MULTIPITCH nelle VALLI TORINESI

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Torino, teatro della metamorfosi

Dall’alpinismo eroico all’arrampicata sportiva

Per poter cogliere al meglio le sensazioni che le vie presenti in guida vi offriranno è indispensabile un piccolo inquadramento storico. Proprio Torino è stata infatti la città della metamorfosi, della rivoluzione e dell’evoluzione. A metà degli anni ’60 sono stati risolti tutti i grandi problemi delle Alpi e la naturale propensione umana verso la ricerca del limite spinge gli alpinisti a ripercorrere le vie già esistenti in invernale o in solitaria. Il concetto di arrampicata libera ancora non esiste, i chiodi sono usati come appigli per le mani, e le staffe, come appoggi per i piedi. L’obbiettivo del gran penare che il raggiungimento della cima richiede è la cima stessa. Una gara di celodurismo, dove la croce di vetta è l’unica cosa che conta. Torino, che dagli anni ’30 è la casa di grandi nomi dell’alpinismo, rimane assopita, il suo territorio non offre cime ardite dove mettere alla prova la resistenza umana, è necessario aspettare ancora qualche anno perché diventi finalmente il palcoscenico culturale e sportivo del cambiamento. Che gli alpinisti americani fossero più preparati di quelli europei fu palese già negli anni ’60, quando i californiani, venuti in trasferta sul Monte Bianco, lasciarono inebetite e accigliate le guide dai maglioni di lana cruda grigioverdi e dai calzoni di fustagno verdegrigi. E ne avevano ben donde: perché in quel momento preciso l’alpinismo divorziava dall’etica, e non era più necessario essere un cavaliere senza macchia e senza paura per sfidare la verticalità e danzare sull’abisso. Nemmeno farsi il segno della croce. Lo si poteva fare a torso nudo o in reggiseno, con al collo una japa e biascicando un mantra.

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L’alpinismo stava perdendo la propria eroica sacralità. La meta non era più la croce di vetta, ma il modo in cui la si raggiungeva. Se a Courmayeur si accorsero subito di questa evoluzione, per il resto d’Italia non fu così. Le notizie circolavano lente e quando arrivavano erano pochi quelli che dopo aver arricciato il naso con altezzoso disprezzo si interrogavano su ciò che stava succedendo. C’era bisogno di un catalizzatore che portasse sulle Alpi le nuove idee e le rendesse comprensibili per il vetusto ambiente alpinistico nostrano. Infatti, le cose iniziarono a cambiare qualche anno dopo, nei primi anni ’70, con l’arrivo di un giovane e promettente alpinista con baffi e occhiali che iniziò a diffondere il verbo, prima traducendo gli articoli della rivista Ascent, poi trasferendo il concetto californiano sulle nostre pareti, quelle adiacenti a Torino. Il suo nome era Gian Piero Motti. Egli diede una scossa alle polverose sedi dei nostri Club Alpini e mise in luce un aspetto nuovo, anche se intrinseco, dell’andare in montagna che fino ad allora era ancora un tabù: l’introspezione, la dimensione spirituale, la ricerca di sé stessi attraverso l’azione. L’alpinismo non era più un’azione esasperata ed eroica, ma un’azione sinuosa, spensierata e gioiosa. Non è necessario salire La Poire per sentirsi appagati, ci si può sentire allo stesso modo su un masso di pochi metri in bassa valle, o sulle pareti di Caprie. Il movimento che nacque da questa ventata di aria fresca prese il nome di Nuovo Mattino. Inizia nell’autunno del 1972 sulle pareti di Balma Fiorant, quando Gian Piero Motti, Guido Morello, Flavio Leone e Ugo Manera salgono le verticali pareti del Caporal. Pare di essere in California, la roccia è un bel metagranito e


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