Numero 14 del 3 ottobre 2019
27.09.2019 Global Strike For Future
Sommario
Napoli: Climate Action Week, 27 settembre 2019, Sciopero Mondiale per il Futuro - pag. 3 di Raffaele FLAMINIO
La Sinistra che verrà - pag. 7 di Aldo AVALLONE Afghanistan, un fallimento lungo diciotto anni pag. 12 di Umberto DE GIOVANNANGELI
Siamo tutte in “Rosa” - pag. 18 di Antonella BUCCINI
Laudato si’ se pianti un albero - pag. 21 di Giovan Giuseppe MENNELLA
Voto a 16 anni? - pag. 28 di Antonella GOLINELLI
Perché non aumentare l’IVA - pag. 31 di Aldo AVALLONE
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Ambiente e Politica
Napoli: Climate Action Week, 27 settembre 2019, Sciopero Mondiale per il Futuro Raffaele FLAMINIO
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Un’emozione grandissima, migliaia di studenti, una sola voce. Un fiume umano giovane e impetuoso scorre lungo l’arteria di Corso Umberto. Non c'è rabbia. La gioia e la consapevolezza sono gli elementi distintivi di questo fiume tranquillo e gioioso. Le parole d'ordine sono semplici ed esplicite “cambiamento e consapevolezza", tutto ciò nell'ambito dell'alveo della democrazia e della legalità. Qui si vive lo spirito e l'anelito della Costituzione. Lungo il percorso del corteo non una carta, una lattina sono lasciati sul letto del fiume umano che rivendica la volontà e la determinazione di contare. Decine di migliaia, sono le anime che compongono quest’allegra spuma giovane e fresca. Oggi,come per miracolo, il sole è alto nel cielo a dimostrazione che le forze della natura condividono senza se e senza ma le idee e le ragioni dei giovani. Oggi si è compiuta un’ importante saldatura tra i giovani e la terra, madre generosa è accogliente. La città non ha subito nessun turbamento rispetto alla paralisi apparente, assiste incredula e appassionata alle istanze di cambiamento e di vita. In questo momento il corteo percorre via San Felice e si arrestato di fronte a una casa di anziani, i quali affacciati ai balconi della loro residenza inneggiano ai giovani. È tutto molto emozionante, sto assistendo al passaggio di testimone tra la generazione della resistenza italiana e la nuova resistenza mondiale. Questa è la globalizzazione cui le nuove generazioni aspirano. Non ci sono vessilli partigiani, il colore dominante è il verde dell'ecologia e della speranza. La testa del corteo è nei pressi di Piazza Dante, il corpo e la coda si snodano ancora su Corso Umberto e via Monte Oliveto. Le persiane delle attività commerciali sono tutte alzate, i commessi, gli impiegati sono sulle soglie e si godono la pace e la sicurezza che questi ragazzi esprimono nella loro composta protesta. Questi ragazzi stanno indicando una strada percorribile e possibile. Forse l'epopea degli sdraiati si sta estinguendo. Forse hanno bisogno di 4
essere ascoltati e non giudicati. Le divisioni che i giovani subiscono per convenzione, da parte degli adulti che amano catalogarli per abbigliamento e pettinature in questa giornata, si sono annullate. Tutt’insieme come un solo corpo. Parafrasando il vecchio adagio Occhettiano “Una gioiosa e pacifica macchina da guerra". Alla mia domanda artatamente provocatoria e generica rivolta a un gruppo di ragazze che sfilano acconto a me «ragazze credete sinceramente in quello che state facendo?» Annamaria, Paola, Aurora e Angelica al riparo del loro ombrellino si guardano interdette tra loro e all’unisono rispondono «Crede davvero che a noi piaccia perdere tempo? Siamo qui perché vogliamo esserci e contare, siamo impegnate nella lotta al cambiamento. Vogliamo che quest’argomento prenda forma prima di tutto nella scuola. Nella nostra scuola stiamo partendo dalla raccolta differenziata. Speriamo ci ascoltino». Molti genitori di questi ragazzi sono presenti " clandestinamente". Stanno, stiamo imparando a stimare i nostri figli che ci stanno impartendo una lezione di democrazia e onestà declinando efficacemente i codici comunicativi che intendono portare a conoscenza, di chi come noi, è attaccato a modalità comunicative obsolete. In questa manifestazione, c'è un servizio d'ordine spontaneo e silente ma efficace, quando si materializza un'auto o un motorino, esso si esplicita invitando i pochi ignavi a rispettare la comunità e l'ordine spontaneo costituito. Il corteo in questo momento, ore 11,59 tocca Piazza Dante, la testa è in via Pessina. Forse gli organizzatori intendono proseguire per via Foria. Non so se tale intenzione è prevista dall'autorizzazione delle Autorità o, perché le presenze sono tante e il corteo per sicurezza debba oscillare per permettere alla moltitudine di accedere ordinatamente in Piazza Dante. I volti sono stanchi, molti vengono da lontano e si sono svegliati molto presto, si respira soddisfazione e serenità per questa manifestazione che mol5
ti vecchi arnesi, speravano fallisse. Sono stati smentiti e sbugiardati. Nella moltitudine variopinta della piazza, mi avvicino ad Attilio studente di un istituto alberghiero candidato al consiglio d’istituto della sua scuola gli chiedo: «E allora che bilancio fai di questa giornata?». Nella sua tenuta di jeans e maglietta di cotone bianca con al centro un logo mi dice:«Una giornata bella e appassionante, speriamo non sia isolata. Abbiamo l’obblig o di ripeterla. Dobbiamo tenere costante la tensione sull’argomento. Io vengo da Acerra; li non ce la passiamo bene. Non possiamo pretendere di cambiare il mondo in un giorno. Il nostro impegno deve essere quotidiano, fatto di piccoli passi. Spesso litigo con i miei concittadini e i miei coetanei per i loro comportamenti. Non dobbiamo scoraggiarci».
