposizione delle parti, oltre che “occasione” del giudice di avere la più completa cognizione dell’oggetto della questione e, quindi, tutti gli strumenti per governarlo nel modo più adeguato e celere possibile.

4. La regola della “pubblicità” del processo

L’art. 111 Cost. che, com’è noto, sancisce i principi del «giusto processo», tutela il diritto della parte lesa di ricorrere davanti ad un giudice terzo e imparziale e di essere sentito in contraddittorio (23). L’art. 47 della

anche il rinvio a Salemi, Il concetto di parte e la pubblica amministrazione nel processo civile penale e amministrativo, Roma, 1916, 275, che esamina il concetto di pubblica amministrazione come parte processuale; Benvenuti, Parte (dir. amm.), in Enc. dir., XXXI, Milano, 1981, 970; D’Orsogna, Il litisconsorzio nel processo amministrativo. Il problema delle parti e l’intervento, in Picozza (a cura di), Processo amministrativo e diritto comunitario, Padova, 2003, 190; Pugliese, Nozione di controinteressato e modelli di processo amministrativo, Napoli, 1989.  (21) T.a.r. Sicilia-Catania, Sez, I, 4 maggio 2020, n. 426, in Redazione Giuffrè, 2020, secondo cui nel processo amministrativo il termine di costituzione delle parti intimate, ai sensi dall’art. 46 del d.lgs. n. 104 del 2010 non ha carattere perentorio, in quanto è ammissibile la costituzione sino all’udienza di discussione del ricorso; nel caso di costituzione tardiva la parte incorre nelle preclusioni e nelle decadenze relative alle facoltà processuali di deposito di memorie, documenti e repliche ove siano decorsi i termini di legge; C. Stato, Sez. III, 15 ottobre 2019, n. 6998, ivi, 2019, secondo cui nel processo amministrativo il termine di costituzione delle parti intimate, previsto dall’art. 46 del d.lgs. n. 104/2010, non ha carattere perentorio, potendo le stesse costituirsi in giudizio fino all’udienza di discussione del ricorso, con le conseguenze relative in merito alle preclusioni ed alle decadenze dalle connesse facoltà processuali.  (22) C. Stato, Ad. plen., 24 gennaio 2000, n. 1, in Foro it., 2000, III, 305, stabilisce che il giudice amministrativo, prima di decidere una questione rilevata d’ufficio, deve indicarla alle parti per consentirne la trattazione, in attuazione del principio del contraddittorio. Nella specie, il Consiglio di Stato, prima di rilevare d’ufficio l’irricevibilità dell’appello, aveva indicato in udienza la relativa questione e aveva assegnato alle parti un termine per presentare memorie in proposito.  (23) L’art. 6 della CEDU parla di «equa e pubblica udienza» e l’art. 47 della Carta europea dei diritti dell’uomo garantisce il diritto ad un «ri-

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GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA Carta europea dei diritti dell’uomo, dal canto suo, tutela il diritto della parte di vedere discussa la sua causa «pubblicamente». In quanto amministrata «in nome del popolo» (art. 101 Cost.), la giustizia è espressione di un potere – quello giurisdizionale – che si fonda sulla sovranità popolare. Il popolo sovrano è fonte di legittimazione di tutte le funzioni statuali. Di qui il precipitato logico-giuridico della pubblicità delle udienze, quale garanzia della possibilità del “controllo democratico” dell’esercizio del potere giurisdizionale. In un’ormai risalente e storica sentenza, con la quale si intendeva adeguare il processo tributario all’art. 101 Cost., la Corte costituzionale ha stabilito che la regola della pubblicità delle udienze è implicitamente prescritta dal sistema costituzionale quale conseguenza necessaria del fondamento democratico del potere giurisdizionale. Sulla base di questo principio la Corte costituzionale si rivolgeva, quindi, al legislatore perché intervenisse prontamente ad adeguare il processo tributario all’art. 101 Cost. “correttamente interpretato” (24). Posto che la regola della pubblicità delle udienze è implicitamente scritta nella Costituzione siccome espressione della sovranità popolare, la Corte costituzionale (25), intervenuta ancora sul processo tributario a seguito della disciplina introdotta con decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 - nella quale la pubblicità dell’udienza risulta “condizionata” alla presentazione da almeno una delle parti di un’apposita istanza di discussione, svolgendosi, in caso contrario, la trattazione della controversia in camera di consiglio (art. 33, comma 1) –, ha ritenuto che la regola della pubblicità dell’udienza non risulti esclusa o minata, in quanto essa coesiste in regime di alternatività con il rito camerale. Il rito camerale, dal canto suo, non è lesivo del principio dettato dall’art. 101, comma 1, Cost., stante il carattere eminentemente cartolare del processo tributario, sia sotto l’aspetto probatorio che difensivo in senso ampio. Se così è, non può apparire irragionevole la previsione del rito camerale “subordinato” alla mancata presentazione di istanza di parte diretta ad ottenere la discussione della causa. In mancanza di discussione, la trattazione pubblica della causa si ridurrebbe alla sola relazione della causa da parte del relatore, che comunque sarebbe poi riprodotta nella decisione. La pubblicità della decisione e la sua congruità motivazionale - e ancor prima l’accessibilità del fascicolo camerale da parte di chiunque ne abbia interesse - consente di salvaguardare, anche per questa via,

il principio sancito dall’art. 101 Cost. (26). Perplessità suscita, invece, il giudizio in Cassazione nelle ipotesi in cui le questioni oggetto della causa, non avendo valenza nomofilattica, non sono destinate alla trattazione in pubblica udienza e alla definizione con sentenza (27). Concludendo sul punto, se, come abbiamo visto, l’oralità nel processo amministrativo è “condizionata” dalla normativa emergenziale, la pubblicità però non è affatto garantita. L’oralità costituisce un valore che va preservato, sia pure nelle forme del collegamento da remoto, tant’è che non incontra limiti nel sistema codicistico se non nelle ipotesi di cui all’art. 56 c.p.a. (28). Tuttavia, anche la pubblicità dell’udienza costituisce un valore da presidiare. A questo scopo vanno, pertanto, assicurati a chiunque abbia interesse ad assistere all’udienza mezzi idonei a garantire il collegamento da remoto (29), pur nella consapevolezza che alcune limitazioni alla regola della “pubblicità” dell’udienza costituiscono il tributo da pagare alle esigenze imposte dal momento emergen-

corso effettivo dinanzi a un giudice» e il diritto di ogni individuo a vedere esaminata la sua causa «pubblicamente»; Cintioli, Giusto processo, CEDU e sanzioni antitrust, in Dir. proc. amm., 2015, II, 507 ss..

(29) Con decreto del 20 aprile 2020, che regola le udienze davanti alla Consulta, il Presidente della Corte costituzionale, al fine di assicurare la pubblicità delle udienze da remoto, ha stabilito che «la pubblicità è assicurata mediante verbalizzazione a cura del Cancelliere, nonché mediante la registrazione e la successiva pubblicazione delle registrazioni nel sito informatico istituzionale della Corte costituzionale».

(24) Corte cost., 24 luglio 1986, n. 212, in Rass. avv. Stato, 1987, I, 195.  (25) Corte cost., 23 aprile 1998, n. 141, in Foro it., 1999, I, 767.

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(26) Cfr. Corte cost. 31 marzo 1994, n. 121, in Giur. cost., 1994, 1029, che, ribadendo i principi affermati dalla costante giurisprudenza della Corte, afferma che non soltanto il rito ordinario è conforme alla Costituzione e, quindi, l’unico rito idoneo a soddisfare il diritto di difesa. Precisa, quindi, che la scelta del procedimento camerale per ragioni di celerità sarebbe illegittima solo se, in relazione alle peculiari esigenze dei diversi processi, tale scelta apparisse inidonea ad assicurare lo scopo e la funzione del processo, e, quindi, in primo luogo il contraddittorio, dovendosi considerare che, in difetto di esplicite previsioni limitatrici di siffatte forme e modalità, anche quel procedimento «è idoneo ad assicurare tutte le garanzie processuali necessarie a rendere il sistema conforme alle esigenze del diritto di difesa»: Corte cost., 22 dicembre 1989, n. 573, in Dir. eccl., 1989, II, 479; Corte cost., 14 dicembre 1989, n. 543, ivi, 1989, II, 481.  (27) Sassani, Da Corte a Ufficio Smaltimento: ascesa e declino della “Suprema”, in <http://www.judicium.it>, osserva che, allo scopo di snellire il contenzioso davanti alla Corte, i giudizi possono essere definiti in camera di consiglio, senza trattazione orale a norma dell’art. 375 c.p.c. e nei modi di cui all’art. 380-bis c.p.c.. Si tratta delle ipotesi in cui la Corte debba dichiarare l’inammissibilità del ricorso principale e del ricorso incidentale, pronunciarsi sui regolamenti di competenza o di giurisdizione o sulla manifesta fondatezza o infondatezza del ricorso o, ancora, quando la questione di diritto oggetto del giudizio non abbia particolare rilevanza. Si v. anche Di Cerbo, Brevi considerazioni sul nuovo rito in Cassazione e sui suoi riflessi sull’organizzazione della Sezione Lavoro, in Giustizia Insieme, 26 febbraio 2019, nonché Lombardo, Il procedimento davanti alla Corte, in <http://www.cortedicassazione.it>, 7 giugno 2020. Sul rito camerale visto nel contesto del dibattito relativo al rapporto tra effettività della tutela ed efficienza della giurisdizione si rinvia a Nardo, Rito camerale ed “ingiusto” processo, in Quaderni di Judicium, Pisa, 2020.  (28) L’art. 87 c.p.a. prevede, com’è noto, che «le udienze sono pubbliche a pena di nullità, salvo quanto previsto dal comma 2, ma il presidente del collegio può disporre che si svolgano a porte chiuse, se ricorrono ragioni di sicurezza dello Stato, di ordine pubblico o di buon costume».


GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA ziale, qual è indubbiamente quello che viviamo. Un prezzo, tutto sommato, accettabile sotto il profilo dei valori costituzionali e dei principi europei, ove si consideri che sono state per molti versi “sospese” le stesse libertà costituzionali.

5. I riflessi dell’oralità “condizionata” sul processo amministrativo

Occorre ora verificare se il condizionamento che l’oralità subisce per effetto della normativa emergenziale rischi di snaturare i tratti caratterizzanti del processo amministrativo. Nelle direttive relative all’attività giurisdizionale da condurre nel periodo dell’emergenza sanitaria, il Presidente del Consiglio di Stato sostiene che «il processo amministrativo è storicamente un processo scritto, basato su prove scritte e precostituite, come dimostra anche la ridotta percentuale delle cause in cui viene chiesta dalle parti la discussione orale» (30). E, in effetti, nella pratica la discussione orale è assai contingentata per l’esigenza di contenere in tempi ragionevoli la celebrazione dei processi quando la questione oggetto della decisione venga ben illustrata dalle memorie scritte. A meno che la trattazione orale della causa non sia suscettibile di apportare un quid pluris alle difese complessivamente svolte nelle memorie e/o non sia utile al collegio per meglio focalizzare aspetti decisivi o, comunque, rilevanti del thema decidendum, è evidente che la centralità dell’oralità nel processo amministrativo, della quale abbiamo parlato sopra, vale (solo) a caratterizzare l’udienza di discussione come luogo “pubblico” di confronto delle parti in contraddittorio tra loro davanti al giudice. Confronto efficace sul piano della qualificazione giuridica dei fatti o della mera dialettica processuale, ma non certo momento utile a elaborare l’istruzione della causa attraverso l’acquisizione e la valutazione tecnica degli elementi di fatto. L’oralità è necessaria, in altri termini, quando gli elementi di fatto acquisiti nel corso dell’istruttoria vanno meglio chiariti o contestualizzati, tenuto conto che in molti casi la discussione orale può risultare più efficace della trattazione scritta anche ai fini della stessa qualificazione giuridica. L’ha ben evidenziato lo stesso Tar in commento quando ha rilevato che «la controversia introdotta […] involge situazioni e questioni alquanto delicate sia in punto di fatto che di diritto», anche «alla luce degli interessi coinvolti». Deve soggiungersi, per inciso, che l’udienza di discussione può servire, in qualche caso (31), ad evitare l’uso distorto delle memo (30) Patroni Griffi, Direttive del Presidente del Consiglio di Stato – Secondi chiarimenti su alcuni profili relativi all’attività giurisdizionale nel periodo di emergenza covid-19, 20 marzo 2020, prot. 7400.  (31) V’è un indirizzo giurisprudenziale che, per evitare l’uso distorto delle memorie conclusionali, stabilisce che le memorie di replica non

rie di replica da parte dell’amministrazione resistente o dei controinteressati che, essendosi costituiti con memorie “di stile”, volessero utilizzare le memorie conclusive per avere la c.d. “ultima parola”. Il confronto “pubblico” sulla qualificazione dei fatti, se costituisce atto d’ossequio al principio di pubblicità dell’udienza, non può, tuttavia, appesantirla a danno dell’esigenza di speditezza nella trattazione dei processi. Pertanto, è utile, e come tale va sempre garantito, quando riguardi situazioni nelle quali vi sia, per esempio, contrasto di orientamenti o novità normative. Ciò non significa che il legislatore possa cancellare, con un tratto di penna, l’udienza pubblica, perché, come abbiamo evidenziato sopra, essa costituisce il momento nel quale il confronto dialettico tra le parti processuali rende conoscibile, da parte dei consociati, l’esercizio del potere giurisdizionale. L’udienza pubblica può essere solo derogata a fronte di preminenti e ragionevoli esigenze di sicurezza dello Stato, di ordine pubblico e di buon costume (art. 87 c.p.a.), ovvero – aggiungiamo – quando non risulti che un inutile appesantimento del processo.

