La Lucciola - Luglio 2020

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La Lucciola

luglio 2020


INDICE

07/2020· lucciolamanara.wordpress.com

3 - EDITORIALI 6 - Glocalizzazione Jacopo Augenti

8 - #immuni Sergio Golino

10 - L’intervista Niccolò Rosi

14 - Metamorfosi inverse Maria Guerrieri

16 - IT’S NETFLIX TIME Cesare Nardella

18 - Dove nascono le idee immortali Marta Sarro

20 - NDE: Near Death Experiences Camilla Marconi

22 - L’intervista a Luigi Serafini Gabriele Ascione

26 - È ancora possibile la poesia? Arianna Belluardo

28 - Equus

Fiamma Manicelli

29 - COMPONIMENTI CREATIVI

Direttori: Riccardo Magnanelli e Jacopo Augenti Vicedirettori: Bianca Della Guerra e Maria Guerrieri Caporedattori: Irene Zebi, Niccolò Rosi, Giulia Appetiti, Marta Sarro, Filippo Perticara Social Media: Alessandra Gugliotta e Irene Presutti Progetto grafico: Riccardo Magnanelli e Alessandro Iacovitti Copertina: /Retro copertina: Lorenzo Melchiorri/Agnese Mariani Logo: Andrea Satta e Lapo D’Alessandris

LA LUCCIOLA LÀSCIATI ILLUMINARE.

lucciola.manara@gmail.com lucciolamanara.com @lucciolamanara La Lucciola https://issuu.com/laluccio lamanara

Si desidera ringraziare tutti coloro che hanno contribuito a realizzare il numero che avete tra le mani: i Manarioti autori degli articoli, dei componimenti creativi e delle illustrazioni, la Segreteria, il Docente Referente Giulio De Martino, il Dirigente Scolastico, e in particolare Loredana Polentini per la passione e la dedizione da sempre dimostrate nei confronti del nostro giornale. IL GIORNALE INTERAMENTE FATTO DA STUDENTI DEL LICEO CLASSICO “LUCIANO MANARA”


EDITORIALI IMPRONTE

di Riccardo Magnanelli

Tutti gli esseri umani, sin da quando la nostra specie ha preso coscienza di sé, hanno cercato di lasciare una traccia, qualcosa che permettesse loro di essere ricordati. Se c’è una cosa che ho imparato dopo aver letto, tradotto e studiato decine di letterati e filosofi per cinque anni è che la vita è caduca e il tempo che abbiamo a disposizione in questo strano universo è un lasso terribilmente ristretto per le nostre potenzialità. Ed è forse per questo motivo che abbiamo la scrittura e le arti: certo, sono strumenti che ci hanno permesso di condividere pensieri, idee, prospettive, ma intrinsecamente a questi pilastri fondanti della nostra umanità c’è il solo desiderio di oltrepassare i limiti della nostra vita, permanere nella memoria degli altri eternamente. Pensiamo semplicemente alle impronte di mani lasciate dagli uomini primitivi di 40000 anni fa nelle caverne: non sappiamo perché i nostri antenati lasciarono questi disegni, ma possiamo supporre che fossero proprio il modo migliore che conoscessero per dimostrare ai posteri che loro erano passati di lì, che erano vivi. Oppure pensiamo alle opere d’arte di tutti gli artisti susseguitisi in questi anni, di cui apprezziamo la bellezza o il loro significato e grazie alle quali gli artisti sopravvivono tuttora nei libri di storia dell’arte. E i greci classici per i quali gli eroi, morendo, pur non potendo godere della divinità per più di un solo attimo, raggiungono l’immortalità grazie al ricordo degli uomini. E magari, indirettamente, è proprio a questo bisogno primario di non sparire che assolve La Lucciola da quando con Aureliano è nata, nel 2001. Non fraintendetemi, non voglio fare paragoni azzardati, ma nel piccolo della mia vita scolastica ‘A ‘UCCIOLA si è effettivamente rivelata un mezzo importante per lasciare qualcosa di personale ad una scuola che, a suo modo, in questi ultimi anni mi ha cresciuto. Un modo per dimostrare che anche noi della generazione Z siamo degni di memoria e che, alla faccia di chi ci considera buoni solo a spizzare Instagram, siamo capaci di grandi cose di cui andare fieri e per cui essere ricordati, come la stessa cura di un vero giornale, siamo esseri pensanti, siamo vivi. La mia vita non è nemmeno all’inizio del suo terzo decennio ma già ora c’è un limite che sto per valicare, oltre cui non so cosa mi aspetti. Il futuro che ho davanti è incerto, sicuramente diverso dalla mia esperienza passata: compagni di banco, di classe, di teatro, di MUN, di redazione; ore di lezione, di buco, in corridoio; la mia giornata era scandita da una campanella difettosa, da una bustina di pizzette e dalle lamentele su quel professore o quell’altro con gli amici. Impossibile non citare quindi la situazione attuale, che ci ha impedito di sorridervi distribuendo questo fascicolo e annunciando il nostro trionfale arrivo come arrotini e ombrellai o, banalmente, di vivere la noiosa routine a cui tanto – almeno io – mi sono affezionato. Ormai mi resta solo una cosa da dire a questo austero edificio, a chi vi lavora, a chi vi ha studiato e a chi vi sta ancora studiando: grazie, perché voi avete voluto lasciare nel mio cuore un disegno pigmentato della vostra mano per il quale sarete sempre felicemente ricordati. Spero che, con le mie azioni, con le mie parole e con questo giornale, abbia lasciato in voi la mia impronta.

4 MARZO, ULTIMO GIORNO DI SCUOLA di Jacopo Augenti E dunque ci siamo. Ma dove? Dove siamo? Per quanto ne sappiamo ci siamo nel tempo, scuola sta finendo, questi sono gli ultimi giorni da calendario, eppure fisicamente non ci siamo. Fisicamente siamo fermi a marzo, magari con qualche chilo in più (o in meno per gli sportivi), siamo immobili. Fissi a guardare uno schermo illuminato che ora chiamiamo “scuola”, siamo rimasti immobili a fissare sul divano quella conferenza stampa che inizialmente ci ha fatto gioire: abbiamo saltato verifiche e interrogazioni; ma che adesso con tutti noi stessi ripudiamo. Questo virus mi ha portato via qualche progetto, qualche idea, un paio di ansie -almeno all’inizio-, ma soprattutto, mi ha portato via da scuola in anticipo. Forse il mio editoriale d’addio dovevo scriverlo del numero immediatamente successivo al lockdown, eppure eccomi qui, come ogni giorno, davanti al computer. Niente più chiacchierate con Francesco e Loredana tra un’ora e l’altra, niente più discussioni con la preside, sono finite anche le risate che ci facevamo in cortile e le sigarette che fumavamo di nascosto. A marzo ho perso tutto ciò, quel quattro marzo, un giorno come tutti, quello è stato il mio ultimo giorno di scuola, l’avessi saputo prima avrei salutato con un abbraccio ognuno di voi, ogni singolo studente, studentessa e student* del Manara. Perché tutti mi avete cambiato, certo qualcuno in maniera più “significativa”, ma tutte, tutti e tutt* voi mi avete dato qualcosa, anche non volendo, anche se vi sono sempre stato sul cazzo. E poi La Lucciola. Entrata prepotentemente nella mia vita due estati fa, mi ha fatto conoscere persone straordinarie (due delle quali saranno direttrici l’anno prossimo) e fare esperienze indimenticabili. Non posso rimanere troppo vago, qualcuno lo devo citare: ai miei più grandi amici, sapete chi siete, grazie di avermi reso una persona migliore; al mio avversario politico, Filippo Gattini, dico grazie di avermi aperto gli occhi su molte cose pur avendo meno esperienza di me; alla professoressa che mi ha seguito per cinque anni, che mi ha visto crescere e che -in parte- mi ha cresciuto come una “Zia”, per lei il grazie è quantomeno doveroso, ma in questo caso veramente sentito; infine grazie a tutt*, tutte e tutti voi compagni in un viaggio che si è concluso prima del previsto. Non dimentichiamoci che sono 100 aziende a produrre il 73% delle emissioni globali di CO2 nell’atmosfera, ma oggettivamente. Tornerò a trovarvi, quando il più grande ladro di tempo degli ultimi settantacinque anni sarà stato sconfitto. Non sono più uno studente del Manara, ma sarò sempre un manariota.

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COMPAGNI

di Filippo Perticara

Eccoci qua, no non è l’inizio di una maratona Mentana, ma l’unico modo simpatico che ho trovato per iniziare questo editoriale. Siete abituati a leggere la mia firma sotto gli articoli di attualità, spero mi perdonerete se invece di trovare la puntuale analisi politica, vi lascio con questo incrocio tra lettera ed editoriale che altro non è se non il mio saluto al giornale, ma soprattutto alla grande scuola che mi ha accolto per cinque anni e che spero continui a stampare questo giornale. Stampare: non ho usato questo verbo perché il più comune quando si parla di un giornale, ma perché torno a ribadire come ho sempre fatto in questi anni, di cui gli ultimi due passati nella redazione, che La Lucciola è nel rito delle copie stampate da Loredana e poi distribuite a ricreazione nelle mani di tutti gli studenti e lasciate nelle classi. La Lucciola è nella soddisfazione di aprire e vedere come è stato impaginato il proprio articolo. La Lucciola è un giornale che vive sulla carta e tale deve rimanere. Ciclicamente si propone di tagliare il numero di copie perché è una spesa per la scuola o perché bisogna essere ecologici. E io che avevo la presunzione di farlo eliminando la mole di carta che va prodotta anche per la più banale richiesta a scuola, come in qualsiasi ente pubblico. Non me la prendo con nessuno, ma dato che ogni anno ritorna la solita proposta ci tengo a fissare qui, su carta, la mia opinione che è senza dubbio quella di tutte le redazioni che si sono avvicendate negli anni. Questo discorso non vale solo per il nostro giornale, ma per tutta l’informazione. Sono ben consapevole dei vantaggi della tecnologia, ma non lasciate morire la carta stampata perché nulla può sostituire l’andare a riprendere la copia conservata di un giornale e risfogliarlo lasciando venire alla mente i ricordi. Concluso il capitolo “feticismo per la carta”, voglio ringraziare questo spazio che mi ha sempre offerto le sue colonne per far arrivare a chi mi leggeva ciò su cui sentivo il bisogno di accendere e dirigere un faro. Fare questo da un periodico mi ha dato la possibilità di approfondire e riflettere prima di ogni parola senza dover sentire l’urgenza dell’uscita imminente, anche se il più delle volte questo ha provocato le ire di Jacopo, a cui però voglio tanto bene e ringrazio per aver diretto questo giornale insieme a Riccardo con tutti gli oneri a cui non si sono mai sottratti neanche con la maturità alle porte. Se La Lucciola è preziosa perché è cartacea in un’epoca segnata da un dominio tecnologico sempre più avanzato, perché spazio di approfondimento curato nei minimi dettagli, tutto questo lo deve al contesto in cui è nata e continuerà a crescere e migliorare: il Liceo Classico Statale “Luciano Manara”. Qui si fa scuola con la S maiuscola, perché in una piccola realtà di una stradina di Monteverde c’è una scuola che ti non ti lascia mai indietro, da tutti coloro che vengono a scuola anche la domenica perché l’orientamento non è lasciato al caso, passando per due colonne portanti e oso dire istituzioni di questo Liceo come i mitici Giovanni e Deborah ( vi saluto per nome) che fanno le ore piccole per pubblicare la circolare o organizzare la supplenza, fino a ogni singola persona che contribuisce a rendere il Manara “oggettivamente, la scuola più bella del mondo”. È una scuola dove “ a scuola non si fa politica” è un concetto che non è mai entrato e mai dovrà farlo, perché come fa la fucina delle nuove generazioni, il luogo dove i giovani formano le proprie menti, a non essere politica. Come fai a studiare i più grandi pensatori e non sentirti in dovere di dire la tua sulla notizia di oggi e fare a testate, metaforicamente, con il mio omonimo dal cognome felino che vuole fare la rivoluzione pure per il rubinetto che perde o che decide di rappresentare la Cuba di Fidel in quel fantastico progetto che è il MUN. Questo intendeva Calamandrei quando diceva che la prima istituzione democratica è la scuola, o almeno io così interpreto e metto in pratica quelle parole dette agli studenti milanesi che tutti dovremmo leggere. Questo e molto altro è il Manara, e la Lucciola sarà sempre un megafono acceso per i suoi studenti. Ora immaginateci abbracciati in cortile, tutti noi terzi, e sappiate che quando perdiamo le nostre corde vocali a dire che “ questi sono e resteranno per sempre i migliori anni della nostra vita”, non stiamo solo portando avanti una tradizione , ma vi stiamo raccontando una verità innegabile che viene dal cuore e ora sta nelle lacrime che mi scendono mentre scrivo. Spero che abbiate letto qualcosa che già sapevate o altrimenti vi invito a scoprirlo presto e rendervi conto di quanto sia enormemente bello tutto ciò. Lasciatemi concludere nel modo più familiare, Ciao Compagni

LASCITI

di Giulia Appetiti

Scrivo questo editoriale a quindici giorni dalla maturità, con mille preoccupazioni e ancora più ansie che mi affollano la mente. Negli anni passati mi sembrava che la maturità fosse qualcosa di lontano e quasi non ci pensavo, invece ora è alle porte e non assomiglia minimamente a come l’avevo immaginata. Ogni tanto penso a quell’ultimo giorno di scuola e a come io non riesca a ricordare fino in fondo come l’abbia trascorso. La cosa che so è che era un mercoledì come un altro, ma niente di incredibile era successo. Era una giornata pesante e volevamo andare tutti a casa a preparare le valigie per partire per i 100 giorni. Chi l’avrebbe detto che quella sarebbe stata l’ultima campanella che avremmo sentito nella nostra vita da liceali. Mi ricordo l’ultimo giorno di scuola dell’anno scorso: eravamo tutti in cortile e dalle casse era partita “notte prima degli esami”; ho visto i ragazzi dell’ultimo anno prendersi per mano in cerchio per poi cantarla a squarciagola, con le lacrime che rigavano i loro volti. Mi ricordo che osservavo i loro sguardi pieni di amore, paura, ricordi, dolore, e immaginavo quando

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anche io mi sarei ritrovata a guardare negli occhi i miei amici durante l’ultimo giorno di scuola, ricordando tutti i momenti passati insieme. Penso alla me che ha varcato quel cancello rosso cinque anni fa: mi sentivo sola, incompresa ed insicura. Già dai primi giorni capii che invece sarebbe tutto cambiato, e so che quella ragazzina ora sarebbe molto fiera di me. Tanti piccoli momenti e scelte mi hanno portata ad essere quella che sono ora e mi hanno aiutata a trovare persone con cui spero di passare tutta la mia vita. Non riesco ad esprimere a parole tutto ciò che devo a questa scuola, nella quale ho trovato una seconda famiglia, e, pensando a tutto l’amore che ho provato dentro a queste mura, già sento la vista appannarsi e le lacrime scendere. Qui ho passato i giorni più belli e più brutti della mia vita, ho riso e ho pianto, ho fatto i miei primi litigi, ho abbracciato e preso a spintoni, ho provato ansia e stress come mai prima, e, soprattutto, ho conosciuto persone meravigliose. Eppure a questo punto, a due settimane dalla maturità, mi rendo conto che tutta quell’ansia in fondo era inutile e che tra vent’anni, l’unica cosa che ricorderò non saranno i voti, ma i momenti che mi hanno resa quella che sono, i preparativi per le uscite con gli amici di sempre, lo scherzo al compagno di banco, le torte e i fiori per i compleanni, i viaggi con il MUN, la settimana bianca, le file alla macchinetta, le entrate tattiche in seconda. Pensare che non mi sono potuta godere gli ultimi mesi di scuola è un dolore lancinante al petto, perché so che non potrò mai averli indietro. L’idea che l’anno prossimo sarà tutto diverso mi lascia senza parole… non farò trecento metri per arrivare a scuola, non berrò il tè seduta al mio banco chiacchierando, non aprirò più il famigerato Rocci, non camminerò tra i corridoi del sotterraneo e molto altro ancora. Nonostante ciò mi rendo conto che è arrivato il momento di lasciar andare questo posto, di lasciarlo nelle mani di coloro che cominceranno a settembre. So che se li incontrassi direi loro di vivere al massimo questi cinque anni, di non stare troppo in ansia per le verifiche, di fare pace con quell’amico, di andare in cortile a ricreazione, di fare più corsi possibili e di far sentire la loro voce, perché è più importante di quanto pensano. La verità è che il tempo vola, e, prima che se ne possano accorgere, si ritroveranno come noi dell’ultimo anno a dire addio a questo posto magico, quindi spero siano in grado di farlo senza avere rimpianti. Per concludere, vorrei semplicemente dire grazie, di tutto. Lascio qui, al liceo Manara, un pezzetto di cuore.