Oggi è stata impartita una severa lezione a chi pretestuosamente bolla i giovani come imbelli e incapaci. La ragioni di questa giornata sono semplici e chiare come un bicchiere d’acqua.
Un saluto dalla speranza. 6
Politica
La Sinistra che verrà Aldo AVALLONE
Appena due settimane fa, in un’intervista al Manifesto, Arturo Scotto, coordinatore di Articolo 1, ha avanzato la proposta di una costituente di sinistra per la creazione di una nuova forza politica “socialista e laburista”. L’idea di Scotto da sempre è il nostro progetto. Perciò abbiamo seguito con grande attenzione il dibattito che ne è scaturito e faremo altrettanto in futuro. Sul tema sono intervenuti dapprima Roberto Speranza e, qualche giorno dopo, in un’intervista a Repubblica, Pierluigi Bersani che ha chiesto al Partito Democratico “un gesto politico forte e generoso. Un 7
passaggio creativo. Senza inseguire equilibrismi centristi”. Noi crediamo che una nuova forza che rappresenti i valori socialisti e laburisti sia non solo auspicabile ma assolutamente necessaria. Riteniamo che, al momento, non sia importante la forma che questo nuovo soggetto dovrà assumere né il nome che potrà adottare. Sappiamo bene che soprattutto le forze più forti e strutturate che ne dovrebbero far parte avranno al loro interno grandi o piccole resistenze, che ognuno difenderà più o meno giustamente le proprie peculiarità, che non sarà facile trovare una sintesi alle diverse anime della sinistra che, negli ultimi anni, ha manifestato maggior propensione alla differenziazione che all’unità. Per superare le riluttanze, l’unica via percorribile è ripartire dai valori e dai programmi. L’eguaglianza, la solidarietà, l’antifascismo, i diritti sono valori unanimemente condivisi. La base elettorale della sinistra nel nostro Paese è sempre stata più unita dei loro rappresentanti; le piccole e grandi scissioni avvenute negli anni scorsi non hanno mai trovato approvazione da parte degli elettori che le hanno percepite solo come operazioni di facciata, tese a mantenere potere e poltrone. Difficile non credere a questa lettura. Milioni di voti sono stati persi, andati a ingrossare le file sempre più vaste dell’astensionismo. L’IPSOS in uno studio pubblicato subito dopo le elezioni politiche del marzo 2018 scrive che “I flussi di voto evidenziano innanzitutto la disaffezione di una quota rilevante dell’elettorato di centrosinistra, poiché oltre un quinto degli elettori della coalizione Bersani 2013 ha deciso di astenersi”. Sempre secondo l’IPSOS, il PD è il partito che ha subito il travaso maggiore di voti. Il già citato 22 per cento di chi lo aveva votato nel 2013 avrebbe preferito astenersi; il 14 per cento sarebbe passato al Movimento 5 Stelle e il 7 per cento avrebbe scelto Liberi e Uguali. In valore assoluto il PD ottenne alla Camera dei deputati, nel 2013, circa 8 milioni e 650mila voti mentre SEL raggiunse quasi il milione e centomila voti. Nel marzo 2018, il PD ha ottenuto, sempre alla Camera, quasi 8
6milioni e centomila voti e LEU quasi un milione e centomila. Appare evidente che il risultato di SEL e LEU è similare mentre al PD mancano all’appello oltre 2 milioni e 500mila voti. A questi, naturalmente, vanno sommati quelli persi negli anni precedenti. Noi crediamo che questi milioni di elettori di sinistra abbiano scelto la via dell’astensione (o, in misura minore, del voto ad altri partiti) in quanto non hanno ritrovato nel PD (e negli altri partiti di sinistra) un’offerta politica che li soddisfacesse. La segreteria Renzi ha definitivamente affossato ogni speranza di politiche di sinistra da parte del Partito Democratico. Ebbene, la nascita di “Italia Viva” rappresenta l’occasione, forse l’ultima, per provare a dire e a fare qualcosa di sinistra nel nostro Paese. Il colossale equivoco di un democristiano alla guida del maggior partito progressista italiano è finalmente risolto. Liberato da questo vincolo, il PD potrà iniziare a ripercorrere la strada che abbia come meta un partito rinnovato, maggiormente attento alle esigenze del lavoro che a quelle dell’impresa. Il primo passo è stato fatto. Ora si tratta di compiere il passo successivo che, secondo noi, va nella direzione di quanto