6. Conclusioni

Alla luce delle considerazioni svolte, il limite temporale, previsto dall’art. 4, comma 1, del d.l. n. 28 del 2020 per chiedere la discussione orale della causa, deve considerarsi non perentorio, come, in modo condivisibile, ha ritenuto il Tribunale Emilia Romagna in commento. Il termine è stabilito solo per consentire l’organizzazione dell’udienza da remoto, tant’è che la stessa norma, appena citata, stabilisce che «in tutti i casi in cui sia disposta la discussione da remoto, la segreteria comunica, almeno tre giorni prima della trattazione, l’avviso dell’ora e delle modalità di collegamento». È chiaro, infatti, che alla discussione da remoto non possa che corrispondere uno sforzo organizzativo diretto, in primo luogo, ad accertare «l’identità dei soggetti partecipanti», nonché «la libera volontà delle parti, anche ai fini della disciplina sulla protezione dei dati personali». A questo scopo, il comma 2 della stessa norma prevede l’adozione, da parte del Presidente del Consiglio di Stato, di un decreto (32) inteso a stabilire le «regole tecnico-operative

possono essere depositate in mancanza della memoria prevista dall’art. 73, comma 1, c.p.a.: C. Stato, Sez. V, 5 marzo 2012, n. 1256, in Foro amm., Cds, 2012, 3, 626, secondo cui, nel processo amministrativo, presupposto indefettibile per il deposito di memorie di replica nel termine fissato dall’art. 73, comma 1, c.p.a. è l’avvenuto deposito, nel termine fissato dallo stesso art. 73, comma 1, delle memorie conclusionali delle controparti; di conseguenza, la memoria di replica presentata in assenza di detto presupposto è inammissibile.  (32) Si tratta di un decreto che il Presidente del Consiglio di Stato adotta, sentiti il Dipartimento della Presidenza del Consiglio dei ministri competente in materia di trasformazione digitale, il Consiglio nazionale forense, il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa e le as-

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GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA per la sperimentazione e la graduale applicazione degli aggiornamenti del processo amministrativo telematico». Come previsto dal comma 1, «Il luogo da cui si collegano i magistrati, gli avvocati e il personale addetto è considerato udienza a tutti gli effetti di legge» (33). Il termine non è previsto per regolare il contraddittorio; ne è conferma il fatto che la norma, «in alternativa alla discussione», consente alle parti di presentare note di udienza fino alle ore 12 del giorno antecedente a quello dell’udienza, o richiesta di passaggio in decisione, e di essere così «presenti» ad ogni effetto all’udienza. Se il termine previsto per chiedere la discussione orale fosse perentorio, non troverebbe giustificazione una sua “elu-

sociazioni specialistiche maggiormente rappresentative, che si esprimono nel termine perentorio di trenta giorni dalla trasmissione dello schema di decreto». Tale decreto è stato adottato in data 22 maggio 2020 e porta il n. 134. L’art. 2, comma 8, prevede che all’atto del collegamento e prima di procedere alla discussione, i difensori delle parti o le parti che agiscono in proprio «dichiarano, sotto la loro responsabilità, che quanto accade nel corso dell’udienza o della camera di consiglio non è visto né ascoltato da soggetti non ammessi ad assistere alla udienza o alla camera di consiglio, nonché si impegnano a non effettuare le registrazioni di cui al comma 11. La dichiarazione dei difensori o delle parti che agiscono in proprio è inserita nel verbale dell’udienza o della camera di consiglio».  (33) Non è di poco conto lo sforzo organizzativo richiesto. Infatti, il decreto del Presidente del Consiglio di Stato stabilisce, all’art. 2, comma 5, che in tutti i casi in cui venga disposta la discussione da remoto, la segreteria comunica agli avvocati agli indirizzi previsti in un apposito allegato, secondo le modalità dettate nelle apposite specifiche tecniche – idonee ad assicurare l’avvenuta ricezione - almeno un giorno libero prima della trattazione, l’avviso del giorno e dell’ora del collegamento da remoto in videoconferenza. Ha, quindi, cura di predisporre le convocazioni distribuendole in un congruo arco temporale, in modo da contenere, quanto più possibile e compatibilmente con il numero di discussioni richieste, il tempo di attesa degli avvocati prima di essere ammessi alla discussione. L’orario indicato nell’avviso è soggetto a variazioni in aumento. Nella stessa comunicazione sono inseriti il link ipertestuale per la partecipazione all’udienza, nonché l’avvertimento che l’accesso all’udienza tramite tale link e la celebrazione dell’udienza da remoto comportano il trattamento dei dati personali anche da parte del gestore della piattaforma, come da informativa relativa al trattamento dei dati personali ai sensi degli articoli 13 e 14 del Regolamento (UE) 2016/679, pubblicata - con invito a leggerla - sul sito internet della Giustizia amministrativa. La copia informatica delle comunicazioni, qualora non eseguite tramite il sistema informativo della Giustizia amministrativa, è inserita nel fascicolo del procedimento a cura della segreteria. Il link inviato dalla segreteria è strettamente personale e non cedibile a terzi, fatta eccezione per l’eventuale difensore delegato. Il comma 6 del decreto stabilisce che per partecipare alla discussione da remoto in videoconferenza è necessario che il dispositivo rispetti i requisiti previsti nelle specifiche tecniche allegate al decreto stesso. I difensori o le parti che agiscono in proprio garantiscono la corretta funzionalità del dispositivo utilizzato per collegarsi alla videoconferenza, l’aggiornamento del suo software di base e dell’applicativo alle più recenti versioni rese disponibili dai rispettivi produttori o comunità di supporto nel caso di software open source, con particolare riferimento all’installazione di tutti gli aggiornamenti e le correzioni relative alla sicurezza informatica, e all’utilizzo di un idoneo e aggiornato programma antivirus. I magistrati utilizzano per il collegamento telematico esclusivamente gli indirizzi di posta elettronica istituzionale e i dispositivi forniti in dotazione dal Segretariato generale della Giustizia amministrativa.

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sione” a mezzo delle note di udienza ammesse fino al giorno antecedente. La possibilità di presentare note d’udienza salvaguarda, sia pure con tutte le difficoltà e le vischiosità derivanti dalla situazione emergenziale, la centralità dell’udienza di discussione e, al tempo stesso, preserva il giusto equilibrio tra l’esigenza di assicurare lo svolgimento dei processi, da un lato, e di tutelare, dall’altro, la salute di quanti operano nel mondo della giustizia. Il triplice scenario, prefigurato dall’art. 28, comma 1, del d.l. n. 28 del 2020, muove dalla necessità di garantire al giudice l’occasione di meglio chiarire o contestualizzare gli elementi di fatto acquisiti nel corso dell’istruttoria, tenuto conto che in non pochi casi, come abbiamo anticipato, la discussione orale può risultare più efficace della trattazione scritta. È anche l’occasione di provocare il contraddittorio su questioni rilevate d’ufficio, senza dover rinviare l’udienza per attendere all’incombente e dilatare così i tempi del processo. Com’è noto, il dovere del giudice di venire in soccorso alle parti ex art. 73, comma 3, c.p.a. è posto proprio a garanzia del contraddittorio. Costituisce cioè un meccanismo di tutela volto ad evitare pronunce “a sorpresa” su profili che hanno influenza decisiva sul giudizio (34). «Niente prova la civiltà di un ordinamento – scrive Calogero – quanto la larghezza con cui esso fa luogo all’ascolto delle opposte ragioni» (35). Ad avvalorare questa tesi milita il fatto che la norma consenta al giudice, da un lato, di disporre con decreto la discussione orale «anche in assenza di istanza di parte» e, dall’altro, di «valutare» se accogliere l’istanza presentata da una sola parte, alla luce delle opposizioni delle altre parti. È evidente come il potere officioso rimesso al giudice non possa che essere condizionato dall’esigenza di affinare o meglio approfondire aspetti che la trattazione scritta ha lasciato in ombra o addirittura appannato e/o di confrontarsi con le parti per avere chiarimenti e/o di venire in soccorso del

(34) C. Stato, Sez. III, 30 aprile 2019, n. 2802, in Redazione Giuffrè, 2019, che ha evidenziato come il vizio dell’omessa possibilità di difesa ex art. 73, comma 3, c.p.a. attenga al procedimento - perché la questione non è stata previamente sottoposta al contraddittorio nel corso del processo - non al contenuto della sentenza. Sentenza che potrebbe essere anche “giusta” nella sua portata decisoria. Il Consiglio di Stato precisa ancora che l’art. 73, comma 3, riguarda le domande (o, eventualmente, le eccezioni) decise senza suscitare il contraddittorio sulla questione dirimente; non investe, invece, le conseguenze o gli effetti che derivano dall’accoglimento o dal rigetto delle domande: gli effetti della decisione rimangono, invero, nella disponibilità del giudice che pronuncia la sentenza e non richiedono la previa instaurazione del contraddittorio processuale ai sensi dell’art. 73, comma 3; sul punto v. C. Stato, Ad. plen., 30 luglio 2018, n. 10, in Foro amm., 2018, 7-8, 1183; C. Stato, Ad. plen., 28 settembre 2018, n. 15, ivi, 2018, 9, 1436.  (35) Calogero, Principio del dialogo e diritto dell’individuo, in Raccolta di scritti in onore di A.C. Jemolo, Milano, 1963.


GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA contraddittorio su questioni rilevate d’ufficio (36). Tale potere incontra necessariamente un limite nell’istanza di discussione della causa «presentata congiuntamente da tutte le parti costituite» (37). Una soluzione diversa consentirebbe al giudice di sostituirsi alle parti nella valutazione dell’esigenza di svolgere il contraddittorio orale. Dalle considerazioni svolte emerge, insomma, che lo sforzo diretto a garantire la funzionalità e la continuità del “servizio giustizia” nel periodo emergenziale ponga problemi sia giuridici che organizzativi, entrambi legati alla reingegnerizzazione della macchina processuale. Quanto ai problemi organizzativi, è certamente

necessario adottare protocolli e prassi condivisi e uniformi al fine di evitare incertezze sull’utilizzo dei sistemi informatici, cui finirebbero per corrispondere altrettante incertezze sul piano più strettamente tecnico-giuridico (38), e, non da ultimo, individuare soluzioni idonee ad assicurare a chiunque voglia assistere alle udienze la possibilità di collegamento da remoto, in ossequio al principio di pubblicità del quale abbiamo trattato.