Non spegnete la luce.

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ATTUALITÀ

Glocalizzazione autonomie e Unione locali Europea

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’ giusto parlare allo stesso tempo di una più forte Unione politica in Europa e di maggiori autonomie alle nostre regioni? La risposta può sembrare ovvia, parrebbe incoerente voler cedere una parte di potere politico ad un ente sovranazionale e allo stesso tempo rafforzare le amministrazioni regionali, ma è necessario fare un più ampio ragionamento. Prima di tutto: perché ritengo sia necessario rafforzare l’Unione Politica? Per rispondervi, mi faccio aiutare dai fatti recenti, dove tutti vedono un fallimento dell’Unione Europea: di fatto è così, ma analizziamoli più del dettaglio. Dopo il lockdown, l’Italia ha dovuto fronteggiare da sola la crisi sanitaria e ha chiesto aiuto all’UE per le misure economiche: la risposta? Diciamo che la prima a rispondere è stata Christine Lagarde, presidente della BCE, che ha dichiarato “io non posso fare nulla se lo Spread in Italia sale”, facendo registrare

alla Borsa di Milano un -12% (giornata poi chiusa col -6%) che non si vedeva dal 1945. Dopo lo scivolone dell’anziana conservatrice, il segnale è stato opposto, la Commissione Europea ha messo in campo un piano rivoluzionario: oltre alle misure di emergenza già esistenti e rafforzate (MES, Meccanismo Europeo di Stabilità a cui ogni Stato può ricorrere volontariamente, e SURE, fondo per il sostegno all’occupazione, quindi aiuti europei per la Cassa Integrazione) la Commissione ha proposto al Consiglio Europeo altre due misure, i famosi Coronabond (dei bot, o prestiti a lungo termine praticamente, emessi dall’Unione con interessi molto bassi) ed il Recovery Fund (un nuovo fondo per le emergenze gravi a cui possono ricorrere gli Stati Membri). La maggioranza del Consiglio Europeo, organo in cui si riuniscono i Presidenti del Consiglio dell’Unione oltre al Presidente della Commissione Europea, era favorevole a tali misure, ma purtroppo -in Consiglio- non basta avere la maggioranza per approvare un provvedimento, è necessaria l’unanimità degli aventi diritto. Dopo una lunga contrattazione con quei pochi stati contrari, è stato necessario eliminare dalla proposta il sistema dei Coronabond, bocciato anche del Parlamento Europeo con il voto contrario dei gruppi parlamentari di destra e centro. E’ notizia di qualche settimana fa, che la proposta iniziale di Francia, Germania e Commissione Europea per il nuovo Recovery Fund era quella di un fondo che avrebbe garantito, ai Paesi richiedenti, un finanziamento con prestiti esclusivamente a fondo perduto, sostanzialmente un prestito di cui non si impone la restituzione né del capitale né degli interessi maturati. Anche questa proposta è stata contrattata con alcuni Paesi, che da subito si sono mostrati contrari, arrivando a una proposta finale veramente importante: un maxi stanziamento di 750 miliardi (di cui 172 vanno all’Italia), pari a circa 42 leggi di

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storicamente contraria, è stata affascinata in parte dalla nuova proposta del presidente dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini. Bonaccini si è infatti accorato alle voci dei presidenti di Lombardia e Veneto (tutti di destra), chiedendo anche per la sua regione un regime particolare di autonomia rispetto alla politica del governo, escludendo però la scuola, materia che deve rimanere di competenza del Governo. Da una bellissima discussione che ho avuto modo di intrattenere con la Vice Presidente Emiliano Romagnola Elly Schlein, è emersa una posizione interessante. La Schlein, inizialmente scettica sul tema delle autonomie è adesso convinta che sia necessario dare maggiore voce in capitolo a chi conosce il territorio e sa quali sono le criticità e le necessità, è chiaro che ad esempio sui Fondi Strutturali Europei, le regioni, responsabili di indire i bandi per la messa a disposizione di tali fondi, abbiano maggiori poteri e responsabilità. A livello europeo quindi, la Vicepresidente si è detta convinta della necessità di una maggiore rappresentanza regionale, coniugando così i due temi: il Parlamento Europeo viene eletto sulla base di circoscrizioni composte da 5-7 regioni, dare maggiori poteri al Parlamento e alla Commissione (eletta dal Parlamento) presuppone necessariamente una maggiore partecipazione delle Regioni nei processi decisionali dell’Unione. Al nostro Paese verranno dati tra non molto 172 miliardi di euro, sarebbe più giusto gestire questi soldi a livello centrale o dare maggiore spazio decisionale alle Regioni, amministrazioni composte da persone che sul territorio hanno sempre lavorato, che conoscono problemi, criticità e che sono esperte del funzionamento dei meccanismi amministrativi? JACOPO AUGENTI

bilancio annuali italiane, in parte a fondo perduto, in parte con normali prestiti a basso interesse. Il problema che emerge è quindi che tutti i piani economici audaci messi in campo o richiesti dagli organi politici dell’Unione (che hanno poteri limitati) come Commissione e Parlamento, vengono silurati o smorzati in maniera importante dal Consiglio Europeo, dove, se anche un solo Paese non è d’accordo, non viene approvata nessuna mozione. E’ fondamentale capire che la risposta a questa situazione non è togliere fondi e poteri all’UE, ma l’esatto opposto: se la Commissione ed il Parlamento avessero una maggiore capacità decisionale, se al Consiglio Europeo non ci fosse il meccanismo dell’unanimità, se le istituzioni dell’Unione Europea avessero più indipendenza politica e potere sugli Stati Membri, oggi l’Europa sarebbe veramente diversa. Sogno una Confederazione Europea, uno stato in cui i Paesi Membri conservino una propria autonomia in determinate materie, ma cedano le decisioni in campo, ad esempio, fiscale ad un governo centrale. Rebus hic stantibus, troviamo una delle più importanti aziende in Italia, che fornisce migliaia di posti di lavoro del nostro Paese, la Fiat, con la sede legale in Olanda, dove le tasse per le multinazionali sono bassissime. Un’Unione Europea i cui Stati sono costretti a competere per politica fiscale non può funzionare: si parta da qui: unità fiscale e tasse uguali in tutti gli Stati Membri, con le dovute accortezze. Ma ora veniamo al tanto discusso e complesso tema delle autonomie differenziate. Tema che ha diviso il governo Gialloverde: da una parte la Lega ed il centro-destra che erano a favore di concedere importanti poteri alle amministrazioni regionali, dall’altra parte il Movimento Cinque Stelle che si è opposto, parlando di “regioni di serie A e di serie B”, e allora il PD?! A parte gli scherzi, la sinistra non ha portato una linea chiara, sebbene

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#immuni sicurezza e prevenzione a quale prezzo?

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rmai siamo entrati nella fase 2, ma chi garantisce la nostra invulnerabilità al virus, in che modo possiamo tutelarci? In questo caso la risposta è l’app “immuni”, certamente ne avrai sentito parlare: applicazione che dovrà essere installata da almeno il 60% della popolazione, ma entrando più nel dettaglio è facile comprendere che ci sia qualcosa che stona, e non sembra la comune applicazione per il cellulare. Per evitare la nascita di nuovi focolai infettivi i nostri politici e scienziati hanno deciso di sfruttare il contact racing, attraverso l’app “immuni”: il nostro cellulare utilizza la tecnologia bluetooth per entrare in contatto con i device circostanti muniti del software in questione e che ovviamente abbiano attivato il bluethoot; nel caso in cui siamo stati a contatto per un determinato lasso temporale, che per ora è di 15 minuti, con un utente che nell’arco di due

settimane sia risultato positivo al coronavirus, ci arriverà un notifica per avvertirci del fatto che potremmo aver contratto il virus. La cosa più logica in ambito informatico è che un software abbia una preparazione tecnica molto accurata alle sue spalle, ma in questo caso, prima di parlare di tecnicismi informatici, dobbiamo ricordarci che alla base del buon funzionamento dell’applicazione ci debba costantemente essere un numero considerevole di tamponi effettuati. Problema di fondamentale importanza è che ad oggi non sono presenti obblighi per le persone che ricevono l’avviso da parte dell’applicazione circa la loro possibile avvenuta contrazione del virus; ma il problema non è solo questo: da chi, e soprattutto come, saranno gestiti questi dati? Riguardo la gestione dei dati è in atto una discussione che vede ai due poli, da una parte, i sostenitori del sistema centralizzato, dall’altra, i sostenitori di un sistema decentralizzato. Come si può facilmente intuire il modello centralizzato prevede l’archiviazione dei dati dei vari utenti in un unico luogo, l’opposto del sistema decentralizzato che prevede l’archiviazione dei dati del singolo utente sul proprio device. Non credo ci sia molto da stupirsi se scoprissimo che coloro che sono a favore del sistema centralizzato abbiano interessi politici ed economici, ed infatti è proprio così.

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L’Italia come altri sette paesi europei ha deciso di sfruttare il contact racing fornito dalle multinazionali Google e Apple che, con i loro sistemi operativi cioè android e IOS, ricoprono il 99% dei device mondiali. Come abbiamo già detto sarà l’app “immuni” che in Italia si occuperà del contact racing, ma quello che non abbiamo ancora detto è che sono presenti degli interessi commerciali da parte di “illustri” personaggi, per l’esattezza: Eleonora, Barbara e Luigi Berlusconi. Dietro “immuni” è presente un’azienda di nome Jakala, la quale vede come nomi di spicco i tre figli di seconde nozze di Silvio Berlusconi, già citati, insieme a Giuliana Benetton, tutti cognomi abbastanza conosciuti. Partiamo dal principio e andiamo con ordine. L’idea di “immuni” nasce dalla società Bending Spoons, creatrice di svariate applicazioni per il fitness e non solo, ma da quello che ha affermato la ministra Pisano questa applicazione avrà un sistema decentrato, quindi sicuro, anche se non è proprio così. Nella pubblicazione dei documenti da parte del ministero dell’Innovazione, oltre al nome di “immuni”, è presente anche quello di Arago, società del tedesco Hans-Christian Boos, uomo che ha puntato tutto sulle nuove tecnologie, consigliere digitale di Angela Merkel, famoso perché la sua Argo è diventata un affare da milioni di dollari e anche perché ha sempre cercato di sfruttare il bluethoot per controllare i vari spostamenti dei civili; peccato per lui che anche la Germania ha successivamente optato per il contact racing fornito da Google e Apple. L’introduzione di Argo nella messa a punto di “immuni” implica la realizzazione di un sistema centralizzato e decentralizzato allo stesso tempo, poiché i dati presenti nel cellulare saranno costantemente sincronizzati con i dati archiviati in un unico luogo, come se ci fosse

un unico enorme server che possedesse i vari back up di tutti gli utenti. La ministra Pisano ha negato ogni rapporto di “immuni” sia con Arago che con Jakala e ha anche affermato che “immuni” è in cantiere e vede come fautori il suo ministero e Bending Spoons. Ma qui sorge un dubbio: se “immuni” è in realizzazione ora, secondo quali criteri è stata scelta? Purtroppo la risposta non ci è dato saperla, anche se voci di corridoio suggeriscono che ci sia stata una intercessione da parte degli 007 italiani. Sempre la ministra Pisano ha però detto che i dati saranno trattati da SoGEI e PagoPA, organi statali che si occupano di telematica. Così come i dati sono raccolti da organi statali, quindi pubblici, sarà la stessa cosa per il codice sorgente dell’applicazione, da poco reso pubblico. Dobbiamo anche considerare che i dati saranno conservati in maniera anonima o sotto pseudonimo; nel caso in cui siano anonimi non si presenterebbe alcun problema, ma nel caso in cui si presentassero sotto pseudonimo, chi ci potrebbe garantire che qualcuno non possa usare lo pseudonimo per risalire alla vera identità dell’utente ed usarla in malafede? Nel caso in cui questi dati fossero conservati in una struttura centralizzata, chi potrebbe averne accesso? Nel caso in cui i dati venissero conservati nei nostri cellulari, chi potrebbe garantire che Apple e Google non possano accedervi, visto che sono loro stessi a fornirci la tecnologia? SERGIO GOLINO

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SCIENZA

Intervista al professor Guido Silvestri SARS-CoV-2, Scienza, Conoscenza, Ottimismo e i Maestri Jedi.

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essuno di noi si sarebbe mai aspettato un inizio di 2020 tanto drammatico. Mentre scrivo una mail al professor Guido Silvestri (patologo, immunologo, virologo, divulgatore scientifico e accademico, da anni professore ordinario e capo dipartimento di Patologia all' Università Emory di Atlanta , direttore della Divisione di Microbiologia e Immunologia allo Yerkes National Primate Research Center , membro dell’ Emory Vaccine Center e editore di Journal of Virology , la più antica e citata rivista di virologia al mondo) chiedendogli di poterlo intervistare, perché sia la voce più autorevole della scienza a spiegarci cosa ci ha piegato e piagato in questi ultimi 90 giorni, penso ai miei compagni che non vedo da mesi, alla socialità interrotta, agli esami stravolti, ai ricordi che, inevitabilmente per molti di noi, soprattutto al terzo anno, non saranno mai quelli che sono stati per le generazioni precedenti e sui quali sono stati scritti film e canzoni, tanto risultavano urgenti nella memoria. Mi ha colto una tristezza improvvisa, che, per fortuna, le parole della Scienza hanno

spazzato velocemente via. Il virus si è preso tre mesi. Ci ha costretti in angoli difficili e solitari, ha colpito con forza tutte le generazioni di italiani, e non solo quelle della scuola. Abbiamo pagato un prezzo altissimo, e osservato indifesi mentre i nostri medici e ricercatori provavano a scrivere una pagina diversa della storia che leggeremo fra alcuni anni. Quella della Scienza è una fratellanza potente, un po’ come quella dei Jedi. A volte discussa, insensatamente. Perché sarà quella forza potente e luminosa a portarci fuori di qui, oggi, come in passato e come sempre. Ho chiesto al professor Silvestri solo alcuni minuti, perché il suo tempo deve essere impiegato altrove. Alle risposte ho integrato altre sue dichiarazioni approvate, che, per correttezza, riporto in virgolettato. Spero che il mio prossimo articolo su questo giornale sia scritto dopo una lunga e stancante giornata di aula. Dopo le serate a scherma e il cinema con gli amici. Dopo una cena al ristorante ed il festeggiamento di un compleanno. Dopo nuovi abbracci, baci, pacche sulla spalla e scherzi in cortile. Dopo un viaggio tutti insieme. Semplicemente dopo. Voglio concedermi questo ottimismo, e mi affido alla Grande Fratellanza degli Scienziati che in ogni angolo del pianeta stanno combattendo e fiaccando giorno dopo giorno il virus, per noi, per i loro figli, La Grande Fratellanza degli Scienziati in assemblea per sconfiggere il virus

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per l’umanità che verrà. Perché la presenza della Scienza è la vera, grande differenza tra oggi ed il 1348 della morte nera, o il 1630 della peste manzoniana, o il 1918 dell’influenza Spagnola. E la presenza della Scienza è il motivo fondamentale per cui SARS-CoV-2 è un virus senza speranza. Che la forza sia con voi!

