ISSN 2611-0954
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Anno 30 (Nuova Serie) – n. 2
- Febbraio 2022 -
N° 14 della Serie online
EDITH DZIEDUSZYCKA ALGHE E FANGHIGLIA di Liliana Porro Andriuoli
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LGHE e fanghiglia è il titolo del nuovo libro di versi di Edith Dzieduszycka, la quale continua in esso la sua ininterrotta ricerca poetica, nascente dal dialogo che ella fa con la propria anima. Affiorano così i ricordi dal suo passato, alcuni tristi, altri liei, ma sempre capaci di rievocare attimi e giorni indelebili del vissuto. «Stanze della mia anima / innumerevoli / sparpagliate smaniose / intorno al nocciolo…» (Stanze della mia anima). Ed errabondi sono i suoi pensieri, che ella raccoglie, per trovare nutrimento al suo estro: «… stare immobile / tesa nell’ora oscura / in ascolto di ogni scricchiolio / della voce lontana che bisbiglia» (Stare in agguato). Di quanto ella percepisce da questo ascolto si salva talvolta soltanto una parola, che costituisce tuttavia pur sempre un prezioso bene: «Una parola sola / solo quella ricordo / di una poesia comparsa nella notte» e poi sparita «risucchiata nel gorgo in cui spariscono / d’una memoria
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L’essenza dell’universo, di Rocco Salerno, di Carmine Chiodo, pag. 4 Il Martiniello di Antonio Crecchia, di Salvatore D’Ambrosio, pag. 6 Una chiesa, un paese, una storia di M. F. di Villafalletto, di Domenico Defelice, pag. 8 Bambini schiavi, di Wilma Minotti Cerini, pag. 11 Il mio mondo finirà con te, di Lucio Zaniboni, pag. 14 Dentro la chiarezza della lingua, di Domenico Defelice, pag. 16 Ma Dier, pag. 17 Da Mattarella a Mattarella, di Domenico Defelice, pag. 35 Notizie, pag. 29 Libri ricevuti, pag. 33 Tra le riviste, pag. 35
RECENSIONI di/per: Isabella Michela Affinito (La chioma di Berenice, di Angelo Manitta, pag. 21); Franca Canapini (Il canto vuole essere luce, di AA. VV., pag. 22); Domenico Defelice (Canton Glarus. Cento anni della missione cattolica italiana (1912 – 2012), di Marcello Falletti di Villafalletto, pag. 24); Domenico Defelice (Con il sommo poeta Dante, di Antonio Crecchia, pag. 25); Elisabetta Di Iaconi (Volle… e volli sempre. La speculazione estetica e simbolica nella poesia di Vincenzo Rossi, di Imperia Tognacci, pag. 25); Manuela Mazzola (Lungo la via Vandelli, di Giorgio Mattei, pag. 26); Manuela Mazzola (Fuori dell’ombra e al chiarore delle parole, di AA. VV., pag. 27); Liliana Porro Andriuoli (Parole sospese, di Manuela Mazzola, pag. 28).
Inoltre, poesie di: Corrado Calabrò, Domenico Defelice, Ada De Judicibus Lisena, Salvatore D’Ambrosio, Nino Ferraù, Gianni Rescigno, Franco Saccà, Lucio Zaniboni
labile i ritrosi detriti» (Scontato). Un piacere maggiore nasce però in lei dal «vagare / da un pensiero all’altro» senza una meta, mentre l’ora è sospesa «tra l’infimo respiro del tramonto» (Sospesa stava l’ora). Dice Edith: «Dentro se stessi / scendere / sul fondo irraggiungibile» (Dentro se stessi); e questo ci dà l’idea del procedimento della sua ricerca, che tende ad indagare i recessi dell’io, nei quali ella discende per la virtù della parola. Ma anche la realtà esterna emerge viva dai suoi versi, come accade ad esempio nell’ultima poesia della prima sezione del libro, intitolata L’affiorare, che inizia con questi versi: «Bambini vacillanti dal passo insicuro / bambini oscillanti come bambole russe…» e termina con questi altri: «li culla / li sopisce / incantesimo forse / la nenia tremolante di una vecchia balia / dalla bocca sdentata / dalla chioma d’argento».
La seconda sezione del libro, L’infanzia, è marcatamente autobiografica, affiorando in essa non soltanto i ricordi della prima età della vita, quella più serena, come emerge da questi versi: «Tombolo della mia infanzia / accanto ad una vecchia contadina grinzosa», ma anche i cupi ricordi della guerra, quali emergono da altri versi: «… irruppe a mezzogiorno abbaiando / una squadra feroce / che alla vita vera e a noi tre sorelle / strappò all’improvviso padre e madre» (Successe una mattina plumbea di novembre). E si trattò di un evento traumatico, che privò Edith per sempre della presenza paterna. Si legga: «… presente e bruciante l’assenza di mio padre» (La chiave di quel racconto). Sono ricordi questi che sono rimasti imperituri nella mente di Edith, e per i quali ella dice: «Ma non può / non deve morire / cancellata dalla memoria stanca / la Verità…».
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(Ma non può), anche se la vita poi si smarrisce tra “alghe e fanghiglia” e tutto pare perdersi nella nebbia del passato. La sezione successiva, La nuova vita, si caratterizza per un più intenso sentimento della natura, specie in poesie quali Abbagliata sostavo sul crinale dell’ora, dove si legge: «… profumava di fieno d’erba tagliata viva/l’aria leggera…» o Era lì: «Era lì/l’albero che sognavo/miraggio irraggiungibile/in fondo all’ orizzonte//erto maestoso…» o ancora L’ oleandro sta lì: «L’oleandro sta lì/fermo/rigoglioso / … /L’ho piantato un anno fa…». C’è in questo libro cocente il rimpianto per le persone amate e per gli amici per sempre perduti: «… troppo presto purtroppo sei partito lontano…» (Con un pugno di note e con poche parole), dedicata a Jacques Brel e «Ho captato di te / uno sfumar di luce…» (Ho captato di te), dedicata a Michele. E c’è il sentimento della precarietà del nostro vivere: «Quanti ne ho persi / nel corso della vita / … / volti sfiorati appena come volti amati» (Quanti ne ho persi), unito a quello dell’imprevedibilità dell’accadere: «Potevo essere te / potevo essere me / oppure chiunque altro» (Potevo essere te). Così come c’è il sentimento dell’autosufficienza: «con me la sera trascorrerò // in fondo ci sto bene…» (Stamattina ho deciso). Dalla sezione L’ego si legga anche: «La mia mente ed io facciamo coppia fissa». Il libro di Edith si chiude con Le somme, nelle quali troviamo vari spunti ispirativi, che vanno dallo smarrimento cosmico: «Lontano firmamento popolato d’ignoto / a soltanto pensarti viene una vertigine…» (Lontano firmamento popolato d’ignoto) al motivo del giungere di un nuovo anno: «Mezzanotte è passata / Più vecchia di un anno / adesso mi ritrovo…» (Mezzanotte è passata). Tra le “alghe” e la “fanghiglia”, la nostra poetessa trova così anche cose preziose, come il tesoro dei sentimenti: «Rimarrà il sapere / per voi più che sicuro / che qui / vi ho amati» (Leggera non sarò): e sono le cose che più emergono dal contesto. A chi da tempo la segue nel suo itinerario poetico tra-
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smette eletti pensieri, affioranti dalle suggestive immagini e dalle felici soluzioni ritmiche che rendono prezioso il suo dire. Liliana Porro Andriuoli EDITH DZIEDUSZYCKA: ALGHE E FANGHIGLIA (Genesi Editrice, Rorino, 2021)
È IN TRADUZIONE NEGLI STATI UNITI D’AMERICA la silloge di poesie 12 MESI CON LA RAGAZZA di Domenico Defelice A tradurla è la dottoressa scrittrice e poetessa Aida Pedrina Ecco, di seguito, un brano nell’originale e nella bella traduzione: AMO LA LUNA Amo la luna che inargenta e indora i tuoi fini capelli; amo il sole che ti bacia al mattin tra rose e fiori; amo il mare di cui tu porti l’immensità negli occhi e lo splendore nelle pie pupille. Amo questo mio sogno ch’ad ogni istante a consolar la mia tristezza ti porta sopra il verso gentile. I LOVE THE MOON I love the moon that gilds with silver and gold your lovely hair; I love the sun that kisses you in the morning among roses and flowers; I love the sea of which you carry the immensity and the splendor in your eyes. I love this dream of mine which at every instant brings you on the gentle verse to ease my sadness.
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LA MISTERIOSA ESSENZA DELL’UNIVERSO DI ROCCO SALERNO di Carmine Chiodo
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ON piacere ricevo e leggo questa nuova e stupenda silloge poetica di Rocco Salerno, poeta molto presente e apprezzato nell’ambito della poesia contemporanea, finissimo esegeta di poesia e ferrato critico letterario. Salerno vive di poesia e nella poesia, ha frequentato e frequenta molti poeti, alcuni famosi, ai quali ha dedicato illuminanti studi monografici, come Dario Bellezza e Dante Maffia. Ma egli ha dato pure ascolto e posto l’attenzione su tantissimi altri del Novecento. Superfluo dire che Salerno è un conoscitore profondo di poesia italiana e straniera appartenente a diverse epoche ed egli nei suoi versi talvolta evoca i poeti amati e diletti, studiati con amore e competenza. Personalmente lo conosco da molto tempo e sempre mi ha attratto la sua personalità, seria, pensosa, equilibrata, in continua sintonia con la vita, con la realtà,
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con gli ambienti in cui si muove, con gli incontri che ha, con gli amici che frequenta, con le varie circostanze dalla vita, e da tutto ciò che la vita gli offre giorno per giorno ricava versi di poesia intensamente lirica, emotiva, sensibile che invitano il lettore a leggere i suoi versi, la loro dolce musicalità e tenerezza ma anche le punte più aspre, malinconiche, laceranti, disperanti e angoscianti, urlanti, e poi si sa che la vita del poeta, come in genere la vita umana, come suol dirsi, non è tutta rosa e fiori. Da ogni cosa Salerno fa scaturire poesia, che prima di essere pubblicata viene lardellata di molte correzioni. Egli è incontentabile e, come tutte le persone umili ma valide, dà in lettura agli amici le sue cose prima appunto di pubblicarle, per sentire il loro parere ed eventuali consigli e suggerimenti che egli accetta sempre di buon grado. Salerno è riservato ma quando recita o scrive o parla di poesia salta fuori la sua personalità multiforme, la sua voce diventa un sicuro tramite, con le sue varie inflessioni e soste a farci sentire l’essenza, il bello, il fondo sentimentale e umano che c’è nei versi scritti o recitati. La sua è poesia <<onesta>>, molto onesta, ben lavorata prima interiormente e poi estrinsecata con un linguaggio molto accurato e diretto che corre subito al cuore di chi legge e lo conquista subito, inondandolo di genuina e sentita poesia. Anche in questa nuova silloge Salerno si riconferma un poeta originale e che veramente vale la pena leggere; questa volta è un gatto, un gatto speciale che diventa oggetto di grande e profonda e significativa poesia. Salerno è in sintonia con l’universo e con tutto ciò che l’universo contiene di misterioso ma ricco di dolcezza ed essenza come appunto è in questo gatto che si mostra subito in copertina della silloge ed è ben disegnato da Anna Venanzi. La silloge è dedicata all’umanissima e gentilissima Rita Agresti e a tutte quelle persone che amano i gatti, creati dall’Onnipotente, e per tal motivo, uno dei tanti motivi, un grande scrittore come F.M. Dostoevskij, posto come introduzione alla silloge con altri pensieri di altri autori, ha scritto: << Amate gli animali. Dio ha donato loro i rudimenti del pensiero e una gioia imperturbata. Non siate voi a turbarla, non li maltrattate, non privateli della loro gioia, non contrastate il pensiero divino. Uomo, non ti vantare di superiorità nei confronti degli animali…>>. Tutto
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ciò lo troviamo in questa mirabile, affascinante silloge poetica dedicata al gatto claudicante chiamato <<Bambolo>> che ora ha una casa, quella del poeta e della consorte. <<Bambolo >> appartiene alla sua famiglia e ai suoi pensieri: è una sua creatura che accudisce, con cui dialoga e, osservandola, ne resta sempre affascinato ed escono fuori, anzi zampillano versi come i seguenti: <<Tu guardi estasiato./ Io ti chiamo, carezzandoti,/ misteriosa essenza/ specchio dell’Universo/ innocenza perfetta dell’Intelligenza/ su questa landa deserta/ a ventilare l’animo imperfetto/ sublimare i nostri/ fragili momenti/ come battiti eterni>> (“Specchio dell’Universo”), << Appari e scompari/ come volessi fare un gioco,/ come una nuvola nera/ che scompiglia l’esistenza/ e poi-celestiale lembo-/ riporta il sereno,/ la freschezza dell’erba./ Per poi lasciarci ancora una volta/- e chissà quante altre volte-/ come un gioco tormentoso>> (<<Come un gioco>>). Bastano queste due liriche per farci capire e apprezzare tutto il tenore poetico della silloge che riporta anche alcune liriche di altri poeti, dedicate al gatto, e qui si leggono poesie e pensieri di altri autori, cito per esempio i versi di Dario Bellezza, poeta al quale Salerno era legato da fraterna amicizia e a cui ha dedicato studi critici fondamentali; pure Bellezza canta il gatto, i gatti… <<Gatti, occhi/ che m’accogliete al mio ritorno/ velato: occhi perfetti/ dove l’universo scioglie/ un’ultima canzone d’amore>>. Orbene, Rocco Salerno in questa sua nuova silloge poetica dà prova di essere un autentico e sensibile poeta che va alla ricerca della bellezza, dei sentimenti caldi che possono generare pure i gatti, creature celestiali e divine. A me pare che qui riaffiori una tematica che ricorre un po’ in tutta quanta la poesia di Salerno: l’esaltazione della bellezza, dei veri valori umani e sentimentali che si oppongono o fanno dimenticare i valori negativi, le pene, le distonie della vita. L’anima di Salerno qui è squisitamente francescana ma questo sentimento francescano, se così posso dire, si esprime pure in altri luoghi e passi della poesia di Salerno che è una poesia, come pure qui, piena di grazia lirica, luminosa e splendente di bellezza che allieta la vita e si scioglie in un ringraziamento a Dio per aver creato il mondo e tutti quanti i suoi esseri; questi momenti di grazia poetica piena e affascinante si notano nelle definizioni che il poeta dà di Bambolo: <<una stella che di
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sera s’accende/ e si dilegua nella notte dell’Universo>>; ecco ancora i movimenti, le azioni, il manifestarsi del gatto :<<Quando ti infili fra le gambe/ e agiti beata la coda festaiola/ come volessi dirmi/ che ti sono gradito/ e sei felice>> (<<Anche il mio cuore>>); <<Io ti porgo il cibo/ tu mi dai la vita>> (“In un unico respiro”): versi esemplari e significativi che dicono tutta quanta la calda e benefica sintonia che si è stabilita tra il gatto, assistito materialmente dal poeta e Bambolo che contraccambia dando vita, dando bellezza e voglia di inseguire le cose belle all’uomo, al poeta Salerno, che si bea, si riconcilia con la vita incontrando giorno dopo giorno Bambolo. Il compito delle creature celestiali è appunto questo: farci dimenticare il lordume della vita e aprirci alla bellezza, alla vita, all’amore, alla tenerezza e ai veri sentimenti universali. Bambolo – a voler parafrasare un verso di Salerno - non fa altro che sublimare <<la nostra tumultuosa vita>> ricorrendo alle <<tue divine lusinghe>> (<<Le tue silenziose divine lusinghe>>). Ma prima di chiudere queste mie poche considerazioni su questo libro poetico di Salerno voglio ancora citare alcuni stupendi versi che dicono - a mio parere - tutta quanta la statura eccelsa del poeta Salerno che si esprime con una lingua non paludata, ma naturale, sentita, immediata che va diretta al cuore: <<Amato sosia, non dileguare/ non offuscare questi giorni/ non spezzare questo sogno>>; << Poi, bambino smarrito, ti giri/ e a capo chino ti incammini /per le desolate e spaurite vie/ solo con il tuo respiro>> (“Bambino smarrito”); <<Ritrovo il tuo respiro/ nella fresca erba/ mattutina/ che stilla vita>>. Orbene, ben vengano libri poetici di tal fatta in quanto val la pena leggere perché carichi di vera, autentica e sentita poesia. Carmine Chiodo Rocco Salerno, <<Dolce, misteriosa essenza dell’Universo>>, Macabor, Franca Villa Marittima (Cosenza), 2021
QUANDO NON CI SARÒ Quando non ci sarò chissà quale vento muoverà le mie foglie. Gianni Rescigno Da: Un sogno che sosta, Genesi Editrice, 2014.
