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POMEZIA-NOTIZIE

Novembre 2021

IL CALEIDOSCOPIO REALE DI

BARTOLO CATTAFI CARMELO ALIBERTI RILETTURA CRITICA DEL POETA E DELLA SUA OPERA di Lucio Zaniboni

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EL mondo letterario italiano, e non solo, vi sono poeti che dopo essere stati assunti a fama nazionale ed europea, dopo un’aura gloriosa, vengono a trovarsi nella condizione degli oggetti quotidiani su cui si posa la polvere che nessuno più toglie. E’ il caso di Bartolo Cattafi, originario di Pozzo di Gotta Barcellona (Messina). Per una ventina di anni ha ottenuto affermazioni importanti e pubblicazioni con editori di primo piano (Mondadori, Scheiwiller…), notorietà nazionale ed europea. Nel 1978 Pier Vincenzo Mengaldo non lo ha incluso tra i maggiori del Novecento. Poco dopo (1979) Cattafi è scomparso. A poco a poco il suo talento poetico e la sua opera sono caduti nell’oblio. Eppure tante, e importanti, voci critiche lo avevano esaltato: Forti, Erba, Raboni, Ramat, Finzi, Pento, Amoroso, Frattini, Squarotti, Isgrò, Spagnoletti, Petroni… Nel 2003 invero Paolo Maccari ne aveva pubblicato tutta l’opera con le edizioni Le Lettere, denunciando questa grave ingiustizia nei

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confronti di un poeta dal grande carisma lirico e alto valore d’originalità. Della stessa opinione è da tempo il critico letterario Carmelo Aliberti che nel saggio “Il poeta Bartolo Cattafi: cercò disperatamente Dio e lo trovò nell’arcipelago del cuore” introduzione di Jean-Igor Ghidina, (edizioni Terzo Millennio), con viva aderenza allo spirito del poeta, e alla sua statura lirico-moderna, ne delinea carattere, opere, progettualità e travaglio spirituale. Si ha così la visione di un poeta inquieto, attanagliato dal pensiero di un mondo in cui la morte ha aspetto preponderante. Siamo poco lontani dalla fine della seconda guerra mondiale (anche Cattafi era stato alle armi e ne conosceva gli orrori). Mi sembra riduttivo quanto alcune enciclopedie affermano: “La sua poesia dai toni epigrammatici traccia l’amaro simulacro di una generazione fallita, ricorrendo alle metafore del vuoto e della solitudine”. Sì, tutto questo c’è in Cattafi, ma vi è molto, molto di più e Aliberti, trattando una a una le sue opere, ne mette in luce sia il pensiero che lo studio della parola così “da voler ridurre all’osso la poesia, in modo da poter più nitidamente operare la cattura del midollo delle cose e stilare l’inventario degli oggetti e delle proteiformi manifestazioni della natura e dell’inconscio”. C’è in Cattafi uno sguardo intorno alla ricerca della fisicità del mondo che lo circonda e gli oggetti gli appaiono nella loro concretezza, mentre nella sua esplorazione prendono vita e urgenza come motivi fondamentali, l’insondabile del divino, il senso dell’esistenza, il destino finale dell’uomo, insieme alla ricerca delle origini del male e i richiami della memoria. Siamo nell’epoca degli sperimentalismi, in Italia e all’estero, ma Cattafi non viene ammaliato da queste ricerche, a volte puramente verbali. Partendo da una origine classica, dalla sua sicilianità, si afferma con uno stile personale, nuovo, moderno, “con accensioni liriche, lancinanti flash di nausea, sottesa pessimistica ironia” nel ridurre il verso all’essenziale.


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