(36) Su questo aspetto C. Stato, Sez. II, 15 maggio 2020, n. 3109, cit., 19 maggio 2020, che afferma che «nel caso in cui, ai sensi dell’art. 84, commi 5 e 6, d.l. n. 18/2020, l’udienza sia svolta telematicamente senza la partecipazione dei difensori, ove il giudice rilevi d’ufficio un profilo di inammissibilità dell’impugnazione, deve assegnare alle parti un termine non superiore ai 30 giorni per il deposito di memorie, riservando la decisione ad altra camera di consiglio». Si tratta dell’ipotesi della c.d. “terza via”, prefigurata dall’art. 73, comma 3, c.p.a., che impone al giudice, che ritenga di porre a fondamento della sua decisione una questione rilevata d’ufficio, di indicarla in udienza dandone atto a verbale, in modo che, a seguito di tale “avvertimento”, le parti possano interloquire oralmente sulla questione al fine di precisare le proprie posizioni davanti al giudice. L’avvertimento è così importante che se la questione dovesse essere rilevata dopo il passaggio in decisione della causa, il giudice deve riservare la decisione ed assegnare alle parti un termine non superiore a trenta giorni per depositare memorie sulla questione. Nell’ordinanza citata, il Consiglio di Stato, avendo rilevato d’ufficio nell’udienza non partecipata, l’inammissibilità di motivi aggiunti proposti in appello, ha concesso alle parti un termine di trenta giorni per presentare memorie, in applicazione dell’art. 73, comma 3, c.p.a., con ciò sottintendendo che l’udienza non partecipata non costituisca vera e propria udienza, ma una sorta di camera di consiglio dei magistrati finalizzata alla decisione. L’art. 73, comma 3, c.c. si riferisce, non a caso, alle questioni rilevate d’ufficio «dopo il passaggio in decisione» dell’affare. La violazione dell’obbligo dell’“avvertimento” alle parti rifluirebbe nella nullità della sentenza. Sul punto Comoglio, “Terza via” e “processo giusto”, in Riv. dir. proc., 2006, 755; in giurisprudenza C. Stato, Sez. V, 8 marzo 2011, n. 1462, in Foro amm., CdS, 2011, 3, 910. Ai sensi dell’art. 105, comma 1, c.p.a. va annullata con rinvio al giudice di primo grado la sentenza che sia stata emessa senza che la questione d’irricevibilità/inammissibilità del ricorso, rilevata d’ufficio dal collegio, sia stata sottoposta alla trattazione delle parti, comportando tale omissione violazione del generale principio processuale di garanzia del contraddittorio immanente alla garanzia costituzionale del giusto processo di cui all’art. 111 Cost.. Il principio del giusto processo opera non solo nella fase d’instaurazione del processo ma ne permea l’intero svolgimento, ponendosi come garanzia di partecipazione effettiva delle parti al processo, ossia come riconoscimento del loro diritto d’influire concretamente sullo svolgimento del processo e d’interloquire sull’oggetto del giudizio. Pertanto, le parti devono essere poste in grado di prendere posizione in ordine a qualsiasi questione, di fatto o di diritto, preliminare o pregiudiziale di rito o di merito, la cui risoluzione sia influente ai fini della decisione.  (37) Se consideriamo la giurisprudenza che si è formata sulla questione, possiamo affermare che gli argomenti profusi davanti al giudice al fine di evitare la discussione orale sono rappresentati dalla «superfluità» della trattazione alla luce delle difese scritte e, quindi, dalla «maturità» del giudizio. Su questi aspetti cfr. Tar Molise, Sez. I, 4 giugno 2020, n. 40, in <http://www.giustizia-amministrativa.it>; Tar Campania-Napoli, Sez. III, 4 giugno 2020, n. 301, ivi; Tar Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, 5 giugno 2020, n. 102, ivi.

(38) D’Alessandri, Coronavirus: vademecum della Giustizia Amministrativa per tenere le udienze da remoto, in <http://www.ilquotidianogiuridico.it>, 23 marzo 2020. Per approfondimenti sul modo in cui l’informatica condiziona e condizionerà sempre di più il processo amministrativo si rinvia a Frosini, Telematica ed informatica giuridica, in Enc. dir., XLIV, Milano, 1992, 60; Zucconi Galli Fonseca, L’incontro tra informatica e processo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 4, 2015, 1185.

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PRASSI

Profilazione e privacy: un confronto fra i modelli Google, Amazon e Facebook di Flaviano Peluso e Michele Saporito Sommario: 1. Introduzione. – 2. Dalla “data economy” alla “experience economy”. – 3. Profilazione e processi decisionali automatizzati. - 4. Il ruolo delle principali piattaforme online nell’economia globale. – 5. Il confronto dei modelli di profilazione delle Big 3. – 6. Limitazioni ed eccezioni al processo decisionale automatizzato. La profilazione degli utenti è sempre più centrale nell’economia moderna. Conoscere i gusti degli utenti e prevedere i loro comportamenti può garantire uno strumento di eccezionale forza per lo sviluppo di nuovi prodotti e servizi. Google, Amazon e Facebook hanno costruito dei modelli di profilazione assolutamente efficaci ma molto diversi fra loro. Analizzare i loro sistemi di profilazione può aiutare a capire perché la loro crescita economica sembra inarrestabile. User profiling is increasingly central in the modern economy. Knowing users’ tastes and predicting their behavior can provide an exceptionally powerful tool for the development of new products and services. Google, Amazon and Facebook have built up very effective but very different profiling models. Analyzing their profiling systems can help to understand why their economic growth seems unstoppable.

1. Introduzione

Nel mondo moderno siamo circondati da dati sotto qualsiasi tipo di forma e aspetto, ognuno di noi possiede almeno un device digitale di comunicazione collegato alla rete, ogni minuto vengono scambiate, nel mondo, milioni di informazioni che viaggiano come sequenze binarie nel mondo digitale. La verità è che ormai la tecnologia e la velocità dell’informazione sono entrate così prepotentemente nella nostra quotidianità che la maggioranza della popolazione mondiale, vive in uno stato di costante interconnessione con il web. Possiamo quindi affermare di vivere in una “Data Economy”. Basta guardare qualche dato per rendersi conto dell’importanza del fenomeno: ogni minuto, su Facebook, vengono creati 3,3 milioni di post, pubblicati 510.000 commenti e aggiornati 293.000 stati; contemporaneamente su WhatsApp vengono scambiati 38 milioni di messaggi; su Google vengono effettuate 3,8 milioni di ricerche. Questo, però, è solo l’aspetto superficiale della questione. È noto che le aziende, a prescindere dal loro core business, hanno una costante esigenza di conoscere il mercato, sapere le esigenze dei propri consumatori e, se possibile, anticipare o creare i nuovi bisogni. Per fare questo è necessario un grande sforzo: ricerche di mercato, analisi dei mercati, studi di settore. Tutte operazioni dispendiose ma assolutamente indispensabili per cercare di incrementare le possibilità di sopravvivenza/ espansione dell’azienda. Sembra utile richiamare in via analogica le teorie di DeGroat e Nielsen, due ricercatori dell’Advanced Working Fight Group dell’esercito statunitense che hanno elaborato una teoria incentrata sulla relazione esistente tra

informazione e combattimento. In fondo la competizione commerciale può essere agevolmente comparata con uno scenario di guerra, almeno dal punto di vista teorico. Secondo i citati autori (1) si può ipotizzare la seguente equazione: Combat power=Information*(the speed of light)2 ossia la potenza in combattimento è uguale all’informazione moltiplicata per la velocità della luce al quadrato. In altri termini l’informazione è diventata la “guerra” e la “velocità” con cui si trasferisce il vantaggio competitivo che si può avere nei confronti dei competitor. L’evoluzione tecnologica e l’enorme disponibilità di dati può, chiaramente, essere sfruttata economicamente per ottenere questo vantaggio. Proviamo ora, in via prodromica, a fare un paragone fra le vecchie ricerche di mercato con i sondaggi telefonici e le potenzialità che oggi hanno, in particolare le Big 3 (Amazon, Google, Facebook), con la profilazione nel web e il controllo di molte attività svolte sui nostri device. Ipotizziamo che tutte le informazioni, i gusti, le preferenze e le inclinazioni degli utenti/consumatori siano nascoste come fossero pesci all’interno di un oceano. Nel passato le aziende effettuavano ricerche di mercato con gli strumenti che disponevano (contatti telefonici, sondaggi ecc.). Quindi all’interno del mare magnum dei dati sarebbero state come pescatori muniti di una piccola rete a maglie molto larghe.  (1) De Groat - Nilsen, Information and combat power on the Force XXI Battlefield, in Military Review, Washington, 1995.

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PRASSI Oggi, la profilazione permette di usare una sorta di “pesca a strascico”: si prendono tutti i dati possibili ed immaginabili, taluni saranno utili, altri non serviranno a nulla, benché potrebbero avere utilità in futuro o per altre aziende a cui possono essere ceduti. Peraltro, l’analisi delle vecchie attività di ricerca sul mercato richiedevano tempi di elaborazione più dilatati. Oggi la profilazione automatizzata sui nostri device è fatta 24 ore al giorno e da algoritmi che permettono di ridurre sensibilmente il tempo necessario all’elaborazione. In sostanza le grandi aziende digitali, come le Big 3, hanno miliardi di dati da processare ogni giorno, ciascuno di essi rappresenta un piccolo tassello sul comportamento degli utenti. Quasi ogni cosa che facciamo durante la giornata trasmette informazioni su di noi e ciò avviene quasi istantaneamente. Ecco che l’equazione di DeGroat e Nielsen diventa determinante. Enormi ammassi di informazioni sempre aggiornate processate in pochi secondi. Questo basta a mostrare la forza competitiva delle Big 3. In altre parole, ogni giorno creiamo un flusso continuo e ininterrotto di informazioni, notizie reali e false che coesistono e possono confondersi ma, comunque, sono preziose per la profilazione degli utenti. Motori di ricerca, email, Facebook, Apple News, Amazon, Twitter, Google Maps, ecc. sono tutti servizi che utilizziamo quotidianamente solo apparentemente senza pagare nulla; in realtà paghiamo un conto piuttosto salato: i nostri dati e le nostre informazioni, elementi che possono generare un valore inimmaginabile. Ogni volta che acquistiamo in rete un prodotto o un servizio, scarichiamo un video o un software, ci scambiamo foto o “twittiamo”, navighiamo sul web alla ricerca di risposte strutturate, oppure memorizziamo i nostri contenuti su un cloud, produciamo informazioni che economicamente valgono moltissimo. Oltre a questo, bisogna considerare che Internet costituisce il più grande mercato nella storia dell’umanità ed ha imparato a sfruttare tutte le informazioni personali prodotte ogni volta che facciamo un clic, elaborandole in algoritmi in grado di orientare i bisogni, i comportamenti sociali, ed influenzare anche le scelte politiche. Si chiama “profilazione” e, come dimostrato poc’anzi, rappresenta una “merce” molto richiesta da migliaia di aziende e gruppi di pressione. Quest’ultimi raramente sono in grado di acquisire in proprio queste informazioni, quindi si rivolgono a colossi del digitale quali Amazon, Facebook, Google, Apple e Microsoft, per ottenere quanto desiderato. È come se fossimo avvolti da una nuvola invisibile, composta dai dati e le informazioni che scambiamo online, un flusso continuo che qualcuno raccoglie, elabora e scambia.

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È vero che grazie ai big data accediamo a servizi sempre più ritagliati sulle nostre necessità, ma ogni nostra mossa, ogni acquisto, ogni comunicazione, ogni nostro momento pubblico e privato è osservato. Di ciascuno di noi esiste da qualche parte nell’etere un profilo. Utile a chi vuole influenzare le nostre scelte, di consumo ma anche politico-elettorali, e magari anche a chi vorrà approfittare delle nostre debolezze e dei nostri segreti. Ogni singolo profilo può essere venduto più volte, producendo ogni volta un ricavo per un diverso attore di questa filiera globale generata a nostra insaputa. Questa replicabilità rende i nostri profili il bene più scalabile e redditizio. Già nel 2017 La Commissione Europea aveva previsto (2) che in Europa prodotti e servizi costruiti sui dati muoveranno entro la fine del 2020 un giro d’affari di 106 miliardi di euro; a livello globale invece l’intera economia basata sull’utilizzo di dati potrebbe raggiungere il valore di 739 miliardi di euro, che equivale al 4% del prodotto interno lordo europeo. Il portale “Statista” ha stimato che il mercato della pubblicità online raggiungerà i 300 miliardi di dollari all’anno entro la fine dell’anno, quello delle informazioni prodotte dagli oggetti connessi (internet delle cose o “IOT” in inglese, internet of things) i 130 miliardi, e quello dell’intelligenza artificiale i 60 miliardi entro il 2025 (3). Nel maggio del 2017, circa sette mesi dopo l’elezione di Donald Trump come presidente degli Stati uniti d’America e poco meno di un anno prima dello scandalo Facebook-Cambridge Analityca, una celebre copertina della rivista “Economist” sentenziava: “La risorsa più preziosa al mondo non è più il petrolio, sono i dati”. Al di là della forte affermazione, alla luce di quanto appena evidenziato, appare più che lecito oggi parlare dell’epoca che stiamo vivendo come quella della “Data Economy”. Di fronte a questo scenario l’Unione Europea ha deciso, giustamente, di rafforzare le difese degli utenti: dal 25 maggio 2018 è infatti direttamente applicabile, in tutti gli Stati membri dell’Unione europea, la General Data Protection Regulation (GDPR) sulla protezione delle persone fisiche rispetto al trattamento e alla libera circolazione dei dati. In origine il dibattito riguardava principalmente l’aspetto di riservatezza dei dati personali. Oggi alla tutela della

(2) Chiaramente le previsioni non potevano tener conto della pandemia da COVID-19.  (3) Gabanelli - Savelli, Internet: come proteggere i dati personali o monetizzarli”, dalla Rubrica: “Data Room” del Corriere della Sera, in <https://www.corriere.it/dataroom-milena-gabanelli/internet-dati-personali-web-come-proteggere-guadagnare-monetizzare-google-facebook-amazon/0d7637d8-edbb-11e9-81e9-dd3f6712b5e2-va.shtml>.