Perché in alcuni pazienti si ha una sovrarisposta immunitaria, di cui abbiamo imparato a conoscere la pericolosità, mentre altri si mantengono essenzialmente asintomatici? Non lo sappiamo ancora... ma vedrai che entro un anno lo avremo scoperto!

Professor Silvestri, ci spiega cosa è un virus in parole semplici?

Che prospettive realistiche e promettenti ci sono nella ricerca di un vaccino efficace e/o una cura?

I virus sono le più piccole entità viventi, ed infatti sono incapaci di vita autonoma. Secondo alcuni non sono neanche esseri viventi in senso stretto, ma approfondire significa entrare in questioni più semantiche che scientifiche.

Le prospettive a mio avviso sono eccellenti. Direi 12-18 mesi per un vaccino, e forse anche prima per delle cure efficaci. I vaccini più promettenti al momento sono quelli che inducono la produzione di anticorpi che neutralizzano il virus, prevenendo il legame tra la proteina Spike (S) (precisamente la sua subunità S1, e all’interno di questa, il cosiddetto “receptor binding domain”, RBD) e il recettore cellulare ACE2, un ectoenzima che sta sulla superficie di cellule dell’epitelio respiratorio, oltre che sulle cellule endoteliali nei vasi sanguigni. Se si blocca l’inte-

A quale classe appartiene il nuovo coronavirus? Beh, è un tipico coronavirus, un virus a RNA a "catena positiva", quindi capace di essere immediatamente tradotto in proteine. Come avviene il salto di specie, e come pensa sia avvenuto nel caso specifico del nuovo coronavirus? La teoria prevalente è che sia passato dal pipistrello all'uomo, passando per il pangolino. Tieni presente che i salti di specie non sono affatto rari per i virus, e che i pipistrelli sono serbatoio di moltissimi di questi. Come avviene l’attacco all’essere umano, attraverso quali canali di accesso? L'infezione da nuovo coronavirus (SARS-CoV-2) avviene quasi esclusivamente per via respiratoria, ovvero inalando materiale che contiene particelle virali.

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razione tra S1-RBD ed ACE2, il virus non ha vie d’accesso alla cellula e diventa quindi incapace di replicarsi e di trasmettersi. Gli studi più estesi sulla sequenza genica di S1, ed in particolare del RBD, indicano che questo virus ha una capacità di mutare piuttosto bassa, soprattutto se paragonata ad altri virus come quello dell’HIV o dell’influenza stagionale, il che lo rende abbastanza vulnerabile agli anticorpi. Questo è un naturalmente un motivo di grande ottimismo-aggiunge il professor Silvestri- così come lo è la ormai nota osservazione che i pazienti guariti da COVID-19 e con anticorpi IgG nel siero non sembrano potersi ammalare per una seconda volta, per lo meno sulla durata breve. Lo scenario più roseo dunque, è quello di un vaccino che induce la produzione di anticorpi neutralizzanti contro S1, in grado di conferire una protezione sterilizzante a tempo indeterminato. Scenari meno rosei, ma sempre altamente positivi, riguardano altresì lo sviluppo di un vaccino che protegga dalle conseguenze più severe dell’infezione, come l’ormai celeberrima polmonite interstiziale, ma non dalla colonizzazione delle vie aeree superiori, provocando dunque un banale raffreddore, ma non inibendo la circolazione del virus; o di un vaccino che conferisca una protezione limitata nel tempo, che dovrà dunque essere re inoculato ad intervalli regolari. Dal punto di vista delle cure farmacologiche, è invece notizia oramai accertata e supportata, da un importante studio del New England Journal of Medicine, che il Remdesevir sia l’antivirale dotato di maggiori prospettive terapeutiche. Secondo

quanto riportato dalla rivista scientifica infatti, dato confermato dal professor Silvestri in una sua incoraggiante nota dello scorso 30 aprile, una significativa efficacia del farmaco viene comprovata sia da un sensibile calo della mortalità sia da un abbreviamento dei tempi di guarigione. Il Remdesivir, a seguito dell'approvazione del Comitato etico, da oggi (26 maggio ndr), viene inoltre testato a Trieste e Udine nell'ambito della sperimentazione multicentrica coordinata dall'Oms. Se si contrae la malattia dunque, si ottiene un’immunità temporanea o definitiva? Questo lo dirà il tempo, ovviamente. Se ci basiamo sui precedenti di altri coronavirus, l'immunità dovrebbe durare per lo meno 2-3 anni. Ritiene che la stagione calda a cui andiamo incontro, la quale avrà un effetto depotenziante sul virus, potrebbe essere un momento in cui mettere in atto una strategia di immunizzazione di gregge, o il rischio è troppo sbilanciato rispetto al beneficio? E' una domanda molto difficile. Tutto lascia presagire che questo virus abbia un andamento stagionale a preferenza invernale, e quindi la stagione estiva dovrebbe ridurre sia i contagi sia i morti. Perché, secondo lei, il nuovo coronavirus ha messo in crisi i sistemi sanitari mondiali? Perché è un virus nuovo per il quale non esiste né una cura né un vaccino. Ma stiamo facendo grandi progressi, e credo che molto presto vinceremo questa battaglia. Quali misure sarà conveniente mettere in atto, a livello personale, a fine pandemia, soprattutto fra giovani adulti? Aumentare il livello di igiene personale è probabilmente la cosa più importante. Ed imparare ad apprezzare tutte le fortune che si hanno. Che non sono poche, aggiungo io, e la ringrazio per il tempo che ci ha riservato. Chiudo ricordando però le 10 importanti lezioni che il professor Silvestri ci lascia a fronte dell’evento epocale della pandemia, lezioni che ci auguriamo rimangano scolpite a fuoco vivo nella pietra delle nostre istituzioni, ovvero: “1. INVESTIAMO NELLA SCIENZA, A TUTTI I LIVELLI, E PROTEGGIAMOLA DAI CIALTRONI. Niente se non la scienza può salvarci da una pandemia. E sappiamo bene che questa non è la prima né sarà l’ultima. Quindi ricordiamoci di supporta-

Il professor Guido Silvestri

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re e proteggere la scienza, non solo quando ce la facciamo addosso per un nuovo virus, ma anche quando tutto sembra andare bene. 2. SOSTENIAMO L’EDUCAZIONE ALLA SCIENZA E ALLA CULTURA IN GENERALE, A PARTIRE DALLE SCUOLE Perché la scienza va insegnata, spiegata, divulgata a tutti, grandi e piccini, ma soprattutto a partire dalla scuola, elementare, media e superiore, investendo le dovute risorse e sviluppando sempre di più una classe insegnante all’altezza di questo compito importantissimo. 3. SOSTENIAMO LA SANITA’ PUBBLICA, NEGLI OSPEDALI E NEL TERRITORIO, E RESTITUIAMO DIGNITA’ AGLI OPERATORI DELLA SALUTE L’altro pilastro contro una pandemia sono gli operatori sanitari: medici, infermieri, biologi, tecnici di laboratorio, e tutti quanti. Ricordiamoci di loro e ringraziamoli dei tanti sacrifici di questi mesi. Investiamo inoltre le risorse necessarie affinché la sanità pubblica italiana non perda la sua eccellenza.

7. COORDINIAMO LA RISPOSTA A LIVELLO NAZIONALE ED INTERNAZIONALE Parlo di coordinazione tra regioni (in Italia) e tra stati (in Europa e nel Mondo), senza stupide gare a chi è il più bravo. Vuol dire collaborare nel gestire la pandemia, a livello di dati, di screening, di procedure, e via dicendo; con leader che si aiutano, anziché bisticciarsi, e una Oms che serva da guida scientifica e sanitaria.

4. RICORDIAMOCI DELLE MALATTIE INFETTIVE, CHE PRESENTANO SFIDE UNICHE ALLA SANITA’ PUBBLICA Le malattie infettive pongono delle sfide uniche al servizio sanitario per due caratteristiche fondamentali: arrivano ad ondate (creando il funesto “sovraccarico ospedaliero”) e contagiano il personale. Per questo richiedono un’infrastruttura specifica e dedicata, che va creata e mantenuta.

8. RICORDIAMOCI DELL’IGIENE PERSONALE, CHE CONTA PIU’ DI MILLE GUANTI E MASCHERINE Perché tante piccole norme d’igiene personale, dal lavarsi o disinfettarsi le mani di frequente, all’evitare di tossire e starnutire en plein air, così come leccarsi le dita mentre si mangia o quando si sfoglia un giornale, davvero non costano nulla.

5. PREPARIAMO FIN DA ADESSO OSPEDALI E RSA AD UNA POSSIBILE SECONDA ONDATA Dobbiamo essere pronti a una nuova ondata di COVID-19. Per questo occorre una struttura sanitaria strategica di riserva che consenta – se necessario ed in tempi rapidissimi – di attivare nel territorio fino a 10.000 posti letto di terapia intensiva in isolamento (2.5 volte il picco di ricoveri in terapia intensive per COVID-19 nel marzo scorso), con immediata disponibilità di personale, apparecchiature, eccetera.

9. FACCIAMO INFORMAZIONE SERIA SENZA CATASTROFISMI E SENSAZIONALISMI 10. SE DI UN ARGOMENTO SAPPIAMO POCO, ASCOLTIAMO IN SILENZIO.” Concludiamo la nostra conversazione augurandoci che la navigazione nello specchio di mare, compreso fra lo scoglio della vita libera e lo scoglio del Covid – 19, avvenga utilizzando un radar molto migliore, ovvero quello del monitoraggio e della sorveglianza epidemiologica, ma soprattutto confidando nella grande forza della Fratellanza della Scienza, l’unica che potrà eliminare per sempre questo nemico oscuro dalle nostre vite.

6. FACCIAMO MONITORAGGIO DELL’IMMUNITA’, DEI NUOVI CASI E CONTACT TRACING. Il monitoraggio virologico e sierologico della popolazione (a campione e ripetuto ad intervalli regolari) è l’equivalente del radar nella nostra navigazione attorno al grande scoglio di COVID-19. Senza monitoraggio le chances di andare a sbattere di nuovo aumenteranno moltissimo.

NICCOLÒ ROSI

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LIBRI

Metamorfosi inverse

L

L’Inversionismo è nel libro un’ideologia economica e sociale che si basa sulla totale inversione dell’economia. Tu hai un lavoro. Per svolgere questo lavoro devi pagare il tuo datore. Per guadagnarti dei soldi devi fare la spesa e ottenere più merci che puoi, per le quali ricevi un prezzo a merce. Una volta avuti i soldi della spesa, non li puoi accumulare, perciò li depositi in banca, ma con un alto tasso di interesse negativo. Per evitare di veder sparire i tuoi risparmi, sei portato a cercarti un lavoro migliore e che quindi costi di più. Per pagarti il lavoro fai sempre più spesa. In questo modo la gente è portata a consumare sempre di più e a svolgere un lavoro di qualità. Questo è l’Inversionismo e la politica rivoluzionaria di cui Jim Sams si fa portatore. Una politica catastrofica che porterà inevitabilmente all’impoverimento della gente. E allora perché attuarla? “Perché sì”. Così risponde Jim Sams quando la cancelliera tedesca, durante un incontro privato, gli chiede perché voglia mettere a repentaglio la politica del suo stesso paese. Politica che il paese invece sembra apprezzare (almeno a livello teorico). Infatti il popolo si invaghisce di questo nuovo Primo Ministro inglese, che attacca sprezzante i cosiddetti Cronologisti, ovvero le persone legate al mercato tradizionale, è il resto dell’Europa e del mondo che si chiede che cosa stia passando nella testa di Jim Sams. Infatti, questa inversione economica, ovviamente, non funziona in un mondo globalizzato. Per renderla veramente possibile tutti i paesi, e non solo il Regno Unito, dovrebbero attuarla. E prima di seguirla, devono necessariamente permettere al Regno Unito di renderla realizzabile, ovvero rompendo qualsiasi legame con quel paese. È su questo che punta Sams: che il regno Unito si ritrovi da solo come prima potenza economica e che necessariamente i paesi europei, per non ritrovarsi indietro e perdere un grande partner economico,

o scarafaggio è l’ultimo libro di Ian McEwan, uscito poche settimane fa. Jim Sams, abituato al suo corpo da scarafaggio, si sveglia una mattina con le sembianze di un uomo. Esatto, un’opera di ispirazione Kafkiana dove il protagonista non è una normale persona a ritrovarsi nel corpo di un orrido scarafaggio, ma è un normale scarafaggio a ritrovarsi nel corpo di un orrido uomo. Infatti, Jim Sams non è una persona qualunque, ma è il Primo Ministro inglese. Da moderato quale sembrava essere, diventa per l’opinione pubblica un eroe populista portavoce del movimento dell’Inversionismo.

