Il mio mondo verticale

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Jerzy Kukuczka

IL MIO MONDO VERTICALE E ALTRI SCRITTI a cura di Luca Calvi e Mario Corradini

EDIZIONI VERSANTE SUD | I RAMPICANTI


Titoli originali: Moj piónowy świat, Ostatnia w Koronie, Shisha Pangma ’87 , Królowa - Lhotse ’89 Edizioni originali: autoprodotte 2017, 2018, 2019 © Cecylia Kukuczka 2022 © VERSANTE SUD S.r.l. Via Rosso di San Secondo, 1 Milano Per l’edizione italiana tutti i diritti riservati Fotografie a colori: Archivio Jerzy Kukuczka Traduzione: Manuela Burchi e Jurek Sztekiel (Il mio mondo verticale 2004) Luca Calvi (revisione Il mio mondo verticale e traduzione Diari e altri scritti) Lʼeditore ringrazia per la collaborazione: Sarah Caola, Anita Didkowska, Roberta Rastelli, Mauro Zingrini 1a edizione Giugno 2022 www.versantesud.it ISBN: 978 88 55470 667


Jerzy Kukuczka

IL MIO MONDO VERTICALE E ALTRI SCRITTI a cura di Luca Calvi e Mario Corradini

EDIZIONI VERSANTE SUD | COLLANA I RAMPICANTI


INDICE Nota introduttiva dei curatori Il ricordo che ho di Jurek di Cecylia Kukuczka

6 9

Prefazione di Reinhold Messner

11

Prefazione di Simone Moro

13

L’eterna attualità di un’umanissima leggenda

16

IL MIO MONDO VERTICALE Introduzione

35

Poco a destra della montagna più alta del mondo…

39

L’Everest alla polacca

63

La coccinella di plastica

77

La montagna rubata

99

La montagna a credito

117

Il serpente schiacciato

137

8167 metri di neve e di nebbia

153

I gradini rotti

173

Il Nanga non perdona

187

Lo zaino sul pendio

209

L’eterno riposo…

219

Fatti i fatti tuoi

235

Fa nulla…

261

L’inferno gelido

281

L’anatra alla pechinese

297

Quattordici per otto

311

I DIARI I diari dello Shisha Pangma

331

I diari del Lhotse

347

Jerzy Kukuczka IL MIO MONDO VERTICALE 4


RICORDO DI JERZY KUKUCZKA La fine di un mito Il Film Festival di Montagna di Katowice Il Memoriale Il Rajd Górski im. Jerzego Kukuczki I chorten in sua memoria Wroclaw, un’altra scuola a lui intitolata Uno gnomo per Jerzy I monumenti a lui dedicati Il murale a Katowice-Bogucice La rappresentazione teatrale della sua vita Il Museo Virtuale “Celina” Un planetoide di nome Kukuczka

TESTIMONIANZE

Eugeniusz Krajcer Kurt Diemberger Sergio Martini Umberto Martini Angelo Schena Fulvio Mariani Krzysztof Wielicki Ryszard Pawłowski Janusz Majer Ryszard Warecki Dariusz Załuski Piotr Pustelnik Maciej Pawlikowski Krystyna Palmowska Anna Okopińska Jerzy Porębski Wojciech Dzik Zbigniew Terlikowski CAI di Pieve di Soligo

Elenco delle principali ascensioni

365 368 369 372 374 377 379 379 382 383 384 386 387

391 397 399 402 404 408 413 415 417 419 422 424 426 428 431 433 436 442 448 452

Indice 5


NOTA INTRODUTTIVA DEI CURATORI

Accettando di buon grado la proposta di dar vita a una edizione rivista, corretta e ampliata de Il mio mondo verticale, abbiamo deciso di offrire al lettore un’opera divisa in due sezioni. Nella prima parte, a cura di Luca Calvi, presentiamo, dopo un’introduzione biografica sull’eterna attualità della figura di Jurek Kukuczka, i testi delle sue opere, per la precisione Il mio mondo verticale, i Diari dello Shisha Pangma e i Diari del Lhotse. Il mio mondo verticale riprende la traduzione di M. Burchi già pubblicata da Versante Sud, nel 2004, riveduta e corretta a cura della redazione e di Luca Calvi sulla base dell’edizione polacca: Jerzy Kukuczka, Mój pionowy świat, Mac System Maciej Kukuczka, Katowice 2008. I Diari dello Shisha Pangma e i Diari del Lhotse sono stati tradotti da Luca Calvi sulla base delle rispettive edizioni polacche OSTATNIA W KORONIE, Shisha Pangma ’87, Fundacja Wielki Człowiek, Katowice 2017 e KRÓLOWA Lhotse ’89, Fundacja Wielki Człowiek, Katowice 2019. La seconda parte, a cura di Mario Corradini, contiene una serie di riflessioni e ricordi del più grande alpinista polacco (e forse non solo polacco) di tutti i tempi e di quanto viene fatto per perpetuare la sua memoria. Immediatamente di seguito, sempre a cura di Mario Corradini con l’intervento di Luca Calvi per le sole traduzioni, vengono presentati ricordi di Jerzy Kukuczka, uomo e alpinista, da parte di chi lo ha conosciuto e con lui ha condiviso la passione che tutti noi unisce. Questa edizione delle opere di Jerzy Kukuczka vede la luce grazie alla lungimiranza della casa editrice Versante Sud, all’impegno dei due curatori, ma soprattutto alla fattiva collaborazione di Cecylia-Celina Kukuczka e di Wojciech-Wojtek Kukuczka, moglie e figlio della leggenda polacca, cui inviamo un sentito ringraziamento e un fortissimo abbraccio. Affidiamo dunque alle stampe questa nuova edizione orgogliosi di poter iscrivere il nostro nome vicino a quello di un mito eterno dell’alpinismo, ringraziando, oltre all’editore e alla famiglia Kukuczka, tutti gli amici che Jerzy Kukuczka IL MIO MONDO VERTICALE 6


hanno voluto omaggiare Jurek e contribuire al peso specifico di questa pubblicazione con i loro ricordi, a cominciare da Reinhold Messner e Simone Moro che hanno avuto la bontà di attualizzare le rispettive prefazioni scritte in occasione della prima traduzione in italiano dell’opera.

Luca Calvi e Mario Corradini Dicembre 2021

Nota introduttiva dei curatori 7


Cecylia e Jerzy Kukuczka in Italia. Foto: Jacek Pałkiewicz

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IL RICORDO CHE HO DI JUREK Credo davvero che Jurek sia stata una persona molto fortunata, perché nella sua vita ha potuto coltivare e realizzare ciò che per lui era la cosa più importante e al tempo stesso più bella, ovvero la sua passione per le montagne. Non a tutti è dato poterlo fare, ma nei suoi confronti il destino ha deciso di dargli fiducia. È rimasto lì, nel posto che più amava, circondato dalle montagne più alte, da una natura tanto selvaggia e severa quanto straordinaria. Provai gioia e felicità quando riuscì a salire l’ultima di quelle sue grandi montagne, pensavo che con quella avrebbe finalmente potuto mettere la parola fine a quel suo peregrinare… Mi ero sbagliata. Continuò invece a scegliere altri obiettivi e mi ricordo quanto rimasi triste quando mi mise al corrente dei suoi piani per l’immediato futuro. Quell’ultimo giorno, il giorno della partenza di Jurek per la parete sud del Lhotse mi è rimasto impresso nella mente. Sembrava avere un po’ la testa persa, era nervoso, aveva già salutato i suoi figli e si era raccomandato con il più grande di occuparsi del fratello minore. I commiati erano per lui un momento difficilissimo, non gli piacevano per nulla. Di solito andavo con lui fino a Varsavia e lo salutavo lì, all’aeroporto. Quella volta però non potevo, così ci salutammo a Katowice, sul marciapiede della stazione. Notai che per quella spedizione si stava portando un bagaglio piccolo come mai prima di allora. Aveva ancora posto nello zaino, sembrava che stesse partendo per un giro di qualche giorno. La stazione di Katowice… Fu assediato da una massa di persone che dovevano ancora sbrigare con lui alcune questioni, più tutti coloro che desideravano poterlo salutare e augurargli buona fortuna per la spedizione. Arrivò il treno, mi abbracciò stretta e mi baciò. Le sue ultime parole furono “sii forte e prenditi cura dei figli”. Vidi nei suoi occhi un po’ di tristezza mista a stanchezza. Saltò sul treno e partì per Varsavia da dove sarebbe iniziato il viaggio per il Nepal. Non gli piaceva condividere le sue esperienze in montagna e ho il sospetto che abbia portato con sé tutti quei molti segreti che mai volle raccontare. Cecylia Kukuczka

Il ricordo che ho di Jurek 9


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PREFAZIONE DI REINHOLD MESSNER Anno 1989. Ero a Punta Arenas, nel Sud del Cile, quando fui informato della morte di Jerzy Kukuczka. Pochi giorni prima era caduto sulla parete Sud del Lhotse. Una profonda tristezza e una grande perdita per l’alpinismo, nonché una immensa tragedia per la sua famiglia. Ci eravamo visti spesso, la prima volta a Lukla, nelle montagne del Nepal. Era appena ritornato dal Lhotse, il suo primo ottomila. Poi a Kathmandu, al campo base del Makalu, sul Broad Peak. Come me, anche Jerzy, dopo arrampicate estreme nei Tatra e nelle Alpi, si era cimentato con le grandi montagne dell’Himalaya. Il primo ottomila lo tentò nel 1977. Fallì. Era il Nanga Parbat. Come per me, era la prima esperienza a quelle quote e come nel mio caso, essa lo cambiò. Poi, tra il 1980 e il 1987 Kukuczka non è stato solo il più attivo, ma il più bravo alpinista di alta quota. Riuscì a scalare vie nuove, vie difficili, salite invernali, tutti gli ottomila. Anche grazie a lui l’alpinismo polacco raggiunse successi applauditi in tutto il mondo. Dopo il suo ultimo ottomila, Jerzy, come me, sognava altre avventure. Aveva capito che una forma di vita estrema si era esaurita. Mentre mi preparavo per la traversata dell’Antartide, Kukuczka ha voluto rischiare un ultimo tentativo sulla parete Sud del Lhotse. Che sfida! Uno degli ultimi problemi dell’alpinismo moderno. Nel 1975, dopo una spedizione giapponese fallita sulla parte sinistra della parete, con un forte gruppo di alpinisti italiani eravamo arrivati fin sotto la cresta sommitale. La vetta, però, era troppo lontana. Poi ci furono i tentativi degli jugoslavi, dei polacchi, dei francesi. Fallirono tutti. Nella primavera del 1989 ho organizzato e accompagnato sulla Sud del Lhotse una spedizione con forti alpinisti di vari paesi che si diedero da fare sulla parte destra della parete. Io non intendevo salire: mi stavo preparando per la terza fase della mia vita, quella dei viaggi di avventura ed esplorazione a cominciare dalla traversata dell’Antartide. Prefazione di Reinhold Messner 11


Dopo la rinuncia della nostra spedizione, Jerzy Kukuczka si sentì stimolato per un ultimo tentativo. Spinto dagli amici, dalla stampa polacca, dal proprio orgoglio voleva tentare dove tutti, lui compreso, avevano fallito. Quella volta era disposto a spingere il limite di là di quanto raggiunto. Jerzy era esperto e poi aveva la capacità di soffrire, di aspettare e vincere. Nei canaloni superiori della parete Jerzy cadde, la corda si era rotta… Una vita piena e aperta a nuove frontiere era finita. Penso spesso a Jerzy Kukuczka, in giro per il mondo, fra i deserti e il mare artico, fra le montagne di casa e quelle sacre di culture lontane; immagino le possibilità nascoste in quel grande uomo. Sono felice di averlo conosciuto. Purtroppo non ho avuto occasione di scalare con lui. La mia stima nei suoi confronti è rimasta viva come il ricordo, che ho voluto fortemente nel Museo della montagna a Bolzano, affinché anche le generazioni future sappiano di lui, delle sue esperienze, di uno dei più grandi alpinisti di tutti i tempi. Quando Jurek completò la salita di tutti i quattordici Ottomila, gli inviai un telegramma di felicitazioni: “Non sei il secondo. Sei grande”. Lo confermo: grande e molto forte. Probabilmente il più forte fisicamente.