indicato da Scotto, Speranza e Bersani. Gli elettori di sinistra chiedono unità: che tutti i soggetti interessati, partiti, associazioni ambientaliste, sociali, civiche, si siedano intorno a un tavolo e comincino a parlare di programmi. Un sondaggio Demopolis di qualche giorno fa indica il lavoro come principale problema sentito dai cittadini. Si potrebbe certamente partire da questo tema, discutendo di nuovi lavori, di precariato, di contratti e di diritti. Poi si dovrebbero affrontare questioni altrettanto importanti: il diritto alla salute, l’istruzione pubblica, il fisco, le autonomie regionali, l’etica. Siamo sicuri che su questi temi possa esserci convergenza di idee e proposte. Solo in seguito si potrà discutere del contenitore politico che dovrà farsi carico di portare avanti tale programma: che sia un’alleanza, una federazione o qualcosa di completamente nuovo, poco importa. Ciò che conta è che questa forza possa recuperare i milioni di voti 9
persi per strada per inseguire politiche centriste che, nel corso di questi ultimi anni, hanno completamente disatteso i bisogni delle fasce più deboli della popolazione. È davvero sconvolgente come queste istanze siano state intercettate dalle forze di destra per aumentare il loro consenso. È una responsabilità storica che i partiti della sinistra si porteranno addosso e alla quale occorrerà porre rimedio.
Il nuovo governo, nato dall’urgenza e dalla necessità di contrastare la destra, rappresenta un’opportunità. Nessuno si nasconde la difficoltà di una collaborazione con il Movimento 5 Stelle 10
che ne è il maggior azionista, né con la neonata formazione renziana che vorrà far pesare i suoi voti in Senato. Ma un immediato ritorno alle urne consegnerebbe il Paese alla destra con prospettive davvero scoraggianti. Allora adoperiamo questo tempo per costruire un nuovo soggetto politico unitario di sinistra. Che parli ai ceti popolari, ai lavoratori, agli studenti, a tutti coloro che negli ultimi anni sono stati dimenticati. Che si confronti con le organizzazioni sindacali che non sono nemici da abbattere come credeva qualcuno. Che riparta dalla scuola e dalla sanità pubblica. Che, soprattutto, non si chiuda nelle stanze del potere, metta da parte i social e torni sui territori ad ascoltare la voce delle persone e i loro bisogni. Progetto ambizioso ma se si riuscirà a realizzarlo allora i milioni di voti dispersi torneranno finalmente a casa.
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Esteri
Afghanistan, un fallimento lungo diciotto anni Umberto DE GIOVANNANGELI
La sanzione di un fallimento, Lungo diciotto anni. Afghanistan, il “cimitero” dell’Occidente. Un pantano insanguinato dal quale sarà impossibile uscire senza una severa riflessione sulla genesi di una guerra che avrebbe dovuto abbattere il terrorismo qaedista e spazzare via il “regno” dei talebani, ma che, diciotto anni dopo il suo inizio, registra l’affermarsi non solo dei talebani ma dei signori dell’oppio ed anche del vero competitore dei talebani al controllo del territorio e delle rotte della droga: lo Stato islamico. “Sono morti, per quanto mi riguarda sono morti. 12
Credevano che uccidere delle persone li avrebbe messi in una migliore posizione negoziale. Quando hanno ucciso 12 persone. Per quanto mi riguarda sono morti. Negli ultimi quattro giorni abbiamo colpito i talebani più forte che negli ultimi 10 anni. E continueremo": così Donald Trump sanziona un fallimento. Non solo il suo, ma anche dei suoi predecessori alla Casa Bianca, Repubblicani e Democratici, che in quella guerra si sono spesi. Un fallimento condiviso dagli alleati occidentali, Italia tra essi, che in quella guerra si sono fatti trascinare. Ora Washington è in un vicolo cieco. Perché il ritiro, sia pur parziale, delle sue truppe dal campo avrebbe il sapore acre della fuga. Eppure l’intesa sembrava oramai a portata di mano, nonostante nei giorni scorsi fosse trapelata l’indiscrezione sullo scetticismo del segretario di Stato americano, Mike Pompeo. E si che — ricorda la Bbc — il negoziatore statunitense per l’Afghanistan, Zalmay Khalilzad, aveva annunciato un accordo di pace “in linea di principio con i talebani. Come parte centrale