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invertano anch’essi la loro economia Dunque Jim Sams sfrutta ogni pretesto per creare una crisi diplomatica con gli altri paesi europei, aiutato dal nuovo sentimento patriottico e nazionalista che serpeggia tra la gente, e per attaccare personalmente i loro presidenti e alcuni dei suoi stessi colleghi di Gabinetto che osano dire che quest’Inversionismo forse non pare una grande idea. Brutta fine farà infatti il Ministro degli Esteri, che Sams costringe alle dimissioni dopo aver diffamato la sua immagine. Ma Jim Sams non è solo. Gode dell’appoggio di Archie Tupper, presidente degli Stati Uniti, pronto anche lui ad invertire la politica del suo paese. Jim Sams non è neanche l’unico scarafaggio ad essersi svegliato membro di un governo: molti dei suoi ministri infatti sono anch’essi scarafaggi diventati uomini per compiere una grande missione. La missione sarà svelata solo alla fine di questo amaro e satirico romanzo di McEwan. Inutile dire che questo libro è una feroce satira contro il Premier inglese Boris Johnson, trasformato dall’autore in un viscido, egocentrico e populista scarafaggio. Archie Tupper rappresenta Donald Trump, un altro sovranista (e forse scarafaggio anche lui), che appoggia la scelta del Regno Unito di allontanarsi dall’Europa. L’Inversionismo rappresenta il fenomeno della Brexit, caldeggiato da un popolo invaso da un inutile sentimento nazionalista, che non risolve però i veri problemi che l’Europa e il mondo stanno affrontando. La ragione che porta a questa separazione tra Europa e Regno Unito non esiste, o meglio, è un puro desiderio di autodistruzione. Questo libro però non racconta solo della follia

della Brexit, ma mostra il clima divisivo che attualmente c’è in Inghilterra e la superficialità e il populismo malato che caratterizza spesso la politica di tutti i paesi. Ian McEwan non è molto ottimista, non pensa che la società e la politica, così corrotte moralmente, possano risollevarsi tanto facilmente. Anzi, vede solo futuri peggioramenti. E a giudicare da come il suo Primo Ministro ha affrontato la pandemia del Coronavirus (evento successivo alla scrittura di questo libro) direi che ci aveva visto giusto. MARIA GUERRIERI

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CINEMA

IT’S NETFLIX TIME

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rmai tutti abbiamo Netflix. Ammettiamolo, questa piattaforma su cui vedere film e serie tv di ogni genere fa ormai parte della nostra quotidianità; ogni volta che entri trovi qualcosa di nuovo e accattivante ed è per questo che Netflix è diventato così popolare, per la vasta scelta che propone. Personalmente, nonostante abbia visto dei miglioramenti, considero Netflix una buona piattaforma più per le serie tv che per i film, e per questo oggi vi parlerò di alcuni prodotti facenti parte della categoria “serie tv” su Netflix che trovo interessanti e che vi voglio consigliare. Iniziamo dalla serie tv “Pose”; questa serie ambientata nel 1987 a New York, racconta la vita della comunità LGBTQ+ all’interno delle Ballroom, ovvero luoghi dove si partecipava a competizioni dette "ball", cioè balli, durante le quali alcuni partecipanti sfilano, altri ballano, altri ancora competono in modalità "drag queen" o in modalità "drag king", secondo categorie stabilite per emulare altre identità di genere. La maggior parte dei partecipanti dei "ball" appartengono a dei gruppi conosciuti come "Houses" o Case. La serie tratta tematiche legate alla discriminazione nei confronti della comunità LGBTQ+, della comunità afroamericana e riguardo alla diffusione dell’AIDS; questi temi si alternano a momenti di pura follia, che ti fanno cadere in un mondo meraviglioso fatto di trucchi e paillettes. “Pose” è composta da due stagioni, la prima è ricca di energia e divertimento, mentre la seconda risulta più drammatica visto l’arrivo improvviso dell’AIDS, che avrà gravi ripercussioni sulla comunità. Gli attori sono perfetti per i loro ruoli e le loro performance sono eccezionali, vi colpiranno le diverse storie dei personaggi che si incontrano in questa fiaba glitterata. La prima stagione di “Pose” ha ri-

scosso molto successo tato da aver vinto ben due Golden Globes: uno per Migliore Serie Drammatica e l’altro per Miglior Attore in una Serie Drammatica a Billy Porter. E’ inoltre in arrivo una terza stagione, che personalmente attendo con ansia, visto quanto questa serie mi abbia rapito. “Pose” è un ottimo prodotto che riesce ad equilibrare commedia e dramma e che risulta veramente meraviglioso! L’altra serie tv di cui vi voglio parlare è “Hollywood”. Questa miniserie che si svolge nella Hollywood del secondo dopoguerra, vede un gruppo di registi e aspiranti attori che cercano di farsi strada nello scintillante mondo dello spettacolo. Parto col dire che le atmosfere di questa serie tv sono fantastiche: la Hollywood degli anni d’oro del cinema è rappresentata perfettamente in tutte le sue sfaccettature. La realtà cinematografica ha anche un lato nascosto: cosa c’è dietro alla creazione di un film? E soprattutto, cosa c’è dietro ad un film che cerca di essere innovativo e che prova a distruggere i pregiudizi delle persone? In “Hollywood” troverete la risposta. Il cast è fenomenale, ogni personaggio ha una propria storia e più si prosegue più si aggiungono novità… Ad ogni episodio ti viene voglia di andare avanti, visto che per raggiungere i loro obiettivi i protagonisti dovranno superare molti ostacoli. “Hollywood” è la serie perfetta per chi ama il cinema e per chi ama le favole con morali ricche di significato attuale. Entrambe queste serie tv sono create da Ryan Murphy, che ormai ha le mani in pasta ovunque. Riesce sempre a creare delle atmosfere perfette e porta sempre nuovi contenuti all’interno dei suoi lavori. Detto questo vi auguro una buona visione! CESARE NARDELLA

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IDEE

Dove nascono le idee immortali

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uesto mese sono 28 anni. 28 anni dalla scomparsa di un uomo, non uno qualsiasi. E dopo tutto questo tempo ci ricordiamo ancora di salutarlo, come fosse la prima volta, o l’ultima, dipende da che lettura vogliamo attribuirgli. Ogni 23 maggio ci ricordiamo dell’esplosione, delle urla, dei pianti, della disperazione nei volti del popolo italiano. 57 giorni dopo facciamo lo stesso per la fine di un altro grande uomo, ricordandoci solo il frastuono dei 90 chilogrammi di tritolo. Risentiamo nella testa quelle 3 parole strazianti “E’ tutto finito”, pronunciate dal magistrato Antonio Caponnetto. E’ una storia fatta di numeri, una memoria costituita da ore, dati, età, calcoli, minuti, numeri civici, secondi, coordinate… Ma in fondo, cosa bisogna veramente ricordare? Solo la tragedia? Le morti? Tutti i numeri che le descrivono? La vita umana non è fatta di questo, di cifre e percentuali. Ogni nostro gesto è creato da parole, idee, sentimenti. Non si è mai solo personaggio, e sicuramente non viviamo per rappresentare la nostra fine. Ecco perché bisogna raccontare il resto, i respiri che c’erano dietro.

Per celebrare la memoria di Giovanni Falcone, in occasione dell’anniversario della strage di Capaci, mi servo delle parole e della storia di Vincenzo Perrini, collega ed amico del magistrato Falcone, per essere finalmente davvero Capaci di ricordare. “Non è mai facile parlare di Giovanni” è la prima dichiarazione che mi viene riferita, inconfutabile più che mai, come se non fosse difficile parlare di antimafia in generale. La vicenda del dottor Perrini parte dal 1990, quando venne traferito da Torre Annunziata a Palermo. E lì divenne capo della criminalpol della zona. Il primo ricordo che mi viene raccontato è un’immagine vivida, inevitabilmente accompagnata da un sorriso. Il primo incontro del nuovo capo con il magistrato Falcone. “Mi disse di essere contento del mio arrivo, considerava ottimo ciò che avevo portato a termine nella mia carriera fino a quel momento. Non vedevo l’ora di iniziare, e lui con me”. Immagino che quella prima stretta di mano non sancisse semplicemente un patto tra procura e polizia, ma fosse testimone di un’alleanza tra uomini veri, non supereroi immortali. “Lavorare a Palermo non era facile. Sembra ovvio che coloro i quali si occupano di combattere scempi e criminali siano aiutati. Ma io lavoravo con i legacci, in una continua interferenza con altri uffici, nemmeno ero in grado di poter scegliere chi avere con me. Un esempio che ricordo è quello di un indagine molto importante, l’attentato al giudice Livatino, ucciso dalla Stidda agrigentina. Il caso però dovetti lasciarlo incompiuto, lo fecero passare ad un altro ufficio. Il margine d’azione era uno spazio chiuso, claustrofobico. Anche Falcone lo sapeva. Era una percezione costante”. E’ vero, sentire queste parole sembra assurdo. E’ inconcepibile sapere che lì non erano aiutati, ma anzi, presi di mira. Quindi si è in errore quando si pensa che Falcone fosse stato appoggiato nella sua lotta, dal primo momento. Non lo è stato mai, per tutta la sua vita, se non da pochissimi. Era come se lavorasse in quello che potremmo definire ufficio di fine cura: trascurato dal centro e non supportato

Vincenzo Perrini con sua moglie

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to vero nel suo campo, non perdeva mai di vista i suoi obbiettivi e la sua resilienza era fenomenale. Ma non era solo questo. Infatti sono felice di averlo conosciuto al di fuori dell’ufficio. Ricordo le nostre partite a pallone, la conoscenza con la sorella, i giochi di carte, le serate con le nostre mogli. Lì non si parlava di lavoro, ovviamente. Questo credo sia fondamentale, Giovanni era Giovanni anche e soprattutto nella quotidianità. Per questo le sue idee sono immortali. Non si può dimenticare di raccontarlo.” Questo era l’eroe dei nostri giorni, un uomo comune. Era lui a combattere i cattivi. La sua umanità non glielo impediva, anzi lo fortificava. Saper essere ed esistere, nonostante ciò di cui si occupava tutti i giorni, nonostante la consapevolezza che la mafia fosse ovunque con i suoi viscidi tentacoli, lo aveva reso la persona che oggi ricordiamo. Era il suo essere un uomo come gli altri a rendere straordinaria la sua battaglia. Ecco, non bisogna nascere in un certo modo per lottare contro chi vuole spegnere la libertà della gente, basta esistere, essere umani, armare il proprio animo fino ai denti. Avere coraggio non è un atto da supereroi, ma può averlo chi gioca a carte, chi ama il gelato al mango, Chi legge i libri di Hugo… Non ha importanza, serve solo avere umanità. Giovanni Falcone disse: “gli uomini passano, le idee no. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini.” Lasciate che ognuno di noi sia le sue gambe, il corpo di quell’uomo che dicono di aver ucciso, ma continua a urlare le sue idee nei nostri animi ogni giorno. Lasciate che i vostri padri, nonni, zii e amici vi educhino a questi valori, come ha fatto Vincenzo Perrini con figlie e nipoti. Così i suoi ideali potranno rinascere in migliaia di persone. Così vinceremo noi e rivedremo l’alba. MARTA SARRO

dal sistema. Anche per questo, dopo meno di un anno, il dottor Perrini fece ritorno a Napoli, continuando a lavorare alla criminalpol, e per poi ritornare, dopo qualche anno, in Sicilia, a Catania. Nonostante non si possa solo raccontare della scomparsa del magistrato, è doveroso riportare anche questa. “Quel giorno del ’92 mi lasciò esterrefatto, inerme davanti a quella che sembrava la vittoria del nemico. Non trovo tante parole o aggettivi per descrivere quella scena, semplicemente orrenda.” Vi siete mai chiesti come è fatta la bocca dell’inferno? Dove si trova? Se per Dante l’ingresso dell’oltretomba era tra gli alberi della selva oscura e per Virgilio in una piccola località campana, è molto probabile che il 23 maggio del 1992 la porta degli inferi si trovasse proprio in Sicilia, a Capaci, sulla strada. Un cratere fisico, enorme, come se un artiglio dello stesso diavolo fosse arrivato dal magma al centro del pianeta e avesse trascinato con sé Falcone la moglie e la scorta, insieme all’asfalto, al cemento … Un atto di violenza inaudito, così eclatante da essersi portato via anche il sole e il cielo per delle interminabili ore. Quello squarcio nella terra fece congelare ogni pensiero, per giorni. Un dolore indescrivibile, lo stesso dolore che ho sentito nella voce rotta e tremante del mio interlocutore, quando ci si ricorda con che crudeltà inaccettabile abbiano spento il sorriso di quell’uomo. Ma la sua voce rimarrà sempre più forte di qualsiasi boato causato dal tritolo. Non l’ha fermato la macchina di fango che lo delegittimava, non sarà la morte a farlo. Così mi ha detto anche il dottor Perrini. “Sai, Giovanni l’hanno sempre tutti visto come un’icona. Prima per icona si intendeva qualcuno che traeva vantaggi dal lavoro di magistrato. Oggi rappresenta un simbolo, l’antimafia pura, insieme a Borsellino, Caponnetto, Francesca Morvillo… Come se la sua vita fosse stata solo quella, un’esistenza in procura. Certo, Giovanni aveva un talen-

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Near Death Experiences Q

uanto spesso ci è capitato, magari a causa dell’insonnia, di iniziare a riflettere e a ragionare circa pensieri non del tutto sconta-

Dunque, perché temiamo questo passaggio se non è altro che ciò da cui proveniamo? Forse perché non siamo in grado di ricordare direttamente cosa eravamo prima della nostra nascita e non possiamo sapere con certezza cosa saremo dopo la nostra morte. Purtroppo non sono in grado di dare una risposta a queste massime esistenziali, ma voglio parlarvi delle esperienze ai confini della morte, le N.D.E. appunto. Secondo il cardiologo olandese Pim Van Lommel, il quale ha dedicato l’intera esistenza a studiare tali fenomeni, queste esperienze che avvengono perlopiù negli stati di coma o di arresto cardiaco, rendono il viaggiatore che ritorna dalla premorte più fiducioso nel senso della vita. L’interpretazione delle esperienze al confine con l’al di là ha portato il medico olandese a formulare una concezione della realtà la quale ipotizza l’esistenza di una coscienza (assimilabile all’anima per i credenti) che si diffonde ovunque al di là dello spazio e del tempo. Il mondo scientifico invece spiega le esperienze

ti? Quello della morte è il tema che ronza maggiormente nella mia mente. Credo che questo sia un argomento alquanto delicato da affrontare; mi soffermerò brevemente con una riflessione su questo punto. Lo stereotipo generale ha una visione che spesso non coincide esattamente con la mia personale. Dopo una serie di approfondimenti sul tema sono arrivata ad una conclusione, che, seppur a prima vista possa sembrare totalmente insensata, racchiude al suo interno un percorso logico. La morte altro non rappresenta che il ritorno alla normale condizione dell’uomo; la vita è una situazione temporanea, di passaggio, preceduta e seguita da una condizione di non-esistenza, ovvero da due fasi analoghe (identificabili in modo differente a seconda della propria cultura).

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NDE come una residua attività cerebrale. Insomma, per la scienza non c’è nessun fantasma dentro la macchina, la macchina siamo noi e basta. Sempre secondo Van Lommel un’esperienza di premorte può essere definita come il ricordo di una serie di impressioni vissute durante uno speciale stato di coscienza, come un’esperienza fuori dal corpo, sensazioni piacevoli, la visione di un tunnel, della luce, dei propri cari defunti, il passare in rivista la propria vita, e il ritorno cosciente nel corpo. Tra le circostanze di una NDE abbiamo l’arresto cardiaco (morte clinica), uno shock a seguito di emorragia, un quasi affogamento, ma anche malattie gravi dove la minaccia di morte non è immediata, o addirittura durante episodi di depressione, isolamento o meditazione, e persino senza una ragione evidente.

Sempre secondo uno studio olandese, pubblicato dalla rivista scientifica inglese The Lancet, nel 2001, la metà dei pazienti che aveva avuto una NDE dissero di essere stati consapevoli di essere morti, e riferirono emozioni positive; il 30% disse di aver vissuto l’esperienza di un tunnel, osservato un paesaggio celestiale o incontrato persone decedute; all’incirca un quarto disse di aver avuto un’esperienza fuori dal corpo, di aver comunicato con “la luce”; il 13 % aveva passato in rassegna la propria vita e l’ 8 % aveva percepito la presenza di un confine. Grazie all’evoluzione della medicina e delle tecniche di rianimazione le NDE sono sempre più frequenti. Se un giorno venissero confermate dalla comunità scientifica le tesi del cardiologo olandese e si accertasse che la coscienza continua ad esistere dopo la morte, l’impatto sulla medicina sarebbe enorme in quanto imporrebbe una radicale modifica dei protocolli esistenti su come trattare i pazienti in coma o terminali. Certamente questa nuova frontiera della conoscenza impatterebbe anche sulle procedure alla fine della vita, sull’eutanasia, o addirittura sull’espianto di organi quando il corpo è ancora caldo ma è stata diagnosticata la morte cerebrale. Le ricerche sulle NDE potrebbero quindi cambiare il nostro punto di vista circa la concezione della vita e della morte. CAMILLA MARCONI

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Intervista a Luigi Serafini

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ittore, scultore, architetto, sognatore e viaggiatore onirico nel subconscio: Luigi Serafini (Roma, 1949) lavora da sempre nell’immaginario surrealista e i suoi disegni di creature e paesaggi fuori da questo mondo, sempre dal grande realismo artistico , hanno fatto strabuzzare gli occhi di critici, appassionati o di persone imbattute casualmente nel suo lavoro. Il Codex Seraphinianus, la sua opera più conosciuta, è un libro scritto e illustrato, tra il 1976 e il 1978, come una vecchia enciclopedia di fine ottocento: con tutte le didascalie e i disegni illustrativi (più di mille immagini!) ma il tutto scritto in una grafia indecifrabile, seppur bellissima nelle curve e nei ghirigori. Il Codex Seraphinianus è oramai diventata l’enciclopedia surreale per eccellenza, ed è stata molto apprezzata da personaggi come Italo Calvino, Federico Zeri, Giorgio Manganelli, Achille Bonito Oliva, Tim Burton, Douglas Hofstader e Philippe Decoufle’. Il libro sembra essere diviso in capitoli, ognuno trattante una diversa materia, quali la zoologia, la botanica, la mineralogia, l’etnografia, la fisica, la tecnologia e l’architettura. In molti cercano una qualche sorta di traduzione al codice dell’opera, nonostante l’autore abbia più volte ribadito che si tratta puramente una grafia asemica (senza nessun contenuto semantico), mentre altri sostengono che Serafini si sia rifatto al Codice Voynich, antico scritto medievale dalla scrittura ancora non decifrata.

segno si progetta e dopo si fa qualsiasi cosa; io sono sempre partito dal disegno, nel caso del Codex è evidente, però anche successivamente, anche quando ho fatto sculture e eccetera, sono sempre partito dal disegno. Non appartengo a quegli artisti che vanno a presa diretta, ho sempre bisogno di una serie di progetti per iniziare, e il progetto si fa disegnando. Per me il disegno è come la scrittura, alla fine uno scrive per raccontare ed anch’io disegno per raccontare, descrivere quello che magari poi farò. Per esempio, anche nel Codex ci sono tanti disegni che potrebbero diventare architetture, sculture, oggetti e quant’altro.