PRASSI privacy si affiancano due nuove importanti tematiche. Infatti, bisogna considerare da un lato, l’analisi del vantaggio competitivo dell’uso esclusivo dei dati a fini di profilazione commerciale da parte delle grandi piattaforme globali, a partire dalle Big Five: Google (anche con YouTube), Amazon, Facebook (anche con WhatsApp, Instagram e Messenger), Apple, Microsoft (anche con Skype e Linkedin); dall’altro, la crescente preoccupazione circa l’impatto che il rilascio e l’uso di dati a fini di marketing politico indiretto può avere. I social network sono definitivamente divenuti parte integrante dell’informazione quotidiana dei cittadini italiani e del resto del mondo. In generale, le piattaforme on-line, basano il proprio business sull’estrazione, sul trattamento e sull’elaborazione di informazioni e dati da profili personalizzati e la disponibilità degli stessi aumenta di pari passo con il crescente uso della rete da parte dei cittadini, dei consumatori, delle imprese e delle istituzioni. Esse sono diventate a tutti gli effetti i nuovi leader mondiali nel settore della pubblicità, sottraendo di fatto risorse pubblicitarie ai media tradizionali e rappresentando ormai il principale mezzo di distribuzione dell’informazione in rete. Con l’avvento del 5G questo fenomeno è destinato a crescere ulteriormente in quanto l’estrazione di dati potrà contare su una rete ancora più capillare e potente.

I dati sono considerati dalle aziende asset importanti per impostare le strategie di impresa. Sono gestiti da pochi grossi player che li mettono a disposizione degli inserzionisti, in forma aggregata e anonima. L’ossessione per la descrizione del cliente risponde all’evoluzione dei modelli di business. Alcune grandi multinazionali del settore informatico hanno infatti già profetizzato l’avvento della c.d. experience economy (economia dell’esperienza), una visione caratterizzata dalla percezione in cui i dati sono la linfa vitale, poiché alimentano un marketing sempre più segmentato e personalizzato. Sommando on-line e off-line, i data broker riescono ad attribuire ad un singolo profilo migliaia di attributi, ossia dettagli che ne descrivono in maniera sempre più precisa gusti, abitudini, preferenze. Solo per fare alcuni esempi, la piattaforma di gestione dati di Group M (4) di queste preferenze ne somma fino a 4.500; Oracle riesce ad associare a un profilo anonimo fino a 70.000 attributi. Una classificazione che ramifica le informazioni su sesso, educazione, composizione della famiglia, stili di vita,

Sport, proprietà immobiliari, rotte di navigazione su web e social network. Nonostante questi profili siano già molto nitidi, le aziende vogliono isolarli ancora di più. Il brokeraggio dei dati consiste proprio nell’incrocio di queste informazioni con quelle raccolte in altri silos. In termini tecnici questo processo viene detto “enrichment” (arricchimento). I dati dei broker, detti “di terza parte”, vengono incrociati con quelli che i loro clienti hanno raccolto in proprio (detti “di prima parte”) o acquisito dai loro partner (seconda parte). La sovrapposizione consente di creare un profilo il più possibile esatto del cliente. Si lavora sull’iper-personalizzazione per aumentare l’ingaggio dell’utente (5). Stiamo parlando dell’approccio “data driven” (letteralmente: essere guidato dai dati) che rappresenta l’applicazione del fenomeno Big data in campo aziendale. Avere un approccio di questo tipo significa far fruttare il tesoro dei Big data nelle imprese e utilizzare, in modo efficace, i dati nel processo decisionale. Le aziende data-driven considerano la gestione dei dati non come un fattore tecnico bensì come un pilastro strategico del business. L’analisi, dunque, esula dalle mere sensazioni personali per accentrarsi esclusivamente su numeri e fatti oggettivi. Se ne evince che è determinante avere a disposizione dati corretti, aggiornati e rilevati con frequenza cadenzata. A quanto detto occorre aggiungere che un grande supporto viene fornito dall’analisi predittiva di tipo probabilistico sui dati, che è alla base della profilazione. Le aziende, per definizione, operano in situazioni di incertezza, pertanto riuscire a prevedere il futuro e l’andamento del mercato diviene fondamentale. L’analisi dei dati può condurre a diversi livelli di conoscenza correlati alla tipologia di modelli di analytics messi in campo. Inoltre, l’utilizzo degli stessi richiede competenze e livelli di comprensione differenti dei fenomeni, oltre che la disponibilità e la capacità di analizzare i dati. È possibile identificare quattro categorie principali di modelli di analytics: 1) Descriptive Analytics: l’insieme di strumenti orientati a descrivere la situazione attuale e passata dei processi aziendali e/o aree funzionali. Tali strumenti permettono di accedere ai dati secondo modelli logici e di visualizzare in modo sintetico e grafico i principali indicatori di prestazione; 2) Predictive Analytics: strumenti avanzati che effettuano l’analisi dei dati per rispondere a domande relative a cosa potrebbe accadere nel futuro; sono

(4) Multinazionale della pubblicità che ha in archivio un miliardo di profili di consumo e in Italia 50 milioni di interazioni al giorno.

(5) Zorloni, Tutto quello che i dati dicono di noi (e le aziende pagano per sapere), in Wired, in <https://www.wired.it/economia/business/2019/04/08/dati-gdpr-big-data/>.

2. Dalla “data economy” alla “experience economy”

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PRASSI caratterizzati da tecniche matematiche quali regressione, forecasting, modelli predittivi, ecc; 3) Prescriptive Analytics: tool avanzati che, insieme all’analisi dei dati, sono capaci di proporre al decision maker soluzioni operative/strategiche sulla base delle analisi svolte; 4) Automated Analytics: capaci di implementare autonomamente l’azione proposta secondo il risultato delle analisi svolte (6). La data analytics, intesa come nuovo approccio data driven, può essere guardata alla luce di un’evoluzione della business intelligence (analisi statistiche descrittive) che integra analisi statistiche di tipo inferenziale, analisi di regressione, che si avvalgono di modelli matematici e probabilistici e algoritmi di apprendimento. Pur non potendo in questa sede approfondire ulteriormente, si ritiene utile evidenziare l’impatto che la Predictive Analytics sta producendo sulle aziende. Le analisi predittive, infatti, forniscono delle informazioni di carattere deduttivo, basate su dati e probabilità di un determinato risultato con margini di errore molto bassi. La Predictive Analytics non si basa su astratte ipotesi ma sull’elaborazione di immensi ammassi di dati che, adeguatamente processati, permettono di estrapolare informazioni comportamentali di ampi gruppi di utenti semplicemente analizzando le loro azioni nel passato. È importante sottolineare, però, che la Predictive Analytics, in quanto fondata su un calcolo di tipo probabilistico, è soggetta ad un margine di errore e ciò, come vedremo più avanti nel corso della trattazione, rischia di violare il principio di esattezza dei dati. Un’applicazione comune di analisi predittiva è quella finalizzata a produrre un punteggio di affidabilità delle persone. Per esempio i valori assegnati, dagli istituti finanziari, ai propri clienti in relazione alla probabilità che questi effettuino futuri pagamenti nei tempi previsti per il prestito ricevuto; oppure quelli che vengono assegnati dalle aziende ai propri dipendenti in relazione alla probabilità di permanenza in azienda o di abbandono della stessa. Occorre ricordare, però, che i dati assumono valore economico soprattutto perché contengono informazioni di carattere generale e possono rappresentare l’operato del consumatore medio. Essi forniscono informazioni sugli schemi tipizzati di un comportamento individuale e, aggregando i dati di decine o centinaia di migliaia di utenti, offrono informazioni fondamentali in ottica predittiva. Quindi, nella sostanza, non ha grande valore il

comportamento del singolo utente preso in modo disaggregato, al contrario, sarà determinante la sommatoria dei comportamenti di tutti gli utenti profilati. In questo modo potrà costruirsi una previsione comportamentale relativa a quella determinata tipologia di utenti. In altre parole, se riusciamo a sapere come reagiscono e cosa desiderano gli utenti, allora possiamo prevedere, con un certo grado di accuratezza, il loro comportamento futuro. Di conseguenza stanno scomparendo sempre più le analisi campionarie che hanno caratterizzato l’analisi statistica, economica e sociale, del Novecento; le informazioni vengono raccolte globalmente su interi gruppi di cittadini e le analisi che ne derivano, grazie all’uso di algoritmi sempre più efficienti, producono sistemi produttivi sempre più raffinati, circa le caratteristiche di tipi di individui e dei loro comportamenti. Basti pensare, per fare alcuni esempi, che tramite l’uso di tecniche computazionali e di machine learning (7), alcuni studiosi, fra i quali Michael Kosinski (8), hanno realizzato algoritmi che permettono di confrontare l’accuratezza dei giudizi espressi sulla personalità degli individui con le valutazioni delle macchine computazionali. In un suo studio Kosinski (assieme ai colleghi David Stillwell e Thore Graepel) ha dimostrato come bastino pochi like per identificare l’orientamento politico di un soggetto (con una probabilità dell’85%); il suo credo religioso (con una probabilità dell’82%); il genere (con una probabilità del 93%); l’origine etnica (con una probabilità del 95%) (9). Bisogna considerare che, paradossalmente, le predizioni possono essere molto più esaustive delle informazioni consapevolmente rilasciate dagli utenti. Difatti, i modelli di Big data analytics permettono di ricostruire dati personali indipendentemente dalla modalità con i quali sono stati rilasciati all’origine. Ciò rende, ormai, del tutto superata, non solo la tradizionale classificazione fra dati personali e dati non personali, ma anche quella fra dati strutturati e non strutturati ai fini dell’efficacia della profilazione. La Big data analytics segue generalmente un percorso circolare basato su 6 punti: 1) l’utente, anche attraverso delle “cose” a lui appartenenti, genera il dato; 2) il dato viene acquisito e raccolto; 3) il dato viene poi aggregato ad altri dati (di solito in banche dati semi-strutturate);

(7) Si tratta dei cd. modelli psicometrici.  (6) Fabbri, Estrarre valore dai dati: modelli predittivi e competenze necessarie, in zerounoweb <https://www.zerounoweb.it/techtarget/searchdatacenter/estrarre-valore-dai-dati-modelli-predittivi-e-competenze-necessarie/>.

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(8) Creatore dell’app My personality.  (9) Kosinski – Stillwell – Graepel, Private traits and attributes are predictable from digital records of human behavior, in <https://www.pnas.org/ content/110/15/5802>.


PRASSI 4) sull’insieme di questi dati, si utilizzano tecniche algoritmiche di Big data analytics per l’individuazione di “ideal-tipi” (segmentazione degli utenti); 5) ciascun individuo viene attribuito ad un “tipo” (in termini di caratteristiche socio-economiche); 6) l’utente (e non più i suoi dati) riceve, attraverso algoritmi di raccomandazione, servizi personalizzati e varie forme di inserzioniamo pubblicitario (10).