Reinhold Messner

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PREFAZIONE DI SIMONE MORO Kathmandu 5 dicembre 2003 ore 23:48. Fu proprio in quella città che iniziai a scrivere questa riflessione. Da lì sono cominciate molte delle spedizioni di Jerzy Kukuczka e mi piace l’idea che da quei luoghi sia partito anche il mio scritto. Chissà fino a che punto è casuale che io allora mi trovassi in compagnia di quattro alpinisti polacchi e che stessi per tentare una scalata a una cima di 8000 metri che ancora attendeva il suo primo salitore d’inverno. Probabilmente se Jerzy fosse vivo sarebbe stato lì con noi o forse l’avrebbe già salita e aggiunta al suo palmarès. Avevo sfogliato questo libro per la prima volta proprio lì, nella capitale nepalese, alcuni anni fa, mentre passeggiavo per le vie di Thamel in attesa di partire per il campo base di qualche montagna. Era la versione inglese ed ero rimasto sorpreso di non averlo mai visto sugli scaffali delle librerie di casa nostra, tradotto nella nostra lingua. Dopo tutto Kukuczka era molto conosciuto anche da noi come alpinista e anche come testimonial di una ditta italiana di materiale d’alpinismo. Lo si era potuto incontrare anche in occasione di alcune sue conferenze tenute proprio nel bel paese, ma chissà per quale motivo a noi erano giunte solo le sue gesta e non le parole che aveva messo nero su bianco. Da qualche tempo, finalmente, il libro c’è. Kukuczka si presenta subito con umiltà parlando dei suoi iniziali limiti personali, delle forti difficoltà di lavorare e contemporaneamente affrontare le alte quote e questo permette di entrare in confidenza e amicizia con un uomo “come tanti”. Ci sentiamo infatti un po’ come lui e magari affiorano nella memoria quei momenti difficili vissuti in montagna o nella vita che magari avevamo accantonato per orgoglio come fossero episodi ormai superati e di cui quasi ci vergognavamo un po’. Apprendere che un grande campione ha iniziato faticando e arrancando, ci comunica un messaggio forte: quello che la determinazione e il rifiuto di ogni falso alibi possono portare a essere addirittura un numero uno. Kukuczka rimane però un uomo schietto, che comunica senza convenienze e in modo diretto. Le sue taglienti opinioni sugli alpinisti occidentali “che come le automobili che producono sono perfette ma sulle strade perfette” (che siamo insomma delle “schiappe” in condizioni veramente dure e difficili), non lasciano spazio a molte interpretazioni. Prefazione di Simone Moro 13


Forte e lungimirante è anche la riflessione sul sovraffollamento di alcune vie normali alle grandi montagne e l’importanza di poter cercare e trovare solitudine. Suggerisce, proprio come fa da tempo anche Messner e molti di noi, di ridurre il numero dei permessi. Con il passare delle pagine e con l’attenzione che a volte viene catturata dagli aspetti puramente alpinistici, risulta subito incredibile come il secondo uomo della storia che ha salito tutti gli Ottomila, sia riuscito a farlo in così breve tempo e in quelle condizioni economiche. Con il budget di una normale spedizione “occidentale” lui ha dimostrato di saperne fare quattro o cinque e ci racconta come è stato possibile e difficile sopportare gli sprechi e le furberie di certe persone. Questo libro non è solo una sequenza di spedizioni e di singole avventure vissute. Ci sono spesso riflessioni e analisi introspettive che escono fluide tra una cima e l’altra, tra un campo alto e quello successivo. Il rapporto con la famiglia, gli impegni assunti, le opinioni altrui sono spesso i temi dei suoi pensieri. Ha lottato anche lui con le opinioni e le malelingue dei soliti invidiosi e incapaci al confronto. Kukuczka parla anche del suo “avversario” Reinhold Messner, ma dalle sue parole non si coglie una vera e forte rivalità, bensì una più saggia e matura stima, la stessa che lo spingeva a emularlo e a tentare di superarlo con la realizzazione di vie nuove e prime invernali. È proprio del grande freddo che diverrà re incontrastato. Non a caso mentre mi stavo accingendo a tentare lo Shisha Pangma in invernale sapevo che gli altri sette Ottomila scalati in quella stagione erano stati tutti opera di polacchi… Le altre sette vette che rimangono rischiavano di essere ancora bottino loro, o di qualche altro alpinista dell’ex URSS se noi “schiappe” non ci fossimo svegliati e fossimo usciti dalle “strade perfette”. Dai suoi racconti emergono in maniera impressionante il numero di bivacchi estremi che ha saputo affrontare e ai quali è sopravvissuto. A volte prima ancora di giungere all’epilogo dei vari tentativi di salita in vetta ci si prepara a leggere dell’ennesimo bivacco a cui spesso ne segue subito un altro il giorno successivo. In questi epici racconti fa spesso capolino la morte che numerose volte, purtroppo, è stata protagonista indesiderata nelle scalate di Kukuczka. Alcuni arriveranno addirittura a considerarlo uno “iettatore” per la sequenza sbalorditiva di quattro spedizioni consecutive con quattro morti. Non è mai passato nè fisicamente nè moralmente su quei cadaveri, e il fatto che abbia continuato a fare alpinismo non lascia intendere insensibilità o noncuranza. Jerzy Jerzy Kukuczka IL MIO MONDO VERTICALE 14


Kukuczka si rivela infatti un uomo di fede. Ci racconta il Natale, le sue preghiere, le sue lacrime e quanto diversa è questa immagine di uomo rispetto al cliché dei moderni “fuori classe”… Un libro dunque utile, arrivato probabilmente nel momento giusto e che affianca l’immagine pulita e amata di un altro grande alpinista scomparso, Anatolij Bukreev. Molte sono state infatti le analogie che ho trovato in questi due mostri sacri dell’alpinismo; grandi uomini prima che grandi alpinisti. Anche se ho conosciuto decisamente meglio solo il secondo dei due, ho apprezzato questa loro voglia di essere e mostrarsi comunque dei “semplici”, a volte quasi degli ingenui. Di questo libro e di loro non rimarranno solo l’elenco delle vie nuove, delle prime invernali, delle traversate e delle cime vergini raggiunte, ma l’immagine di un sentimento e di una personalità che vorremmo avere anche noi. Le capacità per agire e saperlo fare le dobbiamo invece guadagnare e Kukuczka ce lo ha insegnato, perché dai primi traballanti passi si può arrivare a quelli che restano nella storia, anche solo della nostra.

Simone Moro

Prefazione di Simone Moro 15


L’ETERNA ATTUALITÀ DI UN’UMANISSIMA LEGGENDA Jerzy Kukuczka nasce a Bogucice, quartiere di Katowice, il 24 marzo del 1948 da una famiglia di Górali, montanari dei Beschidi, provenienti dalla piccola località di Istebna, trasferitisi nel centro della Slesia come tanti altri, per cercare lavoro e un’esistenza migliore. All’età di un anno fa temere i genitori per la prima volta: ammalatosi, gli vengono prescritte alcune medicine. Il miglioramento tanto atteso non arriva e, come se non bastasse, il bambino dorme per tre giorni filati, mandando la famiglia nel panico. Corsa all’ospedale, analisi, visite… Alla fine la verità viene a galla: lo sciroppo per il bambino era stato preparato in farmacia, dove l’avevano poi messo dentro ad una bottiglietta già usata per sonniferi e mai lavata… Essere figlio di Górali gli permette fin dai primi anni di vita di andare a passare le vacanze in montagna a Istebna, dai nonni, divertendosi ad osservarli durante il lavoro sui campi e con le bestie, per la gioia del nonno che se lo porta dietro ogniqualvolta si muove per fare un qualche lavoro. Come tutti i nonni cerca di accontentarlo in tutto e quando il piccolo Jurek chiede di fare un giro a cavallo, il nonno non ci pensa due volte e lo sistema sul dorso dell’animale. La cavalla, però, parte a tutta velocità verso la stalla, dove c’era il suo puledrino, tra le urla del nonno che grida a Jurek di tenersi forte. Il bambino, però, continua a saltare sulla schiena dell’animale che arriva fin quasi all’entrata nella stalla, dove viene fermato dal provvidenziale intervento di un vicino di casa che, resosi conto della situazione, riesce a fermare il cavallo prendendolo per le redini. Fosse entrato in stalla, il bambino sarebbe andato a sbattere contro il soffitto, e probabilmente si sarebbe fatto male. Istebna e le origini di montanaro dei Beschidi segnano la sua crescita, per tutta la vita il villaggio natale dei suoi sarà sempre il suo buen retiro, il luogo cui poter sempre fare ritorno per sentirsi a casa da ogni punto di vista. Per i ragazzi della Slesia, uno dei passatempi preferiti era andare a giocare agli indiani nelle piccole miniere abbandonate che ribattezzano “le Alpi”. A un certo punto però i suoi coetanei spostano i loro interessi su tutt’altro, dedicandosi anche già ai primi innamoramenti, mentre lui continua a fare il “conquistatore delle Alpi”. A scuola eccelle in geografia e in educazione fisica, si Jerzy Kukuczka IL MIO MONDO VERTICALE 16


rivela un ottimo organizzatore per tutti i tipi di giochi e di imprese, diventando leader riconosciuto della sua classe, anche se questa caratteristica gli costa non poche lavate di capo e parecchi scappellotti perché i severi docenti slesiani, qualsiasi cosa capitasse all’interno della classe, indipendentemente dalla colpa, lo scelgono immancabilmente come capro espiatorio cui affibbiare le punizioni. In seguito si iscrive all’istituto tecnico professionale di Katowice e riesce poi a trovare un lavoro nel campo dell’impiantistica, continuando peraltro a seguire i corsi serali e potendo così lavorare e studiare allo stesso tempo. Come sport, inizialmente si dedica al sollevamento pesi, cui sembra naturalmente dotato: non particolarmente alto, robusto e forte, potrebbe essere lo sport che fa per lui. Peccato, o forse per fortuna, non va d’accordo con gli allenatori di quella disciplina e ben presto passa dal bilanciere a corde e piccozza. Per lui è una sorta di ritorno alle montagne cui è sempre stato legato fin da giovanissimo. Come tutti inizia con le passeggiate che presto si tramutano in escursioni, quindi in giri sugli sci in inverno. Ancora non aveva mai sentito parlare di arrampicata quando una domenica di settembre un suo carissimo amico, Bolek Pawlas, lo invitò ad andare alle Skałki, le “paretine”, l’equivalente di ciò che in zona alpina o dolomitica di sarebbero chiamate palestre di roccia (o adesso falesie) a bassa quota. Queste formazioni rocciose non mancano in quella zona, dallo Jura di Cracovia e Częstochowa a Podlesice, ed è lì che per la prima volta conosce le pareti e il gusto dell’arrampicata. Da quel momento tutto il resto cessa di esistere e ha inizio la sua avventura, quella sua passione per la montagna che durerà più di vent’anni. Nel 1965 entra a far parte del Club Alpinistico Scout di Katowice, dove svolge attività di turismo evoluto (come si diceva allora) e organizza manifestazioni che hanno a che fare con l’ambiente dell’arrampicata e della montagna, come lunghe escursioni, campi invernali, arrampicate su roccia e speleologia. Nel 1966 entra a far parte del Club d’Alta Montagna di Katowice e in primavera, assieme ai compagni, partecipa ad un corso d’arrampicata sul Morskie Oko, nei Tatra. Qui sale la sua prima via, la classica al Mnich, ascensione effettuata con materiale fatto da lui stesso, ma sotto gli attenti occhi di ottimi istruttori come Janusz Kurczab e Kazimierz Liszka. Proprio sui Tatra inizia ad arrampicare in coppia con un altro giovane appassionato di montagna, Piotr Skorupa, assieme al quale riesce a salire, tra l’altro, il pilastro della Kazalnica e la variante R22 al Mnich. I due vanno così forte da riuscire a qualificarsi per il cosiddetto campus di selezione, il che potrebbe loro garantire un posto per partecipare al campus centrale, quello che si sarebbe diretto verso le Dolomiti e le Alpi.

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Nel 1968, diciannovenne, termina gli studi superiori ed ottiene il diploma di perito tecnico elettricista. Non fa però a tempo a terminare la scuola che a lui come al suo amico Piotr arriva via posta la cartolina per il servizio di leva che in quel periodo dura due anni. Indossa la divisa, ma inizia da subito a soffrire la mancanza delle montagne. Le prova tutte, da uno sciopero della fame durato sei giorni nella speranza, vana, che il medico potesse dichiararlo malato o non idoneo, ad una richiesta di colloquio con un generale che, in caserma per passare in rassegna l’unità, fa sapere che chiunque voglia parlare con lui potrà farlo. In tutto il battaglione l’unico a mettersi in lista per il colloquio è lui, per il panico totale dei suoi superiori. Il povero generale viene travolto dai racconti della sua passione, dell’arrampicata, delle montagne e del fatto che vorrebbe il trasferimento ai paracadutisti o alle truppe di montagna per essere più vicino al suo ambiente. Tutto inutile, da parte del generale non ottiene il sostegno sperato e tanto meno comprensione. Riceve comunque sempre numerose lettere da parte dei suoi conoscenti e riesce ad essere informato su quanto gli altri vanno facendo in montagna e riesce rapidamente a capire come far passare il tempo. Decide quindi di occuparsi della propria forma fisica e inizia ad allenarsi in parecchie discipline. È solo nell’autunno del 1970 che può finalmente congedarsi, così come anche il suo amico e collega Piotr Skorupa. Può finalmente tornare in montagna e ricomincia subito a prepararsi alla stagione invernale con Piotr. Questo allenamento porta già a febbraio del 1971 i primi frutti con la prima ascensione invernale del cosiddetto Fungo sulla parete nord del Mięguszowiecki Szczyt Centrale assieme a Danutą Gellner-Wach, Janusz Skorek e Zbigniew Wach. Obiettivo dichiarato e decisamente ambizioso è la salita della direttissima della Kazalnica sui Tatra, un exploit che faceva gola a tutti i migliori scalatori del momento. Il 22 marzo attaccano la parete, ma il tempo peggiora repentinamente e si rendono conto che la parete è stata attaccata anche da un’altra cordata con Wojtek Kurtyka. Aspettano una giornata, poi, il 26 marzo, l’incidente: Piotr Skorupa perde la vita cadendo per 260 metri. La tragedia, seguita dai giorni di dolore, i funerali, l’incontro con la famiglia dell’amico scomparso gli causano un periodo di depressione dal quale cerca di uscire dopo due settimane tornando nei Tatra, dove tra il 16 e il 18 aprile del 1971 con Janusz Skorek, Zbigniew Wach e Jerzy Kalla effettua la prima invernale della Kurtykówka al Mały Młynarz. Il 22 luglio riesce poi nella prima ascensione polacca della Via dei Ragni alla parete nord della Volia Veža nei Tatra slovacchi con Janusz Skorek e Marian Piekutowski. Jerzy Kukuczka IL MIO MONDO VERTICALE 18