Come ti presenti?

Dato che lo hai già nominato tu, com’è che invece presenteresti il Codex a qualcuno che non lo conosce affatto?

Non c’ho mai una risposta, perché ogni tanto mi viene chiesto, dipende un po’ dall’umore del momento alla fine. Direi che sono un appassionato disegnatore fin dalla più tenera età, come tanti bambini, solo che non ho smesso, diciamo così, e ancora oggi disegno. E quindi il disegno è sicuramente il mio tratto caratteristico se mi devo presentare. E mi presenterei anche come disegnatore, se non avesse un senso un po’ deformato e riduttivo, io credo che il disegno per me sia stato fondamentale perché è la base di tutto: con il di-

Lo presenterei come un’ enciclopedia di un mondo alieno, non so quanto distante o se con delle intersezioni con il nostro. Un ottimo strumento, anche didattico, per esercitare la fantasia. Se ci fosse una materia come Fantasia, il Codex ne potrebbe essere il libro di testo. È da poco uscita una ristampa del manoscritto

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Voynich, viste le varie somiglianze con il Codex, sono in molti ad aver teorizzato una tua possibile ispirazione da quel libro.

segni, e fui molto deluso perché non trovai alcuna somiglianza, al contrario: il lavoro fatto durante il viaggio (come si chiamava all’epoca) era molto scadente. Evidentemente non c’erano delle forme di sintesi, di controllo, di analisi, di critica, tutta una serie di facoltà che erano temporaneamente sospese. Mi sono arreso di fronte al fatto che si tratta di semplice fantasia: se uno cerca una stimolazione chimica (ma anche alcolica) non funziona, perché la fantasia ha bisogno di una struttura per potersi muovere, altrimenti diventa nulla. È un cavallo pazzo, se uno non lo fa andare in una certa direzione, se non lo ingabbia, non porta a niente. Al massimo ho sempre ammesso di essermi fatto qualche bicchiere di Vaporicella (vino rosso del lago di Como), perché a Via Sant’Andrea delle Fratte ( dove ho realizzato il Codex), all’ epoca, c’era una trattoria dove si pagava poco. Quello è l’unico ricordo di un “aiuto”, a parte la presenza di una gatta, che mentre disegnavo si accoccolava sulla mia spalla, lei sicuramente mi ha aiutato.

La cosa è singolare perché il Codex è stato fatto nel 1981, mentre il Voynich fu trovato a Villa Mondragone a Frascati, che era all’epoca una residenza dei gesuiti, da questo bibliofilo mercante d’arte, che si chiamava appunto Voynich, il quale lo comprò dai Gesuiti. Dopo varie compravendite, ad un certo punto è stato donato alla biblioteca di Yale in America. Voynich era polacco, e per rimanere in ambito slavo, sembra che il manoscritto sia stato venduto a Rodolfo II imperatore del Sacro Romano Impero, appassionato di alchimia e occultismo. Tutto questo per dire che non c’è alcuna relazione con il Codex, tranne che una vicinanza curiosa: tra Villa Mondragone, che sta leggermente fuori Frascati andando verso il monte Porzio Catone, e il fatto che io da piccolo facevo sempre la scampagnata in famiglia fuori porta, e si andava a Frascati, pochi chilometri da Villa Mondragone. Ho sempre ritenuto che il codice sia stata una fregatura, prodotta da qualcuno con l’intenzione di venderla a un personaggio importante, come l’Imperatore appassionato di scienze occulte, un cliente facilmente raggirabile.

Noi siamo a conoscenza di tutti i tuoi lavori dopo il Codex, ma prima c’era stato qualche progetto che non ha mai visto la Luce? Io ho sempre disegnato, però negli anni ’70 ero andato in America, perché studiavo architettura e volevo conoscere l’ambiente newyorkese, e quindi ero molto focalizzato su una carriera d’architetto. Non immaginavo quello che avrei fatto dopo. Non si poté realizzare il mio sogno di entrare in uno studio di architetti a causa di una delle ricorrenti crisi economiche americane, gli architetti non assumevano studenti d’estate, come d’abitudine. Quindi cominciai a girare gli Stati Uniti in quattro mesi, e quando sono tornato, nel ’71, ho incominciato il Codex.

In molti ipotizzano che lei abbia fatto uso di stupefacenti durante la realizzazione del Codex. Molto spesso quando visito qualche blog, oppure Instagram, leggo che dicono “Ma che prendeva Serafini quando faceva il Codex?” Come se ci fosse un rapporto fra allucinogeni e Codex. Tra l’altro avevo fatto anni prima un’esperienza con la mescalina (allucinogeno) per vedere se c’era corrispondenza tra il viaggio psichedelico e i miei di-

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centro-sud. La nascita del libro è legata al Carnevale di Venezia, organizzato da Scaparro nel’79, per far rivivere l’antica festività, dove furono chiamati i migliori teatranti e Pulcinella da Napoli. E io fui chiamato a fare una maschera di pulcinella da portare sul Canal Grande in gondola, quindi andai a Venezia e lavorai a questa grande scultura, per la quale, sempre tornando al discorso di prima, feci molti disegni preparatori. Ne tengo una copia in miniatura nell’ingresso: è una grande maschera di Pulcinella, con un attore dentro che fa uscire le braccia dagli occhi della maschera e poi sbuca tra il cappello e la maschera, e poi sul cappello floscio tante teste di Pulcinella a scalare. E quindi disegnando questo Pulcinella, vennero fuori talmente tanti disegni che mi dissi: “Perché non fare un libro dedicato a Pulcinella?” Franco Battiato fece una serie di concerti improponibili e inascoltabili, al fine di distruggere il suo personaggio che si era creato dopo il suo grandissimo successo, per poter ricominciare da zero e far nascere il Battiato che noi conosciamo di più. Anche tu hai mai sentito l’esigenza di dover “distruggere” il tuo lavoro precedente per creare un nuovo inizio?

Girando per i social si trovano spesso artisti di stampo surrealista che inseriscono dei piccoli camei alle tue opere o talvolta piccoli plagi, come ti relazioni con il fatto di essere un punto di riferimento per diversi disegnatori ?

No, non ne ho mai sentito il bisogno e mi sembra un po’ una stronzata, scusate. Se penso che Manzoni ha riscritto i Promessi Sposi cinquanta volte, mi viene più da credere che questa sia una cosa legata a questioni di mercato, di narcisismo; sinceramente non lo capisco. Ma non è il primo. Questa cosa di dover dire “io ho finito quella fase, adesso ne comincio un’altra”, allora che vuol dire, che devi ricomprarti i dischi incisi da quel momento in poi, oppure se compri una vecchia incisione non vale più? Non mi sembra che grandi compositori se ne siano mai preoccupati, semmai sono i critici che definiscono le fasi di un’artista, ma uno che dice di cambiare fase… mi sembra una cosa talmente ridicola e non so che dire. Il percorso di un artista è chiaro che si evolve, magari cambia anche la sua vita, cambia città, tutte cose che incidono sulla sua creatività. Poi le ultime due edizione del Codex sono stato arricchite, come se fossero “aggiornate”: io continuo ad aggiungerci qualcosa. Non sono mai entrato in competizione con me stesso, mai ho pensato che il Codex non facesse vedere altro che ho fatto.

Mi fa sentire bene, come anche questa moda o interesse per i tatuaggi con i disegni del Codex. Il pensiero che una persona che si porti un’immagine del Codex per un arco di tempo, mi affascina; magari il libro sarà scomparso e ci saranno ancora persone che gireranno con un mio disegno. Il tuo ultimo libro è stato Pulcinellopedia. Perché Pulcinella proprio tu, che non sei napoletano? Ma in realtà qualche contatto con Napoli ce l’ho, perché mia nonna paterna era di Pedaso, un paese del sud delle Marche, a 30 chilometri dallo storico confine con il Regno di Napoli, e il suo cognome era Di Giacomo, che in questo paese era conosciuto. Nella mia infanzia si parlava spesso di Salvatore Di Giacomo (poeta); non sapevo all’epoca chi fosse, poi una volta ne ho visto la foto e ho visto che era identico a mio zio. Tra l’altro i genitori di Salvatore di Giacomo erano abruzzesi, poi si erano trasferiti a Napoli. Fatta questa premessa fantasiosa, Pulcinella in realtà nasce all’inizio degli anni ottanta per una ragione. Altra premessa: Pulcinella in realtà è stato punto d’interesse per altri artisti romani ottocenteschi e c’erano anche commedie, non solo in napoletano, con Pulcinella protagonista. Questa premessa per dire che Pulcinella era molto presente anche nel Lazio, soprattutto nel

Come Sean Connery e James Bond? Hai detto proprio una cosa giusta, la stavo per dire prima. Lui odiava proprio James Bond, e ad un certo punto finì in clinica, talmente era confuso e disorientato su se stesso. Questa confusione che c’è tra realtà e finzione mi fa pensare a questa sto-

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le. Qual è il tuo consiglio per un ragazzo che si affaccia nel mondo dell’arte?

ria di santi: la vicendia di San Ginesio, un pagano grande attore dell’epoca di Diocleziano. Fu chiamato dallo stesso imperatore, incuriosito dai cristiani che lui stesso perseguitava e dalla loro storia che poco conosceva, a mettere in scena la vita dei cristiani (una specie di Discovery Channel). Così San Ginesio preparò questo spettacolo istruttivo. Avviene questa rappresentazione, ma gli attori, che avevano studiato la vita dei cristiani, interpretarono i personaggi talmente bene, che arriva lo Spirito Santo direttamente sul palcoscenico e li converte tutti. Per cui, a causa della loro bravura, c’è questo passaggio dalla finzione alla realtà. E alla fine dello spettacolo Diocleziano è costretto a farli fuori tutti. Infatti San Ginesio è il protettore degli attori.

Bisogna commettere una specie di esame, di autoanalisi. Fare lo storico, anche lì ci vuole passione, certo, ma nel fare l’artista… se non ci sono già state evidenti tracce di manualità, uno non arriva certo al terzo liceo e decide se fare farmacista, artista o geografo; è una cosa molto evidente. In musica è ancora più facile, si vede subito se hai un talento, è come se ognuno avesse una propria predisposizione. E se uno pensa di non aver ancora trovato nulla che faccia per lui? Mi sembra un po’ strano che uno arrivi a fine adolescenza senza segnali molto precisi in campo artistico, se parliamo di ambiti di storia dell’arte, penso che dovrebbe già manifestarli. Mentre in altri campi, anche in campi umanistici, c’è un ampio spettro. In ambito artistico uno dovrebbe aver dato dei segnali abbastanza forti, e semmai è l’intensità dei segnali la cosa importante: se uno vede che la libreria è piena di un particolare tipo di libri e non di altri, che di fronte a un’immagine contemporanea o antica uno ha una particolare attrazione… ecco, ci sono una serie di segnali che uno dovrebbe capire se esistono o meno. Oggi non credo ci siano più molte delle barriere di una volta. Nel mio caso, mio padre voleva facessi l’ingegnere; lui amava l’arte ma temeva la pratica dell’artista, il lato irrazionale, con le emozioni, terreni non facilmente identificabili; la pratica artistica è anche molto pesante, va bene se hai riconoscimento, ma è difficile. O hai il così detto successo, oppure non esisti. Però in generale si può dire che la pratica artistica richieda un grande sacrificio. L’arte è una cosa estrema (la pratica), non c’è alternativa. Il successo, spesso, neanche arriva da vivo, non c’è nessun’altra pratica dove questo accade. GABRIELE ASCIONE

Una volta mi raccontasti che la tua passione per il disegno era iniziata dalle fotografie degli animali. Ero appassionato di animali, e di natura in generale. Naturalmente ho incominciato copiando, copiando queste immagini che trovavo sulle prime riviste a puntate. La mia si chiamava “Natura Viva”. Passavo molto tempo a copiare queste immagini, ma davvero molto tempo, con grande preoccupazione dei miei genitori. Forse quella rivista è stato il primo serbatoio di immagini da copiare. Tu sei sia scultore che pittore, cos’è che ti da’ un impulso per fare un’opera a due o a tre dimensioni? Questo proprio non lo so, dipende veramente dall’umore, da tantissime cose. Dopo aver finito un’opera mastodontica come il Codex, non ti sei sentito completato, finito? Sicuramente ero contento di aver finito il lavoro, ma l’avevo interrotto perché l’editore era spaventato dai costi, io sennò avrei continuato. Così lui mise le mani avanti e mi disse: “fermati”, anche perché all’epoca fare una stampa a colori era un impegno abbastanza gravoso. Hai qualche futuro progetto in cantiere, di cui ci vuoi rendere partecipi? Questo non te lo so dire, perché non lo so neanche io! Noi siamo un liceo classico, ma abbiamo proprio classi aureus specifiche per lo studio dell’arte, e inoltre la rivista sulla quale verrà pubblicata quest’intervista ha sezioni artistiche molto bel-

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È ancora possibile la

poesia?

P

otrei scrivere fogli e fogli su quanto sia triste dire addio al Manara, quanto questa scuola mia abbia dato e quanto mi mancherà. Potrei scrivere fogli e fogli su tutte le cose che ho perso in questi ultimi mesi che abbiamo passato in quarantena. Potrei scrivere fogli e fogli su tutte quelle cose che avrei voluto fare prima della fine del liceo, tutti gli addii che avrei voluto dare al luogo che è stata la mia casa per cinque anni. Tuttavia, credo che sarebbe molto noioso, nostalgico e anche decisamente melenso. Quando mi sono iscritta al liceo Classico le cose che mi sono sentita dire (ma penso un po’ tutti) sono le solite: “il classico ti insegna a pensare”, “il greco è una palestra per la mente”, “il metodo traduttivo ti servirà all’Università”, e così via. Io ci ho sempre creduto, forse un po’ perché volevo essere sicura di aver scelto la scuola giusta, forse un po’ perché volevo tirarmela con i miei amici di altre scuole, ma tant’è. Ora come ora, dopo cinque anni di declinazioni, autori, versi; non mi sento di dire che la cosa più importante che ho imparato è stato il metodo con cui ho capito la legge di Grassman (sinceramente

non ricordo neanche cosa sia), che mi servirà nella mia brillante carriera futura, né che il mio cervello ha imparato a pensare più di quanto sapeva fare prima. Si parla molto, in alcune fazioni politiche, di abolire il liceo Classico. Ultimamente le iscrizioni vanno a gonfie vele, ma 4 o 5 anni fa, ci si chiedeva se il Classico avesse effettivamente un futuro, se fra 10,20,30 anni sarebbe ancora esistito. Perché è una scuola vecchia, perché il latino e il greco sono lingue morte, e anche tutti i poeti che studiamo, poi, nella vita pratica, non servono a granchè. La risposta a queste domande non è ribadire quanto il metodo con cui impari l’analisi del testo ti insegni a passare Analisi I (mi spiace futuri Ingegneri), o quanto fare le versioni ti insegni a capire la macroeconomia, perché, sinceramente, non è per questo che ho scelto questa scuola. Non è per imparare cose inutili, che però mi avrebbero insegnato un metodo che mi sarebbe servito più avanti.