3. Profilazione e processi decisionali automatizzati

Per profilazione si intende l’insieme delle attività di raccolta ed elaborazione dei dati inerenti agli utenti di un servizio, al fine di suddividerli in gruppi - i cd. cluster - a seconda del loro comportamento (segmentazione) (11). Il nuovo Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati (Regolamento UE n. 2016/679) all’art. 4, punto 4 definisce la profilazione come “qualsiasi forma di trattamento automatizzato di dati personali consistente nell’utilizzo di tali dati personali per valutare determinati aspetti personali relativi a una persona fisica, in particolare per analizzare o prevedere aspetti riguardanti il rendimento professionale, la situazione economica, la salute, le preferenze personali, gli interessi, l’affidabilità, il comportamento, l’ubicazione o gli spostamenti di detta persona fisica”. Il considerando 24 del Regolamento specifica ulteriormente che, per stabilire se si è in presenza di profilazione “è opportuno verificare se le persone fisiche sono tracciate su internet, compreso l’eventuale ricorso successivo a tecniche di trattamento dei dati personali che consistono nella profilazione della persona fisica, in particolare per adottare decisioni che la riguardano o analizzarne o prevederne le preferenze, i comportamenti e le posizioni personali”. È bene inoltre ricordare che la profilazione deve essere svolta, in ottemperanza al principio di pertinenza e proporzionalità, utilizzando i soli dati strettamente necessari per la finalità indicata. In sostanza la profilazione consta di tre caratteristiche fondamentali: - deve essere una forma di trattamento automatizzato; - deve essere effettuata su dati personali; - il suo obiettivo deve essere quello di valutare aspetti personali relativi a una persona fisica (12).

(10) Del Mastro – Nicita, Big data. Come stanno cambiando il nostro mondo, Bologna, 2019.  (11) Iaselli, Big Data, il problema della profilazione e della dispersione dei dati personali, in federprivacy, <https://www.federprivacy.org/informazione/punto-di-vista/big-data-il-problema-della-profilazione-e-della-dispersione-dei-dati-personali>.  (12) WP 251 rev.01, Gruppo di lavoro articolo 29 per la protezione dei dati, “Linee guida sul processo decisionale automatizzato relativo alle persone fisiche e sulla profilazione ai fini del Regolamento 2016/679”.

L’art. 4 parla di “qualsiasi forma di trattamento automatizzato” e non di trattamento “unicamente” automatizzato. Ciò significa che la profilazione deve implicare una qualsiasi forma di trattamento automatizzato nonostante il coinvolgimento umano non comporti necessariamente l’esclusione di tale attività. Ovviamente non deve trattarsi di mero “tracciamento” dell’interessato che naviga online, ma di analisi per estrapolarne le scelte comportamentali utili ai fini commerciali. Per quanto riguarda invece il processo decisionale automatizzato bisogna precisare che esso ha una portata diversa rispetto alla profilazione a cui può sovrapporsi parzialmente o da cui può derivare. Come viene osservato nelle “Linee guida sul processo decisionale automatizzato relativo alle persone fisiche e sulla profilazione ai fini del regolamento 2016/679”, il processo decisionale esclusivamente automatizzato, consiste nella capacità di prendere decisioni impiegando mezzi tecnologici senza coinvolgimento umano. Se i vantaggi della profilazione sono indubbi, resta da analizzare la questione legata alle problematiche. Si ritiene utile esaminare, seppur brevemente, le caratteristiche e i rischi dei nuovi modelli di profilazione e il tema dei dati personali inferiti (inferred data). Fra i nuovi modelli di profilazione annoveriamo la profilazione da accumulo e la profilazione del contesto. Per quanto riguarda la profilazione da accumulo occorre dire che consiste nell’accumulare incessantemente dati sui comportamenti ricorrenti di una persona. Si rileva che, in sostanza, la sua utilità si risolve nel ridurre il rischio della previsione sulla reiterazione futura dei suoi comportamenti consueti. Questo tipo di profilazione, quindi, non genera conoscenza nuova sulla persona ma tende piuttosto a confermare sempre di più uno stereotipo. Trascorso un po’ di tempo il beneficio marginale, che deriva dall’accumulo di nuovi dati, diventa trascurabile. Oltre una certa quantità di informazioni ottenute può essere infatti persino più elevato il costo del trattamento rispetto al beneficio che si ottiene dalla conferma dello stereotipo. Sicuramente di maggior interesse per l’osservatore è la profilazione del contesto, ossia la previsione di un comportamento nuovo della persona che potrà verificarsi in futuro. Questo tipo di previsione è un atto creativo che non ha nulla a che vedere con la profilazione da accumulo. Generalmente chi fa questa previsione si assume il rischio di sbagliare e di vanificare la sua “strategia di marketing”. Logicamente l’obiettivo principale sarà quello di ridurre tale rischio con ogni mezzo e il modo più efficace e razionale per farlo è studiare il comportamento degli utenti target. L’osservatore per ridurre l’errore deve analizzare le scelte ed i comportamenti del

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PRASSI maggior numero di persone possibile, in modo da intrecciare i dati dei singoli profili. In questo senso, anche l’osservazione del comportamento più insignificante è preziosa, perché può essere la connessione che rende il nostro profilo simile a quello di altri, e che consente questa estensione. Per questo tipo di profilazione non serve quindi l’accumulo di dati su una sola persona. È la varietà dell’osservazione che conta, non la sua sistematicità: i tanti modi in cui un prodotto può essere impiegato nei più svariati contesti, le nostre tante manifestazioni digitali, in apparenza disparate, anche mostrate una sola volta.

4. Il ruolo delle principali piattaforme online nell’economia globale

Giunti a questo punto del presente lavoro appare utile fare una premessa metodologica sul proseguo della trattazione. Si ritiene utile procedere dapprima all’analisi del sistema nel suo complesso per poi entrare nel merito delle dinamiche delle singole aziende. Sicché, in questo paragrafo verranno presentate le caratteristiche essenziali delle tre aziende prese in esame e nel successivo si provvederà a realizzare il confronto dei modelli di profilazione delle “Big 3” (13). La problematica, su cui cercheremo di porre maggior attenzione, è quella legata alle tecnologie impiegate da queste grandi aziende High Tech per raccogliere e custodire tali enormi quantità di dati. L’intenzione cardine su cui si impernia l’attività di analisi è costruita sull’idea di preservare i dati raccolti da occhi indiscreti (inclusi quelli dei governi e delle autorità di pubblica sicurezza), con l’intento di sfruttarli economicamente (14). Le piattaforme online presentano caratteristiche peculiari, non solo dal punto di vista tecnologico ma anche da quello economico, data la complessità dei mercati e dei soggetti che interconnettono a livello globale. Nell’ultimo anno le prime cinque piattaforme online ovvero Apple, Amazon, Google, Microsoft e Facebook, hanno fatturato oltre 700 miliardi di dollari, con un utile netto pari a circa 110 miliardi, quindi superiore al 15% dei ricavi. Ciò vuol dire, un indice di redditività circa 4 volte superiore a quello stimato per le principali imprese italiane (secondo la classificazione di Mediobanca). Ovviamente questa stima fatta poc’anzi non tiene in considerazione le asimmetrie di tipo fiscale.

(13) Con questa definizione vengono tipicamente definite Facebook, Amazon e Google.  (14) Facebook ne è l’esempio principale, basti pensare allo scandalo Cambridge Analytica. Per approfondimenti vedi: <https://www.ilsole24ore.com/art/scandalo-cambridge-analytica-cosi-nostri-dati-facebook-finiscono-mercato-app-AEg3urJE>.

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Oggi poche oligarchiche piattaforme online competono in contesti di mercato a livello mondiale. Tutto ciò sta rivoluzionando la struttura dei mercati, anche di quelli di tipo tradizionale in cui sono entrate prepotentemente le aziende digitali che, sempre più spesso, espandono la loro influenza in ambiti dell’off-line. Facebook, Amazon, Google e Netflix, ma anche Microsoft e Apple rappresentano l’emblema della New Economy. Ormai sono dei veri grandi monopoli che generano enormi ricchezze che però non si diffondono, restando concentrate in mano a pochi. In questa parte della trattazione, per meglio comprendere le differenze di gestione e profilazione dei dati, si ritiene utile esaminare il core business e l’operatività delle aziende prese in esame. Principiando da Google occorre dire che l’azienda definisce così il suo core business: “Generates revenues primarly by delivering online advertising that consumers Find relevant and that advertisers Find cost-effective”. Tale attività di vendita pubblicitaria, come noto, trae origine da un motore di ricerca progettato dai fondatori di Google, i cui principi costitutivi sono stati messi appunto mentre, entrambi i creatori, erano ancora studenti dell’Università di Stanford. Quel motore di ricerca iniziale si è poi nel frattempo molto evoluto, sempre con l’obiettivo principale di accrescere le proprie quote di mercato nell’advertising. Come osserva Steve Faktor (15), un brillante blogger americano, la strategia di Google può essere riassunta in tre punti fondamentali. - Google è un network B2B che consente ai propri clienti di fare pubblicità mirate. - Ogni servizio offerto da Google ai propri utenti deve raggiungere un obiettivo principale: creare il più grande mercato possibile per distribuire pubblicità. Ciò significa aumentare il numero degli utenti, la loro frequenza di visita, il tempo di permanenza (16). - Google si sta muovendo in varie direzioni: connettendo a Internet nuovi territori e intere popolazioni e, contestualmente, sta cercando di spingere gli utenti a trascorrere in quantità sempre maggiore il proprio tempo libero alla navigazione del web (esponendoli così alla visione delle inserzioni pubblicitarie). Potremmo dire che, ragionando su conseguenze estreme, Google immagina un mondo dove ogni cosa che tocchiamo sia connessa e percepita da un’intelligenza artificiale, la quale potrà discernere i comportamenti dell’individuo dalle sue azioni ed imparare ad anticipa-

(15) Faktor, Deconstructing Google’s Strategy, Forbes, Maggio 2013.  (16) Questo spiega perché Google propone servizi gratuiti o economici che sembrano rendere le nostre vite più libere o più produttive. Essi servono a far accrescere il mercato dell’advertising.


PRASSI re i suoi bisogni addirittura prima che gli si renda conto di averli. Google ha rivoluzionato i motori di ricerca da quando ha introdotto nel 1996, il suo famoso algoritmo “Page Rank Algorithm”. I motori di ricerca da allora si sono significativamente evoluti e oggi la maggior parte di essi è basata su “machine learning algorithms”. Google ha costituito una posizione di monopolio nel campo dei Big Data e ciò oltre a bloccare la concorrenza, rappresenta una minaccia per Google stessa la quale è stata oggetto di forti attenzioni da parte delle autorità anti-trust (17). Google, guidata dalla holding Alphabet, è nata sviluppando un motore di ricerca che si è presto affermato come leader di mercato. I motori di ricerca acquisiscono molti dati individuali che possono essere utilizzati, sia per lo scopo principale di business su cui si basa il finanziamento del servizio, la pubblicità online, sia per ulteriori, anche non previsti, usi. Successivamente, Google ha intrapreso una strategia di product envelopment volta ad allargare la platea dei servizi offerti. Nel corso del tempo, infatti, hanno inserito nuove attività come la gestione della posta elettronica (Gmail), la creazione di mappe gratuite (Google Maps), la predisposizione di servizi di navigazione satellitare ecc. In quest’ottica Google ha anche sviluppato e offre, attualmente, un browser di navigazione Web (Chrome), un sistema operativo per dispositivi mobili (Android), e uno store di app (Google Play). Fa parte di Alphabet anche la piattaforma YouTube, nata come piattaforma di ricerca e condivisione di contenuti musicali, ma poi estesasi ad ogni tipologia di contenuto. I servizi offerti si inseriscono nell’ambito di una complessiva strategia di acquisizione di dati individuali, che sostengono il modello di business (basato sull’offerta agli utenti di servizi per lo più gratuiti) adottato dalla piattaforma digitale. Per la nostra trattazione è utile individuare quali sono i dati profilativi tracciati da Google.

(17) Google è stata oggetto di vari filoni di accertamenti per l’abuso di posizione dominante. Una prima volta nel 2007 con l’acquisizione del colosso DoubleClick leader mondiale del settore dell’ad-serving (ovvero l’inserimento di materiale pubblicitario on-line), in questo caso non vennero riscontrate violazioni. Una seconda situazione venne attenzionata quando, sempre nel 2007, Google cercò di ostacolare il tentativo di Microsoft di fare la scalata al colosso Yahoo!. La vicenda si concluse quando, ormai palese la situazione di abuso di posizione dominante posta in essere da Google, quest’ultima decise, poco prima della pronuncia dell’antitrust, di defilarsi dalla trattativa di mercato. Seguirono altri rilevanti casi riguardanti i servizi di Google Books e AdWords che, tuttavia dopo una estenuante ma infruttuosa trattativa con l’autorità anti-trust europea quest’ultima affermò che “Google ha abusato di tale posizione dominante sul mercato accordando un vantaggio illegale al suo servizio di acquisti comparativi”. Per approfondimenti ci si permette di rinviare a Contaldo – Peluso, L’abuso di posizione dominante in internet, in Concorrenza, Mercato e Diritto dei consumatori, (a cura di Catricalà – Cassano – Clarizia), Torino, 2018.