dell’intese che erano state raggiunte a Doha (dopo quasi un anno di colloqui tra Khalilzad, e la delegazione talebana guidata da Abdul Ghani Baradar, è che almeno 5.400 soldati americani avrebbero dovuto lasciare 5 basi in Afghanistan aentro venti settimane. . Altre migliaia, oltre a circa 6.000 alleati Nato (tra cui 700 italiani), avrebbero però dovuto restare nel Paese per accompagnare il nodo molto più controverso dei tentativi di dialogo tra la delegazione di 15 membri organizzata lo scorso luglio dal presidente afghano Ashraf Ghani - che gli “studenti del Corano” non riconoscono come legittimo, considerandolo un “pupazzo Usa” - e i talebani.Tuttavia, Khalilzad aveva precisato che l’approvazione finale del piano spettava al presidente Trump. E quel piano The Donald alla fine l’ha bocciato. Costretto dall’offensiva del terrore scatenata dai talebani. Che oggi rilanciano. I talebani hanno avvertito che se gli Stati Uniti cessassero il ritiro delle loro truppe dall'Afghanistan, come ha deciso Trump, "lo rimpiangeranno presto". "Avevamo due modi per porre fine all'occupa13
zione dell'Afghanistan, la jihad e i combattimenti, i colloqui e i negoziati. Se Trump vuole fermare i colloqui, prenderemo la prima strada e se ne pentiranno presto", ha detto uno dei portavoce degli “studenti del Corano” , Zabihullah Mujahid. Ed è in questo scenario che domenica scorsa si è votato per eleggere un presidente che controlla neanche la metà del territorio sul quale dovrebbe governare. Su 35 milioni di afghani alle liste elettorali se ne sono iscritti 9,6 milioni, ma la partecipazione è stata molto minore. Un flop annunciato. Un primo turno delle presidenziali che vedeva come candidati principali il presidente uscente Ashraf Ghani e il capo dell'esecutivo Abdullah Abdullah. I due hanno condiviso il potere negli ultimi cinque anni in un governo di unità dopo che le precedenti elezioni sono state travolte dalle accuse di brogli. I risultati ufficiali del voto di domenica non saranno noti per diverse settimane, ma molti temono che un'altra crisi politica possa spezzare la già fragile democrazia di questo Paese. Duellanti più che altro di facciata, visto che i due condividono un esperimento istituzionale dal 2014, un governo di unità nazionale che tuttavia si è presto bloccato. Finora le elezioni presidenziali sono sempre state la cronaca di un insuccesso annunciato. Macchiate da frodi, brogli, colpi bassi tra i candidati. Le ultime poi, che rivestivano una particolare importanza – si sono svolte nell'anno, il 2014, in cui si stava completando il ritiro del contingente militare della Nato (Isaf) - sono state particolarmente difficili. Nel novembre 2015 il governo di Kabul sosteneva di avere il controllo del 72% del territorio nazionale. Dalla seconda metà del 2016 altro terreno è stato perso, con il governo afghano che arrivava a solo il 57% del Paese, ma questa percentuale di controllo si è ridotta ulteriormente con la caduta del distretto di Sangin, nell’Helmand, una perdita simbolica per tutta la coalizione anti-talebani. In particolare, i talebani hanno una significativa influenza su una fascia di territorio che dalla provincia di Farah attraversa le provincie di Helmand, Kandahar, Uruzgan, 14
Zabul, fino alla provincia di Ghazni. I talebani hanno adesso il controllo completo di 5 distretti su 18 della provincia di Ghazni e del 60% di altri 9 distretti I talebani conquistano
territori
e
comprano
equipaggiamento, armi,
munizioni
e carburante direttamente dai soldati dell’esercito afghano. i loro attacchi sono quotidiani.. A contendere loro la leadership jihadista sono i foreign fighters dell’Isis. L’Afghanistan non è l’Iraq o la Siria, dove gli affiliati all’Isis combattono i curdi, i cristiani e gli sciiti. Qui il potere è conteso ad altri sunniti, i talebani, e più che per conquistare nuovi territori al “califfato”, si combatte per assicurarsi il controllo delle rotte del commercio dei narcotici. La “fabbrica” talebana di oppiacei mantiene salda la prima posizione mondiale, infatti l’eroina afghana raggiunge quasi tutto il globo. Due dati particolarmente indicativi: copre il fabbisogno del 90% del Canada e dell’85% circa delle richieste