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chiedono, ma a ben riflettere la risposta non può essere che affermativa. Se s’intende per la così detta belletristica è chiaro che la produzione mondiale andrà crescendo a dismisura. Se invece ci limitiamo a quella che rifiuta con orrore il termine di produzione, quella che sorge quasi per miracolo e sembra imbalsamare tutta un’epoca e tutta una situazione linguistica e culturale. Allora bisogna dire che non c’è morte possibile per la poesia.” (E’ ancora possibile la poesia? Eugenio Montale, discorso al premio Nobel 1975). Ecco, quando ho letto queste parole ho capito perché, 5 anni fa, ho scelto di fare il liceo Classico, e, guardandomi intorno in tutto questo tempo, ho capito perché ho scelto il Manara. Finchè ci sarà vita ci sarà anche poesia, e questo nessuno potrà mai portarcelo via. ARIANNA BELLUARDO

La corretta risposta a queste domande è che quest’ultime non colgono il punto, come quasi tutte le risposte che i politici si danno per risolvere i problemi del paese. La poesia, la letteratura, sono cose indubbiamente inutili. Non ti servono per fare la spesa, non ti servono per performare un’appendicectomia, e non ti servono per dare l’esame di Statistica. Ma è proprio questo il punto, noi non siamo nati per rispondere solo a questioni utili. La filosofia non nasce per rispondere a domande utili: cos’è l’uomo? Cos’è l’essere? E’ una domanda utile? Assolutamente no, ma è una domanda interessante. Il latino e il greco sono lingue interessanti, sono belle, sono appassionanti. Ma soprattutto, ha senso studiare lettere in un mondo che sta puntando tutto sulla globalizzazione, sulle nuove tecnologie, sul mercato? Probabilmente non ha senso. Tuttavia, la poesia è strettamente connessa alla vita. La letteratura e la filosofia (ma anche la fisica, per dire eh) non sono altro che strumenti che l’uomo sfrutta per risolvere le sue turbe più profonde. E’ dall’alba dei tempi che ci chiediamo perché siamo su questa Terra, che ci chiediamo perché ci fermiamo dal poter fare tutto quello che vogliamo, che ci domandiamo cosa sia la morale e chi l’ha creata. Chi ce l’ha imposta? Chi ha deciso che saremmo stati infelici e per sempre coscienti della nostra capacità di superare ogni limite ma impotenti, eternamente impotenti, nel farlo? E se per tutta la sua esistenza, l’uomo ha continuato, nonostante ogni tipo di progresso, a farsi le stesse domande, come si può pensare di smettere di fare poesia, di smettere di supportare la cultura e di studiare la letteratura? “In ogni modo io sono qui perché ho scritto poesie, un prodotto assolutamente inutile, ma quasi mai nocivo e questo è uno dei suoi titoli di nobiltà. […] Potrà sopravvivere la poesia nell’universo delle comunicazioni di massa? E’ ciò che molti si

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Equus

I

l cavallo è stato nei secoli un animale con il quale l’uomo ha sempre interagito, un animale che l’uomo ha imparato a domare, in modo tale da “usarlo” a suo vantaggio. Certamente c’è un’evidente sproporzione tra il peso e la forza di un cavallo e quella di un uomo, quindi può sembrare assurdo che l’uomo possa domare un cavallo, eppure è successo: questo animale è divenuto un ottimo aiutante per la coltivazione dei campi ed è stato utilizzato anche in guerra. I metodi di doma di quei tempi si sono evoluti e, per fortuna, oggi la doma è un processo delicato, basato sulla fiducia reciproca tra cavallo e domatore. Il cavallo è un animale predato, si spaventa molto facilmente delle cose che non conosce, proprio per questo il domatore deve far capire al cavallo che si può fidare di lui e che il percorso di doma è privo di pericoli. Su questa base è stato costruito tutto il mondo dell’equitazione, che ha come protagonista il cavallo, non il suo utilizzo passato. “Equitazione, è uno sport? Ma tanto fa tutto il cavallo, capirai stai seduto lì e non fai niente, come se potessi paragonare salire su un cavallo ad un altro sport!” Queste sono solo alcune delle frasi che ogni cavaliere si è sentito dire almeno una volta nella vita. Però devo ammettere che l’equitazione è diversa da tutti gli altri sport e no, non si può paragonare alla pallavolo o al calcio, proprio per il fatto che il concetto che c’è dietro è differente: nell’equitazione non c’è solo l’atleta ma anche il suo rapporto con l’animale. In questo sport non si comunica con i compagni di squadra ma con un animale di una tonnellata, im-

prevedibile e nonostante questo continui a cercare di capire come relazionarti a lui. L’equitazione non è solo un passatempo divertente che si fa di tanto in tanto, può essere anche uno stile di vita: è uno sport che ti può portare a fare dei sacrifici enormi, che, quando sono ricambiati dal rapporto che si instaura tra cavallo e cavaliere, fa nascere un senso di soddisfazione e gratitudine immensa. Il cosiddetto motto “risali in sella” – che è lo sprone che l’istruttore propone all’allievo appena caduto da cavallo (perché a volte capita) - è forse uno dei principi più importanti dell’equitazione: nonostante lo spavento della caduta e la paura che potrebbe succedere di nuovo, si deve avere il coraggio di rimontare con ancora più determinazione di prima. Essere sempre i primi a mettersi in discussione, non dando mai la responsabilità solo al cavallo per le difficoltà che si possono incontrare, è forse una delle cose più difficili che un cavaliere possa fare, è un percorso che naturalmente si fa alla ricerca delle proprie paure più nascoste; avere al proprio fianco un animale così forte è la chiave per superarle. Avere a che fare con un animale così orgoglioso e libero può essere difficile, ma proprio nei momenti in cui pensi di non riuscire a superare l’ostacolo, ti stupisce, dimostrandoti che ce la stai facendo. E’ sempre un’incognita. Non sai mai se andrà tutto bene o se invece sarà una giornata storta, ed è proprio questo che piace ai cavalieri: mettersi sempre in gioco sapendo che a volte si riesce e altre volte no, ma sempre con la consapevolezza di avere la fortuna di stare accanto ad animali così speciali. L’arte del cavalcare può essere considerata un gioco di equilibrio dove si deve calibrare ogni singola azione in modo tale da lavorare con il cavallo e non contro di lui. Saper interpretare i segnali silenziosi che ti trasmette il compagno d’avventura non è un’opera semplice, ma quando ci riesci capisci di star creando un vero binomio, la parola che ha il significato più profondo per ogni cavaliere e appassionato di equitazione. Non so esattamente come le altre persone vedano questo sport. Per noi andare a cavallo è riuscire a comprendere noi stessi e l’animale superando tutti i limiti e impegnandoci in ogni singolo momento, ad ogni allenamento, ogni giorno. E infine, la cosa più bella è guardare un cavallo ogni volta con occhi nuovi, sempre, sapendo che c’è un mondo dietro. FIAMMA MANICELLI

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Componimenti

Creativi


Componimenti RIPENSANDO AD UN IPOTETICO FUTURO

TREMORE Tienimi stretta Nel tetro trascorrere Di queste giornate Sdraiàti per terra Aspettiamo Che il sole ci irraggi Da una finestra sempre aperta Tremendo ricordo Di una vita migliore Che chissà Se mai arriverÀ

Hai presente quel forte sentimento? Bhe, ti colpisce in un momento Raro prezioso e difficile da comprendere Sappiamo che non ti fa più riflettere Ora sono qui a meditare Ma sono consapevole che mi fa male pensare Vorrei piangere ma non ci riesco Forse sono troppo arrabbiato con me stesso Questo senso di dolore troppo represso Nella mia testa c’è a tratti un mondo fiabesco Soffro di nostalgia non di quello che siamo o eravamo Ma di quello che saremmo stati Sapevo che insieme eravamo articolati Incantati, agitati, annoiati, arrabbiati Ora ti rivedo sempre prima di dormire Un po’ come un sogno che dopo poco lo vedi scomparire SERGIO GOLINO

BESHE

DEGENERAZIONE PSICOSOMATICA (personale e sociale) Viviamo in un mondo con un problema ossessivo compulsivo Fagocitato da un batterio nocivo Dominato da angosce e terrori Attualmente viviamo come roditori Ma ce ne accorgeremo solo quando appassiremo come fiori E spero che tu non escluda le mie supposizioni a priori

SILENZIO mi guardo intorno vedo solo mascherine e occhi non vedo sorrisi solo sguardi persi irriconoscibili le persone che mi passano accanto le dita formicolano hanno dimenticato la magia dello sfiorarsi vagano sole non sento le grida dei bambini che giocano a rincorrersi mi guardo intorno Vuoto Silenzio assordante

Sento la noia che mi divora Dolore come un nodo in gola La quotidianità che mi addolora Insieme a questo tempo che non vola La vita va in malora Con la depressione che riaffiora La pacatezza che scompare la rabbia che riappare La solitudine mi affoga Sarebbe meglio fare yoga L’autoflagellazione non consola Il tempo a rilento, moviola. Sentiamo parlare di inflazione e deflazione, ma dobbiamo ancora rafforzare il senso di nazione E placare l’avidità che diventa un’ossessione Infatti i soldi portano problemi di inclusione Per questo ci preoccupiamo di intrusione Ma un immigrato non fa una pessima azione Ma chi lo accoglie fa sempre brutta impressione Per favore una volta usate la ragione Il raziocinio non porta il decadimento Ma l’incompetenza porta allo sgretolamento Come un capitano soggetto ad ammutinamento

DESERTO Fiori bruciati dal sole di un giorno troppo bello per stare soli. Passeggiamo, cantiamo e il Sole impallidisce, perché da sempre era stato la stella più luminosa, ma adesso è il tuo sorriso a illuminare il mondo. Siamo pazzi arrendetevi

SERGIO GOLINO

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PITTORE PLASSON

CRISANTEMI


Creativi BRANDELLI DI MARE Al principio non c’era nulla, solo una calma ripetitiva. Monotona e meccanica. Le tante parti che ora mi compongono erano sparse per miglia e miglia lungo tutta la costa. Ma poi sono nato in un giorno di tempesta. Le prime cose che ricordo sono i rumori. Già mentre la mia coscienza era frammentata in tanti piccoli, minuscoli pezzi potevo sentire le urla. Le grida dei bagnanti che si lanciavano folli tra le onde, che si tuffavano nel mezzo della loro irrefrenabile violenza, come a voler domare un’entità incontrollabile. Il mare rimbombava e risuonava ruggente scosso dai venti. Ogni sua parte si annullava per poi ricomporsi carica di schiuma. In quel frangente lo l’ho sentito. Nonostante il riecheggiare, nonostante l’infrangersi delle onde l’ho sentito. L’ho sentito, il suo respiro. Il respiro del mare che si al-

zava, delle maree che si scontravano, delle onde che si gonfiavano ancora, ancora, ancora… Mi sono sentito vivo. Mi sono formato in queste forze travolgenti, mi sono formato nell’eco delle acque. Sono nato dai frammenti delle onde che continuavano a spezzarsi, a frantumasi, a smembrarsi, a infrangersi creando cumuli di bianca spuma. Sono nato dalle schegge del mare. La sua schiuma si addensava verso riva e io ero già sveglio, sebbene non fossi altro che un bianco cumulo di essa. Poi il vento mi ha plasmato e ho aperto gli occhi. Non so chi sono ne qual’è il mio scopo, ma una cosa la so, tutto è connesso e io seguirò il mare, l’acqua che collega ogni cosa. BIANCA DELLA GUERRA

LEI ERA SOLA ED ERA COLPEVOLE Lei era sola ed era colpevole. Non era sola, in realtà. La stazione era affollata. Tremava. Migliaia di pensieri le attraversavano la mente. Si sentiva gli occhi di tutti addosso. “Loro sanno. Lo sanno che cosa ho fatto”. Nessuno la guardava in realtà. Nessuno la notava. Ma come facevano? Non vedevano i suoi occhi lucidi di paura? Il suo pallore? Nella mano teneva un biglietto, doveva andarsene, la meta che da tempo aveva scelto era lontana. Nessuno l’avrebbe seguita. Era perfetto così. Ma no, non era perfetto. Tutti sapevano, tutti giudicavano, tutti la odiavano. Le stavano facendo credere di non sapere, ma era una trappola. Era spacciata. Nei suoi occhi non si leggeva paura, si leggeva un’unica parola: assassina. Lei era colpevole. Lei era un’assassina. Ma che stai dicendo, nessuno avrebbe mai potuto pensare una cosa del genere. Guardatela. Ma vi sembra un’assassina? No, non era possibile. Nessuno ci sarebbe mai arrivato. Poteva andarsene libera. Libera? Sarebbe mai stata libera? Se a solo un’ora dal fatto, seduta sola su una panchina della stazione, si sentiva in un tribunale davanti ad una giuria che sicuramente l’avrebbe considerata colpevole? Ma no, lei doveva spiegare. L’avrebbero capita. Stava quasi per urlare: “non è andata così, c’è un motivo per quello che ho fatto”. Ma chi le avrebbe mai creduto? Ma siamo seri. Sarebbe semplicemente sembrata una patetica e disperata bugiarda. Ormai avevano capito. Tutti sapevano. Tutti erano pronti a incriminarla. Non sarebbe mai salita su quel treno. Guardò le sue mani, guardò la sua giacca. Era sangue quello? Ma no, non era possibile, lei aveva usato il veleno. Eppure c’era del sangue. Ma no, che non era sangue, era solo il riflesso della

luce rossa di quel pannello in alto della stazione. E se anche gli altri lo avessero visto? Avrebbero pensato che fosse sangue, l’avrebbero incriminata. “Non è sangue, io non ho sparato o accoltellato nessuno” avrebbe risposto. Ma fa differenza? Era comunque colpevole, che avesse accoltellato o avvelenato. Era comunque un’assassina. E ormai lo sapevano tutti. Quegli sguardi che fingevano di essere indifferenti in realtà avevano già deciso di incriminarla e di condannarla. L’avviso dell’altoparlante le comunicava che il suo treno stava arrivando. Si alzò. Forse c’era ancora tempo per fuggire. Forse sarebbe riuscita a scappare da tutti loro. Si avvicinò ai binari. Dall’altro lato tra la folla che si affrettava e si spingeva per prendere il proprio treno, vide una persona ferma e immobile proprio davanti a lei che la guardava, la guardava molto male. Quell’altro lato era uno specchio, e quella persona era il suo riflesso. Sapeva cosa le stava dicendo attraverso quello sguardo pieno d’odio. “Sei spacciata, non riuscirai mai a scappare, è troppo tardi. Tutti sanno, tutti ti giudicano, tutti ti odiano”. Era vero, era spacciata. Sapeva cosa doveva fare. Non poteva farsi prendere. Il treno frenò un secondo dopo che lei si era gettata sui binari. La gente gridò, ma fu inutile. Li aveva battuti. Aveva vinto lei. Non l’avrebbero incriminata, non l’avrebbero condannata. MG