Nell’estate di quello stesso anno passa qualche tempo in Bulgaria a ripetere le principali vie alpinistiche esistenti e dove riesce ad aprire una via nuova sul Rila. Nel marzo del 1972 Jurek è in un ristorantino a festeggiare con alcuni amici il suo compleanno. In quello stesso locale c’è una bella ragazza, di nome Cecylia. Gli sguardi si incrociano e da lì nasce la prima scintilla, cui segue il primo appuntamento. Un incontro che Cecylia, o meglio Celina, diminutivo con cui tutti gli amici si rivolgono a lei, definisce sempre “davvero dolce e affascinante”. I due iniziano a fare coppia fissa e lui non perde l’occasione per rendere lei partecipe della sua passione, delle montagne, tant’è che inizia spesso a portarla a “fare serata” al Club d’Alta Montagna, dove Celina si trova ben presto a conoscere l’ambiente degli alpinisti, i suoi amici e il mondo della montagna, rendendosi fin da subito conto quanto significassero le montagne per quel ragazzo così appassionato e che passava ogni momento libero ad allenarsi in falesia. Capisce da subito che per nulla al mondo avrebbe mai rinunciato a loro. Il 1972 è l’anno della consacrazione di Jurek come alpinista in patria e al di fuori della Polonia. Tra il 3 ed il 6 gennaio sale in prima invernale la direttissima alla parete nord-est del Mały Młynarz con Tadeusz Gibiński e Zbigniew Wach, mentre il 23 e 24 giugno apre una via nuova al Gran Camino del Mały Młynarz con Danuta Gellner-Wach, Zbigniew Wach e Janusz Skorek, Dopo i successi sui Tatra, si trasferisce in Dolomiti, dove effettua una prima assoluta sul pilastro della Cima del Bancon e soprattutto sale sulla Torre Trieste, dove in precedenza dei polacchi avevano tentato di aprire una via nuova, ma senza risultato. Jurek tornerà invece a casa dopo essersi messo in tasca la prima ascensione della Via dei Polacchi, realizzazione per la quale in patria sarà premiato con la medaglia di bronzo per aver compiuto una “impresa sportiva eccezionale”. Vale la pena ricordare questa salita perché rende appieno il carattere del futuro grande alpinista himalayano: durante l’ascensione, fatta assieme a Zbyszek Wach, voleva provare a scattare una foto al suo compagno di cordata, quando a questo si stacca da sotto i piedi un masso che va a colpire in pieno Jurek all’anca, facendogli perdere i sensi. Zbyszek si cala fino a lui e si rende conto che il masso gli ha portato via un bel pezzo di carne. Jurek però non ne vuol sapere di interrompere la salita e, pur ferito, continua a salire una via che, per essere completata, richiederà poi alcuni giorni. Ridisceso assieme al compagno, arriva in qualche modo all’ospedale, dove i medici rimangono sbigottiti L’eterna attualità di un’umanissima leggenda 19


e si chiedono tutti quale miracolo gli abbia permesso di sopportare una simile ferita così a lungo… Una sorta di preannuncio delle sue caratteristiche di tenacia, durezza, resistenza e indistruttibilità. Nell’inverno del 1972/73 parte dalla Polonia un gruppo di alpinisti, diretti verso le Dolomiti, con l’intenzione di effettuare una via sul Civetta e tra questi c’è anche Jurek. Una volta arrivati scoprono che la via che avevano in mente era già stata salita. Qualcuno, a un certo punto, dice che a poca distanza da lì ci sarebbe la parete sud della Marmolada, dove c’è una via bella, lunga e difficile, che portava a una delle tre vette della Marmolada, quella d’Ombretta, proprio il tipo di via che sembra fare al caso loro. Anche in quell’occasione Jurek non si fa mancare nulla, compreso un bel volo mentre stava salendo da primo… Alla fine, però, entra ulteriormente nella storia dell’alpinismo, portandosi a casa la prima ascensione invernale della via dell’Ideale. Nell’estate di quel 1973 parte per le Alpi. A Chamonix si trova con Wojtek Kurtyka e con Marek Łukaszewski, col quale aveva già scalato. Assieme a lui effettua il 18 luglio la prima polacca della via Aureille-Fentren alla Aiguille du Moine, mentre il 22 luglio sempre con lo stesso compagno effettua la prima salita polacca alla Via dei Parigini a La Pelle, nel Vercors. Il 6 agosto, con M. Łukaszewski, B. Kozłowska e J. Kurczab sale poi la via Major alla parete est del Bianco. Tra il 12 ed il 14 agosto, infine, con M. Łukaszewski e W. Kurtyka sceglie come meta una via allora ancora mai salita sul Petit Dru. La scalata durerà quattro giorni, in condizioni difficilissime, tra torrenti di acqua a causa della pioggia. Bagnati come pulcini fino alle ossa, torneranno comunque alla base felici per quella prestigiosa via nuova. L’inverno seguente riparte per la Francia, stavolta diretto verso il Delfinato. Il gruppo, però, non risulta essere per nulla amalgamato e, complice il maltempo, fa presto rientro in patria con le pive nel sacco. Questa gita nel Delfinato, peraltro, costerà non poco all’astro nascente dell’alpinismo polacco: Hernyk Furmanik, capo di una spedizione diretta alla scoperta dei monti dell’Alaska e del Canada, non apprezza il fatto che Kukuczka vada in Delfinato invece di partecipare alla preparazione della spedizione e lo mette fuori squadra, per il totale scoramento da parte di Jurek. Per fortuna a Furmanik i fumi dell’arrabbiatura passano ben presto e Jurek si ritrova a poter partire con il resto del gruppo, per una spedizione in grande stile, con tanto di “divisa ufficiale” con maglioni, camicie, scarpe uguali e soprattutto con la partenza via nave per un viaggio di un mese dal porto di Gdynia, sulla cui Jerzy Kukuczka IL MIO MONDO VERTICALE 20


banchina si affollano i parenti degli scalatori in partenza e, tra loro, anche Cecylia-Celina. La meta della spedizione è il Denali-McKinley con i suoi 6190m di altitudine, vetta che viene raggiunta con una salita effettuata tra il 20 ed il 26 luglio del 1974 lungo il fianco occidentale della parete meridionale. Jurek non è però al massimo della forma, ha problemi con l’altitudine e spesso si sente male. Fa fatica a tenere il passo dei compagni, inizia a rimanere indietro, colpito sempre più spesso da mal di testa, nausea e vomito. Il tempo buono sembra incoraggiarlo, ma quando arriva al pianoro sotto la vetta è allo stremo delle forze. Riesce comunque, anche se da ultimo, a salire in vetta, totalmente esausto e con vistose macchie nere sotto agli occhi. Si rende così conto di essere uno che ha un processo di acclimatamento più lungo degli altri, ma i cui effetti risultano allo stesso tempo durare molto di più. Il giorno dopo arriva un brusco e improvviso peggioramento delle condizioni meteorologiche e per due giorni lui e i compagni rimangono bloccati ad alta quota, in un igloo improvvisato, con pericolo di congelamenti sempre più accentuato. Si accorge infatti della perdita di sensibilità ai piedi e, solo dopo due giorni di marcia, il secondo dei quali senza sosta alcuna, riesce ad arrivare davanti al medico, il quale ne decide l’immediato trasporto all’ospedale. Per lui e per un altro amico la spedizione termina lì. In Polonia le notizie arrivano col contagocce. Si sa che Jurek ha forti congelamenti, ma che ben presto dev’essere dimesso e che è necessario far trovare un’ambulanza all’aeroporto di Varsavia. Il giorno dell’arrivo Celina è a casa ad aspettarlo con dei fiori, in compagnia della madre di Jurek e di altri parenti, non senza una certa angoscia. Sensazione che peraltro lascia lo spazio allo stupore non appena lo vedono entrare in casa sulle stampelle… Per Jurek inizia il periodo della riabilitazione nella speranza di salvare un alluce congelato, ma dall’Alaska arrivano cattive notizie: la spedizione si era trasferita sul Monte Saint Elias ed era rimasta vittima di una valanga caduta durante la salita. Il capo spedizione Henryk Furmanik e uno dei partecipanti, Krzysztof Tomaszewski, non ne erano usciti vivi. Jurek rimane profondamente colpito e lo stato di depressione viene acuito dal fatto che la riabilitazione non sembra dare gli effetti sperati, tant’è che alla fine all’ospedale gli prospettano l’amputazione del dito del piede, con la logica conseguenza dell’impossibilità di scalare su roccia per il resto della sua vita. Visto che non può dedicarsi alle montagne per qualche tempo, Jurek decide che è arrivato il momento di fidanzarsi ufficialmente con Celina e di fare le L’eterna attualità di un’umanissima leggenda 21


cose per bene. Quanto meno di provarci. Arriva la sera in cui si deve presentare a casa dei futuri suoceri per chiedere la mano dell’amata e si presenta con l’anello, un mazzo di fiori e una bottiglia “giusta” per il futuro suocero. È però così goffo e imbarazzato che come prima cosa consegna il mazzo di fiori alla sua futura cognata invece che alla futura moglie. Celina, che ama raccontare questo particolare, conclude sempre la narrazione con la frase “e già mi è andata di lusso che abbia consegnato l’anello alla persona giusta…”. Le nozze, ovviamente, si tengono a Istebna, tra i monti Beschidi. Il 24 giugno 1975 Jurek e Celina diventano marito e moglie nella piccola chiesetta in legno della frazioncina di Kubalonka. Alle nozze partecipano tutti i compagni della spedizione in Alaska con mogli o fidanzate. Il viaggio di nozze porta Celina nei Laghi Mazuri… Con la sorella. Sì, perché nel frattempo Jurek aveva ricevuto un invito ad andare nelle Alpi e, dato che il dito ormai gli permette di fare quasi tutto, sorride alla moglie e parte per le Alpi Occidentali, dove tra il 3 e il 4 agosto apre assieme a Wojtek Kurtyka e Marek Łukaszewski una via nuova sulla parete di Punta Hélène alle Grandes Jorasses. Questo aneddoto, che Celina Kukuczka ama raccontare agli amici e durante le conferenze, non deve far pensare che Jurek ponesse la moglie e la famiglia in secondo piano. Va ricordato che siamo nella Polonia degli anni Ottanta del ventesimo secolo, in un periodo in cui oltrepassare i confini era difficilissimo. Uscire all’estero era un privilegio e nelle famiglie si rinunciava a tutto pur di far uscire dai propri confini un figlio o un marito che potesse poi tornare e avere valuta forte e soprattutto raccontare come fosse la vita al di là della cortina di ferro. Il 1976 lo vede conseguire il patentino di istruttore di alpinismo di seconda classe e poi, nell’agosto di quello stesso anno, partire per la sua prima spedizione in Hindu Kush. Anche in quell’occasione l’acclimatamento si rivela particolarmente problematico, tant’è che mentre lui è ancora a letto colpito da una tonsillite fastidiosa, i suoi compagni sono già in movimento verso la vetta prescelta, il Kohe Tez (7015m). Quando Jurek inizia a sentirsi meglio, sulla vetta del Settemila stanno ormai arrivando lungo una via nuova, Marek Łukaszewski, Janusz Skorek e Grzegorz Fligiel. Per acclimatarsi più rapidamente Jurek sale in solitaria il 1 agosto il Kohe Awal (5800m). Subito dopo parte in fretta e furia perché i suoi tre compagni, durante la discesa, hanno un incidente e necessitano di aiuto. Dopo aver aiutato il medico e i soccorritori, decide di convincere i compagni a dargli un’opportunità di salire in vetta, riuscendo nell’impresa. Jerzy Kukuczka IL MIO MONDO VERTICALE 22


Il 1977 segna per Kukuczka la sua prima partecipazione a una spedizione diretta a un Ottomila, per la precisione il Nanga Parbat. Le condizioni meteorologiche e il pericolo di congelamento troppo alto per i partecipanti costringono Kukuczka a tornare indietro con gli altri quando alla vetta mancano ormai solo cento metri. Pur con il dispiacere di non avercela fatta, Jurek riesce a dimostrare agli ambienti alpinistici, dove da tempo si vociferava della sua inadeguatezza all’alta quota, di essere stato in grado non solo di acclimatarsi a dovere, ma di essere anche stato il migliore e più forte di tutta la spedizione. Nel 1978 lo vediamo tornare in Hindu Kush, dove con Tadeusz Piotrowski e M. Wroczyński apre una via nuova sul Tirich Mir orientale (7692m), giungendo in vetta il 9 agosto. Lungo la via di ritorno, poi, assieme al Piotrowski conquista anche l’ancora inviolato Bindu Ghu Zom (6340m) lungo la difficile cresta ovest. In questa occasione il direttore sportivo della spedizione è proprio lui e durante i venti giorni passati in quell’area riesce a far salire in vetta ben sei persone, circostanza della quale, come ci racconta la moglie Celina, è sempre andato orgoglioso. Arriviamo così al 1979, anno in cui ha inizio la sua decennale storia d’amore con l’Himalaya, con l’ascensione del Lhotse. Sale lungo la via classica in compagnia di Andrzej Czok, Andrzej Heinrich e Janusz Skorek nel quadro della spedizione del Club d’Alta Montagna di Gliwice. La salita ha luogo senza utilizzo di bombole d’ossigeno, che peraltro vengono invece usate durante il sonno a campo quattro all’altitudine di 7800m. A coronare poi la gioia di quell’anno, a dicembre, proprio nel giorno di San Silvestro, è la nascita del suo primogenito, Maciej. Il 19 maggio 1980 tocca all’Everest, suo secondo Ottomila, che sale lungo una via nuova sul pilastro sud assieme ad Andrzej Czok, con parziale utilizzo dell’ossigeno (peraltro finito durante il tentativo di attacco alla vetta). Jerzy Kukuczka è ormai una stella ampiamente conosciuta nel firmamento dell’alpinismo polacco e si sta avviando a scrivere a lettere cubitali il proprio nome nella storia. In un certo senso la salita all’Everest arriva al momento giusto: in una Polonia in cui la vita si fa di giorno in giorno più difficile a causa della difficile congiuntura politica e sociale, a Jurek risulta non sempre facile gestire scalate, spedizioni in alta montagna e lavoro in fabbrica. A intervalli regolari riceve minacce di licenziamento, soprattutto a causa delle sue continue assenze e della quantità eccessiva di permessi che gli vengono concessi. Dopo L’eterna attualità di un’umanissima leggenda 23


