IN COPERTINA RECOVERY PLAN
«Per essere efficace il Recovery Plan deve coinvolgere i capitali privati» Carlo Alberto Carnevale Maffè non ha dubbi, il piano italiano deve essere riscritto coinvolgendo la parte più dinamica del Paese: le imprese. Lo abbiamo intervistato
«S
enza riforme non si fa un Recovery Fund e le riforme tuttora non ci sono». Per Carlo Alberto Carnevale Maffè, il piano nazionale di ripresa e resilienza italiano è tutto da rifare. Il professore di strategia d'impresa dell'Università Bocconi è critico anche verso il metodo seguito sin qui dal governo. «Ogni euro pubblico dovrebbe movimentare un euro privato. Questo è il principio che deve seguire la politica». Non sussidi, né tantomeno bonus fiscali a pioggia e nemmeno appalti pubblici, bensì una strategia di rilancio che accompagni le filiere produttive italiane nell'Europa di domani. Professore Maffè, cosa non le piace del Recovery Plan italiano? «Non rispetta le indicazioni del Recovery and Resilience facility dell’Unione europea, basato su tre principi molto semplici. Il primo è che bisogna fare le riforme prima di pensare a come spendere i soldi. Secondo punto, i progetti devono avere metriche e tempi coerenti con i finanziamenti che derivano dall’Unione Europea. Sono soldi dell’Europa e chi presta ha diritto
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n° 01 - 2021
e dovere di chiedere conto a chi investe di essere trasparente e accountable, controllabile. Il terzo elemento è che nel Piano italiano non sono previste modalità di coinvolgimento serio del capitale privato, mentre l’Europa insiste sulla logica PPP, cioè public private partnership, ovvero lo Stato mette soldi se li mettono anche i privati. Ricordiamo che questa logica ha un doppio effetto, aumenta la quota di capitale investito e rende molto più credibile l’obiettivo dell’investimento». Infatti lei suggerisce che ogni euro pubblico deve movimentare un euro privato… «È un principio generale che fa riferimento alla logica del matching fund, ovvero del co-finanziamento pubblico-privato, ed è un principio molto saggio in questi casi, in cui l’obiettivo è quello di creare delle infrastrutture che aumentino la produttività del Paese nel tempo e non quello di distribuire risorse a pioggia. Parliamoci chiaramente, il capitale pubblico non può sostituire il capitale privato e le piattaforme di innovazione richiedono sempre capitale privato. Lo Stato deve
affrontare il problemi di servizi sui quali si verifica la cosiddetta market failure, ovvero il malfunzionamento del mercato, eventualmente accollandosi una parte più che proporzionale delle perdite. Cosa che è stata fatta, ad esempio, con le GACS (garanzie concesse per i crediti deteriorati della banche), o più di recente anche per i PIR (piani individuali di risparmio ndr.). Con questo modello lo Stato ti dice: “se investi su un asset problematico e perdi, la parte prima delle perdite me l’assumo io”. È ovviamente un sussidio, ma quando è correlato a un obiettivo strategico, ci sta. È un modo efficace, anche se potenzialmente distorsivo, per attirare capitali privati. Se si usa per le banche o per i PIR, non si capisce perché non si dovrebbe usare lo stesso principio nel Recovery Fund, dove questa logica è ancor più importante. Poiché lo applichiamo per le coperture di attivi bancari passati in sofferenza, a rigore di logica, dovremmo poter usare lo stesso principio anche per il Recovery Fund». È quindi un problema di “mancanza di visione” da parte della nostra classe politica?