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ANTONIO CRECCHIA PASQUALE MARTINIELLO di Salvatore D’Ambrosio EFINISCE, Antonio Crecchia, “atto secondo” il suo recente lavoro sulla figura del poeta e letterato Pasquale Martiniello. Poeta irpino di Mirabella Eclano, antica città neolitica che si afferma ed espande con i Sanniti, per essere poi successivamente romanizzata e prendere il nome di Aeclanum. Lo definisce il Crecchia “atto secondo”, in quanto esiste un atto primo che pubblicò precedentemente nel 2007, e che riguardava la dimensione poetica, artistica e spirituale del poeta di Mirabella Eclano. La spinta a lavorare per la stesura di questo volume, è stata dettata all’amico Antonio dalla necessità di riannodare qui fili, che la morte di Martiniello aveva interrotto nel 2010. Il desiderio e la necessità di riflettere sull’amico scomparso, lo riporta a approfondire e ampliare la visione artistica del Poeta. Il volume corposo è strutturato in XXI ca-
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pitoli, nei quali in modi diversamente omogenei, si parla del poeta irpino. Vi si riscontrano confidenzialità amicali come i versi che il Crecchia compone per l’ottantesimo genetliaco dell’amico Pasquale. Nel giorno che segna il bel traguardo/del suo ottantesimo compleanno,/ raggiunto con la fama che hanno/i forti spiriti, dal vivo sguardo … Subitanea viene la risposta dell’Irpino allorché l’amico Crecchia diventa nonno, dedicando una poesia al nuovo venuto Lorenzo. Il volume è anche la raccolta di interventi culturali avvenuti in Mirabella. In modo particolare le relazioni che il Crecchia ha letto in occasione delle varie edizioni del premio nazionale di poesia AECLANUM. Del quale egli stesso è membro di giuria. In queste occasioni, specialmente dopo l’anno 2010, gli viene normale, direi spontaneo parlare del Martiniello e del suo grido di fronte ai problemi che una democrazia zoppa elargisce ai suoi cittadini. Democrazia claudicante non per nascita, ma per le continue batoste che esseri malvagi e senza scrupoli ogni giorno gli regalano. “Tigre e leone/padrone senza croce e Dio”. Così scrive il Martiniello, e racconta tutta l’amarezza che stringe l’animo dell’uomo, prima che poeta Martiniello, e lo fa soffrire. Il Crecchia ci narra lucidamente e anche con accoratezza questo grande tormento del Poeta. Io non sono un coriaceo, scrive egli in un verso: tuttavia si sente sottoposto a sostenere dure prove per la malvagità dell’uomo, che è un autentico lupo pronto a sbranare tutto ciò che gli capita a tiro. Anche se è sazio oltre misura. Fa notare in questo volume l’autore, come siano fortemente presenti in Martiniello l’anelito di giustizia, di speranza, di umana solidarietà. Tutte cose che mancano nella società perché essa è corrotta, si affida a cattivi maestri, o a manipolatori di destini senza nessuna pietà. Nella lettura del volume si profila, con
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molta incisività, il senso profondo della cultura che c’è nel Martiniello, il quale vorrebbe che essa fosse appannaggio anche di tutti quelli che se ne fanno una ragione di vita, e non solo privilegio rubato dai carrieristi del potere, o da egoisti corporativi. Non manca il Crecchia di porre in risalto un altro cruccio del Martiniello, quello di mal digerire gli innovatori, gli autori di versi acrobatici. I quali, secondo il suo modo di vedere, si dedicano a rendere incomprensibile la bella lingua italiana con le loro trovate prive di ogni senso. A conferma, nella sua ultima raccolta, così scriveva: "Sto con i critici/scomodi e veritieri con scapigliati/e contestatori di questo fare poetico/mellifluo od oscuro e astratto ignoto/ agli stessi autori cervellotici e disonesti/ con se stessi. Non parliamo di quelli/che sono lecchini ed incensieri nei salotti …” Martiniello fu poeta onesto, amante del bel verso che non è necessariamente obsoleto. Anzi, ci dice il Crecchia, che egli fu anche un innovatore del verso libero. Il lavoro di Antonio punta soprattutto alla conoscenza dell’uomo Poeta, che fu un fustigatore senza peli sulla lingua di politici corrotti, saccheggiatori, faine, razziatori, imbroglioni e altri epiteti che rileggendo le sue opere potremmo ben sottolineare. Mi sembra, a un certo punto della lettura di questo “Atto secondo”, di ritrovarvi un Martiniello vicino al Pasolini di “Transumanar e organizzar”. Versi di questa raccolta di Pasolini, duri: contro il “sistema”. Cosa che fa anche il Martiniello. Anche nei suoi versi c’è sostanza di impegno civile e di lotta, come viene fuori dalla disamina che ne fa il Crecchia. Il quale riflette che ha scritto versi di qualche soddisfazione, ma che gli hanno pure lasciato tanto amaro. E a conclusione, ci sembrano fatti proprio per lui questi versi che estrapoliamo da Transumanar e organizzar: “arriverai alla mezza età e poi alla vecchiaia/senza aver goduto ciò che avevi diritto di godere/ e che non
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si gode senza ansia e umiltà/ e così capirai di aver servito il mondo/ contro cui con zelo “portasti avanti la lotta”… Salvatore D’Ambrosio ANTONIO CRECCHIA, PASQUALE MARTINIELLO Atto secondo, Ediemme Cronache italiane, 2021, pp. 216 €18,00
TRASLOCO Ultimo giorno prima del trasloco; è rimasto soltanto un divano nel grande vuoto del seminterrato. Sulla spalliera Pongo ha il pelo dritto; l’ho dovuto chiudere nel bagno quand’è venuto il nuovo proprietario. Lì mordeva la porta disperato. Sette città sette case ho cambiato sette volte le cellule ho mutato sette donne in amore ho abbandonato. Nelle finestre a livello del prato passano due testine incoronate. Vengono in questo mese tutti gli anni vengono in coppia le upupe regali. Becchettano l’erba del prato lui le porge ogni tanto un vermetto emettendo un richiamo flautato, risponde un verso corto e sospirato. Esco in punta di piedi; altre volte stando a distanza non le ho disturbate. S’alza improvvisa una frotta di passeri volano altrove le upupe allarmate. Ultima notte nella casa vuota, mi stendo sul divano con un plaid. Le upupe in coppia se ne sono andate. Chi sette volte una donna ha lasciato non ha un presente ed ha perso il passato. Corrado Calabrò Da: La scala di Jacob, Ed. Il Croco/PomeziaNotizie, 2017
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MARCELLO FALLETTI DI VILLAFALLETTO UNA CHIESA, UN PAESE, UNA STORIA di Domenico Defelice
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NTANTO, è un volume ricco di testimonianze. Il Cardinale Paul Poupard – Presidente emerito del Pontificio Consiglio della Cultura -, afferma che Don Franco Turchi, affidando questo lavoro a Marcello Falletti di Villafalletto, “Non poteva trovare miglior cercatore per ripercorrere attraverso accanita ricerca ben più di cinque secoli di vita civile, sociale, politica e religiosa, e descriverne le tante vicende con penna agile e suggestiva, dando così perenne conoscenza degli avvenimenti, ma soprattutto delle persone che hanno, con intelligente tenacia, dato vita e vitalità ad un fecondo patrimonio storico e culturale, che si chiama Ponte Buggianese”; Bernard Ardura – Presidente del Pontificio Comitato di Scienze Storiche – auspica che possano “queste pagine illuminare e suscitare un rinnovato ardore per lo studio
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della (…) ricca storia patrimoniale”; il Sindaco della città, Pier Luigi Galligani, dichiara che Marcello Falletti di Villafalletto “ha saputo cogliere gli aspetti importanti di questa Istituzione religiosa raccontando con dovizia di particolari e ricchezza di fonti un pezzo importante della nostra storia e ha saputo dare la giusta evidenza al sentimento spirituale delle persone unite da tradizioni e cultura”; Don Franco Turchi – Arciprete e Proposto -, è sicuro che l’Autore abbia dato un “punto fermo di continuità a ben oltre cinque secoli di storia, che andava riscoperta, rivalutata e metodologicamente riproposta”. Sua Eccellenza Mons. Giovanni De Vivo – vescovo di Pescia -, in una densa e accattivante “Lettera alla Parrocchia”, chiarisce i motivi storici e devozionali perché la Cappella della Madonna del Buon Consiglio della chiesa parrocchiale di Ponte Buggianese sia stata elevata a Santuario e perché tale Madonna sia stata nominata “celeste Patrona dei viaggiatori che percorrono l’Autostrada Firenze-Mare”. Più che giusto e naturale rivolgersi a Maria per avere consigli, giacché è stata Lei a prenderne di “decisivi”, “irreversibili”, “inevitabili”. Il finissimo, ghiotto e dotto saggio monografico, oltre che dell’Introduzione, della Bibliografia, dell’Indice dei nomi e di quello dei luoghi, si compone di nove corposi capitoli e una conclusione, e non è possibile sintetizzarlo. Il libro va letto; è opera di un vero storico, cioè di colui che inquadra i fatti, onestamente li analizza, cuce documenti e poi sa pure raccontare come farebbe il buon cronista. Marcello Falletti di Villafalletto ci presenta una storia locale importante non solo in sé e per sé; la Storia con la maiuscola - come altri hanno scritto e noi più volte - non è se non la summa delle tantissime storie dette minori, come la cultura e la civiltà di un popolo non sono che la summa della cultura e della civiltà dei suoi tanti illustri figli. Le popolazioni locali – afferma Marcello Falletti di Villafalletto – “sono poi quelle che ne fanno la vera e reale storia!”.
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Narrazione fatta con acribia e imparzialità di giudizio questa di Marcello Falletti di Villafalletto. A un certo punto, per esempio, egli scrive: “In mezzo a tanti documenti consultati ne è stato ritrovato uno abbastanza singolare. Dobbiamo ricordarci che siamo in pieno Ventennio fascista e quindi, per quanto la storia moderna sia revisionista, non possiamo dimenticarci che anche quel periodo fu intensamente vissuto dalle popolazioni, specialmente in quei primi anni quando l’avvento di Benito Mussolini al potere fu ritenuto più o meno salutare per quasi la totalità degli Italiani”. Se ciò sia stato bene o male è altro discorso, egli afferma altrove, e giustamente lo lascia alla libertà di pensiero di ciascuno di noi, anche perché non essenziale allo svolgimento di questo suo meticoloso quanto impegnatissimo lavoro. Il Palude di Fucecchio fu interessato dalla bonifica nel passato, ma anche in periodo fascista e a opera dello stesso gruppo di ingegneri e maestranze legato al regime che ha effettuato quella delle paludi pontine. Tanti toscani hanno lavorato, allora, nel Lazio, e numerosi gli artisti, basta ricordare il fiorentino pittore e scultore Piombanti Ammannati, che ha dedicato molte opere alla nostra città di
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adozione (si veda il nostro Giuseppe Piombanti Ammannati e “Pomezia”, quaderno letterario Il Croco di Pomezia-Notizie, settembre 2018). Siamo in presenza della Storia di una comunità contaminata dall’arte e Marcello Falletti di Villafalletto non si sofferma solo sugli umani che hanno contribuito con le loro azioni, con i loro interventi, a renderla importante, ma allarga la sua indagine alle Istituzioni, al paesaggio, ai monumenti e alle tante opere che Istituzioni e Comunità arricchiscono; così, troviamo particolarmente interessanti il capitolo dedicato al grande pittore Pietro Annigoni e le pagine riservate a Mons. Egisto Cortesi, con in più il ricordo di Aristide Pellegrini, nipote di questo illustre Monsignore. È all’incontro fra Cortesi e Annigoni che si debbono gli affreschi della “chiesa parrocchiale di San Michele Arcangelo a Ponte Buggianese”; alla sintonia fra un sacerdote attivo e lungimirante, cioè, e “il pittore dei mendicanti, come poi mi hanno chiamato il pittore delle regine”, confessa lo stesso Annigoni in una intervista a Pier Francesco Listri. Nella chiesa di San Michele Arcangelo, oltre il lavoro del celebre artista, si trovano “due affreschi collaterali dovuti al pennello dei due bravi allievi Stefanelli e Pistolesi” nei quali “risultano evidenti l’impronta e la tecnica del Maestro. Il primo [Romano Stefanelli] ha eseguito un’Annunciazione, l’altro [Silvestro Pistolesi] la Cena di Emmaus”. Tra i personaggi maggiormente messi in luce, e per spazio narrativo e per riporto di docu-
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menti, c’è Lorenzo Perosi, sacerdote e valente musicista, che mons. Cortesi ha conosciuto personalmente; né può venire ignorato Padre Filippo Cecchi (battezzato con i nomi di Giulio Isdegerde), scienziato esperto in meteorologia, “astronomo, fisico, matematico”, come scritto su una pietra di marmo della sua prima sepoltura; “scienziato di fama internazionale e inventore di geniali strumenti”, viene definito in un articolo che Marcello Falletti di Villafalletto diligentemente trascrive. In apertura del capitolo “Elevazione del Santuario di Maria SS.ma del Buon Consiglio”, Marcello Falletti di Villafalletto precisa come cultura, divinità, monumenti nostri e dell’Europa intera affondino le radici nell’antica Grecia. Notevoli, assolutamente da non trascurare son le 365 note, attraverso le quali Marcello Falletti di Villafalletto lumeggia o maggiormente puntualizza protagonisti, anche magari non centrali, della sua storica narrazione. In una di esse, la 203, troviamo, seppure in semplice citazione, il molto a noi caro mons. Gaetano Bonicelli, arcivescovo di SienaColle di Val d’Elsa-Montalcino, che fu Vescovo di Albano Laziale dal 1977 (11 giugno) al 1981, al quale dobbiamo anche la nostra collaborazione al quotidiano Avvenire e che incontrammo spesso nel suo palazzo vescovile, più volte insieme all’allora sindaco di Pomezia Pietro Bassanetti. Un bel libro di storia, insomma, fascinoso, scritto con “passione e interesse”, qualità che si possono trovare solo in “un bambino curioso che corre alla scoperta di cose nuove, poco o per niente conosciute”. Domenico Defelice MARCELLO FALLETTI DI VILLAFALLETTO, LA CHIESA DI SAN MICHELE ARCANGELO DI PONTE BUGGIANESE UN PAESE, LA SUA STORIA Presentazioni di Paul Cardinal Paupard, Bernard Ardura, Pier Luigi Galligani; Prefazione di Don Franco Turchi; Edizioni Anscarichae Domus, 2013, pagg. 368 + 32 di foto documentali a colori, € 20,00
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L’ALLEGORIA DEL VENTO Ho bevuto al banchetto dell’amore, ai fastosi inviti dei vent’anni, quando fiamme erano le rose. Ho levato al brindisi i cristalli, incontrando i tuoi occhi misteriosi. Ho trovato nel solco degli incontri le perle del tuo seno, mi sono perso nel mare degli inganni allacciandoti i fianchi. Esaltate furono le ore, così il nostro furore. Poi come cala il vento della sera, come scema la neve a primavera, ho perduto piano piano la mia sete. Astemi sono ora i giorni. Lucio Zaniboni Lecco UN RAMETTO D’ULIVO Signore d’altra età, alato parlare alato vagare sull’onda di Wagner, dannunziano che traevi eleganze dal profondo, io ti ricordo spirito di zolle quando dai campi turgidi di sole o lividi di brume tornavi al tramonto e portavi un rametto di ulivo infilato all’occhiello. Ada De Judicibus Lisena Da: Omaggio a Molfetta, Edizioni La Nuova Mezzina, 2017
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Febbraio 2022
BAMBINI SCHIAVI - dedicata a Iqbal Masih di Wilma Minotti Cerini Lasciatemi pensare che mani di bimbo siano petali di loto, il viso: velluto di pesca rosse ciliegie per guance occhi raggianti come il più bel giorno ridente labbra: cascate argentine Lasciatemi pensare che bimbo non si possa comprare, né vendere per miseria ad arrostire mattoni, la vita come fornace che brucia anche l’anima Lasciatemi pensare che mani non siano per nodi minuti, per morbidi tappeti e pietose cicatrici, e vita incatenata finché non crescono un poco Lasciatemi pensare