mondiali. La produzione e gestione del traffico di droga è la fonte principale di finanziamento dei talebani. Un traffico enorme, fortemente consolidato nella sua catena di produzione-venditaincasso di milioni di dollari di profitti. Il prodotto viaggia sfruttando tutti i mezzi di trasporto: le rotte aeree e marittime permettono all’eroina afgana di giungere ovunque (eccetto il Sud America, qui vi sono i cartelli narcos che hanno il ‘loro’ prodotto). Le vie terrestri coinvolgono pesantemente Iran e Pakistan, costretti ad impiegare sempre più risorse per contrastare questi flussi. Lo Stato islamico è entrato in questa partita. La provincia di Nangarhar, nella parte orientale del Paese, al confine con il Pakistan, e ora è in buona parte occupata dall’Isis. L’invasione è cominciata nell’estate del 2014, quando dal confine sono arrivati un centinaio di talebani pakistani che, dopo essere scappati dall’esercito, si sono uniti a una fazione di talebani afghani. Nel gennaio 2017, l’Isis ha annunciato la nascita di una nuova fazione locale in Afghanistan, alla quale hanno velocemente aderito molti fuoriusciti dai talebani: gli afghani di Nangarhar non lo sapevano, ma si trattava proprio dei pakistani 15
rifugiati nelle loro case. Dopo un anno di alleanza con i talebani afghani, in estate, l’Isis è venuto allo scoperto predicando in moschea un islam rigidamente wahabita (lo stesso professato in Arabia Saudita). A luglio sono cominciati i primi scontri a fuoco tra i talebani afghani e i pakistani, passati all’Isis. Dopo un mese circa di combattimenti, l’Isis si è impossessato della zona, nonostante gli americani bombardassero sia loro che i talebani. Passando villaggio per villaggio e casa per casa, i jihadisti hanno rubato i mezzi di sostentamento ai residenti, distruggendo scuole e madrasse talebane, imponendo una nuova legge. Le abitazioni dei talebani sono state bruciate e chi veniva sospettato di essere loro alleato è stato rapito e seviziato. Dopo diciotto anni di guerra, lo Stato afghano appare oggi una entità fallita. Diciotto anni di guerra, ovvero oltre 140 mila morti, tra cui almeno 26 mila civili. A questi si aggiungono oltre 3.500 soldati Nato (di cui 53 italiani, più 650 feriti), almeno 1.700 contractor di varie nazionalità e oltre 300 cooperanti stranieri. Una guerra costata 900 miliardi di dollari, 7,5 per l'Italia. Afghanistan, 2001-2018: storia di un fallimento. Militare e politico. Perché la Nato non è riuscita né a sconfiggere i talebani, né a riportare la pace né a ricostruire un esercito in grado di contrastarli. Sul terreno si assiste ad una competizione per la leadership del terrore tra l’Isis, che sta arruolando i pashtun, e al Qaeda 2.0. Una concorrenza che non oscura il dato di realtà: l’idea del “califfato” prende sempre più piede, e territori, in Afghanistan. E il “futuro” assomiglia sempre più a un ritorno alla situazione antecedente l’intervento militare dell’ottobre 2001: un Paese-santuario dell’islam radicale armato. Dall’avvio della “guerra al terrorismo” qaedista, nell’ottobre 2001, l’Afghanistan è un Paese che non sa cosa sia la pacificazione, dove a prosperare sono solo i traffici di armi e di droga. Un Paese dove imperano milizie jihadiste, “signori della guerra” e califfi eterodiretti; un Paese dove nessuno può dirsi al sicuro. Per il giornalista francese Jean-Pierre Perrin, autore del libro Le djihad contre le 16
rêve d’Alexandre, una storia dell’Afghanistan dal 330 a.C. ai giorni nostri, gli occidentali hanno già perso: “I Paesi occidentali non vogliono riconoscere questa umiliante sconfitta. E ancora meno sono disposti ad accettare che sia stata inflitta loro da bande di irregolari male armati, male addestrati, poco equipaggiati e dieci volte meno numerosi. Questa sconfitta ci riporta ai fallimenti degli invasori precedenti: gli inglesi in tre occasioni – e la prima volta risaliva a qualche anno dopo la vittoria su Napoleone – i russi e prima di loro altri eserciti stranieri meno importanti come gli iraniani. Del resto non è un caso se l’Afghanistan è chiamato il ‘cimitero degli imperi’”. Un “cimitero” dal quale tutti vorrebbero andarsene. Senza, però, dare l’idea di una fuga dalla sconfitta.