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Componimenti

CRONACHE DI

VILLA BONELLI - LIBRO SECONDO -

LA PROFEZIA Anno 2020. Giorno non lo so. I più ortodossi, coloro che ancora ricordano, commemorano i morti, gli eroi che sotto la guida di Balzani difesero con tenacia il nostro popolo. I nonni mi hanno raccontato che i loro genitori avevano combattuto per questa terra nella Battaglia del San Camillo. Che avevano pianto la morte del loro condottiero. Che videro l’avanzata di Monteverde contro di noi. Al posto di Balzani accorse in aiuto il signor Bonelli, architetto, sulla quarantina, anch’egli uomo retto e pio, tutt’ora venerato dagli anziani. Con lui cambiò anche il nome del nostro Paradiso Terrestre: Villa Bonelli. Portò avanti l’ultima, disperata e futile difesa, nella quale anche l’ultimo condottiero perì. Che umiliazione: un popolo di divina discendenza sconfitto da un manipolo di folli gianicolensi. Seguo la mia famiglia e mi affaccio dal balcone in direzione della Magliana, la fossa comune dove seppellirono i nostri avi combattenti, oltre l’Arco del Nulla Cosmico. Non possiamo radunarci attorno ai loro corpi e dar loro una sepoltura più degna della loro origine. Il mio balcone è orientato proprio su quella landa mesta, desolata, priva di vita: il simbolo della nostra disfatta. Attorno a me vedo la mia bisnonna piangere. I miei nonni osservano un religioso e rispettoso silenzio. Non so invece se i miei genitori credano ancora a ciò che negli ultimi duecento anni ci è stato oralmente trasmesso. Ad ogni modo, non riesco a sopportare tanta disperazione ed esco di casa. Cammino per le strade di Villa Bonelli e non posso fare a meno di notare le buche nell’asfalto. I nonni mi dicevano che un tempo queste voragini erano piene di acqua pura, limpida alla cui ricchezza i nostri avi usavano abbeverarsi. Oggi c’è solo fango e qualche ciospa rollata male e buttata a terra da una qualche guardia monteverdina che naviga come una barca senza il suo timoniere. Dico io, ci sono dei cassonetti fatti appositamente. Ah, i cassonetti. Un tempo erano come forzieri ricchi di ogni tesoro e fortuna e da essi attingevano gli uomini di tre o quattro generazioni fa: materassi, elettrodomestici, gioielli; con un po’ di fortuna, anche scarti alimentari. Oggi altro non sono che semplici maleodoranti contenitori strabordanti di buste. Non posso curarmi di cotanto orrore. Guardo e passo. Così i miei occhi sono attirati dall’impertur-

babile moto di una meraviglia, il fiore all’occhiello della nostra scienza, un prodigio della tecnica, massima espressione della nostra arte, eccelso frammento dell’infinita conoscenza della nostra gente, sempiterna forma della vera saggezza, oggetto trascendente il tempo e lo spazio, frutto del genio Bonelliano: il 44. Un semovente, grande fuori e ancora più grande dentro, capace di trasportare un numero virtualmente illimitato di persone da Villa Bonelli fino al centro di Riomma. Oggi la linea attraversa anche la capitale di Monteverde, Villa Sciarra, che ha come unico vanto la ricchezza della fauna locale comprendente pantegane, topi e financo sorci. Nonostante il 44 ormai sia usato anche dai gianicolensi, conserva ancora la sua dignità e, contrariamente a tutti gli altri semoventi di monteverdina fattura, non prende fuoco. Osservo la carrozzeria di questo splendore lasciare il capolinea Montalcini e dirigersi verso luoghi di perdizione e vizio per portare nelle scuole monteverdine i giovani come me. Scuole che altro non sono che bonelliana invenzione, atta a trasmettere i valori e le conoscenze di ogni campo di generazione in generazione. Nonostante la barbarie, i nemici hanno insistito perché insegnassimo loro a leggere, scrivere e far di conto. Grazie a noi oggi i monteverdini si esprimono con un linguaggio articolato, quasi asiano, seppur contaminato da qualche piccolo rantolante arcaismo barbarico. Noi siamo costretti ad andare nelle scuole monteverdine nelle quali siamo educati a vivere da bravi monteverdini. Ogni tanto ascolto le Guardie monteverdine ciancicare fra di loro con il tipico, tediosissimo accento del loro quartiere natale. Stando allo Statuto, le Guardie sono un corpo speciale messo “ha difesa della pacie nela confederazzione dei cuartieri” (errori grammaticali sempre dovuti ai refusi barbarici). La loro principale attività consiste nel controllare che non scoppino insurrezioni a Villa Bonelli, ma nella pratica spendono il tempo soprattutto ad atteggiarsi da esseri superiori e civilizzati. Sono donne e uomini nerboruti, alti - come si dice in gergo tecnico - una quaresima e imbracciano armi di vario genere con leggerezza. Ed ecco che davanti ai miei occhi compare il loro Quartier Generale: Monteverde Club. All’apparenza una semplice struttura polisportiva dove dedicarsi alla cura del

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Creativi proprio corpo; tuttavia si ritiene che nelle sue fondamenta celi un bunker anti-tutto. Uno strano impulso dal petto mi spinge come un automa verso il ben munito oppido: passo dopo passo mi avvicino all’ingresso sul retro che (per motivi assolutamente non correlati alla necessità di concludere in tempi ragionevoli questa storia ndr) casualmente non era presidiato. Discendo le scale di soppiatto, guidato da questa strana forza che in me alberga. Lo scantinato illuminato da qualche sinistra luce bianca al neon si presenta davanti a me nella forma di una lunga basilica senza transetto a tre navate separate da file di robusti pilastri in cemento. In fondo a questo ambiente austero e severo, nell’abside, si staglia un piccolo piedistallo sul quale è posto uno strano oggetto fosforescente. Non posso che avvicinarmi. Una sfera intarsiata di simboli bonelliani, un linguaggio scritto antichissimo usato raramente. D’improvviso il bagliore penetra dentro i miei occhi. Innumerevoli immagini si sovrappongono in sequenza come i fotogrammi di una pellicola, accompagnati da un dolce canto in una lingua arcaica che diceva: “Popolo prescelto, emerso da Gea, sposa di Urano, voi tutto dominaste dall’alto Picco. Più savi fra i savi, più potenti fra i potenti, sconfitti da straniero e sconosciuto volgo, a voi rivolgo il mio oracolo: Villa Bonelli risorgerà. Al giro della Kiave nella serratura delle nubi, i nove cieli saranno attraversati, dall’ultimo al primo, da un corridoio di luce appena sopra il palazzo Bonelli, in cima al sacro Colle. Di lì egressi, bori e tamarri effonderanno gloriosi cori con le loro soavi voci, accompagnando il cammino dell’Ultimo Condottiero e Primo Liberatore, Bonelli. Radioso splenderà il trono di Balzani coi suoi rubini, smeraldi e zaffiri, discendendo sulla Terra per osservare il cosmico ordine prendere forma contro il confuso caos. Da una parte la luce, dall’altra l’ombra. Da una parte il perfetto, dall’altra l’imperfetto. Da una parte i Bonelliani, dall’altra i Gianicolensi. Da una parte il bene, dall’altra il male. Compiuto il discernimento, il colle ascenderà circondato da immense cerchie di bori e tamarri alati che giammai fermeranno il gioioso canto di lode a Villa Bonelli,

finalmente diretto alle stelle. Solo allora i Bonelliani, attraversato il condotto, si prostreranno a Balzani, al suo secondo, Bonelli e ai suoi cinque ministri: Skifeth, titano della monnezza; Watath, gigante delle acque reflue e degli acquedotti esplosi; Holth, suprema entità delle voragini e delle loro ricchezze; Trappist, sovrano e comandante delle schiere di bori e tamarri; infine, l’ambasciatore indiano, solitamente residente in via di Vigna Due Torri. Ai gianicolensi nulla resterà che la Terra e i suoi vizi. Tentarono di possedere l’infinita grandezza di Villa Bonelli, ma niente potranno contro la volontà degli Dei Olimpici che vollero la nascita di Balzani. La loro vista, vinta da una madreperlacea nebbia, sarà liberata solo affinché possano osservare e piangere per l’inesorabile chiudersi dei nove cieli. Vivranno in un eterno limbo, sospirando la loro inammissibilità nel firmamento. Questo hanno voluto gli Dei Olimpici, questo ha voluto Balzani. O giovane Bonelliano, trova la Kiave e apri il Varco.” Il bagliore era come avvinghiato al mio cervello e tutto questo mi aveva appena trasmesso. Conosco ora, per davvero, la storia del mio popolo. Conosco ora il mio dovere: liberare Villa Bonelli dalla Confederazzione.

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(Desidero ringraziare Maria Trenta che senza saperlo ha ispirato la nascita di questa storia improponibile e priva di nessi logici e Gaia Sordoni che mi ha esortato a concluderla). Sotto l’effetto di acidi IL PROFETA, RICCARDO MAGANELLI Alias Turacciolo Vinaio


Componimenti L’INNOMINATO

P

adre Oleg si svegliò anche quella mattina. Il silenzio dominava nella sua piccola stanza, e le luci del mattino già passavano attraverso le ante abbassate della sua finestra. Rimase qualche secondo ancora disteso, con gli occhi spalancati ad osservare il soffitto. Non aveva il coraggio di chiuderli, temeva che le immagini del giorno prima gli sarebbero ritornate ancora alla mente. Quella notte Oleg non aveva dormito, invece aveva combattuto una terribile battaglia con la sua coscienza, una battaglia che si era prolungata sino a che la stanchezza non aveva vinto sulla mente del prete, e lo aveva gettato in un sonno costellato di angosce e incubi. Ed ora nonostante la luce del giorno illuminasse nuovamente il suo mondo, sentiva ancora di essere immerso in quel profondo buio di terrore, che lo attanagliava nelle viscere. Padre Oleg tirò un profondo sospiro e chiuse gli occhi, cercando di chiamare a sé tutte le sue forze. Rimase così, immobile sul suo letto, cercando di concentrarsi al massimo su quale fosse la cosa migliore da fare. Dopo qualche minuto, rialzò le palpebre, e si alzò di colpo dal letto con uno sguardo deciso stampato in volto. Con quello stesso sguardo, seguì la sua routine quotidiana: colazione, doccia, vestiti e, abbottonato il collarino alla sua veste, uscì di casa dirigendosi verso la Chiesa. Oleg era un uomo di fede, e aveva passato la sua intera vita a porre questa nell’infallibile piano che solo Dio poteva conoscere. Sapeva bene dell’ingiustizia e della crudeltà di questo mondo, non era certo nato ieri, eppure non si era mai trovato faccia a faccia con questa, prima di quella notte. Quando si trovò di fronte all’immensa porta di legno scuro della sua cara Chiesa di San Marco Križevčanin, non poté fare a meno di allungare il suo sguardo all’altro lato della piazza sulla quale la sua cappella affacciava. Lì si trovava la dimora del re del loro pic-

colo villaggio, Pakao Bezimen. Pakao era discendente di una antica famiglia nobiliare che da millenni aveva tenuto il dominio di quelle terre, controllandone la proprietà e monopolizzando le risorse agricole della regione. Generazioni e generazioni di contadini nel villaggio, erano nati e morti lavorando nelle terre dei Bezimen. All’epoca dell’Impero Austro-Ungarico, tutti i Veliki Zupan (supremi capitani con il compito di esercitare il controllo imperiale sulla contea) inviati da Vienna o da Budapest dovevano, ancor prima di mettere piede negli uffici amministrativi, passare obbligatoriamente a fare visita in casa Bezimen. Ed era proprio in quella dimora, la quale ora padre Oleg fissava con uno sguardo che definire tenebroso è ben poco, che veniva deciso il destino di quelli inviati dal governo centrale: se essi si dimostravano sottomessi e disposti a proteggere lo status quo della famiglia, potevano avere di che vivere per il resto delle loro vite ( e il più delle volte senza neanche effettivamente dover sostare più di tanto nella Contea); ma se davano l’ impressione di impicciarsi troppo in affari che di certo non li riguardavano, o insistere troppo per affermare la loro autorità, in pochi giorni sarebbe arrivata loro una lettera di trasferimento da Vienna o per qualche lontana contea della Transilvania. Con la caduta dell’impero e la nascita del nuovo Regno Yugoslavo, il controllo della famiglia su quella terra rimase sempre incontrastato. Prefetto dopo prefetto inviato dal governo, il controllo della città passava in realtà di mano in mano dei discendenti della setta familiare, sempre nascondendosi dietro uomini che potessero fingere di rappresentare lo stato, e non i loro interessi. Ma i tempi erano cambiati, e il solo latifondismo non bastava più per affermare la propria supremazia. La famiglia necessitava di un cambiamento, e Oruzar Bezimen,

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Creativi azia abitata da soli croati iniziò a serpeggiare tra i ricchi e elevati membri della società, Pakao ne rimase particolarmente affascinato. Eppure nel suo perfetto progetto di pulizia etnica, veniva a crearsi un intoppo: eliminare quei serbi sarebbe equivalso a eliminare più della metà dei lavoratori nella sua fabbrica; e questo avrebbe posto più che un freno alla sua produzione, e di conseguenza alla sua ricchezza e al suo potere. La soluzione arrivò con la guerra, e più precisamente con una delegazione inviata dal nuovo governo del nuovo Stato Indipendente di Croazia, che veniva a proporre l’affare del secolo al signor Bezimen. Il nuovo stato croato aveva la necessità impellente di creare una nazione etnicamente pura, a detta loro, e non potevano permettersi una tale quantità di non croati sul loro territorio. Siccome le autorità erano bene a conoscenza della forte presenza serba tra i lavoratori della fabbrica, e poiché sospettavano che Pakao avrebbe potuto nascondere l’ identità dei suoi operai per non rischiare di dover fermare la produzione, si presentarono da lui con questa proposta: Il nuovo governo avrebbe investito nella sua fabbrica e comprato diverse quantità di materiale bellico in cambio della consegna dei serbi che lavoravano nella sua fabbrica, i quali sarebbero stati rimpiazzati da prigionieri politici e di guerra. Per il re della fabbrica quella era la soluzione perfetta a tutti i suoi problemi. Pochi giorni dopo arrivarono alcuni uomini degli Ustascià, L’unico partito a governo del nuovo stato, armati di vecchi fucili da caccia: erano evidentemente uomini delle campagne. Il Prefetto che quell’anno faceva da marionetta in città, un certo Lutka Suverena, rassicurò i concittadini, garantendo che quegli uomini si trovassero in città solo per garantire l’ordine pubblico. E poi arrivò: la notte terribile, dove il nostro Oleg dovette rimettere in dubbio la sua stessa fede in Dio. Quel giorno Oleg aveva speso la sua serata facendo le pulizie nella Chiesa, ed uscì per ritornare a casa che era già abbastanza tardi, sempre munito della sua lanterna. D’un tratto sentì un fortissimo colpo provenire dalla casa di Odlican Pijem, un uomo serbo conosciuto nella comunità per essere un gran bevitore di Rakija. Oleg, spaventato dal suono, pensò di avvicinarsi a casa dell’uomo. Ma non fece in tempo ad affacciarsi alla finestra che un altro terribile colpo si udì provenire dalla piccola catapecchia della famiglia serba dei Radnik, seguito da un altro e un altro ancora dopo. Ancor più spaventato, e non riuscendo in alcun modo a comunicare con Odlican, si volse in tutta fretta verso la direzione da cui proveniva il secondo suono. E proprio mentre si avvicinava a quest’ultima, vide nel buio pesto delle ombre saltar fuori dalla finestra della casetta e scivolare nell’oscurità. Terrorizzato ora più che mai, con mano tremante, il parroco allungò la lanterna oltre il vano della finestra, solo per osservare le terribile visione che già si

padre di Pakao, era l’uomo che l’avrebbe portato. Oruzar capì presto la necessità di basare la propria legittimità al potere su una nuova risorsa da monopolizzare e la trovò nella produzione di armi. Così non passò molto prima che la grande Bezimen Produktt, da lui fondata, diventasse la prima industria bellica del paese, e di conseguenza Il loro villaggio si trasformasse in pochissimo tempo da una remota provincia agricola ad uno dei più importanti centri di produzione di armi nei Balcani. Ma nella realtà dei fatti, nulla cambiò per i poveri sudditi dei Bezimen, dal lavoro nella terra passarono a quello in fabbrica. La prospettiva di una possibilità di lavoro attirò molte famiglie dal resto del paese, e molte famiglie serbe vennero a stabilirsi nel crescente centro urbano. Poco sapevano questi nuovi arrivati di quali sarebbero state le loro condizioni di vita una volta firmato il contratto per lavorare nella fabbrica. E licenziarsi da lì equivaleva a un suicidio: coloro che abbandonavano la fabbrica finivano su una lista nera dei lavoratori, e per trovare occupazione non avevano altra soluzione che abbandonare la nazione stessa. Negli anni a venire qualche operaio più coraggioso tentò di criticare pubblicamente le terribili condizioni di lavoro della fabbrica, ma questi valorosi o imprudenti uomini finirono tutti per scomparire in circostanze sospette. Dopo la morte di Oruzar, il suo unico figlio Pakao fu l’erede al trono invisibile della cittadina, e ora anche dell’impero bellico. Fin da bambino Pakao aveva sempre disprezzato i lavoratori della fabbrica di suo padre, e in particolare quelli serbi, che riteneva uomini rozzi e incivili. Convinse diversi prefetti a promulgare decreti che limitassero le libertà di questi individui, e mise in scena diversi episodi che li potessero inquadrare come criminali. Il suo piano era proprio quello di aizzare la stessa popolazione affinché cacciasse essa stessa gli intrusi dalla città. E Quando l’ idea di una Cro-