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a quegli occhi di bimbo un oceano di tristezza incatenato anche quando mangia un piccolo pasto insignificante. Non vorrei pensare vorrei chiudere gli occhi eppure debbo ricordare quegli occhi dove l’amarezza è un oceano senza confini dove un Dio nascosto osserva questi uomini truci dove alcuna religione ha urlato abbastanza questa pena nessuno ha brandito l’arma della decisione per liberare l’agnello sacrificato alle brame della nostra ignoranza E nessuno può dirsi innocente se non conosce neppure il suo nome Wilma Minotti Cerini Se avesse potuto studiare, se fosse ancora vivo La sua vita invece è stata diversa, e si è conclusa tragicamente a soli 12 anni, con il suo nome assurto a simbolo della lotta allo sfruttamento minorile nel Pakistan. In Pakistan, a Muridke nel Punjab, Iqbal era nato nel 1983. La sua famiglia, poverissima, indebitatasi per pagare il matrimonio del primogenito, lo aveva inizialmente costretto a lavorare in una fabbrica di mattoni e poi lo aveva venduto all’età di 5 anni per 600 rupie (più o meno 12 dollari americani) a un fabbricante di tappeti, che lo aveva ridotto in schiavitù. Un destino non insolito. Sono milioni i bambini ridotti in schiavitù per integrare il magro bilancio familiare, o per colmare debiti. Il Pakistan possiede infatti una di quelle economie
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definite “emergenti”, la cui precaria tenuta finanziaria, a fronte di un vasto potenziale di crescita, si basa spesso sulla manodopera sottopagata o sfruttata, o costretta a lavorare in condizioni disumane. Condizioni disumane come quelle in cui viveva Iqbal Picchiato, redarguito di continuo e incatenato al suo telaio, il bimbo lavora per più di dodici ore al giorno per un’unica rupia insieme ai tanti piccoli schiavi invisibili, il cui compito consiste nell’intrecciare i nodi dei tappeti con dita veloci. Iqbal, disperato, tenta parecchie volte la fuga ma, individuato dalle autorità, viene puntualmente riconsegnato ai suoi aguzzini e punito con l’isolamento in una cisterna sotterranea priva di aerazione, che descriverà poi come “la tomba“. Nella primavera del 1992 riesce, però, a uscire di nascosto dalla fabbrica insieme ad altri bambini e a partecipare ad una manifestazione del Fronte di Liberazione dal Lavoro Schiavizzato. Durante quell’evento, che celebra la «Giornata della Libertà», Iqbal sente parlare per la prima volta in vita sua di libertà e di diritti dei bambini che vivono in condizione di schiavitù. Spontaneamente, di fronte al pubblico, trova il coraggio di denunciare la condizione di sofferenza in cui versano i piccoli schiavi nella fabbrica in cui lavora. Il suo discorso improvvisato, dai toni accorati, scuote le coscienze e attira l’attenzione della stampa locale. Durante la manifestazione Iqbal conosce anche Eshan Ullah Khan, leader del BLLF (Bonded Labour Liberation Front), il sindacalista che rivestirà un ruolo chiave nella sua transizione verso una nuova vita in difesa
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dei diritti dei bambini. Grazie al suo aiuto Iqbal non torna in fabbrica e inizia a studiare, come ha sempre desiderato fare. Lentamente si riappropria di quell’infanzia che gli è stata negata. Il suo corpo però è irrimediabilmente segnato dalla malnutrizione e dai maltrattamenti subiti: a 10 anni possiede infatti la statura ed il peso di un bimbo di 6. In breve tempo diventa il simbolo e il portavoce del dramma dei bambini sfruttati nelle fabbriche da padroni senza scrupoli. Appare sui teleschermi di tutto il mondo e partecipa a convegni, dapprima nei paesi asiatici, poi in Europa e negli Stati Uniti. Sensibilizza l’opinione pubblica sulle violazioni in atto nel suo paese e contribuisce attivamente al dibattito sulla necessità di tutelare i diritti dell’infanzia. Quando nel dicembre del 1994, presso la Northeastern University di Boston, riceve il premio Reebok Human Rights Award (vista la giovanissima età viene creata una categoria apposita per lui: Youth in Action), dona i 15 mila dollari ottenuti per costruire una scuola in cui gli ex bambini schiavi possano ricominciare a studiare. Nel gennaio del 1995 interviene a Lahore, la seconda città del Pakistan, ad una conferenza contro lo sfruttamento del lavoro minorile. Grazie alla pressione esercitata dai media, circa tremila piccoli schiavi vengono liberati dal loro inferno, e il governo è costretto a chiudere decine di fabbriche di tappeti a seguito delle proteste della comunità internazionale. “Non ho più paura di lui – dichiara Iqbal riferendosi al suo padrone di un tempo – è lui che ha paura di me, di noi, della nostra ribellione”. E aggiunge: “Nessun bambino dovrebbe impugnare mai uno
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strumento di lavoro. Gli unici strumenti di lavoro che un bambino dovrebbe tenere in mano sono penne e matite. Da grande voglio fare l’avvocato e lottare perché i bambini non lavorino affatto”. Ma grande lui non diventerà mai Il 16 aprile 1995, la domenica di Pasqua, mentre si reca in bici a messa insieme a due cugini, viene falciato da una raffica di proiettili. Lo ritrovano riverso in un lago di sangue, con la Bibbia nel taschino e con un’immaginetta di Gesù che segnava una pagina che lo aveva particolarmente colpito. Il successivo processo, che vede imputati gli esecutori materiali dell’omicidio, non chiarisce le motivazioni del gesto, ma si comprende ben presto che un atto del genere è dovuto probabilmente alla ritorsione della locale “mafia dei tappeti”, che si sente minac-
ciata nei propri affari dall’attivismo di Iqbal. Oggi i suoi assassini sono liberi, mentre il giornalista che per primo ha raccontato la sua storia si è dovuto difendere in tribunale dall’accusa di “danneggiamento del commercio estero della nazione”. Una storia di grande speranza dal drammatico epilogo quella del giovanissimo martire pakistano, che commuove e invita a interrogarci sulla sua eredità, a oltre 20 anni dalla sua morte. Possiamo certamente affermare che, grazie alle battaglie di Iqbal, la situazione in Pakistan è cambiata. Le sue testimonianze hanno infatti avuto una risonanza che ha travalicato i confini nazionali, approdando in occidente. Molti negozi europei, destinatari della merce prodotta nelle industrie tessili pakistane, hanno finalmente iniziato a tutelare i diritti
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dei bambini, e si assicurano adesso che il lavoro minorile non sia impiegato nella produzione dei tappeti acquistati nei negozi dell’Asia meridionale. I governi di Pakistan e India, dal canto loro, hanno chiuso moltissime fabbriche che traevano profitto dallo sfruttamento e introdotto norme che vietano il lavoro minorile, sebbene tali norme non vengano sempre rispettate pienamente. Numerose sono le scuole in Italia e nel mondo intitolate a Iqbal Masih e tante le iniziative in sua memoria, compresi i film Iqbal di Cinzia TH Torrini e Iqbal – Bambini senza paura (2015), il film di animazione diretto da Michel Fuzellier, liberamente ispirato alla sua vita. Tuttavia tanto ancora resta da fare. Secondo un recente rapporto dell’Unicef, in Asia meridionale sono 77 milioni i bambini e i ragazzi che lavorano. In Pakistan ancora oggi l’88 per cento dei lavoratori impiegati in diversi settori lavorativi ha un’età compresa tra i cinque e dieci anni In sua memoria. Wilma Minotti Cerini
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Febbraio 2022
IL MIO MONDO FINIRÀ CON TE di Lucio Zaniboni
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ARMELO Aliberti, critico letterario, saggista e poeta ci propone una seconda opera narrativa: “Il mio mondo finirà con te” mantenendo il piano propositivo e strutturale di “Briciole di un sogno” con cui voleva dare una scossa al mondo letterario attuale, appiattito da una narrativa usa e getta che sforna libri a gogo con la durata di un rasoio monouso. Narrativa, storia, saggistica, poesia e denuncia qui si fondono in un tessuto nuovo che incide per intensità etica e possibilità di approccio. La trama è semplice: Carlo, uomo del Sud, letterato, cresciuto in una famiglia che gli ha trasmesso ideali fondanti, con un gruppo di amici della stessa tempra morale, dà vita a un giornale, importante, pur nelle sue modeste proporzioni, a cercare di diffondere cultura e speranza in un futuro migliore. Si innamora di Anna che lo ricambia con uguale sentimento, ma il loro amore svanisce all'improvviso per la morte inaspettata della ragazza. Lo sconforto sembra trascinare il giovane in un gorgo senza fine, quando casualmente conosce Rosa che riesce a risollevargli il morale e ridargli nuova speranza di vita. Anche questa volta il destino sembra accanirsi contro di lui. Dopo un periodo di giorni felici, improvvisamente Rosa si allontana, sparisce e nulla si sa più di lei.
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Il mondo di Carlo sembra finire (il motivo del titolo), ma l'incontro con un pastore lo scuote e nasce la riflessione sulla vita che può divenire missione di aiuto al prossimo. Così Carlo si riprende e vivrà per diffondere fraternità intorno a sé. Sfondo di questa trama, ma anche parte essenziale del libro, è la denuncia sociale. Il nostro è un mondo in cui il capitale depaupera sempre più i popoli, siano essi dediti all'agricoltura, come i tanti contadini della zona messinese (nativa dell'autore) e della Sicilia in genere o degli operai costretti alle catene di montaggio nelle fabbriche del Nord. C'è la fame di milioni di esseri che, con esodo da terre aride, cercano scampo verso paesi che diano loro un pane e sono respinti come animali infestanti; c'è il caporalato del
Sud (e non) che costringe a turni inumani di lavoro i raccoglitori di ortofrutticoli, con paghe da miseria e angherie e violenze di ogni specie. In più non vi è zona della terra dove non alligni la guerra, perché i grandi blocchi nazionali reggono le fila delle lotte, apparentemente tese a raggiungere esiti di giustizia, progresso e civiltà, invece realmente intesa a conquiste territoriali e impadronimento di materie prime per interesse economico. Aliberti in una visione universale ci mostra i mali del mondo dalla prima guerra (mondiale) ai giorni nostri. Non nega il progresso tecnico che ha portato migliori condizioni di vita e alleggerito la fatica, ma che contemporaneamente ha snaturato il rapporto uomo-terra-dio.
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Rileva quante atrocità l'umanità ha dovuto vedere, come i campi di sterminio, la persecuzione delle razze, il mancato rispetto del pensiero individuale, la caduta dell'eticità, il femminicidio... Ecco, la figura della donna in Aliberti è particolare, sia essa madre, sposa o figlia. È l'amore che l'autore ha provato e prova per le donne della sua vita (la madre e la sposa). In “Briciole di un sogno” va ricordata la meravigliosa dedica alla compagna della sua vita, di una liricità straordinaria. Fra i protagonisti del romanzo, figura minore, ma rilevante, c'è Pino, reduce dalla missione in Afghanistan che racconta le atrocità colà avvenute, non tutte per colpa dei talebani e delle varie etnie del territorio. A causa di queste traumatiche esperienze, in cui si era trovato, nel desiderio di essere di aiuto al prossimo in una missione umanitaria, era ritornato affranto e deluso dagli esiti raggiunti. Non si pensi a questo punto che l'opera sia solo ciò (già non è poco); c'è un mondo descritto e vibrato in pagine partecipate e partecipanti. Vi è il mare con i pescatori di pescispada, con la visione della coppia ittica legata da un amore profondo, in cui lascia un segno la sofferenza reale del pesce che vede strapparsi l'amata dall'arpione... C'è la Valle di Templi, simbolo del mondo classico, gloria dell'arte, dell'ingegno e creatività, della storia e dei miti. Non manca il richiamo all'età d'oro di Pericle che diede ad Atene il suo contributo per una democrazia reale, in cui tutti, anche i più poveri, avessero diritto di voto. Anche qui, si evince chiaramente come nell'epoca attuale la libertà di idee, espressione e volontà individuale siano spesso più apparenti che reali. “Il mio mondo finirà con te” ha pagine descrittive che avvincono. Si sente la profonda conoscenza della terra in cui l'autore è nato, ha vissuto, ha compiuto i suoi studi e ricorda con l'affetto di un figlio. A ogni passo il lettore troverà qualcosa di nuovo, una notizia, un arricchimento... Nu-
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merose le citazioni, l'uso del dialetto, i richiami poetici, con versi di Dante, Quasimodo, Levi, dell'autore... Dire che il libro è interessante è superfluo e banale. È il mondo nella sua totalità, con la meraviglia della natura che dovrebbe essere tutelata, perché reca l'impronta del creatore e non martoriata per speculazione. È la terra che l'autore vorrebbe in pace, democratica, umana, in cui ognuno possa esplicare se stesso dignitosamente, con la propria identità, nel cammino terreno verso la foce divina. Lucio Zaniboni
ALLE FONTI DEL CIANE Rane mimetizzate nel verde dei licheni e dei papiri ci salutano con l’allegro gre-gre d’un concerto inatteso. Nell’aria mattinale le libellule danzano e le rondini sfrecciano disegnando d’intorno larghe onde di voli che s’innalzano alte nel cielo e s’abbassano fino a sfiorare appena col petto lo specchio d’acqua. Nei lontani millenni non diversa era la scena. Uguale il copione della commedia eterna che chiamiamo esistenza. Cambiano gli attori, ma forse son solo le maschere che mutano mentre uno stesso spirito si muove. Teocrito rivive in ciascuno di noi. Restano intrisi d’eterno presente i nostri canti e le nostre fatiche. E sono antiche le cose più nuove. E sono nuove le cose antiche. Nino Ferraù Da: Grumi di terra, Edizioni G. B. M., 1988
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DENTRO LA CHIAREZZA E OLTRE L’OSCURITÀ DELLA LINGUA di Domenico Defelice
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IUSTO un anno fa, nel numero di gennaio 2021 di Pomezia-Notizie, usciva il nostro articolo “Aiuto! Anneghiamo nel porridge!”, che ha scandalizzato qualche lettore. Noi siamo stati sempre per la difesa della lingua italiana e contro il suo imbarbarimento attraverso l’uso massiccio di espressioni e termini stranieri. Ci capita di sfogliare, ora, un volumetto antologico, assai pretenzioso: perché in carta patinata (ottima per la resa delle immagini qui del tutto assenti -, meno per poesie e prose, anche perché riflette la luce e affatica parecchio la vista dei poveri vecchi) e perché, di poco più di un centinaio di pagine, gli antologizzati - tutti bravi - ne occupano, si e no, una cinquantina; le altre, perciò, son passerella per gli autori di una premessa (sobria e necessaria), una prefazione, una lunga introduzione e le note curative dovute allo stesso introduttore. Un’esagerazione. Veramente rara un’antologia in cui gli apparati esorbitano i materiali per accogliere i quali è stata organizzata. Tutto perdonabile, comunque. Lo scandalo che ci riporta al citato nostro articolo è altro: è che, dopo aver letto attentamente, del dottissimo critico, prima la lunga introduzione e poi i cappelli alle opere antologizzate, ci siamo resi conto di averci capito ben poco, e non solo a causa della nostra abissale ignoranza. Si sente che l’esposizione è sforzata, arzigogolata per menarla alle lunghe e nel tentativo di renderla la più dotta possibile, con l’uso di termini ricercati o stranieri; sembra che il coltissimo critico, stiracchiando le labbra sottili, voglia dirci: guardate quanto son bravo e preparato! Col risultato, però, di lasciarci solo un gran senso di vuoto.