GOOGLE tiene traccia dei seguenti dati: - - - - - - - - - - - - - - - - - - - -

Tipo di browser Impostazioni del browser Tipo di dispositivo utilizzato Impostazioni del dispositivo Sistema operativo utilizzato Operatore di rete mobile Numero di telefono Numero di versione dell’applicazione Indirizzo IP Attività del sistema del dispositivo Video guardati Informazioni vocali e audio Attività di acquisto Persone con cui condividi contenuti Attività su siti di terze parti (quelli che utilizzano contenuti Google, ad esempio le inserzioni) Numeri di telefono delle persone chiamate (se effettuate tramite i servizi Google) Numeri di telefono delle persone che chiamano (se effettuate tramite i servizi Google) Ora/Data/Frequenza delle chiamate (se effettuate tramite i servizi Google) Tipi di chiamate (se effettuate tramite i servizi Google) Posizione (con vari gradi di precisione a seconda dei servizi utilizzati e delle impostazioni del dispositivo).

Passando all’analisi di Amazon occorre dire che l’azienda è, oggi, uno dei maggiori retailer online del mondo. Agli albori il suo business era basato unicamente sulla vendita dei libri online, con il passare del tempo ha gradualmente ampliato le categorie merceologiche di prodotti venduti online introducendo materiale informatico ed elettronico per poi estendere ulteriormente a tantissimi altri settori. L’obbiettivo di fondo dell’azienda può essere sintetizzato nella volontà di vendere online tutto quello che è materialmente possibile acquistare per mezzo di un PC, un tablet od uno smartphone. Servizio che si è arricchito grazie ad una oculata ed efficiente capacità di sfruttare un sofisticato sistema di logistica che prevede la consegna entro un singolo giorno. Tuttavia definire Amazon solamente come un colosso del commercio elettronico è in realtà molto riduttivo se non addirittura fuorviante. Oltre al noto business della vendita online, l’azienda è anche un operatore leader nella fornitura di servizi di cloud alle imprese. Anzi, per essere sinceri, si potrebbe quasi dire che Amazon è prioritariamente un fornitore di servizi digitali che si occupa anche di e-commerce.

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PRASSI Infatti, come vedremo meglio nel proseguo, circa il 70% dell’utile aziendale deriva dai servizi digitali. Amazon è, infatti, come anticipato, leader nelle tecnologie e nelle infrastrutture di cloud computing (Amazon Web Services), ha sviluppato una tecnologia proprietaria, sia hardware che software, per la lettura dei libri digitali (Kindle), svolge e offre servizi di Web analytics (Alexa) e ha rivoluzionato il mondo della logistica (Amazon Prime). Le attività principali degli AWS (Amazon web services) sono le vendite globali di servizi, essenzialmente su cloud computing, legati a molte attività: dall’attività di calcolo ed elaborazione dati fino all’analisi degli stessi o alla gestione di database (solo per citarne alcune). Il tutto offerto a imprese, agenzie governative, startup e istituzioni accademiche. AWS costituisce oggi il settore più proficuo dell’azienda; essa ha registrato una crescita apparentemente inarrestabile negli ultimi anni, basti pensare che già nel 2015 arrivò a segnare un +70%, spingendo la stessa CIA (18) a siglare un accordo di 600milioni di dollari per usufruire di servizi sul cloud offerti da AWS. È proprio grazie ai profitti derivanti dai web services che Amazon può permettersi di vendere del retail a prezzi di costo o poco più alti, operando praticamente in perdita, pur riuscendo a reinvestire continuamente i dividendi per finanziare il proprio futuro. La strategia di Amazon nel retail è quella di comprare all’ingrosso e vendere al dettaglio con una politica molto aggressiva di sconti. Laddove Amazon nota che un inserzionista sta sviluppando un business altamente significativo, tenta di acquistare il settore facendo, a sua volta, una guerra commerciale contro quest’ultimo così da acquisire la nicchia di mercato. L’ingranaggio è tenuto quindi in piedi dai guadagni del mondo dei servizi sul web ed i numeri sono dalla parte di Amazon, lo dimostra il fatto che l’azienda risulta costantemente in crescita e che numerosi e importanti investitori continuano a puntare su di essa. Sembra doveroso ricordare che Amazon, fuori dai confini USA, è addirittura in netta perdita nel settore e-commerce. Infatti nel 2017 nel mercato UE “ha segnato una perdita di 876 milioni. In altri termini il più grande gruppo di vendite al dettaglio al mondo l’anno scorso ha segnato il suo record di vendite nel più grande mercato al mondo, l’Unione europea. Ma ha accettato di farlo perdendo 3,5 euro ogni cento euro di prodotti venduti ai propri clienti” (19).

(18) Per approfondimenti vedi: Ecco il vero mondo di Amazon: dalla Cia alle nuove attività in Italia, <https://it.insideover.com/politica/mondo-amazon-dagli-usa-allindia-tutte-le-sfide-del-colosso-del-web.html>.  (19) Cit. Fubini, I conti segreti di Amazon, <https://www.corriere.it/ economia/leconomia/18_settembre_04/i-conti-segreti-amazon-per-

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Da quanto brevemente descritto è chiaro che per Amazon, fuori dal nord America, non vede come prioritario l’immediato guadagno derivante dall’e-commerce. Questo paradosso può essere spiegato non l’intenzione di acquisire mercato e, con il tempo, estirpare il commercio al dettaglio e la grande distribuzione acquisendo una posizione pseudo-monopolista. Essenziale è l’espansione; tant’è vero che, nonostante le dure polemiche sulla web tax europea e sulle condizioni contrattuali dei suoi lavoratori, è trainata per ora dal cloud computing (20). Chiaramente tutta questa crescita non sarebbe possibile senza efficienti modelli di profilazione dei gusti degli utenti. Per tali ragioni il colosso americano ha costante bisogno di essere alimentato con informazioni acquisite dall’attività degli utenti. Nello schema che segue si verranno ad indicare le attività profilative svolte da Amazon. AMAZON tiene traccia di: - Interazione con i contenuti Amazon (acquisti, streaming, download, inclusi tempi di interazione) - Caricamenti di contatti - Comunicazioni con Amazon - Playlist compilate, liste di controllo, liste dei desideri e registri dei regali - Promemoria di occasioni speciali - Dettagli delle persone a cui sono stati inviati oggetti/regali (inclusi indirizzi e numeri di telefono) - Indirizzi email di amici e altri soggetti (se connessi in qualche modo con i servizi Amazon) - Registrazioni vocali da dispositivi Alexa - Immagini e video memorizzati in connessione con Amazon Services - Informazioni sullo storico del credito presso gli istituti di credito - File di log e configurazioni del dispositivo (incluse le credenziali Wi-Fi) - Indirizzo IP - Posizione del dispositivo o del computer - Utilizzo dell’applicazione - Dati di connettività - Preferenze impostazioni sito/app - Cronologia degli acquisti e dell’utilizzo dei contenuti

de-europa-ma-intanto-fa-chiudere-negozi-8f2717da-b012-11e8-943d-6f 0a93576229.shtml>.  (20) Carlini, Altro che e-commerce: ecco i servizi che fanno guadagnare Amazon, in Il sole24ore <https://st.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2018-05-07/altro-che-e-commerce--ecco-servizi-che-fanno-guadagnare-amazon-151209.shtml>.


PRASSI - Numeri di telefono utilizzati per chiamare il servizio clienti - Pagine di riferimento/uscita - Movimenti del mouse - Informazioni sulla consegna (compresi gli indirizzi più dettagliati) - Risultati della ricerca sul sito - Informazioni sui dispositivi e i servizi connessi a Internet collegati ad Alexa Un altro gigante digitale dell’economia dei dati è Facebook, il social network e social media, lanciato nel 2004, che offre ai propri utenti prodotti, funzioni, app, servizi, tecnologie e software. Il fatturato consolidato di Facebook Inc., già al 31 dicembre 2017, risultava pari a 33,9 miliardi di euro. Facebook conta circa 2,2 miliardi di utenti mensili attivi in tutto il mondo, con circa 31 milioni di utenti in Italia. Il gruppo ha esteso la propria attività alla piattaforma di condivisione immagini Instagram (quasi un miliardo di utenti registrati), alle piattaforme di messaggistica privata di singoli utenti e gruppi Facebook Messenger (circa 1,3 miliardi di utenti) e WhatsApp (circa 1,5 miliardi di utenti). La missione di Facebook recita: “To give people the power to share and make the world more open and connected” (21). In realtà più che una missione questo statement è un mezzo: ampliare il numero di persone che si connette a Internet ed in particolare a Facebook, per incrementare i propri guadagni, basati sulla vendita di spazi pubblicitari sulle sue piattaforme di social networking. Se Google e Facebook dipendono entrambe dalle informazioni immesse dagli utenti, oltre che da quelle offerte da vari siti di informazione e imprese multimediali, è l’engagement, cioè la partecipazione e la condivisione sociale, la caratteristica distintiva di Facebook e Instagram. Una caratteristica che, dal lato della quantità e della qualità dei dati, permette di profilare con maggiore velocità gruppi di utenti e ampliare così le categorie dei dati di riferimento, dotandole di maggiore granularità. La profilazione non dipende ovviamente dalle informazioni che gli individui rivelano di sé agli altri, le quali talvolta sono artefatte dal narcisismo online, ma dalla sintesi che gli algoritmi riescono a realizzare in base alla natura multidimensionale dei nostri “sentimenti” e comportamenti online, su Facebook e fuori dalla piattaforma. Se usando Google l’impulso alla navigazione nasce da una ricerca, da uno stimolo che proviene dal singolo utente molto diverso è l’impulso sui social media. In quest’ultimo caso, infatti, l’attività online è generata principalmente dagli altri utenti. Le nostre interazioni,

(21) Facebook Annual Report, 31 dicembre 2014.

così, possono generarsi da un nostro feedback a contenuti realizzati da altri. Sicché l’engagement cresce all’incrementarsi del coinvolgimento, positivo o negativo che sia. Tutto questo meccanismo concorre a definire non solo il livello della nostra attenzione, ma anche l’oggetto di essa: ciò che ci interessa, ciò che ci attrae, ciò che ci infastidisce. Anche le espressioni d’odio stimolano la partecipazione e, in genere, una società divisa e polarizzata favorisce l’engagement e rende più semplice ed efficace anche la profilazione a fini commerciali (22). D’altronde il prodotto che Facebook vende alle aziende inserzioniste è proprio la possibilità di raggiungere gli utenti grazie a meccanismi di profilazione. Quindi, in linea di principio, più è elevata l’interazione sociale fra utenti e maggiore sarà la capacità di tenere traccia dei dati acquisiti. Per la nostra analisi è utile elencare nella tabella che segue i dati profilativi trattati da Facebook. FACEBOOK tiene traccia di: - Contenuti utente (foto, commenti, ecc.) - Comunicazioni con il servizio Facebook - Se i messaggi di posta elettronica del servizio vengono aperti dagli utenti - Elenco contatti (dove usato per trovare amici) - Componenti aggiuntivi dispositivo/browser - Indirizzo IP - Tipo di browser - Indirizzi web di accesso o di uscita - Numero di clic - Pagine visualizzate sul sito - Sistema operativo - Versioni software - Versioni hardware - Livello della batteria - Potenza del segnale di rete - Spazio di archiviazione disponibile - Nomi di app e file - Plugin - Latitudine/Longitudine in cui le foto sono geo-taggate - Interazioni con gli utenti (pagine, hashtag, account, gruppi) - Tempi/date di utilizzo del prodotto - Informazioni che altri forniscono sull’utente (Condivisione di foto, commenti sulle foto, invio di mes-

(22) Menghini, Le FANGs - Facebook, Amazon, Netflix, Google, Firenze, 2017.