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Componimenti anime vagassero per l’eternità nell’oblio della dimenticanza, che nessuno portasse luce sulle loro insensate morti. Oleg aveva in realtà già capito da tempo cosa avrebbe dovuto fare, ed era certamente da considerarsi un caso fortuito che quel giorno fosse proprio una domenica. Alla messa presenziarono tutti, non un cittadino escluso. Era assai raro che fossero tutti presenti alla cerimonia domenicale, eppure tale era stata la paura della notte prima che ora, come pecore braccate dal lupo, sentivano tutti il bisogno di raccogliersi gli uni accanto agli altri, in un luogo che potesse dargli una sensazione, anche se falsa, di sicurezza. Tutti lì riuniti, nessuno tra loro aveva anche solo provato a chiedere a voce alta che cosa fossero gli spari della sera prima o dove si trovassero tutti i loro colleghi operai serbi. Ed Oleg, siccome il silenzio nella cappella iniziò a innervosirlo, diede inizio alle cerimonie sacre, aspettando pazientemente come tutti, l’arrivo dell’Omelia. All’arrivo di quest’ultima, nella chiesa cadde il silenzio. Tutti quei fedeli erano venuti dal loro pastore per delle risposte a domande mai fatte, ed Oleg sentiva il peso di questa responsabilità. Sapeva che se avrebbe parlato troppo direttamente non sarebbe stata solo la sua rovina, ma anche di tutti quelli che lo avrebbero sentito. Se fosse dovuto morire in ogni caso, lo avrebbe fatto difendendo l’azione di Dio e non quella degli uomini. Il discorso fu estremamente breve in realtà, nessuna denuncia urlata dal pulpito, nessun grido disperato a Dio, nessun’ additata contro la casa dell’uomo di cui nessuno aveva voglia di dire il nome. Nulla di tutto ciò. Parlò semplicemente con queste parole : “Sappiamo tutti cos’è successo questa notte nella nostra città, sappiamo tutti cos’è stato fatto. Le risposte che voi cercate, sono esattamente quelle che temete di ricevere. Se la Giustizia è di Dio, allora l’Ingiustizia è solo di noi uomini. E Se Satana è tra noi, allora si trova proprio sopra le nostre teste. Miei cari concittadini, ricordate sempre che le armi non hanno mai portato la legge di Dio in nessun dove; ma solo morte, miseria e orrore.” Dopo questa volutamente enigmatica enunciazione, Oleg terminò la messa e mandò in pace i suoi fedeli. Questi ultimi, rimasero un po' perplessi per le parole del parroco, e occuparono l’ ingresso della chiesa sulla piazza mentre discutevano di quale potesse essere il significato delle parole del prete. Ma appena questi avvistarono i soldati Ustascià avvicinarsi alla chiesa, si dileguarono in un batter d’occhio. In pochissimo la cittadina si svuotò, ognuno barricato in casa sua, tremante di terrore nel suo cantuccio; tutti tranne un solo uomo, che osservava in silenzio la chiesa sull’altro lato della piazza di casa sua. E fu così che nessuno in quel luogo osò mai più fare il nome di padre Oleg Mucenik. GABRIELE ASCIONE

immaginava di trovare. Subito ritrasse la lampada, inorridito da quei corpi silenziosi e immobili nella penombra, con i loro occhi vuoti che sembravano fissarlo nel profondo della sua anima. Prima che potesse mettere in ordine i suoi confusi e caotici pensieri, ecco che un altro sparo squarciava la notte, e al suo seguito molti altri ancora, come una tempesta di lampi nella bufera estiva. Quei terribili spari risvegliarono nel vecchio prete l’istinto primario della sopravvivenza: pur ricadendo ripetutamente e brancolando nel buio, Oleg riuscì a barricarsi in tutta fretta dentro la sua casa. Gli spari rimbombarono ancora per diverso tempo nel buio. Dopo un po' il prete non sapeva più se i colpi che sentiva fossero nuovi spari o solo il riecheggiare dei precedenti nella sua testa. Quando i rumori terribili cessarono per lasciare di nuovo posto al silenzio, Oleg riuscì distintamente a sentire il pianto di una donna lontano, che come una nebbia strisciava per le vie e circondava la città nel suo straziante lamento. Dopo la tormentata notte e il suo sonno-incubo, Oleg era lì, davanti al portone, chiavi della chiesa in mano, lo sguardo fisso sulla casa dei Bezimen. Lui sapeva, o almeno intuiva. Capiva perfettamente che se qualcosa accadeva in quel luogo dimenticato da Dio, c’era di mezzo certamente l’autorizzazione o il consenso degli uomini di quella casa, o meglio dell’uomo. Inoltre l’odio di Pakao verso i serbi era un fatto ben conosciuto dai suoi sudditi. Mentre Oleg girava le chiavi nel portone, ragionava chiedendosi se qualcuno avrebbe mai pagato le conseguenze di quell’eccidio, se qualcuno avrebbe mai vendicato tutto quel sangue versato. Spazzando l’altare si rese conto che no: nessuno avrebbe mai protestato contro quel sanguinoso crimine, nessuno avrebbe mai guidato una rivolta, nessuno avrebbe neanche tentato di portare giustizia, finché quella casa dall’altra parte della piazza e l’uomo che l’abitava rimanevano in piedi con il potere saldo nelle sue mani. Nella mente di Oleg si riaffacciarono i volti di quei corpi freddi, che ora marcivano proprio dove li aveva lasciati la sera prima. Non poteva lasciare che quelle

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Componimenti

C

I

E

L

O

È

RIALZARSI Cadendo, cadendo: cadendo. Ma cadendo e cadendo che cade, cadendo. Cadendo e cadendo e cadendo cade, cadendo. Cadendo poi cade, cadendo. Cadendo, cadendo; cadendo! ca den do, cade. Cade? Cade! Cadendo, cade Ma sol cadendo cadendo cadendo cadendo cadendo cadendo cade ‘ndo cade? Cade, cade: cadendo. Ancora non atterra? No, non atterra. Non atterra. Atterrisce. Atterrisco. Atterriamo nell’animo, l’animo atterrisce: ‘sto qua s’è buttato minimo minimo dall’ottavo piano CIELO TERSO

pragmatismo

CIELO TERSO

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T

E

R

S

Creativi

O

Brevi considerazioni circa il progresso morale e spirituale della razza umana dopo il periodo pandemico

CIELO TERSO

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Componimenti […] IL TEMPO MORIVA E LUI RESTAVA verso una forza che ci può lasciare distrutti. L’amore, la più complessa e la più potente di tutte le passioni, è ad un tempo la più facile e la più semplice nel suo nascere. Un uomo e una donna si incontrano, si vedono, si guardano – e basta. Da che cosa era stato mosso quello sguardo? Che cosa vi era in esso? Che cosa diceva? Nessuno lo sa. Nondimeno tutti gli amori cominciarono con uno sguardo. Riusciresti tu, che stai leggendo, a spiegare razionalmente cosa ti spinse ad innamorarti di quella persona il cui pensiero ti è immediatamente balzato alla mente non appena cominciata la lettura? Probabilmente no. “L'amore [...] colpisce in modo subdolo, spesso improvviso. È un sentimento irrazionale che penetra dolcemente e invade tutto l'organismo, come un'endovenosa che si diffonde capillarmente e che modifica il nostro modo di pensare e di agire. Provocando, a volte, una narcosi totale.” È il conosciutissimo Piero Angela a parlare, e a renderci consapevoli di un altro degli effetti di questa forza ineluttabile: la straordinaria abilità che questo ha di produrre cambiamenti in colui che ama. Molte volte mi son trovata davanti a chi dell’amore aveva preso solo i suoi aspetti negativi, trovandosi in un turbine di emozioni negative e contrastanti. Spesso si crede erroneamente che questa sia la spontanea conseguenza del sentimento d’amore. Ma se così non fosse? Se l’aver incontrato la persona giusta lo si riconoscesse proprio dalla capacità che questo ha di elevarti semplicemente ad un grado superiore, pur non togliendo nulla alla tua individualità, ma anzi, esprimendola al massimo grado? Chiunque leggerà queste parole le interpreterà a proprio modo, fortunatamente. Ognuno ha dentro di sé il suo mondo segreto. Non importa quanto essa mostri sulla superficie, ognuno di noi ha dentro di sé inimmaginabili, meravigliosi, straordinari mondi. E non solo uno; centinaia, forse migliaia. Ed è bello pensare che queste parole verranno interpretate in innumerevoli modi diversi. C’è chi forse, leggendole, penserà che esse siano assolutamente prive di senso; o c’è chi forse, leggendo la poesia di Pirandello, troverà in essa un significato assolutamente personale. Chissà, io di certo non posso saperlo. Ma dal mio punto di vista, queste parole non possono rimaner inascoltate. Il significato che in esse io ho trovato è universale, e il contenuto che esse esprimono lo è in egual modo. E mentre la vita va avanti, e procede inarrestabile di minuto in minuto, seguendo la sua personalissima strada, “il tempo moriva – dice Pirandello – e lui restava.” ANONIMO

E l’amore guardò il tempo e rise, perché sapeva di non averne bisogno. Finse di morire per un giorno, e di rifiorire alla sera, senza leggi da rispettare. Si addormentò in un angolo di cuore per un tempo che non esisteva. Fuggì senza allontanarsi, ritornò senza essere partito, il tempo moriva e lui restava. Pirandello, quanta attualità nelle sue parole e quale meraviglia e passione si evince da queste. In molte sue poesie parla di virtù, di vita, di amore per la patria, di maschere e di volti coperti. I suoi pensieri vanno ai sentimenti e alle emozioni dell’uomo del Novecento che, proprio in quel periodo, sta vivendo una profonda crisi esistenziale. Eppure, è straordinaria la modernità di una poesia che risulterebbe sempre d’attualità, in qualsiasi periodo la si leggesse. “E l’amore guardò il tempo e rise, perché sapeva di non averne bisogno.” E sapeva di non averne bisogno, perché in qualsiasi momento, in qualsiasi luogo, esso esisteva. Sarebbe difficile tentar di spiegarlo, il comune linguaggio delle parole è sempre insufficiente per un qualcosa di così grande. Ma credo che chiunque l’abbia sperimentato almeno una volta, sappia di cosa io stia parlando. Non ci sono distinzioni, esso colpisce ognuno di noi, e ogni volta che lo si respinge, questo ritorna più forte, quasi lo si avesse offeso. Come Pirandello ci dice, l’amore “finse di morire per un giorno, per poi rifiorire alla sera”. Finse, perché non avrebbe mai il coraggio di allontanarsi veramente. E non ci sono leggi che debba rispettare, perché come disse Margaret Mazzantini un bel po’ di anni dopo, nel suo capolavoro “Venuto al mondo”, “la legge può farsi una passeggiata, l’amore va lasciato dove sta.” Risiede in noi, e non possiamo negarlo. Dobbiamo solo aspettare che qualcuno con la nostra stessa passione accetti di custodire il nostro cuore. E non è facile, non potrebbe mai esserlo. Poeti, scrittori, pittori, artisti di ogni genere hanno da sempre cantato la propria sofferenza

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Creativi FINE Ho sbattuto al cancello, eh sì, fa ridere, ma è vero. Solo in una giornata coperta da quel Manto soffice e grigio, l’ho lasciata andare. L’ho fatta volare tra i nembi, l’ho persa nel grigio mi sono Perso nel pensare che tutto stava cambiando, sto perdendo tutto. Eppure a farmi riprendere, il grigio cancello: e sono di nuovo cosciente della caduca Vita, mi risveglio. Ma sono comunque perso.

VISIONE N°7 : LA LIBERTÀ RINATA

JACOPO AUGENTI

Trovo una finestra davanti a me. Mi sporgo. Cado. Davanti a me si stende il deserto. Picconi in lontananza. Mi muovo verso il grande rumore. Davanti a me c’è una torre alta fino al cielo. Tutti gli schiavi dell’universo si sono riuniti per costruirla. Tutti gli schiavi dell’universo hanno il volto coperto. Battono. Battono in coro con i picconi. Battono, continuano a battere. Non si fermano. Il suono è continuo, la cadenza costante. Ipnotico. Un rumore che annulla. Non c’è più niente. I picconi continuano. Gli schiavi lavorano. Pietra dopo pietra la torre sale verso il cielo. Pietra dopo pietra la torre si fonde con il cielo. Gli schiavi lavorano. Salgono al cielo. Il cielo li accoglie. Tutti gli schiavi dell’universo si sono riuniti nel grande cantiere. Tutti gli schiavi dell’universo sono in piedi, capovolti nel cielo. Tutti gli schiavi dell’universo sono ammassati, formano un cerchio sopra il deserto. Si inchinano. Si prostrano e formano un’onda. Rendono omaggio alla Libertà deceduta. Formano un onda, si chinano e si alzano. Sono stretti dentro al cerchio, capovolti nel cielo. Dal centro del cerchio il cielo ribolle. La membrana si spacca. Il cielo è un’enorme placenta. La membrana si spacca. Tutti gli schiavi dell’universo si prostrano e formano un’onda. Sta rinascendo. La Libertà sta rinascendo. Si agita, viene fuori dalla membrana. Sta rinascendo. Gli schiavi si agitano. L’onda si abbatte sul cielo. La Libertà è rinata. La Libertà è rinata dal cielo. BIANCA DELLA GUERRA

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Componimenti


Tenete accesa la luce.

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