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Una caterva di citazioni e riporti. Troppi e sempre con l’intento di svelarci il suo smisurato sapere. Tra i tanti maestri che ci hanno insegnato la semplicità e la chiarezza ci sono Francesco Pedrina e Indro Montanelli; Pedrina amava i riporti, perché, diceva, se uno ha già scritto o detto bene quello che noi vogliamo esprimere, è giusto dargli la parola. Ma se i riporti son solo riempitivo e sfoggio, si finisce con l’esagerare e, come minimo, dare l’impressione che, in realtà, si abbia poco o niente da dire. Una caterva di termini stranieri – in inglese, in particolare, e poi in greco, latino, tedesco e senza mai il riporto del relativo significato italiano. Non tutti i lettori conoscono diverse lingue; i più, il solo l’italiano; addirittura poi, ci son la pecora, la capra, l’asino - quali noi siamo! -, che non conoscono bene neppure la nostra lingua, ma che più degli altri han bisogno e diritto di acculturarsi e chi scrive, ed è bravo e colto, ha quasi l’obbligo di pensare anche a costoro, non tagliarli fuori, scoraggiarli, così come fa il nostro coltissimo critico. Egli potrebbe rispondere che non scrive per gli ignoranti, ma per coloro che sono in grado di comprenderlo. Va bene. Però, così, non divulga cultura e i poveracci come noi saranno sempre giustificati e destinati a miseramente affogare nel porridge del nostro ricordato articolo. Ancora: una selva di termini italiani ricercatissimi, alcuni astrusi, desueti, da costringere il povero lettore come noi a stare sempre col vocabolario in mano, anzi, con l’enciclopedia, il vocabolario a volte non bastando, perché certe voci non sempre vengo riportate. E c’è da aggiungere, infine, che, così facendo, il dottissimo ed enciclopedico critico si trova a smentire se stesso, o almeno quel che egli riporta da un nostro bravo scrittore italiano, e che, cioè, non si debba mai abusare con gli aggettivi, gli avverbi, l’enfasi. La nostra è sempre una bellissima lingua. Usiamola, allora, nella sua semplicità e nella sua chiarezza; non intorbidiamola con espressioni e termini di altri idiomi (c’è sem-
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pre un bel corrispettivo italiano); non cerchiamo di renderla sofisticata ad ogni costo. Ripetiamo quel che altri e noi abbiamo sempre espresso: non è difficile scrivere ricercato e oscuro; difficile è scrivere lineare e chiaro. Pomezia, 18 gennaio 2022 Domenico Defelice
AQUILONI Di nuovo i ragazzi nel vento della primavera lanciano per il cielo i loro aquiloni. Mi ricordo di quelle mie stelle di carta, del tempo ricolmo di gioia sulle verdi colline. Franco Saccà Da: Vento d’autunno, Ed. Ibico, 1962.
CI PORTERANNO SCIAGURA “Ve lo avevo detto io che sentivo nell’aria l’odore delle prime piogge, e che le gru non sarebbero tardate a passare!” – fece il vecchio, udendo i ragazzi gridare che per la parte di Montalto si vedeva come un enorme serpente nero, altissimo avanzare per il cielo. Ed in un attimo, a quei richiami, la gente si era riversata sulla via, si era affacciata ai balconi, puntando lo sguardo verso il cielo, mettendosi a ripetere che passavano le gru, che tutti venissero a vedere le gru. Ora, lo stormo volava sul paese così basso che ognuno sentiva le grida rauche. Poi, aveva ripreso quota ed era sparito verso il mare. “Maledetti uccellacci – fecero alcuni – vedrete che ci porteranno sciagura. Come è avvenuto, anni orsono, quando, dopo il loro passaggio, rischiammo di essere inghiottiti dalle piogge senza fine”. Dissero. E un presagio di morte alitava nei loro cuori. Franco Saccà Da: Uomini, solchi, nuvole, Edizioni Liguria, 1955.
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MA DIER
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A Dier è un eccezionale poeta cinese contemporaneo, nome di nascita Ma Yong e nome di penna Gu Hanshan; è nato nel 1966, nella città di Fuqing, nella provincia del Fujian. Si è laureato in finanza internazionale e gestione economica ed è un professionista finanziario. È membro CCPPC della città di Fuqing e presidente dell'Associazione degli scrittori di Fuqing. Ha vinto il premio d'arte al primo Fuqing Art Awards; il primo premio nel concorso di articoli "National Social Documentary Problem Novels by High-school Students", sponsorizzato dal Fujian Youth Journal; il nuovo premio stella nel "Second China Star New Poesia sponsorizzato dallo Xingxing Poetry Journal; il miglior poeta del 21° secolo, sponsorizzato dall'American International Poet Association. Ha curato la serie di studi sulla cultura di Haixi, Select Excellent Chinese Poems at Home and Abroad ecc. Le sue poesie sono state inserite nel dizionario multi-interpretazione della poesia innocente in China's Misty Poetry, Selection of Contemporary International Poets (in inglese e cinese), Selezione di saggi del Fujian lungo un secolo ecc. Ha pubblicato la raccolta di poesie Rain Fall al Qingming Festival, A Scholar in the Snow e una raccolta di saggi On the Mountain: Hidden or Bright ecc. Presentiamo, qui di seguito, tre sue poesie: nell’originale cinese, nella traduzione inglese del Prof. Li Zhengshuan e nella versione dall’inglese all’italiano di Domenico Defelice. [中国]马蒂尔 春分(外二首) 谁在清晨,不小心 触碰桫椤枝上的露水 一刹那唤醒布谷鸟 醒来后,才知道
POMEZIA-NOTIZIE 梦中的绿色充满征兆 走出山门,无意中
Febbraio 2022 哪怕冻土冻僵头颅 我也要坚持热血不停沸腾
捡到一颗经年的草籽
我低下头来
随便托付一堆废土
努力的低下头来
就洗罢双手,接着
低到一颗小草籽里
无心无肺唱读大悲咒
哪怕风雪压垮身躯
倏然,芙蓉峰上的霞光
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我也要保持歌声高亢激昂
摇晃着群鸟们的调子
我低下头来
晨钟也撞开废土,豁然
努力的低下头来
拱起了一棵狗尾巴草
低到冬天节节败退
不知约束地评论姹紫嫣红
哪怕世界剩下废墟 我也要让心中的春天发芽
它们都不发言 从内部的汁液开始 从浓荫深处的 某个醒点开始 它们开始拔节,伸展 静静地笑出自己的色彩 你可以为它们命名 牵牛花,狗尾巴草,炮仗竹 还是无名氏,野花野草 它们都不发言,不置可否 任凭你引经据典,喋喋不休 它们是自我自觉的,乐观向上 又是谦卑、低调,不自高自大的 风吹一吹,它们轻轻颤抖 仿佛自我陶醉,所有的水 瞬间回到它们自己的源头
作者小传: 马蒂尔,中国当代优秀诗人,本名马勇 ,另用笔名古寒山,1966年生于福建福 清。国际金融和经济管理专业毕业,现为 金融工作者。福建省福清市政协委员,福 建省福清市作家协会主席。曾获福建省福 清市首届文艺奖、福建青年杂志社“全国 中学生社会记实问题小说”征文一等奖、《 星星》诗刊杂志社“第二届中国星星新诗大 奖赛”新星奖、美国国际诗人笔会“二十一 世纪最佳诗人”等。主编《海西文化研究丛 书》《海内外优秀华文诗歌精选》等。作品 入选《中国朦胧诗纯情诗多解辞典》《国际
我努力的低下头来 我低下头来 努力的低下头来 低到小草的根系中
当代诗人诗选》(英汉版)、《福建百年散 文诗选》等。出版诗集《雨落清明节》《雪中 的书生》和散文小品集《在山上:隐蔽或 光亮》等。
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Vernal Equinox Who in the morning, carelessly, Touched dewdrops on the Cyathea tree And awoke the cuckoos in an instant? When waking I came to know The green in my dream is indicatory. I went out of the monastery gate, unawares, Picked up a long-lying seed, Buried it in a heap of waste earth casually, Washed my hands and then Chanted Great Compassion Mantra casually. Suddenly, the morning sunlight on Furong Peak Swayed the tunes of birds. The matin bell burst open the heap of earth and soon A dog-tail grass sprang out of it And commented on beautiful flowers freely.
They Are All Silent Beginning from an interior juice And from a waking point, In the deep shade, They begin to sprout, stem and stretch, Smiling silently with their color. You can name them: Morning glory, dog-tail grass or coralplant? Or no-name, or merely wild flowers or grasses. They are all silent, never expressing themselves, No matter how you allude and talk endlessly. They are self-conscious, optimistic But modest, low-key, never arrogant. When wind comes, they shake gently, As if self-intoxicated. All water Returns to their head sources.
I Lower My Head Arduously I lower my head. I lower my head arduously,
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As low as to the root system of grasses. Even if the frozen earth freezes my head, I will keep my hot blood boiling. I lower my head. I lower my head arduously, As low as into a grass seed. Even if a snowstorm overwhelms my body, I will keep singing loudly and emotionally. I lower my head. I lower my head arduously, So low as to when winter fades away Even if the world turns to ruins, I will let the spring of my heart sprout. (Translated by Prof. Li Zhengshuan)
MA Dier, an outstanding contemporary Chinese poet, birthnamed Ma Yong and pennamed Gu Hanshan, was born in 1966 in Fuqing City of Fujian Province. He majored in international finance and economic management and now is a financial worker. He is now a CPPCC member of Fuqing City and chairman of Fuqing Writers’ Association. He won the art award at the first Fuqing Art Awards, the first prize in the article contest of “National Social Documentary Problem Novels by High-school Students” sponsored by the Fujian Youth Journal, the new star award in the “Second China Star New Poetry sponsored by Xingxing Poetry Journal, the best poet in the 21st century sponsored by the American International Poet Association. He chief-edited Haixi Culture Studies Series, Select Excellent Chinese Poems at Home and Abroad, etc. His poems have been entered into The Multi-interpretation Dictionary of Innocent Poetry in China’s Misty Poetry, Selection of Contemporary International Poets (in English and Chinese), Selection of Essays of Century-long Fujian, etc. He published poetry collection Rain Fall at Qingming Festival, A Scholar in the Snow and a collection of essays On the Mountain: Hidden or Bright, etc.
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Equinozio di primavera
Sono tutti silenziosi
Chi al mattino, con noncuranza, Gocce di rugiada tocca sull'albero di Cyathea E sveglia i cuculi in un istante? Al risveglio sono venuto a sapere Che il verde nel mio sogno è indicativo.
A partire da una linfa interiore E da un istante di veglia, Nell'ombra profonda, Cominciano a germogliare, arginarsi e allungarsi, Sorridendo in silenzio con il loro colore. Puoi nominarli: Gloria mattutina, erba a coda di cane o pianta corallina? O senza nome, o semplicemente fiori o erbe selvatiche. Son tutti silenziosi, mai s’esprimono, Non importa se alludi e parli all'infinito. Sono autocoscienti, ottimisti Modesti, discreti, mai arroganti. Quando arriva il vento, si agitano dolcemente, Come autointossicati. Tutta acqua Ritorna alle sorgenti anteriori.
Uscii dalla porta del monastero, ignaro, Raccolsi un seme lungo, Casualmente l'ho seppellito sotto un mucchio di terra desolata, Mi sono lavato le mani e poi Casualmente ho cantato il Mantra della Grande Compassione. Improvvisamente, la luce del sole del mattino sul Furong Peak Ondeggiava le melodie degli uccelli. La campana mattutina spalancò il cumulo e presto Spuntò un'erba a coda di cane Commento, libere note a bellissimi fiori.