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Cinema
Siamo tutte in “Rosa” Antonella BUCCINI
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E’ un film coraggioso “Rosa” e lo è anche Lunetta Savino, la protagonista. La storia muove da un lutto, il più doloroso per una madre, la perdita di una figlia. Non è un tema originale in sé, in tanti hanno trattato con più o meno delicatezza l’argomento. In questo caso, la regista, Katja Colja, assume una prospettiva nuova, proponendo soluzioni salvifiche apparentemente improbabili. In una Trieste bellissima e struggente sopravvive questa famiglia, il padre sloveno Igor, la madre Rosa, insieme da quarant’anni e l’altra figlia, prossima alle nozze, l’unica, quindi, a scommettere sul futuro. I genitori sembrano voler concludere faticosamente la loro unione impietriti dal dolore che ognuno attraversa a suo modo. Nella disperata e inconsapevole ricerca di un senso, Rosa si aggira incerta nella vecchia casa, tra le cose della ragazza come a ritrovarla o a riconoscerla. E così si imbatte inaspettatamente in un sex toy . Sarà come un filo di Arianna che le consentirà di avere accesso a una rinnovata percezione della vita. Il corpo diventa luogo di rinascita, dunque, ed è quello di una donna non più giovane che, per il comune sentire, non ha sesso né sensi, va sottinteso, sempre, e ha legittimità di esistenza nella malattia o nell’accudimento altrui. Questo film sovverte il paradigma. L’aspetto fisico, quindi, non è funzionale alla consueta marginalizzazione. Il corpo di Rosa ha evidenza nel dolore che segna il volto e scolpisce una malinconia irrimediabile, ma anche, e questo è il verso rivoluzionario, nella riscoperta dei sensi, tutti: la gioia dell’adesione dei piedi nudi al terriccio o il piacere erotico. Un dolore così devastante assume un significato esistenziale sopportabile attraverso la riappropriazione del proprio sentire fisico, contratto nello spasimo di una ferita insostenibile, e della riconquista di una possibile forma di serenità. E’ un film coraggioso, dunque, perché si incarica di coniugare sentimenti e sensibilità ritenuti incompatibili, ma non solo. Lancia uno sguardo aperto e vitale su un 19
tempo femminile che non ha cittadinanza. Lunetta Savino è coraggiosa perché non si sottrae e, con una recitazione misurata e insieme intensa, lascia che la macchina da presa scruti impietosa il dolore di un volto segnato ma anche la sua rinascita Mi sento di aggiungere che ancora oggi i modelli di sdoganamento del corpo invecchiato delle donne passano attraverso la consueta funzione ornamentale e complementare
e/o
l’assimilazione
a
stereotipi
maschili.
Tutti
rimandi
a
un’appartenenza sbilenca alla gioventù. Le donne continuano ad abdicare a un’identità altra dall’uomo e dall’atavica figura femminile. “Né sante né puttane”, affermavamo un tempo. E quindi? Sembra assente la vera diversità della forma del femminile all’esito dell’unico vero rinnovamento degli ultimi settant’anni, quello prodotto dalle donne. Il lungometraggio di questa giovane regista suggerisce un’altra visione provando a disinnescare una serie di tabù contigui alla maternità, al dolore, al corpo che invecchia, alla sessualità. Proiettato nell’ambito del Napoli film festival ci auguriamo che possa avere la distribuzione e la visibilità che merita.
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Politica e Religione
Laudato si’ se pianti un albero Giovan Giuseppe MENNELLA
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Un famoso libro di Jean Giono, “L’uomo che piantava gli alberi”, rischia di essere superato per grandiosità di visione dall’appello lanciato in Italia che invita a piantare 60 milioni di alberi. Per capire di che si tratta e da dove proviene quest’ottima idea, occorre fare due passi indietro. Uno al 2011 e l’altro al 2015. Nel 2011 l’Unione Internazionale per la conservazione della natura e il Governo tedesco lanciarono con il Bonn Challenge, la sfida di un progetto per riforestare 150 milioni di ettari di terreno privo di alberi entro il 2020 e 350 milioni di ettari entro il 2030. Il progetto prevedeva, in base alla filosofia del restauro del paesaggio forestale (FLR), di salvaguardare l’integrità ecologica e nello stesso tempo migliorare la qualità della vita degli esseri umani anche da un punto di vista economico. Il progetto fu adottato ed esteso dalla dichiarazione di New York sulle foreste, nell’ambito del summit sul clima dell’ONU del 2014, cui hanno aderito molte altre Nazioni in Africa e in America Latina, con un partenariato globale per il restauro di foreste e paesaggi. Nel 2015, a maggio, è stata pubblicata l’Enciclica di Papa Francesco “Laudato si’” che ha tracciato un quadro dei mali di cui soffre la Terra, tra cui il deterioramento della natura e della qualità della vita di gran parte dell’umanità. Il Papa ha auspicato di fare fronte comune contro l’inquinamento, i cambiamenti climatici, la perdita di biodiversità, l’eccessivo spreco e la scarsità dell’acqua. Ha invitato a non credere che ogni acquisto di potenza sia sempre progresso. In conclusione, come linee operative concrete, ha proposto di adottare il dialogo sull’ambiente nelle politiche internazionali, nazionali e locali, la trasparenza nei processi decisionali, il dialogo tra la politica e l’economia e tra la religione e le scienze per la salvaguardia dell’ambiente e la pienezza e dignità della vita umana. Nel solco dell’Enciclica papale, in Italia è sorta la Comunità “Laudato si’”, con il 22
compito di sostenere con iniziative concrete la parola del Pontefice. E così, il 12 settembre scorso, nell’ambito e per iniziativa della Comunità, Stefano Mancuso, neurobiologo delle piante e direttore del LINV (Laboratorio Internazionale della Neurobiologia Vegetale), Carlo Petrini, direttore di Slow Food Italia e Carlo Pompili, vescovo di Rieti, hanno lanciato l’appello per “Un albero in più” in cui hanno proposto di piantare 60 milioni di alberi, uno per ogni cittadino italiano, per contrastare la crisi climatica. L’iniziativa è rivolta anche contro la cementificazione del nostro territorio ed è diretta a ogni cittadino di buona volontà, a ogni organizzazione di qualunque natura ed orientamento, a ogni azienda pubblica o privata, alla rete di Comuni, Regioni e al Governo nazionale. La prima idea dell’appello a piantare alberi era nata nel 2016 quando il Presidente di Slow Food Carlo Petrini era andato ad Amatrice a parlare con i terremotati dell’evento sismico del 24 agosto e si era incontrato anche con il vescovo di Rieti Carlo Pompili, nell’ambito di uno dei raduni dedicati all’ambiente e all’economia solidale in quel territorio ferito. I due avevano riflettuto sul fatto il terremoto aveva imposto il tema del rapporto tra l’uomo e l’ambiente e aveva messo tutti di fronte alle ragioni espresse nella “Laudato si’” di Papa Francesco.