il grande successo sull’Everest, però, tutto sembra cambiare e in quella stessa fabbrica che inizialmente voleva farlo fuori, quegli stessi operai e quella stessa dirigenza al suo ritorno lo accolgono tutti insieme quasi come un eroe, con cartelli e festeggiamenti. Nel 1981, a febbraio, parte per un nuovo viaggio, stavolta in Nuova Zelanda, in compagnia di Krzysztof Wielicki e Ryszard Jan Pawłowski. L’esperienza permette loro di mettersi in saccoccia l’apertura di vie nuove al centro della parete sud e della parete ovest del Malte Brun, 3199m, la vetta più alta della catena omonima, seguite dalla traversata di Hicks, Dampier e Green Saddle. Il 15 ottobre di quello stesso anno Kukuczka, nuovamente in spedizione, sale il terzo Ottomila, il Makalu, lungo una via nuova, in stile alpino al fianco nord-ovest e poi per la cresta nord, prima salita solitaria in Nepal, senza uso d’ossigeno. Nel 1982 il fenomeno polacco sembra ormai inarrestabile ed inanella una serie di salite che definire visionarie ed avanguardistiche è ancora oggi riduttivo: il 30 luglio sale il Broad Peak, suo quarto Ottomila, lungo la via classica in stile alpino e senza far uso di ossigeno assieme a Wojciech Kurtyka, salita peraltro illegale perché non prevista e senza permesso da parte delle autorità. L’ascensione altro non era stato che l’acclimatamento per l’obiettivo di quella spedizione, ovvero un tentativo alla sud del K2, dalla quale tornarono invece alla base dopo aver raggiunto all’incirca quota 7400m. Il sodalizio con Wojciech-Vojtek Kurtyka si impone nuovamente all’attenzione del mondo alpinistico nel 1983, quando il 24 giugno i due salgono il Gasherbrum II est (7772m), prima ascensione assoluta. Il 1 luglio salgono il Gasherbrum II lungo una via nuova, prima ascensione lungo la cresta sud-est, in stile alpino senza uso di ossigeno. Infine il 23 luglio il Gasherbrum I, via nuova lungo la parete nord-ovest sempre in stile alpino e senza uso di ossigeno, aggiungendo, tra l’altro, altri due Ottomila alla collezione. L’anno successivo vede ancora momenti di successo: sempre assieme a Vojtek Kurtyka riesce nell’impresa di effettuare la traversata di tutto il massiccio del Broad Peak, mettendo così a curriculum la salita del Broad Peak Centrale (8011m) il 16 luglio di quell’anno e il giorno successivo l’ascensione alla vetta principale, il tutto in stile alpino. Di ritorno da quella spedizione al Broad Peak ed al Gasherbrum IV, lungo la strada per il Masherbrum La, trova il tempo per una prima assoluta, in solitaria e senza uso di ossigeno, in perfetto stile alpino, al Biarchedi (6759m). Jerzy Kukuczka IL MIO MONDO VERTICALE 24


Il 1984, che per la Polonia ed i Paesi del realismo socialista realmente si avvicina a quanto paventato nell’omonimo e ben conosciuto racconto di Orwell, porta per Jurek un’altra enorme soddisfazione, ovvero la nascita del secondogenito, Wojciech, chiamato in casa, come da usanza slesiana e soprattutto dell’area dei Beschidi, Vojtek. Una gioia che porta Jurek a sentire spesso il peso della sempre minore presenza in famiglia, in vista dei sempre più frequenti impegni alpinistici. Come ama raccontare Celina Kukuczka, il fatto di dover stare lontano da casa così spesso gli procurava grossi rimorsi di coscienza, ma sentiva che le montagne non gli lasciavano altra scelta e cercava di porre rimedio alla sua assenza portando da quasi tutto il mondo tutti i regali possibili, giocattoli per i bambini e le cose più disparate che all’epoca in Polonia ancora non c’erano. Negli occhi dell’amore della sua vita non manca mai un sorriso quando definisce tutto ciò una specie di corruzione che di solito andava ad accompagnare la promessa che tutto quell’andirivieni sarebbe terminato presto e che non appena avesse raggiunto il suo scopo si sarebbe dedicato alla famiglia come si deve. Il 1985 lo vede più lanciato che mai alla conquista della maggior quantità possibile di vette ambite possibilmente lungo vie nuove e la progressione delle sue realizzazioni è impressionante, soprattutto per chi tenga a mente le condizioni di disagio oggettivo che dovevano affrontare gli scalatori polacchi nel reperimento dei materiali alpinistici se paragonati ai colleghi “dall’altra parte della cortina di ferro”. Non è peraltro superfluo ricordare, però, che era proprio quello stesso “sistema” a offrire vie di fuga e possibilità di aggiramento che Kukuczka e i suoi compagni non mancarono di sfruttare a favore del proprio desiderio di “scrivere il proprio nome nella storia”, come ama ripetere un altro grande dell’alpinismo polacco, Krzysztof Wielicki, quando ricorda l’amico scomparso. Il 21 gennaio di quell’anno sale dunque il Dhaulagiri, in prima invernale, assieme ad Andrzej Czok, senza far uso di ossigeno. Il 15 febbraio è la volta del Cho Oyu, salito in invernale lungo la parete sud assieme a Zygmunt Andrzej Heinrich, sempre senza far uso d’ossigeno. A luglio di quello stesso anno tocca poi al Nanga Parbat, dove Kukuczka apre una via nuova lungo il pilastro sudest in compagnia di Carlos Carsolio, Zygmunt Andrzej Heinrich e Sławomir Łobodziński senza far uso di ossigeno. Il mese di ottobre di quel 1985 lo vede ancora in spedizione, questa volta diretta al Lhotse, dove tenta l’apertura di una via nuova, raggiungendo l’altitudine di circa 8100m prima di essere costretto alla rinuncia. L’eterna attualità di un’umanissima leggenda 25


Il Lhotse… La moglie Celina ama raccontare un piccolo aneddoto, un po’ per far capire come fosse Jurek e un po’ perché è possibile intravvedere, per chi ami farlo, un po’ di segnali del destino in quanto stava accadendo a quello scalatore ormai riconosciuto a livello mondiale, che si divideva tra i colleghi con cui effettuare lavori in altezza di manutenzione alle fabbriche slesiane, che non disdegnava di fare la sua parte anche nelle fila di Solidarność, di cui era militante, e che faceva il possibile per non far sentire la propria mancanza a casa, dove ogni suo rientro era una festa. È dunque ottobre del 1985 e Jurek è alla base di quella montagna, divenuta poi un’ossessione per l’alpinismo forse più che lo stesso K2. Come molti polacchi anche Kukuczka è molto credente e ama ripetere che senza la fede che gli dà la forza e una forte convinzione non riuscirebbe a muoversi in Himalaya, dove in più occasioni durante le scalate sente la presenza e la protezione dell’Altissimo, che ama pregare in solitudine, proprio quando è nel cuore delle montagne. Come da tradizione ha anche le sue superstizioni, per esempio non vuole mai arrampicare il giorno 13… Durante quella spedizione alla sud del Lhotse, dunque, a un certo punto si rende conto che gli è sparito il piccolo crocefisso d’argento della collanina che portava al collo, regalo di sua madre. Il pensiero di aver perso quel crocefisso non gli dà pace, non riesce a star fermo, continuava a cercarlo in mezzo alle cose… Un giorno, poi, al campo base, mentre è intento come suo solito a scrutare la parete, come per miracolo, smuovendo col piede il ghiaino vede spuntare il piccolo crocefisso… In quell’occasione sente di essersi tolto dal petto un macigno che gli impedisce di respirare. Come sottolinea poi Celina ogniqualvolta racconta questo piccolo aneddoto, forse era un segno, una premonizione di quanto sarebbe avvenuto esattamente quattro anni dopo proprio su quella montagna. Il 1986 segna un’ulteriore accelerazione: ormai è chiara ed evidente la “sfida” che si è aperta tra i due “eccelsi” degli Ottomila, ovvero Jerzy Kukuczka e Reinhold Messner. Non è solo una rivalità sportiva, è qualcosa di più: c’è il mondo d’Oltrecortina, della cosiddetta Europa dell’Est, bramoso di iscrivere il proprio nome nella storia a dispetto delle difficoltà materiali imposte da un regime cervellotico e ormai alla canna del gas e dall’altra parte il super-tecnologico occidente che ha saputo creare il mito degli Ottomila e il suo uomo che ormai viene riconosciuto come il più grande alpinista del mondo. Come però sarà poi Kukuczka stesso a sottolineare durante alcune interviste, parlare di “sfida” tra i due è una forzatura. Impossibile negare che sia esistita una Jerzy Kukuczka IL MIO MONDO VERTICALE 26


rivalità, una concorrenza, ma per poter parlare di sfida in termini sportivi sarebbe stato necessario partire nello stesso momento, nelle stesse condizioni, eccetera… Tutte circostanze assolutamente improponibili per chi sale le montagne. Al di là di queste parole, comunque, soprattutto per chi segue quanto sta avvenendo tra Himalaya e Karakorum in quegli anni, il sapore della sfida all’ultima vetta c’è tutto. Kukuczka procede senza soste e l’11 gennaio del 1986 lo vediamo salire il Kangchenjunga, in prima invernale con Krzysztof Wielicki, senza ossigeno, dal versante sud. A luglio è di nuovo in azione, questa volta sul K2, dove apre una via nuova in stile alpino e senza uso dell’ossigeno sul pilastro centrale della parete sud in compagnia di Tadeusz Piotrowski. Una spedizione dall’esito comunque molto amaro: durante la discesa, il suo compagno perde la vita. Il 16 ottobre del 1986, nel frattempo, Reinhold Messner salendo il Lhotse completa la sua personale raccolta delle vette alte Ottomila metri. Il fatto di non essere stato il primo probabilmente da un lato disturba Jurek, ma dall’altro gli dà di certo forza e pungoli ulteriori per continuare la sua corsa alla “corona” lungo vie nuove, più difficili e possibilmente salendo in invernale. A novembre di quello stesso anno lo troviamo sul Manaslu, dove effettua la prima ascensione del Manaslu Est, in stile alpino e senza ossigeno, e il giorno successivo raggiunge la vetta principale lungo una via nuova, sempre in stile alpino, il tutto in compagnia di Artur Hajzer. Arriva così il 1987, anno della consacrazione definitiva: il 3 febbraio, in compagnia di Artur Hajzer, sale l’Annapurna, prima invernale dal versante nord senza uso di ossigeno. Ad agosto è in azione sullo Yebokalgan Ri (7365m) che viene salito lungo la cresta occidentale, arrivando fino a circa 7000m con gli sci per quella che alla fine risulta essere la prima ascensione, in stile alpino e senza uso di ossigeno. Il 18 settembre, infine, sempre con Artur Hajzer sale lo Shisha Pangma Ovest (7950m circa), prima ascensione assoluta e subito dopo, quello stesso giorno, la vetta principale dello Shisha Pangma, andando così a completare la Corona dell’Himalaya e del Karakorum, secondo uomo al mondo a riuscire nell’impresa. Per l’occasione, tra i tanti riconoscimenti, alla storia è passato il messaggio inviato da Messner, al cui interno era scritto semplicemente: “Non sei il secondo, sei un grande”. La popolarità è all’apice, ma assieme al piacere di avere raggiunto gli eccelsi obiettivi che si era posto, Kukuczka deve affrontare anche gli aspetti negativi L’eterna attualità di un’umanissima leggenda 27


portati da quella che oggi siamo soliti definire “esposizione mediatica” e soprattutto dai “doveri scritti e non scritti” verso gli sponsor e verso i media stessi legati al mondo dell’alpinismo. Come ama ripetere Celina, a Jurek ha fatto piacere non tanto il successo, quanto la strada seguita per arrivarci, lungo la quale ha potuto dimostrare tutto il suo carattere, una determinazione unica e un coraggio notevole dentro a un fisico dalla resistenza e dalla capacità di sopportazione leggendarie. Come a ogni obiettivo raggiunto, però, il problema diventa subito identificare quello successivo. Jurek non sfugge a questa regola: ha ormai veri e propri sponsor, soprattutto in Italia, dove ha un seguito nutritissimo, ma deve rimanere sulla cresta dell’onda e deve trovare nuove sfide alla sua altezza. Nel frattempo incontri, serate, presentazioni… Organizzazione di spedizione in patria e rapporti con gli alpinisti stranieri, una popolarità forse inaspettata e che spesso lo imbarazza, lo stordisce e lo disturba. Nell’ottobre del 1988 riesce a tornare in spedizione, assieme al Club d’Alta Montagna di Katowice per il quale funge anche da capo spedizione. In quell’occasione con il fido Artur Hajzer apre una via nuova da Sud all’Annapurna I Est (8010m) e viene meno al suo superstizioso proposito di non andare mai a scalare il giorno 13. La vera sfida rimane ora quella già iniziata nel 1985, con la parete meridionale del Lhotse e nel 1989 si dà attivamente da fare per chiudere anche quella pratica. La spedizione, però, fin da subito sembra essere accompagnata da cattivi presagi: parecchi dei suoi compagni rinunciano a partire, ancora scossi dalla tragedia da poco avvenuta sull’Everest, dove erano rimasti vittime di una valanga cinque scalatori polacchi. Nulla sembra andare come deve, c’è sempre qualcosa di storto, non riesce ad essere tranquillo, è una spedizione mal organizzata, troppo in fretta, eppure parte, probabilmente nella speranza che tutto sarebbe andato a finire bene grazie alla sua buona stella che sempre l’aveva accompagnato… Quando parte per la spedizione, come al solito, attende che i figli siano a dormire, per sentire meno il dolore del distacco. In quell’occasione Celina lo vede particolarmente nervoso… Le sue ultime parole alla moglie sono queste: “Bada ai ragazzi, torno presto”. Il 24 ottobre del 1989, mentre sta salendo la parete sud del Lhotse assieme a Ryszard Jan Pawłowski, Jerzy Kukuczka cade, la corda non tiene e continua la sua caduta verso l’abisso. Jerzy Kukuczka IL MIO MONDO VERTICALE 28