Abbasso la testa faticosamente Abbasso la testa. Abbasso faticosamente la testa, A partire dal sistema radicale delle erbe. Anche se la fredda terra mi gela la testa, Terrò in ebollizione il mio sangue caldo. Abbasso la testa. Abbasso faticosamente la testa, In basso come in un seme d'erba. Anche se una tempesta di neve travolge il mio corpo, Continuerò a cantare ad alta voce emozionato. Abbasso la testa. Abbasso faticosamente la testa, Così in basso da quando l'inverno svanisce Anche se il mondo si trasforma in rovine, Lascio germogliare la primavera del mio cuore. (Libera versione dall’inglese di Domenico Defelice)
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Recensioni ANGELO MANITTA LA CHIOMA DI BERENICE Traduzione slovena di Ivan Tavčar ”, Il Convivio Editore, Catania, Anno 2017, Euro 8,00, pagg. 61. Per prima cosa non c’è stata soltanto una Berenice che la storia ricordi: c’è stata la Berenice della tragedia di Jean Racine del Barocco francese, a sua volta ispirata alla vicenda narrata dallo storico latino Caio Tranquillo Svetonio che ha parlato di un amore non a lieto fine tra Tito, l’imperatore di Roma, e Berenice, regina della Palestina. Contestualmente la ritroviamo nella commedia del drammaturgo Pierre Corneille, fervido antagonista di Racine in ambito teatrale, Tito e Berenice; pur tuttavia nell’immaginario comune Berenice la si rammenta per la sua folta ‘chioma’ divenuta una costellazione dell’emisfero boreale molto vicina all’equatore, posta tra quella del Leone e il Boote. Per quest’ultima ricordanza c’è la Berenice principessa egiziana che andò in sposa a Tolomeo III e che già in vita veniva adorata parimenti ad una dea, da cui l’appellativo suo di “Dei Evergeti ”. Dalla ‘fusione’ delle varie Berenici è sopravvissuta sino a noi l’emblema di una donna, purtroppo, sfortunata in ambito coniugale, perché, pur essendo stata beneamata ha dovuto subire l’allontanamento dell’amato a cui è seguito il suo tormento interiore rivolto a quell’affetto ‘rappreso’, poiché lo sposo era dovuto partire per la guerra. Il professore saggista poeta traduttore, fondatore dell’Accademia Internazionale “Il Convivio”, della provincia di Catania, Angelo Manitta, perseverante e profondo studioso di autori e opere della
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letteratura mondiale – ha realizzato nel 2018, tra le numerose sue pubblicazioni, il colossale volume Big Bang - Canto del villaggio globale (prefazione di Ugo Piscopo) poema di oltre 50.000 versi racchiudente i ‘quattro punti cardinali’ della storia dell’umanità, fra mitologie, astronomia, personaggi biblici, civiltà antichissime, etc. La sua Berenice dimorava già in mezzo alle centinaia di pagine del Big Bang, ovverossia faceva parte del Libro X Miasmi di Stelle, Canto LXXIX, La chioma di Berenice e probabilmente per essere meglio divulgato – in questo suo poemetto ha pensato di raccontare la vicenda di Berenice in diciannove ‘episodi’ e per la successiva occasione editoriale tradotti in lingua slovena dal poeta traduttore Ivan Tavčar – è stato estrapolato per una singolare pubblicazione dalle dimensioni ridotte facilitanti la tascabilità. Qui traspare una Berenice fin da subito cattivante l’attenzione grazie alla minuziosa descrizione che la mostra nel suo spumeggiante incanto, cosicché «[…] Venere oscura/ il suo volto, impallidisce la luna,/ smuore il sole nell’opaco/ universo, davanti alla luce/ che fende sentieri, che avanza/ su passi
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di diamante o diaspro,/ che impreziosisce orme calcate/ su sentieri di isole di fiori.» (Pagg. 20-22). L’autore menziona pietre dure, diamante e diaspro, così come fece a suo tempo ne La Divina Commedia Dante Alighieri, in modo particolare nel Terzo Regno del Paradiso, con la rintracciabilità di minerali naturali quali diamanti, il balasso molto rassomigliante al rubino, l’alabastro, il topazio, lo zaffiro. Anche nell’Apocalisse di San Giovanni, al Capitolo 21 nel descrivere la Nuova Gerusalemme che scendeva dal cielo, l’apostolo scrisse: «[…] Le fondamenta delle mura della città sono adorne di ogni specie di pietre preziose. Il primo fondamento è di diaspro, il secondo di zaffiro, il terzo di calcedonio, il quarto di smeraldo, il quinto di sardonice, il sesto di cornalina, il settimo di crisolito, l’ottavo di berillo, il nono di topazio, il decimo di crisopazio, l’undicesimo di giacinto, il dodicesimo di ametista.» (Ap 21, 19-20). Al di là di questi interessanti parallelismi, Berenice la si scorge sul piedistallo della ragazza consapevole di trovarsi nell’ambito familiare cui lo scopo principale sono le manovre di Stato, gli interessi politici, per cui ciò che lei vorrebbe non ha alcuna importanza, nemmeno chi ella vorrebbe amare per sempre. Suo padre, Magas, re di Cirene, è un uomo «[…] severo,/ d’un amorevole calcolatore di sensi.» (Pag. 32). Concluderà un patto senza mettere al corrente la figlia, che andrà in sposa in cambio «[…] d’una striscia/ di deserto ottiene una garanzia/ di pace». Sua madre, Apame, non potrà fare nulla per evitare il destino forzato della figlia, perché è abituata a queste procedure e non farà altro che fondersi nell’abbraccio della figlia divina. Una volta avvenuta la legittimazione dell’unione di Stato tra Berenice e Tolomeo III, accadrà che lo sposo dovrà lasciarla a tempo indeterminato per l’Assiria, a causa della guerra e la sposa cadrà in un’inconsolabile tristezza, non sapendo nemmeno lei quale volontà superiore impugnare. E dopo tante lacrime le verrà finalmente l’ispirazione di espletare un voto personale, quello di tagliarsi i capelli per offrirli sull’altare insieme alle sue preghiere. Ma non si sa per quale motivo la chioma recisa scomparirà nel sacrario dedicato ad Afrodite, presso Canopo, e si faranno molte ipotesi non trovando adeguate giustificazioni. Il sacrificio della giovane donna sarà così ragguardevole da mobilitare l’attenzione e la sensibilità degli dèi tutti e così si scoprirà che gli stessi capelli donati erano stati raccolti dal cavallo alato di Arsinoe, che «[…] ha rapito la chioma di stelle,/ ha disposto la luce in teorie/ di abbagli, in eterne promesse/ di spose che promettono fede.// Ecco, è
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là la chioma della nostra/ regina che dall’alto protegge/ i nostri destini, è luce/ eterna di profumi divini”». (Pag. 56). La Berenice di Angelo Manitta, rivisitata in chiave positivista, ha riscattato il destino di una donna davvero innamorata del suo sposo, mutando favorevolmente la realtà del vincolo ch’era stato fatto per obbligo. Il poema si conclude con l’appagamento del voto graditissimo ai numi e la bellissima chioma sacrificata della regina Berenice, raggiunta la sommità del cielo e divenuta importante costellazione, è entrata a tutti gli effetti nella scienza astronomica pur non smettendo di fare da baluardo di protezione alle sorti umane. Isabella Michela Affinito
AA.VV IL CANTO VUOLE ESSERE LUCE Leggendo Federico García Lorca, a cura di Lorenzo Spurio, Bertoni Editore, Perugia, 2020. …un atto d’amore e di riverenza…
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Il 2 gennaio scorso su www.granadahoy.com è apparso un articolo molto interessante del giornalista e scrittore spagnolo Andrés Cárdenas, intitolato “De García Lorca se hablará siempre”. Contiene una premessa in cui l’autore riflette sul rapporto simbiotico tra Granada e Lorca e, a seguire, ci racconta vari fatti tra i quali una storia molto intrecciata riguardante Agustin Penón, un americano che, recatosi a Granada tra il 1955 e il 1956, aveva raccolto una valigiata di informazioni su Federico García Lorca, pensando di scriverci un libro. Ma era morto e la valigia era passata di mano in mano, mentre Penón, che alla sua ricerca aveva sacrificato anche parte delle sue sostanze, era stato dimenticato. Questo per dire come e quanto il Poeta granadino sia stato e sia ancora un lievito potente per gli intellettuali di tutto il mondo: ¡De García Lorca se hablará siempre! Non ci dobbiamo dunque stupire della nascita nel 2020 di Il canto vuole essere luce (Bertoni, Perugia). Un libro di vari autori italiani, curato da Lorenzo Spurio e tutto dedicato a Lorca, artista eclettico e uomo di grande impegno sociale. Il curatore ci tiene a farci sapere che, pur avendo il libro la forma del saggio scritto a più mani, è di più, molto di più; è “un atto d’amore e di riverenza verso uno dei maggiori intellettuali che la letteratura mondiale ha mai visto: il poeta spagnolo Federico García Lorca”. Tanto che il titolo, consistente in un verso di Lorca, assume significato simbolico: il libro è il canto corale con il quale s’intende illuminare almeno in parte l’opera del Poeta. Nel 2016 Lorenzo Spurio aveva riacceso il fuoco dell’interesse per Lorca, dando alle stampe Tra gli aranci e la menta, una plaquette di sue poesie dedicate al Granadino. Da quel momento, tramite contatti spontanei, altri poeti amici hanno aggiunto ottima legna al suo fuoco. E il fuoco è divampato in un’offerta corale di contenuti esegetici, di ritratti e di poesie. Il testo, infatti, è illustrato con ritratti del Poeta eseguiti dal Maestro Franco Carrarelli “L’Irpino” ed è diviso in due parti. La prima riporta i saggi con i quali gli aficionados indagano su molti aspetti del fenomeno Lorca. Francesco Martillotto ci presenta il Lorca amante della musica e ottimo pianista, buon conoscitore della musica classica e della musica popolare che mette sullo stesso piano e riflette sull’interscambio felice tra musica e poesia nelle sue opere poetiche e di teatro. Lucia Bonanni ci mostra il Lorca amante delle tradizioni popolari della sua Andalusia, che saranno di fertile ispirazione per le poesie e il teatro.
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Affascina, anche nell’analizzare il surrealismo dell’opera teatrale El público, la sua ricerca dei significati metaforici e del valore dei simboli nella Parola del Poeta. Cinzia Baldazzi cerca di penetrarne in profondità le peculiarità del linguaggio poetico: “…Immortale…è il loro mondo semantico e logico: immenso, popolato di ombre illimitate a latere di luci accecanti, provenienti da un’arcana fonte senza inizio e senza fine…”. Lorenzo Spurio ci porta dentro “Tamar e Amnon” del Romancero gitano, indicandoci la denuncia sociale che sottende l’opera; ma anche in Poeta a New York dove la parola poetica s’incupisce nel denunciare la disumanità della metropoli, mettendone in risalto gli aspetti negativi. E per finire ci conduce nelle opere teatrali più importanti per analizzare i temi ricorrenti: la violenza, il disagio degli emarginati, la condizione della donna e i suoi diversi atteggiamenti nella lotta contro la sopraffazione variamente esercitata dal maschio. Ugualmente interessante la seconda parte che assomiglia a un’antologia poetica ripartita in due sezioni. Nella prima sono raccolti alcuni dei compianti, odi e elegie scritti, subito dopo la tragedia dell’assassinio, da Antonio Machado, Rafael Alberti, Pablo Neruda e da vari esponenti della Generazione del ‘27, quasi tutte strazianti e bellissime a partire dal grido di Machado: “…que fue en Granada el crimen – sabed - ¡pobre Granada! – ¡en su Granada!...” fino allo sperdimento di Rafael Alberti che se lo vede tornare vivo in sogno: “Has vuelto a mí más viejo y triste en la dormida / luz de un sueno tranquilo de marzo…”. La seconda sezione accoglie voci di poeti contemporanei suggestionati dalla Parola del Poeta. Un florilegio di voci diverse che incuriosisce, commuove, rende vivo Federico, ne canta la tragedia, ne interpreta le sfumature dell’anima colte sia direttamente nei suoi testi poetici, sia indirettamente negli atteggiamenti dei personaggi del suo teatro. Testimonianza forte dell’amore che ha saputo generare e di quanto la sua parola può ancora incantare. Il canto vuole essere luce è un libro che offre molte informazioni di approfondimento sulla persona e gli interessi culturali, artistici e civili di Lorca; senza contare l’ampia bibliografia a cui attingere nel caso volessimo continuare a conoscerlo. Un libro tutto da “patire” per chi desidera entrare più a fondo nel suo universo delicato e sapiente, gioioso e drammatico, etico e propositivo. Franca Canapini Arezzo, 10/01/2022
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MARCELLO FALLETTI DI VILLAFALLETTO CANTON GLARUS CENTO ANNI DELLA MISSIONE CATTOLICA ITALIANA (1912 – 2012) Edizioni Anscarichae Domus, 2013, Pagg. 152, grande formato, s. i. p. Volume di storia locale, che sembra una continuazione del più corposo La chiesa di San Michele Arcangelo di Ponte Buggianese. Entrambi usciti quasi in contemporanea: La chiesa di San Michele, nell’aprile e Canton Glarus nell’agosto del 2013; entrambi trattano di comunità territoriali, solo che l’uno è ambientato in Toscana e l’altro nella vicina Svizzera; l’uno riguarda una chiesa, un paese e i suoi personaggi, l’altro una Missione, che sorge per assistere emigranti e che nel tempo cresce e si consolida, superando, ormai, i cento anni di vita. Il libro vuol ricordare e celebrare, infatti, il centenario (1912 – 2012) di questa Missione nel Cantone svizzero, dove folti gruppi di emigranti italiani, spagnoli e portoghesi hanno lavorato con enormi sacrifici nelle industrie tessili locali. Un lavoro evocativo, che finisce, però, con l’essere un chiaro, lineare e commosso saggio sulla emigrazione; perciò attualissimo, vivendo, noi, in un momento in cui, specie dal continente africano e dall’Asia, arrivano sul nostro territorio migliaia e migliaia di disperati in cerca di asilo per sfuggire
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da violenze e fame; un flusso inarrestabile di uomini, donne e bambini, migliaia e migliaia dei quali neppure giungono a destinazione perché periscono tragicamente nel tragitto; che commuovono molti di noi dalla pancia piena e ci spronano ad aprire il cuore all’accoglienza e alla speranza, ma spingono tanti altri dal cuore indurito all’indignazione e all’ansia. Tutti, comunque, dimentichiamo che l’Italia è stato uno dei Paesi europei dal quale sono emigrati milioni e milioni di individui, uomini e donne che nel mondo hanno creato folte comunità, come in Argentina, negli Stati Uniti d’America, ma anche in nazioni a noi vicine e quella del Canton Glarus, seppur minima, è uno degli esempi. Marcello Falletti di Villafalletto ne celebra il centenario e ne racconta la storia attraverso personaggi quasi tutti umili, ma dotati di grande fede e carità, che si sono prodigati, e non solo spiritualmente, per assistere coloro che arrivavano dalla Spagna, dal Portogallo e dall’Italia, in cerca di lavoro. L’opera, in carta patinata, grande formato e arricchita di numerosissime foto a colori e in bianco e nero, è presentata dal Vescovo di Coira Vitus Huonder, dal Decano Hans Mathis, da don Carlo de Stasio (Coordinatore nazionale MCLI in Svizzera) e da Padre Pierpaolo Lamera, Missionario della Missione Cattolica che, nella Prefazione, evidenzia le difficoltà che Marcello Falletti di Villafalletto ha dovuto affrontare per portare a termine questa storia “con chiarezza e competenza” a testimonianza di quanto “sia stata la coraggiosa avventura dei nostri connazionali e di quelli aggiuntisi negli ultimi anni”. La storia dell’umanità, afferma Marcello Falletti di Villafalletto, non è altro che una ininterrotta emigrazione, di “uomini e intere comunità in continuo movimento, fino ai giorni nostri”; ogni singolo uomo e ogni comunità “meriterebbe un capitolo personale” nella storia dell’emigrazione, nella quale entrano a pieno titolo anche le Missioni, in molte nazioni oggi composte da “emigranti, figli di emigranti, perfettamente integrati nel contesto sociale ed economico del nuovo paese”. “Tutti gli uomini sono pellegrini su questa terra! – conclude Marcello Falletti di Villafalletto -. (…) Genti, popoli attirati dal lusinghiero desiderio di lavoro, di rendersi liberi, hanno affrontato, il più delle volte, sofferenze e disagi inenarrabili. (…) Le pagine di questa breve storia ci hanno ripresentato uno squarcio singolare e indimenticabile di quanto sia stata dura la vita di colui che, lasciato il paese di origine, cercava di crearsi uno spazio, una dimensione, seppur piccola e semplice; in un luogo tanto