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Avevano pensato di trasformare in azione concreta il pensiero del Papa, con iniziative dal basso. Quella prima idea aveva suscitato l’interesse di molti intellettuali, tra cui lo scienziato delle piante Stefano Mancuso. Lo stesso Mancuso, Petrini e Pompili pensano che la riforestazione non inciderebbe sugli stili di vita e avrebbe costi irrisori rispetto ad altre iniziative. Soprattutto, sarebbe funzionale alla lotta al cambiamento climatico. Si dovrebbe coprire ogni zona d’Italia, soprattutto le città, e gli spazi interstiziali tra le opere pubbliche già realizzate, come i raccordi autostradali non più utilizzabili per i lavori agricoli, i cortili delle scuole, gli scali ferroviari in disuso e ogni altra area possibile. Nelle città le piante ridurrebbero l’isola di calore durante le ondate torride estive, favorirebbero la biodiversità, mitigherebbero le alluvioni urbane, migliorerebbero la qualità della vita. Gli alberi sarebbero la scelta ottimale contro la diffusione dell’anidride carbonica nell’atmosfera, combatterebbero l’effetto serra e l’aumento progressivo della temperatura. Secondo la FAO, per ridurre di un grado e mezzo il riscaldamento globale entro il 2050 servirebbero un miliardo di ettari in più di foreste, una cifra effettivamente grande, considerato che sul pianeta ci sono 5,5 miliardi di ettari di verde. Si dovrebbe cominciare a farlo subito, per combattere con mezzi naturali la desertificazione, lo scioglimento delle calotte polari e dei ghiacciai, l’aumento della siccità e gli incendi. Purtroppo però le ultime notizie degli incendi in Amazzonia e le decisioni scellerate che minaccia di prendere il Presidente brasiliano Bolzonaro non promettono niente di buono. La proposta “Un albero in più” di “Laudato si’” ovviamente deve essere valutata e sviluppata con cognizione di causa e sapienza tecnica. Per questo undici importanti riferimenti del settore forestale e ambientale, tra cui Legambiente, Uncem, WWF, FSC, l’hanno accolta e rilanciata facendo presente che dovrebbero essere usati spa24
zi e luoghi idonei, materiale vivaistico controllato, per evitare organismi infestanti, e risorse economiche sufficienti per le cure agli alberi. Enzo Bianco, Presidente del Consiglio dell’ANCI, associazione che raggruppa 7mila Comuni italiani, ha aderito all’iniziativa dicendo che sarebbe bello se il primo albero fosse piantato a Cerignale, in provincia di Piacenza, borgo guidato da Massimo Castelli Presidente dell’Associazione Piccoli Comuni, simbolo di un’Italia piccola ma bellissima, indebolita dallo spopolamento. Secondo Castelli si potrebbe unire il concetto degli alberi in più con quello degli abitanti in più per il ritorno nelle zone ora spopolate. Nell’iniziativa, oltre ai piccoli comuni, sono presenti anche quelli che fanno capo all’associazione Borghi autentici d’Italia. Nella città di Milano Stefano Boeri, architetto urbanista ed ex assessore alla Cultura del Comune, sta già lavorando, in contatto col Sindaco Sala ed il Politecnico, ad un piano di riforestazione urbana per piantare in tutta la città metropolitana tre milioni di alberi entro il 2030, con l’obiettivo di iniziare subito con almeno centomila esemplari e tre progetti pilota. La parola d’ordine anche qui è “un fusto per ogni abitante”. Boeri sostiene che occorre partire con la riforestazione proprio dalle aree metropolitane, che sono quattordici in Italia. Appunto con un fusto per ogni abitante delle aree metropolitane se ne potrebbero piantare 22 milioni nei prossimi 10 anni. Aggiungendo gli altri centri con più di 15mila residenti se ne pianterebbero ulteriori 18 milioni. Si arriverebbe così a 40 milioni, un buon punto di partenza. E’ anche attivo un gruppo di ricerca comprendente la FAO e la SISEF Società italiana di selvicoltura ed ecologia forestale che prevede di connettere le città alla dorsale appenninica e al sistema alpino attraverso corridoi verdi. Non sarebbe male che molte città italiane aderissero a queste iniziative, specialmente al Sud. 25