Celina quel mese di ottobre è particolarmente nervosa, ha brutti presentimenti. Una bella giornata di quel mese autunnale, poi, sente suonare alla porta. Guarda fuori e vede i compagni e gli amici di sempre, a testa bassa. Capisce che Jurek non sarebbe più tornato. A livello letterario, a chi piace lasciarsi andare ai sogni, potrebbe magari far piacere pensare che Jurek, come altri grandi leggende dell’alpinismo, stia ora continuando libero dai vincoli della caducità umana le sue scalate su vette conoscibili solo a chi ha già fatto il passo verso la Grande Incognita. A chi è ancora sulla terra rimane però solo il ricordo di una leggenda e alla famiglia il dolore e due figli piccoli da far crescere nel ricordo di un padre straordinario. In soli 41 anni di vita, dunque, Jurek Kukuczka riesce a scrivere il proprio nome nella storia dell’alpinismo, dell’esplorazione e dello sport con un curriculum tale da rendere indelebile l’inchiostro di quella sua firma. È stato infatti lui il secondo uomo al mondo dopo Reinhold Messner a completare la Corona degli Ottomila, ovvero la salita di tutte le quattordici vette di Himalaya e Karakorum di altezza superiore agli ottomila metri, il tutto in meno di otto anni tra il 1979 ed il 1987. Sugli Ottomila da lui raggiunti ha inoltre aperto undici vie nuove, record ad oggi ancora da battere. La sua via sul K2, peraltro, non è mai stata ripetuta. Sette di quelle salite, tra le quali quella al K2, sono state effettuate in stile alpino. È stato il primo uomo in grado di salire nello stesso periodo invernale due Ottomila. In invernale, peraltro, di Ottomila ne ha conquistati quattro, tre dei quali in prima invernale assoluta (il Dhaulagiri I, il Kangchenjunga e l’Annapurna). Il Cho Oyu l’ha invece salito assieme a Zygmunt Andrzej Heinrich tre giorni dopo la prima invernale effettuata da Maciej Berbeka e Maciej Pawlikowski il 12 febbraio 1985. Tra il 1985 ed il 1986, per la precisione tra il 21 gennaio 1985 ed il 10 novembre 1985 è riuscito a portare a termine sei salite a Ottomila, tre delle quali in prima invernale e tre con l’apertura di vie nuove di altissima difficoltà, come quelle al Nanga Parbat e al K2. Da ultimo, va ricordata come exploit straordinario e visionario la sua salita in solitaria al Makalu seguendo una via assolutamente nuova. La sua vita, riassunta in questo libro che è quasi una autobiografia, è uno spaccato di vita personale e allo stesso tempo un documento storico della situazione socio-culturale della Polonia fino alla caduta del Muro di Berlino e alla conseguente disgregazione dei regimi “comunisti” o, per maggior precisione, dell’antiutopia del socialismo reale. Un momento che Kukuczka non fa L’eterna attualità di un’umanissima leggenda 29


in tempo a vivere. Forse anche questo fatto ha maggiormente cristallizzato la sua leggenda, consacrando un simbolo dell’alpinismo e della società polacca in quel preciso periodo storico, iniziato negli anni Settanta e terminato appunto con la caduta del regime di Jaruzelski. Un ventennio che ha creato una generazione di grandi scalatori, gente che voleva solo scrivere la storia raggiungendo il cielo come e meglio degli altri, ragazzi pronti a dimostrare il proprio orgoglio sulle montagne più alte durante i periodi più freddi. Pregi e difetti, momenti epici e contraddizioni di questo movimento e di quella società si ritrovano all’interno di un libro che ancora oggi, a trent’anni dalla scomparsa del suo autore, risulta essere di estrema attualità e di assoluta godibilità per i lettori, in particolar modo per quelli italiani. Jurek, infatti, come abbiamo già sottolineato, era molto vicino all’Italia, dove aveva parecchi amici ed estimatori e dove tenne parecchie serate, conferenze e incontri. Compresa una presenza al Trento Film Festival nel 1989, unica volta in cui lo scrivente era riuscito a stringergli fugacemente la mano… Proprio a Trento, in occasione dell’edizione del Film Festival nel 2019, chi scrive ha avuto l’onore di partecipare come conoscitore della Polonia e come traduttore a una serata a lui dedicata curata da Sandro Filippini, con la partecipazione di Hervé Barmasse, di Krzysztof Wielicki, di Fulvio Mariani e soprattutto di Celina Kukuczka. Una serata in cui, a “sorpresa”, ha portato il proprio omaggio Reinhold Messner. Quello stesso Reinhold che, quando gli ho chiesto di scrivere qualcosa per questa nuova edizione del libro, mi ha preso in parola e mi ha consegnato per la pubblicazione, a mo’ di conclusione di quella che circa vent’anni prima era stata la sua prefazione al libro, esattamente due righe, pesanti come macigni e con le quali mi avvio alla conclusione di questo omaggio introduttivo a una personalità tanto leggendaria quanto squisitamente umana. Ricordando infatti di aver mandato a Kukuczka il famoso messaggio dopo la salita dell’ultimo, quattordicesimo Ottomila (“non sei il secondo, sei un grande!”), la leggenda sudtirolese chiede di riportare quanto segue: Anni fa gli avevo scritto: “Non sei il secondo. Sei grande”. Lo confermo: grande e molto forte. Probabilmente il più forte fisicamente.

Luca Calvi Milano, dicembre 2021

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Jerzy Kukuczka durante la salita del K2. Foto: Archivio Jerzy Kukuczka


IL MIO MONDO VERTICALE


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INTRODUZIONE La prima volta che toccai la roccia fu un sabato pomeriggio, il 4 settembre 1965. Da allora in poi il resto non contò più nulla. Rinunciai anche alle escursioni nei Beschidi, momenti di fuga dalla nostra cupa realtà slesiana, con un po’ di verde e di libertà anche se limitati alla domenica. Portato da un amico a Podlesice, sulle skałki, paretine calcaree alte 20 metri, vidi che la gente si arrampicava anche sulle pareti verticali. Le toccai, mi sollevai con le braccia, sentii che non solo riuscivo a tenermi alla roccia, ma che ero anche capace di salirvi sopra. Scoprii così qualcosa di completamente nuovo per me: il mondo verticale. Trascorso un anno, dopo un corso di arrampicata durato una decina di giorni, rimasi sui Monti Tatra, perché sentivo che era quello ciò che volevo. Salii la Zamarła Turnia, avvolta in un vecchio mito, e la mattina seguente attaccai con Piotrek Skorupa il pilastro sinistro della Kazalnica, considerato una delle vie più difficili dei Tatra. Dopo quattro tentativi ci ritirammo perché mi si ruppe il martello che mi ero costruito da solo. Piotrek e io prendemmo subito un’altra settimana di ferie e tornammo sui Tatra perché il pilastro della Kazalnica ci tormentava l’anima. Lo conquistammo e in una giornata e mezza ripetemmo ciò che era la più ambita salita per i migliori alpinisti polacchi. Fummo invitati a un campus che riuniva i giovani alpinisti emergenti del mio Paese che poi sarebbero stati mandati verso le Dolomiti e il resto delle Alpi. Quel sogno, però, non era destinato a diventare realtà per noi… Arrivò la chiamata per il servizio militare, che per me fu come una calamità naturale e per il quale mi trovai ad essere strappato per due anni da quello che era il senso della vita e che scaturiva dalle montagne. Quando tornammo a essere dei civili decidemmo di affrontare subito, e d’inverno, la Kazalnica, considerata come il più grosso, e a quel tempo non ancora risolto, problema dei Tatra polacchi. A metà della seconda giornata di arrampicata la corda ghiacciata causò la caduta e la morte del mio compagno Piotrek Skorupa. Per la prima volta conobbi in montagna la tragedia e la morte di un amico, un vero e proprio shock. Ritornai a Katowice dove ebbi un doloroso incontro con la famiglia e partecipai al funerale. A quel punto mi posi una domanda: valeva la pena andare avanti, aveva un senso tutto ciò? Era un drammatico dilemma, perché le montagne mi attiravano intensamente, ma la ragione mi diceva di lasciar perdere… Introduzione 35


Tre settimane dopo ero di nuovo sui Tatra, dove feci un po’ di escursioni invernali che mi aiutarono a scrollarmi di dosso i dubbi accumulati. Nel 1971 al campus centrale, sulle Dolomiti, salii assieme a Janusz Skorek e Zbyszek Wach la via diretta alla Torre Trieste e una via nuova alla Cima del Bancon. Quando lessi il libro di Dorawski L’uomo conquista l’Himalaya1, che parlava di montagne per me completamente irreali e fantastiche, iniziò a balenarmi un pensiero temerario, ovvero che avrei potuto salire cime ancora più alte. Durante la spedizione slesiana sulle montagne dell’Alaska, già alla quota di 4500 metri il mal d’altitudine mi smontò completamente; soltanto con la forza di volontà mi trascinai sulla vetta del McKinley, a quasi 6000 metri. Durante la discesa ebbi dei congelamenti, tornai a casa e andai direttamente all’ospedale e da quel momento il mio cammino verso le montagne ebbe una brusca interruzione. Sparii dalla circolazione, mi aggregai a qualche spedizione studentesca, aprii anche due vie nuove sulle Alpi con Wojtek Kurtyka sulle pareti Nord del Petit Dru e delle Grandes Jorasses, ma nonostante ciò la strada verso le grandi montagne era per me ancora preclusa. Nel 1975 mi unii al Club di Alta Montagna di Gliwice diretto in Hindukush, una vera anticamera dell’Himalaya, dove subito mi ammalai. Non potei così partecipare alla conquista della cima di Kohe Tez, durante la quale Janusz Skorek, Grzegorz Fligiel e Marek Lukaszewski, il giorno dopo essere arrivati in cima, scivolarono e caddero per alcune centinaia di metri. Erano feriti ma vivi e la spedizione si tramutò in un’operazione di salvataggio che venne conclusa con successo. Poco prima di rientrare, poi, salii lo stesso da solo sul Kohe Tez a 7000 metri per la via normale. Nel 1978 il mio club di Katowice intraprese una spedizione in Himalaya con l’intenzione di salire sul Nanga Parbat per il pilastro orientale. Quando fummo finalmente davanti a questa parete lunga 5000 metri… Ce la facemmo letteralmente addosso. Ci spingemmo in alto seguendo la via normale, ma all’altezza di più di 8000 metri ci fermò una barriera di rocce ed a quel punto fummo costretti a ritirarci. Tornammo a valle, dove c’era un bel tempo ottobrino che ci permetteva di camminare attraverso un bosco dipinto dall’autunno coi colori del giallo e dell’oro. Camminavo e cercavo di non guardare indietro, dove spuntava la parete della grande montagna, illuminata dal sole che tramontava e sulla quale non ero salito. Quella vista mi provocava un grande rimpianto, era 1.

Jan Kazimierz Dorawski, Człowiek zdobywa Himalaje, Cracovia 1957

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mancato così poco per toccare la cima. Mi rallegravo però all’idea che l’Himalaya fosse alla nostra portata e che sarei tornato ancora su quelle montagne, le più alte del mondo. Dovevo tornare. Ci tornai e scrissi questo libro, al cui interno non c’è una risposta alla domanda, posta con insistenza, su quale sia il senso delle spedizioni verso le grandi montagne. Non ho mai sentito il bisogno di dare una simile definizione. Andavo sulle montagne e le conquistavo. Tutto qua.

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Jerzy Kukuczka durante la salita al Lhotse. Foto: Archivio Jerzy Kukuczka

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POCO A DESTRA DELLA MONTAGNA PIÙ ALTA DEL MONDO…

Lhotse, parete Nord-ovest, 1979

«Sapete a cosa servono le grandi imprese specializzate, per esempio l’Impresa Manutenzione Acciaierie?». Il direttore aveva chiaramente deciso di non rinunciare alla sua autorità. Correva l’anno 1978. Nel suo ufficio alla parete era appeso lo stemma statale, accanto alla scrivania c’era una felce rachitica e su una mensola dell’armadietto con le ante a vetri faceva bella mostra di sé qualche volume delle opere di Lenin. Dalla finestra si vedeva una grande e vecchia ciminiera. Si trattava proprio di quella ciminiera. Tutto, comunque, era un gioco pensato minuziosamente, dove non si potevano commettere errori. Ci alzammo dunque dalle sedie sulle quali ci eravamo appena seduti. «Comprendiamo, allora noi… Magari un’altra volta». Ci muovemmo con decisione verso la porta, ma il gioco stava continuando. Non si sapeva ancora come sarebbe andata a finire. «Un momento, un momento. Parliamone…». Il direttore era a conoscenza del fatto che noi sapevamo che un colosso come l’Impresa Manutenzione Acciaierie era capace di tutto, anche di Poco a destra della montagna più alta del mondo… 39


ricostruire da capo l’altoforno. Per tutto c’erano dei progetti e preventivi di spesa enormi. Soltanto per dipingere le ciminiere sembrava non esserci tempo. Il direttore, pur cosciente di mettere a repentaglio un po’ della sua autorità, ci pregò di non uscire dal suo ufficio. Dietro la finestra si vedeva quell’enorme ciminiera, già molto malmessa. La guardavamo scuotendo la testa e storcendo le labbra in una smorfia. «Due settimane, magari ci riusciamo anche in una sola» «Una settimana?» Il direttore si sistemò meglio sulla poltrona chiaramente divertito. Un punto a suo favore. «Una settimana non basta neanche per montare l’impalcatura…». «Ma noi pitturiamo senza impalcatura». «E come?». «Con le corde». Scese un attimo di silenzio nel quale tutto poteva essere deciso. Nella testa del direttore stavano girando vari pensieri. Ed effettivamente aveva di che pensare. Si erano presentati davanti a lui due uomini giovani e apparentemente sfacciati e dietro la finestra c’era quella maledetta ciminiera che stava arrugginendo da anni e che avrebbe dovuto essere conservata e dipinta ogni anno, al massimo ogni due. Questo in base alle normative, ma chi avrebbe dovuto farlo? Avrebbe potuto resistere così ancora per alcuni anni, certo, poi però si sarebbe sgretolata da sola, senza contare che in qualsiasi momento sarebbe potuta capitare una commissione di controllo. E allora? …No, il direttore non voleva pensarci. La concentrazione sulla sua faccia aumentava e passò a un’espressione che denotava interesse. «Caffè o tè?». «Fa lo stesso, non vogliamo disturbare…». A quel punto un importante direttore di una grossa acciaieria avrebbe premuto il pulsante posto sulla scrivania; se fosse stato un direttore un po’ meno importante avrebbe preso il telefono; se fosse stato solo un capo in una acciaieria ormai vecchia si sarebbe alzato dalla sedia, si sarebbe diretto verso la porta, l’avrebbe socchiusa e stando sulla soglia avrebbe comunque sempre detto le stesse parole, qualunque fosse stato il suo status: «Per favore, potete portare due caffè?». Tornando alla scrivania o mettendo giù il telefono, avrebbe poi aggiunto: «Io ho già bevuto tre caffè, avevo due riunioni, non posso prenderne altro, scusate». Fece poi un gesto portando la mano al cuore e il viso gli si fece più serio, lasciando trasparire una certa sofferenza. Dovevamo assolutamente renderci Jerzy Kukuczka IL MIO MONDO VERTICALE 40