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diverso, inimmaginabile e, il più delle volte, affrontandolo da solo”. Saggio monografico attualissimo, che consigliamo di leggere a tutti, in particolare a coloro cui l’emigrazione della gente oppressa e o affamata il più delle volte dà la puzza al naso. Pomezia, 11 gennaio 2022 Domenico Defelice
ANTONIO CRECCHIA CON IL SOMMO POETA DANTE Ed. AC<>, 2021, pagg. 60, s. i. p. Antonio Crecchia confessa di aver avuto l’idea per questo lavoro dall’invito, al quale, poi, non ha partecipato, del Centro Studi Molise “N. Perrazzelli” di Guardialfiera. Si tratta di un poemetto - diviso in due parti, entrambe composte da 45 strofe di otto versi ciascuna – scritto di getto e nel quale, come afferma Emerico Giachery, Crecchia fa Dante “rivivere nel nostro problematico tempo: opera unica, di eccezionale impegno, carica di tensione etica, opera di ampio e intenso respiro”. Tempo assai depravato, l’attuale, mal ridotto, perché “immiserito e derubato in ogni dove,/(…) sala allegra d’ignavi e predoni”. Neppure la nostra bella lingua, alla quale il nostro padre Dante ha dato vita modellandola, oggi viene rispettata e difesa, sempre più “bruttata e commista/a voci irritanti di straniera terra”. Un colloquio col sommo Poeta, questo di Crecchia, anzi, una “calda conversazione”; Crecchia non intende con lui misurarsi, ma lo ammira e legge specie nei momenti in cui “l’insania umana (lo) disgusta”; trova Dante attuale, giacché, da settecento anni a questa parte, “Nessuna nuova nel mondo traviato/da setta padrona” s’è verificata. La “semenza sparsa in terra” da questa odiosa combriccola “ha prodotto frutici d’alto rango” e oggi ne fanno degna parte anche “piromani scaltri”, che “dispiegano le ali per incenerire/boschi pinete e campi coltivati”. Nella seconda parte, il colloquio si fa più serrato e più convincente, adombrando il cammino travagliato di Dante e non mancando di ricordare Virgilio. Crecchia si immedesima nello sforzo del poeta che pur esule e ramingo non ha mai smesso di pensare e comporre il suo poema e limarlo; Crecchia, a volte, si sente e si vede in frangenti simili a quelli del vate, sente i suoi stessi scoramenti, le medesime difficoltà: “Un concerto di stelle canta e svela/un’armonia che dentro vorrei/l’anima mia,
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preda di turbamenti/che mi fanno sentire alla deriva,/come te, lungi dalla “dritta via”,/da modulo sano che porta a Dio”; “con il tuo canto,/intero mi riporti nella stanza,/dove il mio giorno trascorre lento,/nell’esilio volontario dal mondo,/che sempre più al gelo m’abbandona,/da sé m’estranea, oppure mi offende/con la lingua bifida dei serpenti,/ch’han la turpitudine a nutrimento”. Il tutto e sempre con lo sguardo a questi nostri giorni del Duemila, la cui civiltà è “orripilante/per la sudicia divisa morale/che sfoggia con plateale franchezza/di prostituta”. Lui, naturalmente, non ha, né si sente la tempra di Dante, è appena “foglia secca di un albero/che germoglia”, i cui versi “sono già morti,/chiusi in un miserando libello”. Pessimismo verso se stesso che non condividiamo. Infine, Crecchia si interroga se, per caso, Dante non avesse smarrito la “dritta via” a causa di un “traviamento morale”; se, cioè, non avesse desiderato carnalmente Beatrice, “la donna/d’altri”, che, poi, nel poema, viene angelicata. Il lavoro ben si colloca tra i festeggiamenti e gli studi dell’appena trascorso festeggiamento dantesco. Domenico Defelice
IMPERIA TOGNACCI VOLLE… E VOLLI SEMPRE La speculazione estetica e simbolica nella poesia di Vincenzo Rossi, Genesi Editrice, 2021 Un saggio orchestrato su un’identità di valori Imperia Tognacci (notissima poetessa e narratrice), nel saggio “Volli, e volli sempre…” La speculazione estetica e simbolica nella poesia di Vincenzo Rossi (1924-2013), lascia un’impronta importante della sua cultura e si rivela critico letterario di spessore. Il libro ha ottenuto il Premio “I Murazzi per l’inedito 2020”. Man mano che si procede nella lettura, si può comprendere l’identità di vedute tra l’autrice e il poeta molisano. La cosa è stupefacente, dato che i due autori non si sono mai conosciuti di persona. È stato sufficiente per i due immergersi nelle pagine delle numerose opere di entrambi. Tanti versi del Rossi sono incastonati tra le note critiche: si comprende così il grande apprezzamento della Tognacci per questo tipo di poesia, che è un inno alla natura e un ripiegamento interiore. L’indagine è strutturata in sette capitoli, nei quali vengono approfonditi temi importanti. Seguiamo il colto poeta (scrittore, saggista, critico, traduttore di testi latini, greci, francesi), nella sua formazione giovanile, tra i suoi monti; poi come insegnante e
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dirigente, pronto a lasciare le grandi città, per vivere, fino alla morte, l’esperienza autentica del richiamo della sua terra. Dato che la produzione letteraria di Vincenzo Rossi è davvero sterminata, l’autrice si è limitata a riflettere sulle raccolte poetiche. Silenzio, voci ancestrali, respiro di infinito, amore per tutte le creature, espressione di un pensiero libero ribelle contro le ingiustizie: questi i tasselli che formano il mosaico delle liriche. L’autore non può essere inserito in nessuna corrente letteraria. Utilizza l’analogia e la sinestesia, sempre per sottolineare i valori di base: “sorretto da una salda coscienza morale”. Egli ha vissuto in simbiosi con la terra e grande è stato il suo rispetto per gli animali. Si è interrogato sul senso della vita, avvicinandosi all’esistenzialismo e ha sempre ricercato Dio. Vengono naturali alla Tognacci appropriate citazioni da filosofi e poeti (Pascal, Whitman, Baudelaire), perché ci si possa addentrare con maggiore consapevolezza nei versi di Rossi più inquieti e smarriti di fronte all’annientamento della morte. Imperia Togniacci sottolinea “quanto Vincenzo Rossi fosse fine traduttore” (Lucrezio, Nòsside, Lope De Vega) e quanto fosse attratto dalla figura femminile, in poesie dall’accento stilnovistico, o più propriamente sensuali. Non mancano gli accenni alla robotizzazione dell’uomo a rischio di disumanizzazione della nostra stirpe. A contrastare questi pericoli, per Rossi servono: cultura, poesia e arte. Il libro si conclude con un’immagine bellissima che Imperia Tognacci ha dedicato all’amico poeta. “Concludendo queste mie considerazioni sulla vita e sull’opera di Vincenzo Rossi, mi piace immaginare il suo spirito percorrere i recessi sperduti dei boschi, giungere alle sorgenti del Volturno, salire verso le cime delle Mainardi e percorrere i pendii delle “morge”, i pascoli e gli stazzi del Matese, i vicoli di borghi arroccati, salire e scendere la scalinate consunte di castelli abbandonati, inerpicarsi su aspre rupi, aggirarsi tra folte macchie, scendere nelle valli folte di alberi, e la sua poesia intonarsi con il suono dell’infinito”. Elisabetta Di Iaconi
GIORGIO MATTEI LUNGO LA VIA VANDELLI Poesie da Modena a Massa Presentazione di Giulio Ferrari, Prefazione di Massimiliano Pecora, Edizioni Artestampa 2021, Pagg 87, € 12,00
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Ho cercato di esprimere a parole quello che mi ha donato la Via, ma il modo migliore per capirlo è farne esperienza diretta, percorrendola. Lungo la via Vandelli. Poesie da Modena a Massa contiene quarantaquattro poesie e dieci immagini di cui una in copertina, la quale ritrae le Alpi Apuane al tramonto e si apre all’infinito, ossia a un’estensione illimitata, in cui il tempo e lo spazio non hanno più alcun senso, se non quello di insegnare a vivere e in cui Giorgio Mattei, consapevole di ciò, si perde e si ritrova con velata malinconia. Nel suo sentire così forte, immerso nella campagna, si trova a non avere più confini, è un tutt’uno con la terra, ma anche con il tempo. Il passato si unisce al presente attraverso il ricordo e l’autore spera così in un futuro migliore per l’umanità. “Quanto presto si dimentica la civiltà/ compito male appreso”. Via Vandelli è la madre di tutte le strade moderne e la silloge, dedicata alla moglie e al cammino che si augura di percorrere insieme a lei, vengono affrontate e vissute nella medesima maniera, ossia con tranquillità e con calma. Le poesie, infatti, si muovono tra le parole e tra i versi con serenità come la vita che il poeta, musicista e psichiatra, si augura per sé e immagina anche per gli altri. “Definisco spesso la Via Vandelli come la madre di tutte le strade moderne. Questo perché all’inizio
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del Settecento, quando il duca di Modena Francesco III d’Este concepisce l’idea di una strada lastricata che colleghi la capitale del suo ducato con Massa e il mar Tirreno, era dall’epoca delle strade romane che non si realizzava un’infrastruttura tanto grandiosa quanto visionaria. Per realizzare questo progetto, il duca si affida al suo miglior ingegnere, nonché cartografo e professore di matematica all’università, l’abate Domenico Vandelli, di Levizzano Rangone”, così scrive nella presentazione Giulio Ferrari. E lo scrittore divide la raccolta per tappe, così come nella sua quotidianità affronta sia la vita sia la strada, ovverosia per fermate o gradi, forse per timore che possa terminare troppo presto o che vi sia un imprevisto che possa rovinare la serenità auspicata o forse solo per assaporarne il momento. Percorrendo la strada, il poeta sente ciò che avvenne in quei luoghi e la sua empatia con la terra e con le pietre lo rendono ancorato al passato, ma più attento al presente. “La vita procede al passo/ e non può andare più veloce/ del tuo passo”, […] “In montagna il tempo non passa:/ passano gli uomini, le bestie./Rimane il senso, ciò che conta”, […] “Quanto è costata questa pace, quanto?/ Mi risponde il silenzio”, […] “Qui passava la Linea Gotica/ quasi nessuno ormai lo può raccontare./ I giovani dimenticano -/e non è una virtù”. Mattei ponendosi delle domande, riflette sulla società attuale, sulle sue mancanze e sulla conseguente superficialità. Lo stile semplice e scarno mette in evidenza la precarietà e la fragilità umana (La vita è un attimo, poi il bosco si riprende ciò che gli appartiene.), ma allo stesso tempo anche la sua grandezza, data dalla genuinità dei gesti che ci accompagnano lungo l’esistenza e che rimarranno oltre il tempo che ci è dato. Nella prefazione Massimiliano Pecora spiega: “Nella geografia percettiva e mnestica di lungo la Via Vandelli, lo scrittore, tracciando il suo cammino, lo canta, lo decifra e lo articola esattamente in due parti speculari. Lo spazio naturale viene segmentato dal ritmo del testo attraverso l’adeguamento della parola poetica all’azione del viaggiatore”. Durante la presentazione del volume avvenuta a Pomezia il 18 dicembre nel Museo Città di Pomezia - Laboratorio del 900, il poeta ha recitato “Alla mia età”, lirica dai brevi versi, in cui viene descritta una giornata al mare, durante la quale osserva un padre giocare con il figlio. Nelle ultime due strofe scrive: “Ma io non augurerei mai a nessuno/ di essere come me./ Alla mia età non riesco ancora a
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tuffarmi/ tra le onde”. La grande sensibilità forse lo trattiene e lo rende attento a ciò che fa, guardingo, prudente e più saggio della sua età anagrafica. Probabilmente questa sua caratteristica gli ha permesso di comporre queste liriche così profonde, in cui numerosi animi possono ritrovarsi: “Ma soprattutto, penso alla Via: al genio che l’ha ideata/ alla fatica di coloro che l’hanno costruita/ alle donne e agli uomini che l’hanno percorsa nei secoli./ E così penso alla vita, e alla Via – la mia Via”. Mattei è nato a Modena nel 1985, è psichiatra e musicista. Ha pubblicato diverse raccolte di poesie, tra cui: “Uomo del mio tempo”, Il Fiorino, 2007; La Recherche, 2011, “La scuola dell’obbligo”, La Recherche, 2010 e “La misura delle cose”, Edizioni Artestampa, 2015. Manuela Mazzola
CENTRO STUDI SISYPHUS FUORI DELL’OMBRA E AL CHIARORE DELLE PAROLE Premio letterario internazionale Città di Pomezia - Gangemi Editore International, 2021, Pagg 110 Fuori dell’ombra e al chiarore delle parole, con premessa di Fiorenza Castaldi, prefazione di Gloria Galante, introduzione e nota di Massimiliano Pecora e antologia delle opere premiate, è il primo volume della Collana “Quaderni del Centro Studi Sisyphus” di Gangemi Editore International. Il vincitore della sezione Raccolta di poesie o poemetto: Claudio Carbone con l'opera "L'albero custode". Nella Poesia singola: Davide Rocco Colacrai con l'opera "L'ablazione di un sogno". Nella Poesia in vernacolo: Eugenio Masci con l'opera "Er miracolo". Nel Racconto o novella: Bernadette Capone con l'opera " La storia dei telefoni cellulari". Nel Saggio critico o storico-archeologico: Giuseppe Episcopo con l'opera "Ma la carta sogna i media elettrici? Per una lettura di Prima divisione della notte di Carlo Emilio Gadda". Premi speciali: Premio alla carriera per il merito artisticoletterario della sua opera a Corrado Calabrò. Premio alla memoria per il valore artistico della sua opera a Fabio De Agostini. Nella premessa la Castaldi, direttrice del Centro Studi Sisypuhs, spiega ai lettori: “Il frutto di questa selezione e del rigoroso criterio che l’ha guidata è raccolto in questo volume, nato dal sostegno dell’amministrazione comunale e dal lavoro del Centro Studi Sisyphus, allo scopo di portare fuori dell’ombra e al nitore delle parole il talento dei vincitori delle sezioni in gara nella XXVIII edizione
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del Premio letterario internazionale Città di Pomezia”. Continua Gloria Galante, direttrice del Museo Lavinium, nella prefazione: “Come il Sisifo di Albert Camus, i fondatori del Centro Studi si dispongono a far fede a sé stessi e all’etica del proprio impegno per la ricerca scientifica, nel tentativo questo sì di ascendenza mitologica – di ingannare la distruttrice mola del tempo da cui si salvano solo quanti ambiscono a superare, con l’impegno intellettuale e civile, il macigno della ristrettezza culturale, tragico e terribile emblema della nostra finitudine”. Appare chiaro lo scopo del Centro e di coloro i quali organizzano il Premio letterario, scopo alquanto nobile di scoprire il talento al di là di ogni possibile condizionamento. La giuria, ogni anno diversa, valuta attentamente tutte le opere pervenute di ogni singola sezione, redigendo anche una scheda tecnico-critica. Nella sezione simbolo del Premio, ossia quella della silloge poetica, si è distinta L’albero custode di Claudio Carbone, un esempio lampante di un surrealismo d’idillio coerente e compatto, in cui il paesaggio naturale diventa il pretesto per veicolare contenuti e immagini di alta espressività. “Le rose non hanno ancora un’ape; Le assenze hanno edificato l’aria/ coi destini seminati nelle serre/ mai raccolti; In quale delle due terre contese/ il golfo avrebbe inondato/ di scintille le tue aspirazioni! ; Ovunque alla deriva/ flussi migratori confondono/ l’armonia dei campi; Seduto sulla riva/ aspettavo che il mare parlasse […] tutt’intorno l’acqua/ traboccava d’umanità; La foresta non fa più notizia/ nel groviglio che appaga/ nascondendo il cielo; Plastica/ i peccati non rimessi/ tra i rami/ in brandelli/ per una specie/ che sopravvive/ crocifissa. Questi alcuni dei versi presi dalle diciassette liriche che compongono il florilegio, versi in cui vi è un evidente rimando alla società attraverso la natura e i suoi paesaggi. Si parla di terre contese, assenze, mancanze di un’umanità che è spaesata e che sopravvive ai guai causati dal suo scellerato comportamento, ma in quale modo? Come sopravvive? Crocifissa, ossia messa in croce, tormentata, accettando con rassegnazione le sofferenze e i dolori. Dunque, il poeta giunge a parlare, in maniera delicata con un lessico scelto, di questioni di un certo peso riguardanti il genere umano o una parte di esso, partendo proprio dalla natura. Sembra che la realtà che lo circonda non sia più la stessa, quasi non gli appartenga. Nell’introduzione completa il discorso Massimiliano Pecora, storico e critico letterario: “Resta in gran parte un enigma la capacità della letteratura,