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PRASSI saggi all’utente e uploads, sincronizzazione, importazione delle informazioni di contatto) - Se le finestre sono in primo piano o in background - Movimenti del mouse - Segnali Bluetooth locali - Punti di accesso Wi-Fi nelle vicinanze - Ripetitori della rete telefonica mobile nelle vicinanze - Operatore di rete mobile - Numero di telefono - Lingua - Attività su siti di terze parti (quelli che utilizzano contenuti di Facebook, ad esempio un pulsante “Mi piace” o un sistema di accesso basato su Facebook) inclusi acquisti, annunci visti, siti visitati, informazioni sul dispositivo e utilizzo del servizio. - Posizione corrente - Indirizzo di casa - Località visitate comunemente - Aziende e persone vicine a te - Riconoscimento facciale (se consentito)

5. Il confronto dei modelli di profilazione delle Big 3

Come abbiamo anticipato nel corso della trattazione, il nostro sublime vantaggio del “vivere connessi” espande i nostri orizzonti, apre le nostre menti e permette di risolvere i problemi di asimmetrie informative a netto vantaggio del consumatore. Tuttavia ogni cosa ha un suo prezzo. Ciò che realmente paghiamo per questa emancipazione, nonché per la disponibilità di questi servizi è apparentemente sfumato nell’ambiguità. Infatti è difficile rendersi conto che ogni volta che utilizziamo Facebook, Instagram, WhatsApp, Amazon o uno dei tantissimi servizi di Google, stiamo cedendo a queste aziende una parte della nostra vita. Forse sarebbe più corretto dire un piccolo tassello del puzzle che trasferisce informazioni su di noi, sui nostri gusti, sulle nostre relazioni, sulla nostra emotività, sulla nostra esistenza. Chiaramente questi dati sono processati su autorizzazione dell’utente che, spesso, ignora l’importanza degli stessi. Ciò non in senso assoluto, è chiaro che ogni utente è ovviamente in grado di comprendere quale sia il valore dei propri dati, ma li percepisce in un’ottica quasi utopistica. L’utente, purtroppo, non ha la preparazione per focalizzare tre elementi cruciali. In primo luogo non ha contezza che i suoi dati siano stratificati, ogni singola attività svolta sul portale ovvero attraverso una app o semplicemente con il device non è fine a sé stessa ma alimenta la conoscenza profilativa dell’utente. In altre parole la sommatoria di piccole informazioni (es. ogni like, ogni commento, ogni click, ogni azione, ogni visua-

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lizzazione, ogni interruzione del processo di discesa nel funnel commerciale) prodotte decine di volte al giorno, durante tutto il giorno acquisite in mesi o anni; possono intrecciarsi assieme e creare un profilo ben delineato. In secondo luogo l’utente non è stato edotto che dall’analisi dei dati di migliaia, se non milioni di utenti, si possono costruire strumenti di marketing di eccezionale potenza. Si pensi agli sviluppi del neuromarketing che studia la scia comportamentale dei consumatori proiettandoli verso delle scelte (23). In fondo “conoscere i meccanismi che regolano il cervello umano, per poter prevedere come veicolare un messaggio nel modo più preciso possibile, così come innescare le reazioni desiderate in risposta a stimoli o provocazioni mirate” (24) è la discriminante per rendere di successo una azienda. In terzo luogo l’utente non si rende conto che la profilazione è costante, in ogni momento, anche il “non fare qualcosa” trasferisce informazioni, garantisce la possibilità di acquisire le abitudini e questo avviene in assenza di processi gestiti da operatori umani. Gli algoritmi di profilazione scrutano e seguono la scia di dati costantemente lasciata dagli utenti. Gli algoritmi processano tutte le informazioni che immettiamo, non si stancano, lavorano senza sosta, costantemente. Ogni volta che consultiamo un servizio offerto dalle tre aziende poc’anzi presentate, offriamo informazioni. Spesso ciò avviene indipendentemente dalla nostra attività. Paradossalmente anche se teniamo inerte il nostro device stiamo trasferendo informazioni. Infatti potrebbe avere il GPS attivo e segnalare la posizione, avere il Wi-fi e condividere dati utili, potremmo aver autorizzato l’attivazione del microfono o quant’altro. Purtroppo quasi sempre la formulazione dell’informativa sulla privacy è talmente dettagliata e contorta che quasi nessuno la legge davvero (25). In realtà, l’informativa creata da queste aziende ha una visione abbastanza essenziale che può essere schematizzata in modo brutale: acquisire i dati degli utenti al fine di sfruttarli per fini commerciali. Anziché analizzare una per una le privacy policies delle tre maggiori realtà mondiali dell’high tech, attività che richiederebbe un’elencazione assai prolissa ed estremamente poco proficua rispetto all’obiettivo che quest’opera si pone, appare più interessante analizzare gli schemi  (23) Vedi Thaler – Sustein, Nudge. La spinta gentile. La nuova strategia per migliorare le nostre decisioni su denaro, salute, felicità, Milano, 2014.  (24) Saletti, Neuromarketing e scienze cognitive per vendere di più sul web, Palermo, 2019.  (25) Bisogna ammettere che negli ultimi anni, anche alla luce dei recenti scandali es. Facebook-Cambridege Analytica su tutti, le informative sono state elaborate in maniera più chiara e comprensibile.


PRASSI presentati in precedenza grazie a un interessante strumento creato da “Vpnmentor” (26). Il confronto dei sistemi di profilazione delle Big 3 evidenzia che Facebook è l’azienda che traccia la più vasta eterogeneità di dati e che quindi sembrerebbe presentare il più alto rischio di intrusione nella privacy degli utenti. In effetti ciò non stupisce più di tanto se solo riflettiamo sul fatto che Facebook, proprio per la sua natura di social network (a maggior ragione se si considera anche Instagram e WhatsApp sue controllate) si pone l’obbiettivo di mettere in contatto fra loro le persone. Del resto, i comportamenti e le azioni che poniamo in essere sui social network, in particolar modo su Facebook, sono spesso dettati dall’emotività e dall’istintività del momento, fattori che ci inducono senza alcun dubbio a rilasciare informazioni, private e non, anche inconsciamente e molto probabilmente con una certa leggerezza. Secondo alcuni (27) non esiste unicamente il caso del Cambridge Analytica ma ce ne sarebbero molti altri ancora ignoti. Tuttavia lo scandalo appena citato resta il più noto. È bene ricordare che fece precipitare Facebook in un’enorme crisi di pubbliche relazioni, dopo l’elezione di Donald Trump come presidente americano. I dati raccolti da Cambridge Analytica riguardavano anche, banalmente, i like delle persone su Facebook. Incluso il modo in cui sono stati utilizzati come terreno per alcune campagne pubblicitarie prima delle elezioni negli Stati Uniti (28). Quanto agli elementi comuni tracciati dalle “Big 3”, troviamo certamente il tracciamento della “posizione”, elemento essenziale per ogni attività di advertising e le “informazioni sul dispositivo e il suo utilizzo”. Se per alcuni contenuti generalmente diamo per acclarato che la nostra posizione venga tracciata solo con il GPS per altri non è così. Nel primo caso possiamo fare l’esempio del tracciamento GPS usato da Google Maps ovvero il sistema di tag di geolocalizzazione di Facebook per mostrare ai nostri amici dove ci troviamo (29). Ben differente è la situazione di servizi che, apparentemente, non ci fanno ragionare sulla tracciabilità. Essa  (26) “Who’s watching you?” By vpnMentor: <https://www.vpnmentor. com/research/whos-watching-you/#/>.  (27) Noor, There are plenty more like Cambridge Analytica. I know – I’ve used the data, In The Guardian Fonte: <https://www.theguardian.com/ commentisfree/2018/mar/23/plenty-more-like-cambridge-analytica-data-facebook>.  (28) Meineck, Nove cose che Amazon sa su di te - e che non pensavi potesse sapere, in Motherboard Tech by Vice, <https://www.vice.com/it/article/ a3a5xa/amazon-prime-day-privacy-data-tracking>.  (29) Stessa cosa può dirsi per la condivisione della posizione con WhatsApp.

può avvenire anche attraverso meccanismi più subdoli. Per esempio, Facebook tiene conto, oltre alla posizione corrente rilevata con il GPS, anche dei segnali Bluetooth locali, di tutti i punti di accesso Wi-Fi nelle vicinanze, i ripetitori della rete telefonica mobile attivati, l’indirizzo della propria abitazione, le località più comunemente visitate e le aziende e le persone vicine. Parimenti opera Google, tant’è vero che nella loro privacy policy dell’azienda si può leggere “Quando un utente utilizza servizi Google, potremmo raccogliere ed elaborare informazioni sulla sua posizione. Utilizziamo varie tecnologie per stabilire la posizione, inclusi indirizzo IP, GPS e altri sensori che potrebbero, ad esempio, fornire a Google informazioni sui dispositivi, sui punti di accesso Wi-Fi e sui ripetitori di segnale dei cellulari nelle vicinanze”. Relativamente ad Amazon occorre dire che, di default non richiedono la geolocalizzazione e non vi è uno specifico richiamo nella loro privacy policy. Tuttavia, l’uso dell’app Amazon shopping utile per una più completa fruizione dei servizi su dispositivi mobile, richiede esplicitamente l’autorizzazione all’uso di strumenti adatti a rilevare la posizione. Visto che oltre i ¾ della navigazione web mondiale avviene da mobile la geolocalizzazione di Amazon è quasi scontata. Nello specifico vengono usati strumenti di rilevazione delle reti wi-fi, delle connessioni Bluetooth, GPS e celle telefoniche, ovviamente su autorizzazione del cliente. Per quanto riguarda le “informazioni sul dispositivo e il suo utilizzo” si ritiene giusto soffermarsi sulla loro importanza specialmente dal punto di vista dell’enorme utilità che esse rivestono per quanto riguarda le indagini di mercato. Parimenti sono altamente rilevanti per l’indirizzamento degli advertiser pubblicitari oltre a contribuire, seppur in maniera meno diretta, su indagini per lo sviluppo tecnologico. Informazioni come il modello di smartphone o altro device che stiamo utilizzando e le sue relative impostazioni, tipo di browser utilizzato e le sue relative impostazioni, la potenza del segnale ricevuto, il nostro operatore di rete mobile, lo spazio di archiviazione che abbiamo disponibile, i nomi delle app e dei files che abbiamo sul nostro smartphone, le attività su siti di terze parti, possono risultare essenziali per profilare l’utente al fine di renderlo un perfetto bersaglio per una efficiente operazione di web marketing. Facciamo un esempio chiarificatore, ipotizziamo di utilizzare uno smartphone obsoleto, in questo caso sarà molto probabile ricevere banner pubblicitari attinenti modelli nuovi di zecca a prezzi concorrenziali, come è altrettanto probabile essere invitati ad utilizzare frequentemente un browser diverso rispetto a quello che utilizziamo più abitudinariamente. Persino informazioni come il “numero di click” o i “movimenti del mouse”, che possono sembrare ad un primo

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PRASSI approccio poco significativi, potrebbero rivelarsi fondamentali per capire in che modo “scrolliamo” le pagine web e quindi anche quanto tempo mediamente ci soffermiamo su un’inserzione pubblicitaria. Nel mondo della profilazione, anche i piccoli gesti, apparentemente ininfluenti sono analizzati. Parlando di Amazon, trattandosi di un’azienda che svolge attività di e-commerce, dobbiamo dare per scontato che sappia il nostro indirizzo e il numero della nostra carta di credito, in quanto sono requisiti essenziali per fare acquisti e per far arrivare la merce ordinata presso la nostra abitazione. Può stupire il fatto che Amazon conservi tutte le registrazioni vocali avute da dispositivi Alexa e le informazioni sui dispositivi e servizi connessi ad Internet ad essa collegati (30). Si pensi solo che nell’estate 2019 la casa di Seattle è stata accusata negli Usa di violare la privacy dei bambini con gli smart speaker “Echo Dot Kids”; in un altro caso, è emerso che una app (di Amazon: “Neighbours”) collegata ai citofoni intelligenti di Amazon: c.d. “Ring”, consentiva agli utenti di ricevere informazioni su attività sospette e crimini commessi nel proprio quartiere, notificate in tempo reale (31). Amazon conosce meglio di ogni altra piattaforma i nostri gusti personali, i nostri hobby e può arrivare a conoscere perfino alcuni aspetti del nostro stato di salute dato che tra i vari prodotti acquistabili ci sono anche prodotti di bellezza, per il corpo e anche parafarmaceutici. Amazon non solo sa quello che abbiamo comprato nel corso degli anni, ma anche quello che non abbiamo comprato ma ci interessava. L’azienda salva e analizza tutti i prodotti e le pagine che visitate, anche se poi non è stato comprato nulla. Comprese tutte le cose che erano troppo costose o troppo imbarazzanti per premere “acquista”. Ne consegue che il tracciamento, rileva ogni singola azione compiuta, anche se non ha portato ad un effettivo acquisto di prodotti. Così, la società di Jeff Bezos è in grado di conoscere, con buona accuratezza, i nostri interessi culturali e spesso anche i nostri orientamenti politici. Teniamo sempre a mente che Amazon nacque come piattaforma di vendita di libri online e che questo è tutt’oggi uno dei suoi business primari. Quindi, considerando anche l’introduzione degli ebook e della sua tecnologia proprietaria per il proprio Ebook reader “Kindle”, è facile intuire come,  (30) Si noti che la stessa cosa fa Google per quanto riguarda tutte le registrazioni vocali legate al suo Google Assistant relative agli smartphone e i dispositivi Google Home.  (31) Casati – Pennisi, Privacy e concorrenza, ecco perché Amazon è il «nuovo grande indiziato, in Corriere della Sera <https://www.corriere.it/economia/ consumi/19_giugno_03/privacy-concorrenza-ecco-perche-amazon-nuovo-grande-indiziato-7b833fea-8377-11e9-89bd-2f20504508c1.shtml>.