conto della grossa responsabilità che lui aveva nei confronti di una moltitudine di cose e del fatto che tutti si rivolgevano a lui come se non ci fosse nessun altro in quell’acciaieria a risolvere i problemi. Intuivamo che il direttore si stava ammorbidendo. Per noi si trattava di un milione. Era quello l’importo che ci serviva per effettuare la spedizione in Himalaya, verso il Lhotse, quarta vetta della Terra. Oggi la svalutazione ci ha abituati anche troppo alle cifre con sei zeri, ma a quei tempi era una gran bella cifra. Un milione, nel 1978, voleva dire duecento mensilità. La posta in gioco, quindi, era alta. Di solito per una ciminiera di 80 metri potevamo guadagnare anche 250.000 złoty. Ciò significava che il Lhotse aveva per noi un valore pari a cinque ciminiere, forse un po’ di più, visto che bisognava togliere la percentuale che si prendeva il club e qualcun altro, poi le tasse e il costo della vernice che dovevamo reperire. Diciamo allora più o meno sei ciminiere, ma prima, per ogni lavoro del genere, si doveva stilare un contratto. Per questo eravamo andati a far visita al direttore. «Con le corde?». Vedevamo che gli era difficile crederci, ma complice anche l’idea di quelle famose commissioni, il direttore non demordeva. «Noi siamo alpinisti, lo sappiamo fare, sul serio». «Sì. Con le corde». Il direttore, anche se non lo avrebbe mai ammesso, sapeva che gli eravamo caduti dal cielo, direttamente su quella ciminiera arrugginita. Ormai non stava più difendendo quella causa, ma la sua autorità. «Ma noi siamo, lo sapete, un’azienda statale. Non possiamo contrattare lavori di questa importanza con gente quals…», qui si morse la lingua, «cioè volevo dire, con i privati». «Questi soldi sono destinati al Fondo di azione sociale per la gioventù. Tutto è indicato precisamente nelle leggi, per noi non è la prima volta. Se necessario possiamo darle il riferimento della Gazzetta Ufficiale, come pure delle direttive. Siamo perfettamente preparati su questo argomento». «Va bene, va bene… Dovrò ancora consultare l’Ufficio Legale. In ogni caso, quando potreste cominciare i lavori?». Avevamo vinto noi, ma anche il direttore. In seguito avremmo dovuto fare molti altri di questi discorsi, spesso più brevi e senza alcun risultato. Trovare un milione, allora, non era facile. Poco a destra della montagna più alta del mondo… 41


«Allora, cosa facciamo? Scendiamo…». «Aspettiamo ancora un giorno, tanto non perdiamo niente, miglioreremo il nostro acclimatamento» mi aggrappavo ad argomenti quasi assurdi. Dicevo questo sapendo benissimo che una volta che fosse terminata la nevicata ci sarebbe stato un rischio nuovo: poteva nascere il pericolo di valanghe. E così aspettammo, e aspettammo… Quando però arrivò mezzogiorno, Wojtek decise: «Tutto questo non ha senso, è semplicemente un peccato sprecare le nostre forze». Sapevo di non avere più argomenti. In verità, a malincuore, dovevamo ritornare. Ancora quei venti minuti di paura, poi tutto un giorno di discesa sprofondando nella neve fresca. Alla fine arrivammo al campo base. Non solo il nostro tentativo era stato un fallimento: le ragazze avevano organizzato un altro campo, forse all’altezza di 6800 metri, e nonostante i tentativi quotidiani, tutti i tentativi erano falliti proprio lì, per colpa della neve e di un vento molto forte. Noi facemmo ancora un po’ di prove ma, dopo una settimana di nevicate, lasciammo la tenda e tutta l’attrezzatura da bivacco in un posto sicuro a 6400 metri e scendemmo per aspettare il bel tempo. Quando tornammo in quel posto, trascinandoci in mezzo a due metri di neve accumulata, constatammo che la nostra tenda era sparita. Non c’era più. Dovevamo indovinare il punto in cui l’avevamo montata. Scavammo come talpe, perché eravamo senza attrezzatura da bivacco e là sotto c’erano tenda e sacchi a pelo, praticamente tutto. Ma dove si trovavano? Passammo mezza giornata a frugare nella neve con ansia crescente, perché la prospettiva di dormire sotto il cielo aperto si stava facendo con il passare delle ore sempre più reale. Alla fine ci riuscimmo e trovammo la tenda, dopo esserci lasciati dietro un tunnel di neve. Bivaccammo e il giorno dopo arrivammo un’altra volta all’altitudine di circa 7000 metri. Il tempo, però, peggiorò di nuovo. Non c’erano speranze e ancora una volta fummo costretti a ritirarci. Anche in quell’occasione la ritirata fu preceduta da uno scambio di opinioni tra me e Wojtek. Mentre passavamo lunghe ore nell’immensa coltre di neve, stava cominciando a non darmi pace l’idea della via alternativa che portava a sinistra, quella che dal campo base non si vedeva bene. Qualche cosa mi spingeva lassù. «Dai, proviamo a vedere, usciamo almeno dietro quell’angolo di roccia, là magari sarà un po’ più difficile ma forse è più sicuro. Non si dovranno affrontare quei venti minuti di paura». Jerzy Kukuczka IL MIO MONDO VERTICALE 112


Wojciech Kurtyka al campo avanzato del K2. Foto: Archivio Jerzy Kukuczka

Wojtek però non era convinto dell’idea. «Non ha senso. Se il tempo si aggiusterà, potremo eventualmente darci un’occhiata, ma mi sembra che più in là sia molto difficile». E così fu deciso. Scendemmo al campo base, dove aspettammo due settimane. Il tempo era ostinato, non cambiava e ogni giorno che passava si rafforzava in noi la convinzione che non avevamo ormai più grosse possibilità. La spedizione di Kurczab arrivò fino all’altitudine di 8300 metri, ma anche loro rinunciarono. Facemmo ritorno. Noi eravamo l’unica delle tre spedizioni polacche a non tornare a mani vuote, grazie alla salita sul Broad Peak lungo la via normale, che in quel momento non aveva più un grosso significato sportivo. La montagna rubata 113


Per me era però il quarto Ottomila e ciò mi fece avanzare in graduatoria tra gli alpinisti himalayani polacchi. Incontrammo invece alcuni problemi a Islamabad, dove erano arrivate notizie fastidiose. Le prime furono probabilmente causate da quel francese che accompagnava la spedizione, o meglio una delle partecipanti. Era un giornalista, le ragazze lo trattavano come un aggregato, mentre lui, il francese, le vedeva semplicemente come delle donne e non come delle grandi alpiniste. Questo suo atteggiamento non piaceva molto, specialmente a Wanda, che alla fine ci litigò e lui fece le valigie abbandonando la spedizione, non senza prima diffondere certe voci. In ogni caso a Islamabad, al Ministero del Turismo torturarono Wanda con domande insistenti: «Quei due sono andati sulla vetta del Broad Peak o no?». «Di questo non so niente. Certo sul Broad Peak c’era stata attività alpinistica, perché stavano studiando il modo di acclimatarsi e soprattutto volevano fare delle foto…». I chiarimenti di Wanda suonavano verosimili; sul permesso figuravamo come dei fotografi, e la veduta più bella sulla parete del K2 la si poteva apprezzare dalla via per il Broad Peak. Wanda era in una situazione difficile, non poteva prendere alla leggera queste domande inquisitorie, perché proprio dal Ministero del Turismo dipendeva il consenso al debriefing, cioè alla conclusione ufficiale della spedizione, e quindi il permesso di uscire dal Pakistan. Lei però riuscì a risolvere tutto. Al ritorno dalla spedizione, in occasione della riunione del direttivo del Club Alpino Polacco, Janusz Kurczab aveva presentato un riassunto annuale dell’attività sportiva. La stagione sul Karakorum era stata riassunta più o meno così: «La spedizione femminile è arrivata fino a circa 6800 metri, dove si è fermata per motivi di brutto tempo. Noi siamo arrivati all’altitudine di 8300 metri e ci siamo dovuti ritirare anche per le fatali condizioni atmosferiche. C’è anche stata una terza spedizione, condannata fin dal principio all’insuccesso, perché una squadra di sole due persone non ha la benché minima possibilità di vincere su una simile parete…». Sulla nostra salita al Broad Peak non aveva nemmeno speso una parola, perché questa era una montagna rubata. Invece poco dopo era uscito un libro di Reinhold Messner, intitolato 3 x 80001, visto che in un anno aveva conquistato tre montagne da 8000 metri, che conteneva anche queste parole: «Lungo la via per il Broad Peak, 1.

Reinhold Messner, 3x 8000: il mio grande anno himalayano, De Agostini, 1984

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all’altitudine di circa 6400 metri, incontrammo coloro che stavano tornando dalla vetta, Wojtek Kurtyka con un altro polacco…». Ancora oggi mi chiedo se si fosse semplicemente dimenticato di ciò di cui lo avevamo pregato in quell’incontro.

La montagna rubata 115


Jerzy Kukuczka riposa durante la discesa dal Gasherbrum I. Foto: Archivio Jerzy Kukuczka

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LA MONTAGNA A CREDITO

Gasherbrum II, sperone Sud-est, Gasherbrum I, parete Sud-est, 1983

Dal cielo scendeva un caldo atroce e il sudore colava sugli occhi e a me e a Wojtek mentre, con un sempre più visibile tremore alle mani, frugavamo un contenitore dopo l’altro perché così pretendeva il doganiere indiano. Eravamo arrabbiatissimi. Non avevamo previsto una cosa simile. Il superamento della frontiera tra India e Pakistan fino ad allora non aveva mai comportato seri problemi. Le formalità di frontiera ad Armitsaru si svolgevano più o meno così: prima c’era la dogana indiana, poi c’era una fascia di terreno, la “terra di nessuno”, lunga 200 metri, quindi la sbarra di frontiera del Pakistan. Una volta eravamo riusciti, dopo numerose preghiere, a convincere i doganieri indiani a farci attraversare con un camion noleggiato quel nastro di “terra di nessuno” fino alla dogana pakistana. Questa cosa ci aveva facilitato enormemente, potendo con le nostre forze spostare tutta la nostra merce direttamente sul camion situato in terra pakistana. Quella volta, invece, niente da fare. Avevamo provato ad attaccare discorso con dei doganieri locali, ma non ci avevano voluto neanche ascoltare. La montagna a credito 117


In alto, Campo II, 6.500m. Da sinistra: Kazimierz Rusiecki, Ryszard Gajewski (seduto), il capo della spedizione Andrzej Zawada, a destra Andrzej “Zyga” Heinrich. Everest, 1980 Sotto, Jerzy Kukuczka e Andrzej Czok al campo base dopo aver raggiunto la vetta. Everest, 1980

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Andrzej Czok. Everest, 1980

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Sopra, relax al campo base. Da sinistra: Tadeusz Karolczak, Danuta Wach, Wojciech Kurtyka e Aniela Łukaszewska. Broad Peak, 1982 A destra, Wojciech Kurtyka sul pendio del K2. 1982

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Wojciech Kurtyka sulla parete del K2. Dietro il massiccio del Broad Peak; sono visibili il Broad Peak Nord (7550m), il Broad Peak Centrale (8012m) e il Broad Peak (8047m). Sullo sfondo il massiccio del Gasherbrum

XIII


sempre sciato sulle piste battute e le mie esperienze con lo sci alpino erano state veramente poche. Sciare su neve farinosa è tutta un’altra cosa, per giunta con uno zaino da 23 chili e all’altitudine di 8000 metri. Cominciai la discesa facendo un lungo traverso per aggirare la cima secondaria. La neve era profonda e farinosa, non potevo nemmeno vedere gli sci, in certi momenti mi spostavo così piano che mi sembrava di stare fermo. Artur scendeva a piedi dietro di me praticamente alla stessa velocità. Non riuscivo a muovermi per più di dieci metri e dopo ero così stanco che avevo il fiatone ed ero costretto a sedermi per riposare. Per la prima volta mi resi conto che sciare comporta molti sforzi. In un batter d’occhio erano svanite le visioni che mi avevano accompagnato fino a quel momento, di quelle scene d’effetto, tratte da qualche film, in cui si vede lo sciatore che compie eleganti evoluzioni e in un batter d’occhio si ritrova senza apparente fatica giù a valle… Solo per un momento pensai: «E adesso io volerò giù come un uccello…». Ma niente da fare, quell’impresa si risolse in un duro lavoro infernale. Quando giunsi alla fine del plateau, non ero molto più avanti di Artur. Tutto ciò che avevo guadagnato dalla mia pazzia bianca era non più di un’ora nei confronti del mio compagno, che non scivolava ma si spostava gentilmente, come Dio comanda, con i propri piedi. Al campo base ci caricammo tutto sulle spalle e ripartimmo verso valle. Non c’era tempo per i sentimentalismi e le impressioni sulle grandi montagne, ma avevamo i nostri motivi per essere orgogliosi. Wanda era riuscita a salire sul suo quarto 8000 ed era l’unica donna al mondo a vantare un trofeo così importante. Elisa era diventata l’unica donna latino-americana ad aver messo piede su una montagna così alta e, coi suoi 23 anni, era anche la più giovane mai salita sulla cima di un Ottomila. Carlos aveva aggiunto alla sua lista un secondo Ottomila che per la sua patria aveva un valore altissimo. Alan e Steve avevano seguito una via nuova, molto bella, che saliva sullo Shisha Pangma in mezzo al canale. Rysiek Warecki era salito in vetta e a ogni occasione sottolineava di essere stato il primo polacco a salire sullo Shisha Pangma perché negli ultimi metri aveva superato Wanda. Io e Artur avevamo raggiunto la vetta per una via nuova, lungo il versante occidentale, e avevamo affrontato due cime molto alte, ancora vergini… Scendevo e questi pensieri gioiosi continuavano a girarmi nella testa come oggetti maldisposti dentro ad uno zaino mal preparato. I nomi delle quattordici cime himalaiane divennero poi una litania e snocciolarli mi aiutò a camminare, a scandire il ritmo dei miei passi, come quando, per salire più in Jerzy Kukuczka IL MIO MONDO VERTICALE 326


alto, bisogna contarli per dosare le residue forze. Quattordici… Quattordici per otto… Qualcosa è veramente finito? No, il mondo verticale non finisce mai. È là, aspetta. Io qui tornerò ancora… A breve… Già una volta avevo pensato così. Quando? Chiaro! Quando per la prima volta avevo perso la partita con il Nanga. Tanto tempo fa, tanto tempo fa… Tutte le quattordici più alte montagne fa. Cosa avevo pensato allora dopo la prima sconfitta? Aah… Che dopo tutto anche l’Himalaya è fatta per gli esseri umani. Avevo ragione.