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delle parole e delle frasi parlate e scritte di creare, di comunicare, di rappresentare personaggi indimenticabili, personaggi con le cui vite magari arriviamo a identificare le nostre di così poco conto, e la cui durata va ben oltre la vita personale dello scrittore e del lettore. Solo la letteratura può assicurare l’essere umano dalla sua incapacità di designare ciò che ancora sfugge al nostro intelletto”. Manuela Mazzola
MANUELA MAZZOLA PAROLE SOSPESE Il Convivio Editore, 2021, pagg. 46, € 8,00 Leggerezza di tocco e delicatezza di sentimenti è ciò che subito si nota leggendo questo libro di versi di Manuela Mazzola, apparso presso l’editore Il Convivio nel 2021 e intitolato Parole sospese. Sono queste le poesie di un sofferto distacco e del ricordo, nelle quali il tempo passato ritorna e si fa favola di un mondo perduto. Così meno grave è anche il dolore e torna la stagione dei miracoli, che talora si riaffaccia con tutta la sua suggestione e aurorale bellezza: «L’estate, il periodo migliore. / Lunghe passeggiate / tra colline verdi. / L’odore delle piante aromatiche / ci guidava fino alla discesa» (L’estate, il periodo migliore). E per converso, la fitta del dolore che attraversa l’anima e nel fondo più duole: «Camminavi all’ombra / del grande ombrello, / protetta dal pensiero di tuo padre, / lontano da te sepolto. / Nemmeno una lacrima / hai potuto versare» (Camminavi all’ombra). Traspare anche da queste pagine un vero sentimento degli affetti come si può constatare dai seguenti versi, nei quali il rimpianto per la perdita delle persone care si fa cocente, anche se da altri vissuto: «Senza un papà / non hai avuto confronti, / né punti fermi» (Senza un papà); «La sirena suonava / tua madre correva / e tu sulla scalinata / salivi un gradino alla volta» (La sirena suonava); «Nel letto con tuo nonno, / la domenica mattina, / cantavi melodie ribelli» (Nel letto con tuo nonno). Notevole è pertanto la capacità della Mazzola di trasferirsi nell’animo altrui, per intenderne i moti più segreti. Si legga in proposito: «Chiuso nell’animo, / tieni il tuo mondo, / ostile e distante / perché non più disposto / a sopportare altre pene» (Chiuso nell’animo). Oppure: «Dio non ti ha risparmiato. / Eppure in quella lettura / continua e ossessiva, / cercavi una ragione / per spiegarne l’assenza» (Dio non ti ha risparmiato). Si nota inoltre in questo libro la presenza del senso del ritmo, che dovunque si affaccia a rendere
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più armonioso l’insieme. È quanto si ricava da poesie quali All’improvviso o I ricordi del passato. Leggiamo dalla prima: «All’improvviso / si apre la porta / e una luce, /come un lampo nella notte, / spalanca i tuoi occhi». E dalla seconda: «I ricordi del passato / ti sfuggono. / I contorni della mente / sono sfocati. / Le linee del tempo distorte». Un libro vario, dunque questo nuovo di Manuela Mazzola, che sa toccare molte corde dell’animo umano e parlare agli altri con sommessa voce. Certo, un libro da non dimenticare. Liliana Porro Andriuoli
D. Defelice: Il microfono (1960)
NOTIZIE “POLIFONIA. I LINGUAGGI DEL FEMMINILE”, MOSTRA D’ARTE CONTEMPORANEA di ALBA FOLCIO In occasione della Giornata contro la violenza sulle donne che si celebra ogni anno il 25 novembre il Comune di Lecco, in collaborazione con il Sistema Museale Urbano Lecchese, ha ospitato presso le Scuderie di Villa Manzoni dal 21 al 28 novembre la mostra dell’artista Alba Folcio dal titolo “POLIFONIA. I LINGUAGGI DEL FEMMINILE”, inserita tra gli eventi collegati con il “bosco diffuso di Lecco”, promosso e organizzato dallo stesso Comune con lo scopo di indurre una riflessione trasversale sulla sostenibilità, nella sua accezione più ampia, come ha spiegato l’Assessore all’Ambiente Renata Zuffi,
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anche insegnante di “Arte e Territorio” all’Istituto “Giuseppe Parini” di Lecco: “Quando si parla di sostenibilità è doveroso non tralasciare la dimensione sociale. Questa installazione è realizzata per ricordare, con il linguaggio simbolico ed espressivo dell’arte, la Giornata contro la violenza sulle donne. L’intento è promuovere una riflessione sui linguaggi del femminile che leghi il rispetto della persona e la cura per ogni forma di vita e diversità”. La mostra constava di due installazioni, “FARSI IN 7” e “POLIFONIA”, create in tempi diversi, accomunate però dal filo che unisce le espressioni femminili. “FARSI IN 7”, nome ricavato dalle espressioni “farsi in quattro” e “sudare sette camicie”, è nata durante la pandemia e rimanda al dato di fatto che un tempo svuotato da impegni esterni può diventare opportunità di vicinanza al proprio mondo interiore. Composta da sette camicie bianche usate, simbolo maschile, decorate da ornamenti che rappresentano invece i talenti delle donne, stanno a dimostrare che solo la fusione di questi due opposti elementi permette uno stare nel mondo in modo creativo. I nomi attribuiti alle camicie rimandano alle qualità che caratterizzano l’orizzonte femminile: “ARMATE DI SILENZIO”, “TESSITRICI DELL’INVISIBILE”, “ACROBATE DEL QUOTIDIANO” “SCIENZIATE DELLA PASSIONE”, “SPELEOLOGHE DELL’
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ANIMA”, “SEMPRE INNAMORATE DELLA VITA”, “BOMBE DI PAZIENZA”. Una scheda tecnica spiegava il senso del nome attribuito a ogni singola camicia e ne descriveva gli ornamenti. Rivelava anche l’aspetto autobiografico dell’opera, raccontato dalla stessa artista: “Durante la guerra e nei periodi in cui non si poteva contare su alcun supporto maschile in famiglia, mia madre e le sue sorelle cucivano raffinate camicie per clienti esigenti, sotto la guida e la gestione severa e manageriale di mia nonna”. Generalmente è quasi impossibile non trovare collegamenti tra la creazione artistica e la biografia dell’artista. Nessuna eccezione qui e la stessa cosa vale anche per “POLIFONIA”. Questa seconda installazione, incentrata su sette figure femminili, nel loro insieme davano l’impressione di formare un coro. Ogni figura rimandava alle qualità primordiali della Natura, alla TERRA, all’ACQUA, al FUOCO, all’ARIA, all’ETERE, ma anche alla STORIA e alla BELLEZZA e sempre una scheda tecnica ne illustrava il significato, gli ornamenti, descriveva i materiali di cui erano composte e ne svelava l’elemento autobiografico. L’artista aveva recuperato qualche anno prima due vecchi appendiabito e ci aveva applicato sette bacchette di legno, pensando di utilizzarle a scopo personale per poter appendere i suoi numerosi foulards; aveva poi aggiunto degli elementi di decoro, utilizzando materiali che già possedeva: un uovo di struzzo come testa, rame e altri metalli per capigliatura e cappello per avere un personaggio simpatico quando si alzava la mattina. Successe poi che due amiche le chiesero di fare degli altri porta foulards per loro. A questo punto si rese conto di poter finalizzare questo lavoro a un progetto di più ampio respiro, in grado di mandare dei messaggi più profondi. Il suo intento è stato infine realizzato grazie anche alla collaborazione con Sara Zaramella, ricercatrice della bellezza, attiva nel campo della moda. In questo modo si è chiuso il cerchio e la
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“femminilità, la bellezza e il senso di comunità” sono diventate pubblicamente usufruibili. Nelle due installazioni non sono mancati elementi che rimandano alla letteratura, alla poesia, alla musica, alla mitologia. Infatti sull’abito di “TERRA” è ricamato un estratto della poesia di Alessandra Paganardi e nel collo dell’ometto è incastonata una moneta da 2 euro con la raffigurazione di una divinità femminile della fertilità di epoca preistorica scoperta a Pomos, Cipro. Sulle costole di “ETERE” sono arrotolate poesie e spartiti musicali, quale nutrimento immateriale dell’anima. “STORIA” indossa un abito realizzato con foglietti della stessa dimensione, ma di tessuti differenti che arricciandosi, girandosi e stendendosi indicano situazioni di cui non si ha il pieno controllo, mentre il vestito di “BELLEZZA” è proprio un libro che ospita, ricamate con fili di colore diverso e punti differenti, parole evocative e strofe sulla bellezza. Il cuore di “ACQUA”, intrecciato con fili rossi di vari materiali, contiene segreti e parole importanti, lanciate nel flusso che portano l’attenzione sull’essenziale. Nella camicia “ARMATE DI SILENZIO” i petali dell’ornamento realizzato con carta pirkka, intrecciati tra di loro, accolgono parole, le donne custodiscono in angoli nascosti i valori importanti della vita. In “SCIENZIATE DELLA PASSIONE” erano visibili dei piccoli libri collegati tra loro da uno spago rosso come varie sfaccettature della passione. Il percorso espositivo era ulteriormente arricchito dalle poesie di Chandra Livia Candiani, Emily Dickinson e Mariangela Gualtieri e il
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pensiero espresso “Piano piano le idee si sono trasformate in DEE” ne riassumeva concisamente il messaggio. È stato molto interessante visitare la mostra, anche perché le guide erano studenti/esse dell’Istituto Artistico “Medardo Rosso” di Lecco, precisamente della 3E DES a. s. 2021/2022, “addestrate/i” da Katia Negri, la loro insegnante di Educazione Artistica. Anche il materiale informativo era stato messo a punto da loro. Una grande passione animava la studentessa che mi ha accompagnata attraverso la mostra, illustrando tutto in modo dettagliato, una “prestazione” che avrebbe meritato un “dieci” nel registro della sua insegnante, talmente era chiara e rigorosa la sua spiegazione. Una conversazione avuta con l’artista, riferita a me in modo veramente coinvolgente, le aveva anche permesso di “accedere” al processo artistico che alla fine ha condotto Alba Folcio a queste sue creazioni: l’opera nasce prima come immagine, che per lei irrompe nella fase del risveglio, progetto che deve affrontare gli ostacoli della realizzazione pratica, che non sempre consente di avere l’opera così come la si è visualizzata, ma questi ostacoli servono in verità ad aggiustare il tiro e raggiungere molto spesso livelli più alti di quelli che si sarebbero raggiunti se il tutto fosse andato liscio. Un grande messaggio per adolescenti che devono affrontare le sfide di questo mondo, passaggio che non è stato mai facile per nessuno, difficilissimo in questo momento pandemico. L’impegno appassionato della studentessa ha ulteriormente evidenziato l’aspetto corale, il senso di comunità, che hanno caratterizzato tutte le fasi del lavoro, ne sono diventati la sua cifra, come mi ha poi confermato in una conversazione privata la stessa artista. Tutto il percorso è stato impregnato di condivisione, aspetto ancor più rilevante se si riflette sul periodo nel quale le due creazioni hanno visto la luce: la prima quando eravamo letteralmente chiusi in casa, con la socialità ridotta ai minimi termini, in relazione con esseri
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umani in presenza solo se appartenenti allo stesso nucleo famigliare, altrimenti affidati alla tecnologia che per fortuna permette incontri in ogni caso, anche se solo virtuali. La seconda ha attraversato tutte le fasi “colorate”, rosse, arancioni, gialle e bianche, che hanno comunque ridimensionato la socialità perché il rischio “contagio” non è mai venuto meno. Un vero miracolo quindi la realizzazione di questa mostra, anche grazie all’interessamento delle Istituzioni. La fortuna di conoscere personalmente Alba Folcio mi aveva permesso di vedere “POLIFONIA” a casa sua quando era ancora in fase di realizzazione. Il primo pensiero passato per la mia testa alla vista delle figure, pronte o semi pronte, è subito corso alle “Nozze”, pensiero supportato dal fatto che erano vestite di bianco. Alla luce della complessità del messaggio, all’artista questo primo impatto avuto su di me sarà sembrato molto riduttivo, ma anche dopo la visita alla mostra questa percezione è rimasta, pur inserita nella rete complessa di simboli e significati. Le “Nozze” propriamente dette sono state ridotte a cerimonie che quasi sempre non rendono assolutamente il senso di quello che dovrebbe essere, e cioè l’incontro, non fugace, di due esseri umani pronti a “contaminarsi” e sul percorso della “contaminazione” avviare un processo creativo, che eventualmente porta alla nascita di una creatura in carne ed ossa. Le “Nozze” però, intese in un’accezione più ampia, possono essere legate anche a momenti di empatia, di vicinanza, di cura, di solidarietà con altri esseri umani, qualità tangibili, anche quando sono astratte, perché una parola detta al momento giusto, un gesto d’affetto nel momento del bisogno, si imprimono profondamente nel cuore delle persone che ne beneficiano e l’effetto rimane, per sempre. E nello scambio “contaminante” ne esce più ricco anche chi ha espresso questa parola e fatto questo gesto. Queste potenzialità, nelle nozze propriamente dette o negli scambi umani, vengono molte volte sprecate, molto spesso si innesca
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invece di un processo creativo uno impregnato di distruttività, ma ciò non toglie nulla al dato di fatto che “contaminarsi” rimane una delle occasioni a noi concesse come esseri umani di evolvere, mettendo a frutto quanto ci portiamo dentro dalla nascita. Non riuscire a farlo può portare tanta sofferenza, infelicità, dolore. Quindi è assolutamente indispensabile fare di tutto per raggiungere questo obiettivo, sempre in divenire, e non lasciarsi scoraggiare quando la situazione è avversa e nulla sembra accadere. Il seme a volte tarda a schiudersi, ma prima o poi lo fa, perché questo è il suo destino. Lia Giudici *** VINCENZO ROSSI VISTO DA IMPERIA TOGNACCI – Il saggio “Volli, e volli sempre… La speculazione estetica e simbolica nella poesia di Vincenzo Rossi”, della nostra amica e collaboratrice Imperia Tognacci, edito dalla Genesi, continua a ottenere consensi. Ecco quanto scrive all’Autrice il grande Emerico Giachery: Gentilissima Poetessa, sono molto lieto che sia proprio Lei, con la sua ricca esperienza umana e letteraria, a rendere presente nella durata della vita culturale, un personaggio come Vincenzo Rossi: con lui ho avuto uno scambio molto vivo di messaggi, e quando insegnavo a Tor Vergata, una studentessa presentò con successo una tesi di laurea su di lui. Ebbi uno scambio di messaggi anche con sua figlia Maria Stella, ricca di interessi intellettuali. Sono anche lieto che la postfazione l'abbia fatta quel dotto studioso e squisito gentiluomo che è Francesco D'Episcopo (se ha modo di contattarlo, La prego di porgergli i miei saluti). Lei ha giustamente fissato la ricchezza della personalità di Rossi e la sua spiccante centralità nel contesto attuale della cultura molisana (il caro Crecchia, che fu suo amico, Rita Notte e Amerigo Jannacone scomparso pochi anni fa, sono quelli che conosco). Molto attuale (non potrebbe esserlo più di così) il tema della sopraffazione tecnologica. Lei sottolinea giusta-
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mente la felice simbiosi con la terra e gli animali, favorita dalla sua nascita e prima esperienza in contatto, diretto e immediato come più non si potrebbe, con la natura e la vita contadina: a volte il caso diventa destino, diceva Ricoeur, e quel mondo ora "esiste di più", attraverso l'opera di Vincenzo Rossi, e a sua volta quell'opera "esiste di più" per merito della sua interpretazione ricca e profonda. Congratulazioni e saluti dal novantaduenne Emerico Giachery *** POETI CINESI E REGIME CINESE – Anche in questo numero, presentiamo ai nostri lettori un poeta della grande Nazione cinese. Non intendiamo far polemiche con quanti non sono d’accordo dello spazio che abbiamo sempre dato e che continuiamo a dare alla poesia della Cina. Pubblicare poeti cinesi non significa affatto, per noi, essere d’accordo con il regime comunista cinese, oppressore delle più elementari libertà, ma contribuire alla diffusione della Cultura, e, per noi, la Cultura e la Poesia in particolare sono LIBERTÀ, altro che regime e oppressione. Quel che è avvenuto e avviene in Cina, dal punto di vista politico, non è affatto avallato dal nostro scambio culturale. D. Defelice *** PRESENTAZIONE DEL I QUADERNO DEL CENTRO SISYPHUS - Fuori dall’ombra e al chiarore delle parole - Nella bellissima cornice del Museo Città di Pomezia – Laboratorio del 900, si è svolta la presentazione del I quaderno della collana editoriale