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oltre a sapere molto bene cosa leggiamo, l’azienda sia anche in grado di condizionare i nostri gusti dato che consiglia determinati libri in base al profilo. Attenzione, attraverso i Kindle non solo sono in grado di capire i volumi che abbiamo acquistato ma anche quante pagine abbiamo letto, in che punto del volume ci siamo fermati, a quale ora lo leggiamo e da quanto tempo non riapriamo il file. Amazon inoltre inserisce nei propri database qualsiasi numero telefono da cui viene chiamata l’assistenza clienti e può arrivare a conoscere con un discreto livello di esattezza persino le fasi della nostra vita. Amazon non memorizza solamente l’indirizzo di consegna attuale ma salva anche quelli precedenti tant’è vero che nella loro informativa privacy si può leggere “Quando aggiorni le informazioni, di solito conserviamo una copia delle tue informazioni originali nei nostri archivi”. Se ne evince che l’azienda archivia tutte le informazioni storiche dell’utente. Il colosso dell’e-commerce può facilmente risalire alle persone che hanno un peso nella nostra vita. Ciò è possibile in quanto Amazon permette di fare regali o comunque di far recapitare il pacco a casa di qualcun altro o presso il luogo di lavoro e ovviamente anche queste informazioni saranno opportunamente memorizzate. Da ultimo, ma certamente non per importanza, bisogna sottolineare che Amazon ha un grande interesse a scoprire quanto denaro ipoteticamente possiedono i propri clienti e la loro propensione alla spesa. Questo perché il suo scopo principale è vendere. Ufficialmente può essere utile anche per riconoscere truffatori che non vogliono pagare i loro acquisti. A seconda dell’affidabilità dei pagamenti effettuati, infatti, Amazon può suggerire altri metodi. L’azienda, però, non memorizza solo l’entità di quanto abbiamo speso ma può attivamente anche chiedere informazioni sullo stato delle finanze dei clienti alle agenzie di credito. Dunque, come si è cercato di mostrare, seppur nella brevità della trattazione, i modelli di profilazione delle Big 3 si dipanano su idee molto diverse.

6. Limitazioni ed eccezioni al processo decisionale automatizzato

Rilevato quanto precede è il caso di fare qualche riflessione sul Regolamento europeo sulla Privacy. Il GDPR sancisce un generale divieto di sottoporre un individuo a processi decisionali automatizzati compresa la profilazione. Tuttavia l’articolo 22 del GDPR, par. 1, recita testualmente: “l’interessato ha diritto di non essere sottoposto a una decisione basata unicamente sul trattamento automatizzato, compresa la profilazione, che produca effetti giuridici che lo riguardano o che incida in modo analogo significativamente sulla sua persona”.


PRASSI Il termine “diritto” contenuto nella disposizione non sta però a significare che tale divieto generale si applica soltanto se invocato direttamente dall’interessato ma, al contrario, esso trova applicazione indipendentemente dal fatto che l’interessato intraprenda un’azione in merito al trattamento dei propri dati personali. Esso in sostanza chiarisce l’ambito di applicazione delle norme in materia, che è limitato alle sole ipotesi in cui l’attività di processo decisionale automatizzato: - produce effetti giuridici; - oppure incide in modo significativo sulla persona dell’utente; - e la decisione è basata interamente (solely) sul trattamento automatizzato dei dati. Esempi concreti di importanti effetti legali del processo decisionale automatizzato possono essere: l’adozione di misure di sicurezza, il diniego di attraversamento di una frontiera, il diniego di forme di assistenza sociale, il rifiuto di un impiego, il rifiuto della concessione di un prestito ecc. L’avverbio “unicamente” di cui al par. 1 sembrerebbe escludere le decisioni non esclusivamente automatizzate, incluse quelle in cui l’utilizzo di sistemi decisionali automatizzati sia combinato con determinazioni umane. Per quanto riguarda il rilievo dell’apporto umano le linee guida europee hanno chiarito che non qualsiasi intervento umano è idoneo a sottrarre una decisione automatizzata all’alveo dell’art.22, ma è tale solo quello posto in essere da chi sia dotato dei poteri per modificare la decisione, prendendone in considerazione tutti i dati pertinenti. L’intervento umano presuppone, quindi, la comprensione della logica sottostante alla decisione da parte dell’operatore. Per aversi un coinvolgimento umano il titolare del trattamento deve garantire che qualsiasi controllo della decisione sia significativo e non costituisca un semplice gesto simbolico. Pertanto il controllo dovrebbe essere effettuato da una persona che dispone dell’autorità e della competenza per modificare la decisione. Nel contesto di cui stiamo trattando, tale individuo dovrebbe prendere in considerazione tutti i dati pertinenti. L’art. 22 GDPR disciplina profili decisivi nel rapporto tra uomo e macchina e riveste, perciò, un ruolo assolutamente centrale negli assetti della società digitale. È disposizione applicabile in caso di utilizzo di sistemi decisionali di intelligenza artificiale e di machine learning. In questo caso l’ambito di applicazione materiale è talmente ampio che comprende, ad esempio attività risk-assessment che abbiano effetti rilevanti sulla sfera giuridica di persone fisiche (si pensi alla cd. “polizia predittiva”) ma anche la soluzione di situazioni contenziose interamente affidata a processi informatici (cd. “giustizia predittiva”).

Occorre, comunque, rilevare che esistono delle eccezioni. L’articolo 22, paragrafo 1, stabilisce un divieto generale all’adozione di un processo decisionale unicamente automatizzato, nello specifico laddove sia relativo alle persone fisiche con effetti giuridici o che incidano in modo analogo. Tuttavia, come previsto dal par. 2 dello stesso articolo, esistono delle eccezioni al divieto per cui un interessato può essere sottoposto ad un processo decisionale automatizzato, compreso la profilazione, quando: 1) il trattamento è necessario per la conclusione o l’esecuzione di un contratto tra l’interessato e il titolare (32) ma tale eccezione non si applica in caso di trattamento di dati sanitari; 2) vi è esplicito consenso al trattamento (33). 3) il trattamento è autorizzato da una legge o regolamento, che prevede altresì misure idonee a tutelare i diritti dei soggetti interessati; Si evidenzia che nei primi due casi il titolare di trattamento deve attuare misure appropriate per la tutela dei diritti, la libertà e i legittimi interessi dell’interessato. Difatti, secondo le linee guida europee del Gruppo di lavoro articolo 29, la profilazione può essere basata anche sui legittimi interessi del titolare del trattamento alla stregua del marketing diretto. Tuttavia occorre sempre effettuare un bilanciamento degli interessi per valutare l’eventuale prevalenza di quelli del titolare. Le linee guida suggeriscono di analizzare determinati parametri come: - il livello di dettaglio del profilo; - la completezza del profilo; - l’impatto della profilazione (ossia gli effetti nei confronti dell’interessato); - le misure di sicurezza volte ad assicurare equità, non discriminazione e accuratezza nel processo di profilazione. Per quanto riguarda i Cookie, se l’acquisizione dei dati avviene attraverso l’utilizzo di quest’ultimi, si applicherà la relativa normativa (Direttiva 2009/136/CE e successivi sviluppi a seguito del GDPR). Osservato quanto precede sembra ormai ovvio che potremmo continuare a disquisire a lungo sui compromessi che quotidianamente accettiamo per usufruire di servizi rapidi ed efficienti a discapito della nostra privacy  (32) La necessità deve essere interpretata in modo restrittivo, anche se i Garanti europei precisano che motivi di efficienza sono ritenuti sufficienti per giustificare l’utilizzo di sistemi decisionali basati su profilazione, a condizione che non vi siano metodi meno intrusivi che raggiungano lo stesso risultato.  (33) È bene ricordare che il consenso alla profilazione deve essere distinto rispetto al consenso relativo ad altri trattamenti.

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PRASSI e dei nostri diritti alla riservatezza. Tale trattazione può, ovviamente acquisire sia toni allarmistici che utopistici a seconda dell’ottica. Tuttavia l’intento di questa trattazione è mantenere un profilo il più possibile obbiettivo. È opinione di chi scrive che risulta palese la necessità di una uniforme, continua e costante produzione normativa al passo coi tempi. Ciò risulta utile per regolare i mercati e i meccanismi della data economy al fine di tutelare soprattutto l’anello più debole della catena, costituito sicuramente dai singoli utenti. Questi ultimi, infatti, abbagliati dalle promesse e dei vantaggi offerti dalla tecnologia, appaiono rinunciare, giorno dopo giorno, quasi inconsciamente, a una piccola parte dei propri diritti di riservatezza. Dall’altro lato è certamente ben accolto il lavoro di grande pregio che le aziende, in particolare le Big 3, compiono per creare dei servizi sempre più customer oriented e completi. Lo sviluppo di conoscenze migliori sui meccanismi di scelta degli utenti, a patto che gli utenti siano pienamente consapevoli, può dare un forte impulso al tessuto produttivo. Infatti grazie a questi nuovi ritrovati tecnologici si può operare con un certo grado di conoscenza del mercato evitando lanci di prodotti che potrebbero essere totalmente fallimentari. Permane, tuttavia, la preoccupazione sulla concentrazione di queste informazioni di profilazione in capo ad un gruppo oligarchico di aziende come Google, Facebook ed Amazon. Questa situazione, già ora, sembra foriera di uno squilibrio che può generare la scomparsa dei competitor e pericoli sia in capo all’economia che all’occupazione. Scrivevano, più di dieci anni fa Erich Schmidt (34) e Jared Cohen (35): “Nel prossimo decennio, la popolazione virtuale mondiale supererò quella della Terra. Praticamente tutti avranno uno o più alter ego online. In futuro chi siamo nella vita di tutti i giorni sarà determinato sempre più da cosa facciamo e chi frequentiamo negli ambienti virtuali” (36). La relazione tra dati, algoritmi, profilazione, modelli predittivi e sfruttamento economico dell’informazione è ormai evidente. Ed è una relazione che si basa su un sistema di regole di selezione per la realizzazione di un perfetto incontro (matching) tra domanda e offerta, nei vari versanti dei mercati intermediati dalle piattaforme online. I benefici sono evidenti e li abbiamo richiamati. Ma ci sono anche i rischi, sotto il profilo della concor-

(34) Erich Schmidt: è un dirigente d’azienda statunitense, amministratore delegato di Google dal 2001 al 2011 e da allora presidente del consiglio di amministrazione.  (35) Cohen è CEO di Jigsaw (ex Google Ideas).  (36) Simone, La Terza Fase. Forme di sapere che stiamo perdendo, Roma-Bari 2006.

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renza, della libertà di scelta, del pluralismo, della protezione del dato, ecc. Le innovazioni tecnologiche, da sempre, producono una tensione sui diritti esistenti, a partire dai diritti di proprietà ed a questo conseguono degli attriti tra tutela della privacy e tutela della concorrenza nell’ecosistema digitale. A nostro avviso è dunque sul tema del matching, della profilazione algoritmica e della trasparenza agli utenti che bisogna lavorare, nonché su meccanismi di opt-in e opt-out che permettano all’utente di conoscere e scegliere autonomamente il grado di esposizione selettiva ai contenuti determinati dalla profilazione algoritmica.


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