Quattordici per otto 327


Il campo avanzato I a 6800m. Foto: Archivio Jerzy Kukuczka


I DIARI


Composizione della spedizione allo Shisha Pangma Jerzy Kukuczka, capo-spedizione Wanda Rutkiewicz Ryszard Warecki Artur Hajzer Janusz Majer Lech Korniszewski, medico Elsa Ávila Carlos Carsolio Christine de Colombel Małgorzata Fromenty-Bilczewska Alan Hinkes Ramiro Navarrete Steve Untch Personale cinese Ufficiale di collegamento – Chen Qi-jing Interprete - Wang Gang Cuoco - Lhuang Sheng-Qiang Pastore tibetano degli Yak - Cassa Jerzy Kukuczka IL MIO MONDO VERTICALE 330


I DIARI DELLO SHISHA PANGMA

Ultima vetta della corona dell’Himalaya AGOSTO 1987

7 agosto, venerdì Atterro a Kathmandu. Tempo come durante i monsoni, l’Himalaya non si vede. Da Asian Trekking messaggio da Janusz. Sulla strada per l’hotel Shanker incontro Carlos ed Elsa. Ci si vede dopo otto mesi. Bello che siano di nuovo qui. Dopo le ultime spedizioni mi sono abituato alla loro presenza e mi sono affezionato a loro, per non parlare del fatto che mi hanno in parte aiutato a risolvere i problemi finanziari della spedizione. Janusz fa il punto della situazione. Tutto il carico è stato trattenuto, assieme ad Artur. Alla frontiera sono necessari i documenti per il transito (baggianata!!). Sono tre giorni che Janusz corre da un ufficio all’altro a sbrigare formalità, andando a scontrarsi con difficoltà insormontabili. L’Ufficio Generale delle Dogane esige una garanzia da parte dell’ambasciata polacca (ed è noto che a Kathmandu la stessa non esiste). Ecco la lettera del Ministero del Turismo. Scrive il Ministero: “Questa spedizione peraltro è diretta in Cina, e non in Nepal. Tutto ciò non ci riguarda”. I diari dello Shisha Pangma 331


I membri dellla spedizione al campo base. Da sinistra: Wanda Rutkiewicz, Krzysztof Wielicki e Jerzy Kukuczka. Annapurna, 1987

Jerzy Kukuczka IL MIO MONDO VERTICALE XLII


Jerzy Kukuczka in vetta all’Annapurna (8091m) - 02/03/1987

XLIII


I CHORTEN IN MEMORIA DI JERZY KUKUCZKA Il chorten sotto la parete del Lhotse Nella primavera del 2008, Artur Hajzer diresse l’organizzazione per la costruzione di un chorten sotto la parete meridionale del Lhotse, evento finanziato dalla Fondazione Jerzy Kukuczka di Varsavia. Il chorten è una semplice costruzione in pietre a forma di cubo, dove vengono distese lunghe file di bandierine delle preghiere. Si tratta di una costruzione minore rispetto allo Stupa. Entrambi rappresentano un monumento della religione Buddhista. Fu costruito dagli sherpa dell’alto villaggio di Chhukhung. Sul chorten venne poi posizionata la targa commemorativa dedicata ai tre alpinisti polacchi morti sulla parete meridionale del Lhotse. La targa riporta: In memoriam Rafal Chołda 25 X 1985 - Czesław Jakiel 15 IX 1987 – Jerzy Kukuczka 24 X 1989. Venne costruita in Polonia nel 1990 e fu trasportata in Nepal fino sotto la parete Sud del Lhotse nel primo anniversario della tragica morte di Jerzy. Fu posizionata in alto, sopra il villaggio, su un grande masso. Portarono questa targa e la fissarono in quel remoto luogo Ryszard Warecki, Cecylia Kukuczka, suo figlio Maciek di 10 anni e Lidia, sorella di Cecylia. Negli anni successivi gli sherpa decisero di spostare i loro alpeggi sempre più in alto e arrivarono fino al luogo dove c’era questa targa. Qui gli yak pascolavano e il luogo era diventato invivibile. Da lì la decisione di costruire un chorten all’entrata del villaggio, in modo che tutti gli alpinisti e gli escursionisti potessero vederlo e ricordare queste persone. Il 24 ottobre 2014, nella ricorrenza del venticinquennale della morte di Kukuczka, la moglie Cecylia e alcuni amici di Jurek si recarono in Nepal dove risalirono la valle del Khumbu fin sotto la grande parete del Lhotse, nel villaggio di Chhukhung dove si trova il chorten. Qui pregarono e dispiegarono numerose bandierine di preghiera e accesero ceri. Lo stesso avvenne nel 2019 per il trentesimo anniversario della morte. In quell’occasione assieme a Cecylia c’erano tante persone provenienti da varie parti della Polonia. Tutti hanno percorso questo trekking per rendere omaggio a Jerzy e testimoniare così alla vedova il loro affetto. Il nuovo chorten per Kukuczka In occasione del già citato trentennale della sua scomparsa, oltre alle tante altre iniziative avvenute nel corso dell’anno, è stato pubblicato un nuovo libro Jerzy Kukuczka IL MIO MONDO VERTICALE 374


Il chorten ai piedi del Lhotse. Foto: Mario Corradini

e a Istebna, nella piazza antistante la chiesa, è stato eretto un chorten (simile a quello che si trova a cospetto della parete Sud del Lhotse) per ricordare in modo significativo il triste anniversario. Fu inaugurato il 22 novembre 2019 nel centro di Istebna dalla moglie Cecylia. Si tratta di un piccolo monumento costruito con pietre raccolte nelle foreste dei Beschidi, offerto dal distretto forestale di Wisła. Su di esso è collocata la targa che dal 1992 era infissa sulla facciata di una casa nella piazza della chiesa. La targa in bronzo raffigura il viso di questo eccezionale scalatore con sullo sfondo il Lhotse, oltre a una corda strappata e le date di nascita, 1948, e di morte, 1989. Jerzy non ha una tomba. La sua tomba naturale è lassù, in Himalaya, sulla grandiosa parete meridionale del Lhotse. Riposa lì, tra ghiaccio e rocce. Per la famiglia questo nuovo chorten eretto a Istebna è un posto importante, per poter deporre fiori, accendere una candela e per pregare. Il monumento, ha detto Cecylia Kukuczka, è stato progettato da Michał Legierski, e gli artefici sono stati l’artista Sebastian Suszka-Kamiński e lo Ricordo di Jerzy Kukuczka 375


Il nuovo chorten a Istebna. Foto: Mario Corradini

scalpellino Józef Kukuczka. La cerimonia continuò poi nella sala dell’ex palestra di Istebna, ora scuola elementare, dove gli studenti dell’ottavo anno presentarono la pièce “L’uomo del percorso perpetuo” diretta da Cecylia Suszka con la musica di Beata Kawulok e lo scenario di Renata Gorzołka. L’evento fu molto apprezzato come pure l’esibizione della band Polania, nonché la proiezione del film Lhotse - partita a poker1 diretto da Wojtek Kukuczka, figlio di Jerzy. Proprio nel film di Wojtek Kukuczka, nell’ultima intervista a Jerzy Kukuczka, all’aeroporto di Varsavia in partenza per la Sud del Lhotse, gli fu chiesto: “Perché il Lhotse, perché la parete Sud?”. “Ancora non è stata salita, nonostante i tanti tentativi. Questo è l’ottavo tentativo serio su questa parete alta 3500 metri. Sul Lhotse le difficoltà maggiori si trovano oltre gli 8000 metri”. 1.

Lhotse, rozgrywka pokerowa (Lhotse, partita a poker, diretto da Wojtek Kukuczka, Polonia, 2010, 28’

Jerzy Kukuczka IL MIO MONDO VERTICALE 376


In questo film, Ryszard Warecki dice di Kukuczka: “È vissuto da Re ed è morto da Re. È morto da eroe in azione”. “Nel momento in cui stava per farcela… l’aveva quasi presa… aveva in pugno questa parete leggendaria”. “Se ci fosse riuscito sarebbe stato il numero uno indiscusso del mondo dell’alpinismo”. “Puntava in alto. Era una partita a poker e sul piatto c’era la sua vita”.

WROCŁAW, UN’ALTRA SCUOLA A LUI INTITOLATA Jerzy Kukuczka per le sue imprese sulle montagne del mondo e in particolare in Himalaya è ormai diventato per la Polonia un eroe nazionale, un riferimento, un modello di tenacia e determinazione. A tutto ciò ha senza dubbio contribuito il riscontro mediatico avuto dalle sue scalate, ma anche e soprattutto il suo carattere gioviale, e pacato, il sapersi rapportare con le persone e con i compagni di spedizione. Non stupisce quindi che in Polonia già quattordici scuole portino il suo nome. Lo hanno voluto come patrono, quale richiamo nell’impegno allo studio e nelle difficoltà che si devono superare nella vita. Una di queste scuole si trova anche nella bella città di Breslavia (Wrocław), dove la scuola elementare n. 38, in via Horbaczewskiego, 61, nell’anno scolastico 2014 / 2015 ha deciso di nominare come suo patrono Jerzy Kukuczka. Per questo ha prodotto uno stendardo raffigurante alcune vette dell’Himalaya e il viso di Jerzy, presentato ufficialmente alla cerimonia che si è svolta il 6 giugno 2014. È stato un momento toccante e intenso, preparato nei minimi particolari da docenti e studenti. Per l’occasione l’alpinista Aleksander Lwow ha tracciato, con l’ausilio di immagini, l’intensa attività alpinistica di Kukuczka. Ho avuto la fortuna di partecipare a questa importante festa, grazie all’invito di Cecylia Kukuczka e della direzione scolastica. Ho potuto così portare un mio ricordo di Jerzy e un augurio agli studenti. Ricordo di Jerzy Kukuczka 377


Non riuscivo a credere che fosse davvero successo. Jurek è stato ed è grande. Nel mio appartamento e nel mio studio di avvocato sono appese le sue foto firmate e con dedica, e i suoi calendari. Non dimenticherò mai il mio amico. Penso a come andavano le cose quarant’anni fa, quando andavo in falesia lungo la stessa strada che percorro tuttora. Sì, anche oggi, ma non più in tram e poi in treno e quindi in autobus, bensì all’interno di una comoda autovettura debitamente climatizzata. Jurek… è impossibile dimenticarlo. Lo ricordiamo ogni anno durante le messe alla chiesetta in legno posta sul passo di Kubalonka vicino ad Istebna nell’anniversario della morte e dopo, con tutti gli amici, davanti alla grappa al miele ed alla magnifica cucina di Celina ci ritroviamo tutti a cantare, sicuri che Jurek stesso avrebbe voluto che in quella grande casa di Istebna attorno al camino ci trovassimo a parlare di lui come se da quel luogo non se ne fosse mai andato.

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KURT DIEMBERGER. È un alpinista, scrittore e documentarista che ha raggiunto la vetta di sei Ottomila. È l’unico ancora in vita ad aver scalato due ottomila in prima assoluta: Broad Peak e Dhaulagiri. Nel 1956 effettuò la sua prima grande impresa, salendo la parete nord del Gran Zebrù, nel gruppo dell’Ortles e aprì una variante alla via dei Francesi sulla parete est del Monte Rosa. È guida alpina, ha esplorato molte parti del mondo ed ha scalato le tre classiche pareti nord delle Alpi: Eiger, Cervino e Grandes Jorasses. Nella catena dell’Hindu Kush, in Pakistan, ha salito la vetta del Tirich Mir (7708m) e in Nepal lo Shartse (7457m). Dopo molti anni è ritornato in Himalaya ed è salito in vetta al Makalu, all’Everest e al Gasherbrum II. Nel 1984 è ritornato in vetta al Broad Peak insieme a Julie Tullis e nel 1986, sempre con la Tullis sale il K2. Durante la discesa, purtroppo, vedrà cadere la sua compagna di vita, di scalata e di professione, con la quale aveva formato quello che fu definito “il film team più alto del mondo”. Il film di Kurt, K2 - Sogno e destino, nel quale racconta la spedizione al K2 del 1986, ha vinto il premio Genziana d’Oro al Festival internazionale film della montagna di Trento. Ha ricevuto numerosi premi, riconoscimenti e onorificenze. Tra queste il Golden Sport Badge per la sua prima salita al Broad Peak, l’Emmy per il documentario sul tentativo di salita della parete est dell’Everest, il Premio Itas per il libro K2 il nodo infinito, il Distintivo al merito dello stato di Salisburgo, la Medaglia d’oro per i servizi alla Repubblica d’Austria, il Piolet d’Or alla carriera nel 2013. È autore di vari libri, tradotti in diverse lingue.

POCHE RIGHE, PERÒ DAL CUORE… … per me, Kurt Diemberger, Jerzy Kukuczka è sempre stato il più grande alpinista dei nostri tempi. Lo ho ammirato per le sue grandi ascensioni e perché (a differenza di altri) non ha battuto il tamburo sui suoi successi. Molte volte ai piedi del K2 abbiamo discusso su varie tecniche dell’alpinismo ed anche sul rischio e la sicurezza ricordo ancora la questione di usare in una prima ascensione nell’Himalaya un cordino per un’eventuale ritiro... nonostante il cordino non potesse tenere la caduta del capocordata... e c’erano i punti di vista pro e contro - che però non ricordo. In fin dei conti, il destino pronuncia l’ultima parola - però prima di ciò la quantità della fortuna dipende in buona parte da noi stessi. Faccio i miei auguri per questo libro di Kukuczka. Bergheil - Jurek!