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Centro Sisyphus, “Fuori dall’ombra e al chiarore delle parole”, edito da Gangemi Editore, in cui sono state pubblicate le opere vincitrici della XVIII edizione del Premio letterario internazionale Città di Pomezia. L’evento è avvenuto alla presenza della vicesindaco Simona Morcellini, della direttrice del Museo ospitante, Claudia Montano, della direttrice del Centro Sisyphus Fiorenza Castaldi, dei vincitori del Premio e del prof. Massimiliano Pecora. Massimiliano Pecora e Fiorenza Castaldi, membri della commissione del Premio Letterario, hanno premiato i vincitori, intrattenendo il pubblico con una piacevole disquisizione. Il Premio, fondato e portato avanti fino al 2017 dal poeta-giornalista Domenico Defelice, oggi è di proprietà del Comune e viene organizzato annualmente con professionalità e passione dalla Castaldi. Questi i vincitori dell’edizione 2018 che sono stati editati nell’elegante volume: Sezione A Raccolta di poesie o poemetto · 1° classificato: Claudio Carbone con l'opera "L'albero custode". Sezione B Poesia singola · 1° classificato: Davide Rocco Colacrai con l'opera "L'ablazione di un sogno"; · 2° classificato: Assunta Spedicato con l'opera "Io, figlio conteso". Sezione C Poesia in vernacolo · 1° classificato: Eugenio Masci con l'opera "Er miracolo". Sezione D Racconto o novella · 1° classificato: Bernadette Capone con l'opera " La storia dei telefoni cellulari"; · 2° classificato: Riccardo Passalacqua con l'opera "Giù per le scale"; · 3° classificato: Emiliano Valerio Siciliani con l'opera "Esercizi di sensualità". Sezione E: Saggio critico o storico-archeologico · 1° classificato: Giuseppe Episcopo con l'opera "Ma la carta sogna i media elettrici? Per una lettura di Prima divisione della notte di Carlo Emilio Gadda". Premi speciali:
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· Premio alla carriera per il merito artistico-letterario della sua opera a Corrado Calabrò; · Premio alla memoria per il valore artistico della sua opera a Fabio De Agostini. Prima di salutare il pubblico, è stata presentata insieme al suo prefatore, prof. Pecora, anche la silloge, “Lungo la via Vandelli. Poesie da Modena a Massa”, edita da Artestampa 2021 di Giorgio Mattei, poeta e musicista, nonché membro di una delle precedenti edizioni del Premio Letterario. La manifestazione ha avuto luogo nel pieno rispetto delle norme anti-Covid e anche nella speranza che si possa continuare in futuro con eventi culturali di questo spessore. Manuela Mazzola
LIBRI RICEVUTI BRUNO VESPA – Perché Mussolini rovinò l’Italia (e come Draghi la sta risanando) – Rai Libri Mondadori, 2021, pagg. 452, € 20. Bruno VESPA è nato a L’ Aquila nel 1944, ha cominciato a 16 anni il lavoro di giornalista e a 24 si è classificato al primo posto nel concorso che lo ha portato alla Rai. Dal 1990 al 1993 ha diretto il Tg1. Dal 1996 la sua trasmissione “Porta a porta” è il programma di politica, attualità e costume più seguito. Per la prima volta nella storia, vi è intervenuto un papa, Giovanni Paolo II, con una telefonata in diretta. Tra i premi più prestigiosi, ha vinto il Bancarella (2004), per due volte il Saint-Vincent per la televisione (1979 e 2000) e nel 2011 quello alla carriera; nello stesso anno ha vinto l’Estense per il giornalismo. Fra i suoi più recenti volumi pubblicati da Mondadori ricordiamo: Storia d’ Italia da Mussolini a Berlusconi; Vincitori e vinti; L’Italia spezzata; L’amore e il potere; Viaggio in un’Italia diversa (2008); Donne di cuori (2009); Nel segno del Cavaliere. Silvio Berlusconi, una storia italiana (2010) Il cuore e la spada (2010); Questo amore (2011); Il Palazzo e la piazza (2012); Sale zucchero e caffè (2013); Italiani voltagabbana (2014); Donne d’Italia. Da Cleopatra a Maria Elena Boschi storia del potere femminile (2015), C’ eravamo tanti amati (2016), Soli al comando. Da Stalin a Renzi, da Mussolini a Berlusconi, da Hitler a Grillo. Storia, amori, errori (2017), Rivoluzione. Uomini e retroscena
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della Terza Repubblica (2018), Perché l’Italia diventò fascista (e perché il fascismo non può tornare) (2019), Perché l’Italia amò Mussolini (e come è sopravvissuta alla dittatura del virus) (2020). ** AA. VV. – Fuori dell’ombra e al chiarore delle parole. Premio letterario internazionale Città di Pomezia – Quaderni del Centro Studi Sisyphus, Anno I, 2021, n. 1 – Gangemi Editore International, novembre 2021, pagg. 112, s. i. p.. Si tratta di opere premiate alla XXVIII edizione 2018 del Premio letterario internazionale Città di Pomezia, prima edizione gestita direttamente dal Comune di Pomezia, al quale fu donato gratuitamente dal fondatore Domenico Defelice, che lo ha gestito fino alla ventisettesima edizione. Scrive nella Premessa Fiorenza Castaldi: “…Rispetto al primo progetto defeliciano, il Premio ha subito delle trasformazioni che, per quanto decisive, hanno incontrato il plauso di molti partecipanti. A partire dal Regolamento, l’impianto concorsuale, a oggi, fa dell’anonimato delle opere la garanzia necessaria alla premiazione della qualità dei testi, lasciando in secondo piano il crisma, la fama e la fortuna degli autori più accreditati nel panorama della cultura contemporanea./Sceverata da qualsivoglia condizionamento, questa procedura di valutazione riconosce il merito all’autore affermato e all’esordiente, al giovane studioso e al comprovato esperto, allo scaltrito intellettuale e all’appassionato lettore./Unica garanzia alla pubblicazione dei testi che concorrono al Premio è la loro qualità, desunta a partire dalla lunga e faticosa disamina operata da una giuria di esperti. Per quanto un testo saggistico-letterario possa andare incontro all’estemporaneità del gusto, vale constatare che anche quest’ultimo va motivato e suffragato. In ragione di questo assunto i giurati sono stati impegnati nella realizzazione di schede che, a dispetto della paternità dell’opera, comprendevano valutazioni metrico-linguistiche e storico-bibliografiche, oltre a un giudizio compendiario./ Solo così, nel 2018, la XXVIII edizione del Premio internazionale Città di Pomezia ha potuto svelare una fitta messe di autori che, nella scrittura, ricompongono i tortuosi sentieri delle emozioni, delle paure, dei disagi, degli interessi più eruditi nella lucidità della comunicazione letteraria./Il frutto di questa selezione e del rigoroso criterio che l’ha guidata è raccolto in questo volume, nato dal sostegno dell’amministrazione comunale e dal lavoro del Centro Studi Sisyphus, allo scopo di portare fuori dall’ombra e al nitore delle parole il talento dei vincitori delle sezioni in gara nella XXVIII edizione del Premio letterario internazionale
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Città di Pomezia.” Pomezia-Notizie non può non plaudire all’uscita di questo primo volume, nell’auspicio che seguiranno prontamente gli altri e che il Premio Città di Pomezia possa avere sempre successo e concorso di validi Autori, così come lo è stato nelle nostre precedenti ventisette edizioni. ** CARLO DI LIETO – Le risonanze dell’Illimite nella Quinta dimensione di Corrado Calabrò – Rubettino Editore, 2021, pagg. 418, € 44,00. Carlo DI LIETO vive e lavora a Napoli. Docente di Letteratura italiana presso l’Università degli Studi “Suor Orsola Benincasa” di Napoli, è assiduo collaboratore delle riviste “Ariel”, “Misure Critiche”, “Riscontri”, “Silarus”, “Vernice”, “Nuova Antologia” e fa parte della Redazione di “Gradiva”, oltre che di “Vernice” e de “Il Pensiero Poetante”. Ha a suo attivo pubblicazioni inerenti al rapporto Letteratura/Psicanalisi e saggi critici, in chiave psicanalitica, sulla produzione pirandelliana, su Carducci, Leopardi e Pascoli, sulla poesia Otto- Novecento e su quella contemporanea. Critico militante, collabora a quotidiani con articoli letterari. Inoltre, ha scritto saggi su Papini, Bonaviri, Colucci, Mazzella, Calabrò e Fontanella e le seguenti monografie: “Pirandello e <la coscienza captiva>” (2006), “La scrittura e la malattia. Come leggere in chiave psicanalitica <I fuochi di Sant’Elmo> su Carlo Felice Colucci” (2006), “L’identità perduta”. Pirandello e la psicanalisi” (2007), “Pirandello Binet e “Les altérations de la personnalité” (2008), “Il romanzo familiare del Pascoli delitto, “passione” e delirio” (2008), “Francesco Gaeta la morte la voluttà e “i beffardi spiriti” “ (2010), “La bella Afasia”, Cinquant’anni di poesia e scrittura in Campania (1960 - 2010) un’indagine psicanalitica” (2011), “Luigi Pirandello pittore” (2012), “Psicoestetica” il piacere dell’analisi” (2012), “Leopardi e il “mal di Napoli” (1833 - 1837) una “nuova” vita in “esilio acerbissimo” (2014), “La donna e il mare. Gli archetipi della scrittura di Corrado Calabrò” (2016). Vincitore per la saggistica del 1° Premio del XLI Premio Letterario Nazionale, “Silarus” 2009, del 1° Premio Letterario internazionale 12a edizione “Premio Minturnae” 2009 e del 1° Premio Letterario Internazionale per la saggistica “Emily Dickinson”, XVII edizione 2013-2014. Componente della giuria del “Premio Corrado Ruggiero”, per la poesia e la narrativa italiana; socio dell’Accademia Internazionale “Il Convivio” e dell’Unione Nazionale Scrittori e Artisti. I suoi testi sono in adozione presso l’Università degli Studi “Suor Orsola Benincasa” di Napoli, l’Accademia di Belle Arti di Napoli e presso la Cattedra di Lingua e Letteratura italiana dell’Università Statale di New York. Dirige la collana “Letteratura e Psicanalisi”
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della Genesi Editrice e dal 2013 è componente la giuria del Premio Nazionale di Poesia, Narrativa e Saggistica “I Murazzi”. Altre sue opere: “La coscienza captiva” in Maliardaria di Fabio Dainotti (2006), “Scena onirica” e “radialità dell’immaginario” nell’opera di Ugo Piscopo (2020), L’inconscio. La letteratura e l’”ospite inquieto” (2020).
TRA LE RIVISTE IL CONVIVIO – trimestrale di poesia arte e cultura fondato da Angelo Manitta e diretto da Enza Conti – via Pietramarina-Verzella 66 – 95012 Castiglione di Sicilia (CT) – e-mail: angelo.manitta@tin.it; enzaconti@ilconvivio.org – Riceviamo il n. 86, lugliosettembre 2021, sul quale, a diverso titolo, troviamo le firme di: Nadia Scappini, Angelo Manitta, Adrea Zanzotto, Giorgio Moio, Corrado Calabrò, Carlo Di Lieto, Aldo Marzi, Enza Conti, Antonia Izzi Rufo, Mariagina Bonciani, Manuela Mazzola eccetera. E, poi, rubriche varie, pittura, poesia estera. * ntl NUOVA TRIBUNA LETTERARIA – rivista di lettere ed arte fondata da Giacomo Luzzagni, diretta da Stefano Valentini (responsabile), Natale Luzzagni e Pasquale Matrone (vicedirettore) – via Chiesa 27 – 35034 Lozzo Atestino (PD) – e-mail: nuovatribuna#yahoo.it – Riceviamo il n. 143, luglio-settembre 2021, con Natale Luzzagni (“Fermi così!”, Bruno Croatto, il pittore di copertina), Luigi De Rosa (su Eugenio Montale), Liliana Porro Andriuoli (su Giovanni Pascoli), Maria Nivea Zagarella (su Trilussa), Floriano Romboli e Gianluigi Peretti (su Dante), Pasquale Matrone (su Iosif Brodskij), Elio Andriuoli (su Antòn Cechov) e molti altri. Stefano Valentini recensisce anche “Il portale”, la bella raccolta di poesie della nostra amica e collaboratrice Laura Pierdicchi. Notiziari, bandi di concorsi. * L’ERACLIANO – mensile dell’Accademia Collegio de’ Nobili – fondata nel 1623 -, diretto da Marcello Falletti di Villafalletto – Casella Postale 39 – 50018 Scandicci (Firenze) – e-mail: accademia_de_nobili@libero.it – Riceviamo il n. 285/287, dell’ottobre-dicembre 2021, dal quale segnaliamo il saggio d’apertura: Girolamo IV Falletti Viceré di Sardegna, primo marchese di Barolo, di Marcello Falletti di Villafalletto, nonché la rubrica Apophoreta, curata dallo stesso, nella quale figura anche una recensione a firma della nostra collaboratrice Manuela Mazzola. *
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SILARUS – rassegna bimestrale di cultura fondata da Italo Rocco, direttore Lorenza Rocco e Pietro Rocco (responsabile) – via B. Buozzi 47, 84091 Battipaglia (SA) – e-mail: rivistasilarus@hotmail.it – Riceviamo, inviatoci dall’amico Carlo Di Lieto, il n. 338, novembre-dicembre 2021, dal quale segnaliamo: “Montale e il Novecento”, di Luigi Ferrara; “Nicola Prebenna e “l’incontro con Dante””, di Carlo Di Lieto; “Le risonanze dell’illimite nella Quinta dimensione di Corrado Calabrò di Carlo Di Lieto”, di Lorenzo Rocco eccetera.
NUVOLE A volte Dall’alto un occhio Coglie lo smarrimento delle vite E allora regala Nelle nuvole di passaggio Il mondo che si sogna Ma appena si scioglie il petto All’ attimo di felicità Un soffio silenzioso Tutto si porta via Salvatore D’Ambrosio Caserta
DA MATTARELLA A MATTARELLA Avevamo aperto gennaio con l’articolo di Giuseppe Leone e l’auspicio che si eleggesse una donna a Presidente della Repubblica; lo chiudiamo con la riconferma di Sergio Matterella. Niente di nuovo, dunque, o forse il meglio che offriva la piazza, cioè, il nostro, per certi aspetti, disastrato Paese, nel quale, su quasi 60 milioni di Italiani, non se ne trova uno che sia degno di sostituire l’inquilino del Quirinale (“Può essere eletto Presidente della Repubblica ogni cittadino – ogni cittadino, non uno della mangiatoia! – che abbia compiuto cinquanta anni d’età e goda dei diritti civili e politici”, art. 84 della Costituzione); e non lo si trova non perché non ci sia, ma perché i 983
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“grandi elettori” (in tanti hanno votato per rieleggere Mattarella) non hanno avuto né voglia , né capacità di trovarlo, quasi tutti essendo inetti, ignoranti, parolai, ciarlatani, pollastri di salotti e tv, infimi quaquaraquà. E diciamo che Mattarella è “forse” il migliore, giacché anche lui ha le sue pecche. In sette anni, per esempio, non ha fatto nulla perché si ammodernasse la giustizia (“Presiede il Consiglio superiore della magistratura”, art. 87), ormai autentico cancro del Paese; perché si desse mano a una legge elettorale efficiente da non doversi cambiare a ogni legislatura (“Può inviare messaggi alle Camere”) e senza avere avuto mai il coraggio di dire che l’attuale stato dei partiti è un autentico scandalo, pur essendo vero che non è compito suo mutar la testa a questi mostri che divorano chiunque osi emergere col pericolo di fare ombra (un esempio per tutti: Forza Italia, in cui Berlusconi praticamente assassina chiunque cerca di primeggiare smettendo di dire sempre e solo signor sì); non è compito suo, ma una parola sul tema avrebbe potuto e dovuto dirla, come può dirla chiunque, senonché, da quell’altezza, avrebbe avuto altra efficacia. Non solo. Non è il migliore perché ha mancato di parola. Infatti, dopo aver lanciato urbi et orbi il messaggio che avrebbe abbandonato il Quirinale alla scadenza del mandato perché “Il Presidente della Repubblica è eletto per sette anni” (art. 85), non per quattordici;
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perché ci ha mostrato scatoloni e scatolini pronti o in giro per il trasloco; perché ci ha fatto sapere di aver preso un appartamento in un bel quartiere di Roma dove andare a riposarsi –, ha tradito la parola data, ha tradito il dettato della Costituzione (7 anni e non 14), e perché? Per il bene dell’Italia! A parte il fatto che l’espressione sia, ormai, la più abusata per nascondere fallimenti (non diciamo altro), è, forse, il bene dell’Italia rimanere a reggere il moccolo agli incapaci del Parlamento, delle regioni e dei partiti, sì che possano continuare ad occupare scranni, percepire montagne di soldi, non far niente di niente se non danni ed affollare giorno e notte vellutati salotti e tv? Non era il bene dell’Italia dir loro, invece: ho terminato bene o male il mio mandato, me ne vado e vi metto tutti davanti alle vostre inderogabili, gravi responsabilità? Domenico Defelice
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