L’amico Kurt, dai colli di Bologna Testimonianze 397


Jerzy Kukuczka con Kurt Diemberger e Julie Tullis al Broad Peak. Foto: archivio Kukuczka; tratta dal libro “Ostatnia Ściana”, Katowice 1999

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SERGIO MARTINI. Accademico del CAI, ha collaborato per molto tempo nell’ambito della Scuola Centrale di alpinismo e sci-alpinismo in qualità di istruttore nazionale del CAI. Ha iniziato ad arrampicare all’età di 14/15 anni in Dolomiti aprendo, successivamente, alcune vie nuove e ripetendone altre in prima salita invernale. Ha partecipato a varie spedizioni alpinistiche: Fitz Roy e Aconcagua in Argentina, in Cile, in Perù, sui vulcani della Columbia, Alpi di Stauning in Groenlandia, monte Kenia, Nun Kun in India. È il settimo uomo al mondo ad aver scalato tutti i 14 ottomila. Nel 1976 incontra le prime vette himalayane (Dhaulagiri). Nell’ ’80 raggiunge la cima sud dell’Everest. Nel 1983 scala il K2 dallo spigolo nord, nel 1985 il Makalu, per la parete nord ovest. L’anno seguente conquista il Nanga Parbat lungo la via Kinshofer e l’Annapurna. Nel 1987 sale il Gasherbrum II, mentre nel 1988, con soli 12 giorni di distanza tra le due scalate, raggiunge lo Shisha Pangma e il Cho Oyu. Successivamente torna su queste due montagne raggiungendo la cima mediana della prima e scala altre due volte la seconda. Nel 1989 sale il Dhaulagiri e il Broad Peak nel ’93. L’anno dopo è la volta del Gasherbrum I, a cui segue il Kanchenjunga nel ’95, il Manaslu nel ’96 e il Lhotse nel ’97. Torna qualche anno dopo anche a questa montagna e la scala nuovamente. Nel ’99 è finalmente sull’Everest salito dal versante tibetano. Esattamente dieci anni dopo, nel 2009, raggiunge ancora la cima della montagna ma dal versante nepalese. Martini ha usato l’ossigeno solo sull’Everest e, per una operazione di ricerca, anche sul Kanchenjunga. Ha ricevuto molti riconoscimenti, tra questi il Premio SAT nel 1998 e la Pica de crap nel 2014. È socio onorario del CAI

PENSIERI E RICORDI Non ho conosciuto personalmente Jerzy Kukuczka ma ne ho sentito parlare fin dagli inizi degli anni ’70 quando in Dolomiti arrivarono alcune cordate di alpinisti polacchi ben affiatate che affrontarono vie di grande impegno sia in estate che in inverno e ne aprirono altre di nuove altrettanto impegnative. All’epoca scalatori tedeschi e austriaci erano di casa in Dolomiti mentre era una rarità incontrare alpinisti provenienti dai paesi dell’est Europa. Era risaputo che per motivi economici e politici non era facile per loro uscire dai confini del proprio Paese per svolgere attività alpinistica. All’estero ci potevano andare, organizzati in gruppi prescelti, soltanto coloro che in montagna avevano dimostrato di saperci fare. Sbirciando nelle cronache delle loro salite avevo preso confidenza anche con i loro nomi, difficili da decifrare e ancor più da pronunciare. Ero riuscito a fatica a memorizzarne alcuni e quando venni a sapere che Jerzy Kukuczka, uno dei più attivi, era presente al Film Festival della Testimonianze 399


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Capodanno al campo base del Kangchenjunga con Andrzej Czok, Jurek Kukuczka e Artur Hajzer. Foto: Zbigniew Terlikowski

Testimonianze 451


ELENCO DELLE PRINCIPALI ASCENSIONI

TATRA 20.02.1971 Mięguszowiecki Szczyt Centrale: prima invernale della via przez Grzybek sulla parete nord (con Danuta Gellner-Wach, J. Skorek e Z. Wach). 24-26.03.1971 Kazalnica Mięguszowiecka: tentativo di prima invernale della via Direttissima (con A. Bara e P. Skorupa). 16-18.04.1971 Mały Młynarz: prima invernale della via Kurtykówka (con J. Kalla e Z. Wach). 1971 Cubrynka: prima invernale della via di K. Liszka, J. Porębski e A. Skłodowski lungo il pilastro di destra della parete nord-ovest (con J. Kalla, J. Skorek e Z. Wach). 03-06.01.1972 Mały Młynarz: prima invernale della via Direttissima (con T. Gibiński e Z. Wach). 22.07.1971 Wołowa Turnia: prima ascensione polacca della Droga Pająków (Via dei Ragni) (con M. Piekutowski e J. Skorek). 08-11.02.1972 Młynarczyk: prima invernale della via Biederman (con J. Kallą, J. Kiełkowski e J. Skorek). 06.1972 Kazalnica Mięguszowiecka: prima salita in giornata della Droga Pająków nel centro della parete nord-est (con Z. Wach).

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23–24.06.1972 Mały Młynarz: via nuova chiamata Wielki komin (il grande camino), lungo il camino nord-est della parete (con Irena Gellner, J. Skorek e Z. Wach). 08.07.1972 Cubrynka: prima ripetizione e variante nuova della via di M. Łukaszewski e Z. Wach sulla parte sinistra della parete nord-ovest (con P. Czok). 08.02.1977 Mały Durny Szczyt: via nuova al pilastro nord (con A. Machnik).

RILA (Bulgaria) 02.08.1971 Maliovica: prima ascensione polacca alla parete nord lungo la via Direttissima (con K. Baraniok). 15.08.1971 Diavolskite Igli: prima ascensione polacca della via Sliwien (con K. Baraniok). 5.08.1971 Sredni Kupen: prima ascensione polacca della via WIF (con M. Kulig). 11.08.1971 Zlijat Zyb: prima ascensione polacca della via Superdirettissima (con K. Baraniok). 15.08.1971 Diavolskite Igli: via nuova Katowice (solitaria).


DOLOMITI 23–26.07.1972 Torre Trieste: via nuova, poi ribattezzata dagli italiani Direttissima dei Polacchi (con J. Kalla, T. Łaukajtys e Z. Wach). 04–05.08.1972 Cima del Bancon: via nuova sul pilastro sudest (con T. Łaukajtys e Z. Wach). 07.08.1972 Punta Civetta: ripetizione della Aste-Susatti (con Z. Wach).

03–04.08.1975 Grandes Jorasses: via nuova lungo la parete nord della Pointe Hélène (con M. Łukaszewski e W. Kurtyka).

ALASKA 20-26.06.1974 Denali (Monte McKinley), 6198 m: lungo lo sperone occidentale della parete sud (con J. Baraniek, A. Bilczewski, H. Furmanik, J. Kalla e A. Zyzak).

HINDU KUSH

06–23.03.1973 Marmolada d’Ombretta: prima invernale della Via dell’Ideale (con M. Piekutowski, J. Skorek e Z. Wach).

01.08.1976 Kohe Awal, 5800 m: via nuova (in solitaria).

ALPI OCCIDENTALI

10–11.08.1976 Kohe Tez, 7015 m: da sud-est (con J. Barankiem, S. Cholewa e H. Natkańcem).

19.07.1973 Aiguille du Moine: prima ascensione polacca della via Aureille-Fentren (con M. Łukaszewski). 22.07.1973 La Pell, massiccio del Vercors: prima ascensione polacca della via dei Parigini (con M. Łukaszewski). 30.07.1973 Tête Sud du Replat, massiccio degli Écrins: prima ascensione polacca alla parte sinistra della parete sud (con M. Łukaszewski). 06.08.1973 Monte Bianco: prima ascensione polacca della via Major alla parete est (con M. Łukaszewski, B. Kozłowska e J. Kurczab). 12–14.08.1973 Petit Dru: ascensione lungo una via nuova sulla parte sinistra della parete nord (con M. Łukaszewsk e e W. Kurtyka).

10.08.1978 Tirich Mir East, 7692 m: via nuova (con T. Piotrowsk e e M. Wroczyński). 11.08.1978 Bindu Ghul Zom, 6340 m: prima ascensione lungo la cresta ovest (con T. Piotrowski e M. Wroczyński).

ALPI NEOZELANDESI 19.02.1981 Malte Brun, 3176m: via nuova al centro della parete sud ( con L. Musioł e R. Warecki). 20.02.1981 Malte Brun, 3176m: via nuova sul lato destro della parete ovest (con L. Musioł e R. Warecki). 27.02.1981 Traversata dal Mount Hicks, 3183m al Mount Dampier, 3440m (con R. Pawłowski e K. Wielicki).

Elenco delle principali ascensioni 453


HIMALAYA e KARAKORUM Autunno 1977 Nanga Parbat, 8126m: tentativo lungo la parete sud-est; altitudine raggiunta circa 7950m – con M. Piekutowski e M. Pronobis (spedizione del Club d’Alta Montagna di Katowice guidata da A. Zyzak). 04.10.1979 Lhotse, 8516m: via comune lungo la parete ovest – con A. Czok, J. Skorek e A. Heinrich (spedizione del Club d’Alta Montagna di Gliwice guidata da A. Bilczewski). 19.05.1980 Everest, 8848m: via nuova lungo il pilastro sud – con A. Czok (spedizione nazionale polacca guidata da A. Zawada). Autunno 1981 Makalu, 8463m: tentativo di apertura di via nuova, altitudine raggiunta circa 8000m – con A. Mclntyre e W. Kurtyka. 15.10.1981 Makalu, 8463m: via nuova in solitaria e in stile alpino (spedizione internazionale guidata da W. Kurtyka). 30.07.1982 Broad Peak, 8051m: via classica, in stile alpino – con W. Kurtyka. 07.1982 K2, 8611m: tentativo di salita lungo una via nuova; altitudine raggiunta circa 7400m – con W. Kurtyka. 23–24.06.1983 Gasherbrum II Est, 7772m: prima ascensione, lungo la cresta est, in stile alpino – con W. Kurtyka. 29 06–1.07.1983 Gasherbrum II, 8035m: via nuova, in stile alpino – con W. Kurtyka (spedizione di due persone guidata da W. Kurtyka). 19–23.07.1983 Gasherbrum I, 8080m: via nuova, in stile alpino – con W. Kurtyka (spedizione di due persone guidata da W. Kurtyka).

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15–17.07.1984 Broad Peak, 8051m: via nuova, traversata delle vette nord e 7490m e centrale 8011m, in stile alpino – con W. Kurtyka. 07.1984 Biarchedi, 6781m: prima ascensione, in solitaria, in stile alpino. 21.01.1985 Dhaulagiri, 8167m: prima invernale lungo la via classica, con A. Czok (spedizione del Club d’Alta Montagna di Gliwice guidata da A. Bilczewski). 15.02.1985 Cho Oyu, 8201m: prima invernale, via nuova lungo il pilastro sud-est – con A. Heinrich (spedizione polacco-canadese guidata da A. Zawada). 13.07.1985 Nanga Parbat, 8126m: via nuova con C. Carsolio, A. Heinrich e S. Łobodziński (spedizione del Club d’Alta Montagna di Cracovia guidata da P. Mularz). 09.10.1985 Lhotse, 8516m: tenativo di salita lungo una via nuova, altitudine raggiunta circa 8150m (spedizione del Club d’Alta Montagna di Katowice guidata da J. Majer). 11.01.1986 Kangchenjunga, 8586m: prima invernale, con K. Wielicki ( spedizione del Club d’Alta Montagna di Gliwice guidata da A. Machnik). 08.07.1986 K2, 8611m: via nuova, in stile alpino, con T. Piotrowski (spedizione internazionale guidata da K.M. Herrligkoffer). 09.11.1986 Manaslu Est, 7922m: prima ascensione durante la salita alla vetta principale con C. Carsolio e A. Hajzer. 10.11.1986 Manaslu, 8156m: via nuova, in stile alpino con C. Carsolio e A. Hajzer (spedizione guidata da J. Kukuczka).


03.02.1987 Annapurna I, 8091m: prima invernale lungo la via dei primi salitori (da nord) con A. Hajzer (spedizione del Club d’Alta Montagna di Katowice guidata da J. Kukuczka).

18.09.1987 Shisha Pangma, 8013m: via nuova lungo la cresta ovest, in stile alpino, con A. Hajzer (spedizione guidata da J. Kukuczki).

31.08.1987 Yebokangal Ri, 7365m: via nuova e prima ascensione alla vetta, in stile alpino con A. Hajzer.

13.10.1988 Annapurna e Est, 8010m: via nuova lungo la parete sud, in stile alpino, con A. Hajzer (spedizione del Club d’Alta Montagna di Katowice guidata da J. Kukuczka).

18.09.1987 Shisha Pangma West, ok. 7950m: via nuova e prima ascensione alla vetta, in stile alpino (durante l’ascensione alla vetta principale) con A. Hajzer.

24.10.1989 Lhotse, 8516m: tentativo di salita lungo una via nuova sulla parete sud, altitudine raggiunta circa 8380m (spedizione guidata da J. Kukuczka).

Elenco delle principali ascensioni 455


Perché prendere a modello Jerzy Kukuczka e il suo alpinismo pulito e leale? Proprio perché nel suo esempio c’è tutto il rispetto e la coerenza delle regole del gioco, che nell’alpinismo è fondamentalmente quello di affrontare onestamente l’impossibile, non di demolirlo. — Walter Bonatti, dal libro Jerzy Kukuczka – al quattordicesimo cielo

Andare in montagna non era un capriccio. Le montagne controllavano i nostri corpi e le nostre menti. — dal film JUREK, di Pawel Wysoczanski

Non ho scalato le montagne per raccontarlo. L’ho fatto per me stesso; era una cosa personale. — dal film JUREK, di Pawel Wysoczanski

€ 22,00

ISBN 978 88 55470 667


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