La situazione del verde delle aree urbane è determinante perché ci vive la maggior parte della popolazione e da sole producono il 75% dell’anidride carbonica globale, con le foreste che possono assorbire il 40% dell’anidride carbonica globalmente emessa. Anche il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, nei suoi discorsi al Parlamento italiano e all’ONU, ha parlato di svolta ambientalista e sviluppo sostenibile, facendo la scelta di individuare nei temi ambientali il punto di congiunzione tra i due partiti che attualmente sostengono il governo. La politica può fare molto, guidando le scelte industriali e sostenendo con leggi specifiche i necessari cambiamenti nello stile di vita dei cittadini. Non si possono non guardare con simpatia le manifestazioni dei giovani dei Friday for future con la giovanissima Greta Thumberg alla testa, che, non a caso, è risultata essere una lontana discendente dello scienziato svedese Svante Arrhenius, Premio Nobel per la chimica nel 1903, che per primo aveva riflettuto sul problema del 26
riscaldamento dell’atmosfera ed oggi è molto citato ed apprezzato dal meteorologo e scienziato divulgatore ambientalista Luca Mercalli. Anche l’Italia è ben rappresentata tra i giovani che protestano, ce ne sono moltissimi nelle piazze, con alla testa la giovane Federica Gasbarro che è stata invitata a partecipare all’ONU, sola rappresentante italiana, alla discussione tenutasi nei giorni scorsi sull’ambiente. In definitiva, come sostiene da tempo l’antropologo culturale Adriano Favole, oggi la contrapposizione politica e ideologica nel mondo va verso due posizioni: una che difende con muri di tutti i tipi le zone di confort economico dei paesi già sviluppati e un’altra, fatta di tanti “uomini e donne che piantano gli alberi” che vuole cambiare il modello di sviluppo economico per ottenere una vera giustizia globale, visto che la Terra ha dato chiarissimi segni che non regge più a questo tipo di economia. La domanda, ancora senza risposta, è se la politica globale riuscirà a cambiare in tempo indirizzi politici ed economici. Certo non sarà facile neanche per il progetto della Comunità “Laudato Si’” raggiungere gli obiettivi, ma è comunque un’ottima idea e vale la pena provarci.
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Politica
Voto a 16 anni? Antonella GOLINELLI
Confesso di essere rimasta interdetta. Il voto a 16 anni quale risoluzione dei problemi? La fascinazione del giovanilismo perché? Aiutatemi. Ipotesi numero 1: strumentalizziamo l'impegno eco che si aggira per il mondo? Perché un filino suona strano il tempismo delle dichiarazioni. Ma giusto un filino. Ipotesi numero 2: non riuscendo a spuntarla col popolo esistente cambiamo il popolo? Pure questa non sarebbe una novità assoluta. Ipotesi numero 3: ci si avvia a tornare ad una età adulta precoce dopo decenni di 28
eterna adolescenza. In pratica la teoria di S. Tommaso. Ma io dico, I say, qualcuno mi spiega perché Letta (Enrico) si è espresso in questi termini? Seguito a ruota da Di Maio e pure dal resto dei partiti a dirla proprio tutti. Mi spiegate perché e in che termini si vuole estendere il diritto di voto ai sedicenni? Per esempio: 1.
è solo attivo?
2.
Perché passivo, eventualmente, no? Da quella via che ci siamo perché non
cambiare i criteri per l'elettorato passivo? 3.
Il diritto di voto prelude all'abbassamento della maggiore età?
4.
Il diritto di voto prelude al conferimento della patente di guida a questa età?
Perché non si capisce bene dove si voglia andare a parare. Non ricordo chi sinceramente, ha affermato che “a 16 anni lavorano e pagano le tasse. Dobbiamo ascoltarli” come sarebbe a dire? Non ascoltate nessuno e ascoltare i ragazzini in termini di voti? Siete sicuri? In base a questi principio (paragonabile al “no taxation without rappresentation”) si capisce poco perché ai sedicenni sì e ai residenti da decenni no. Per esempio. Pare strano che ci si affanni a cercare nuovi elettori, ma nuovi di pacca, senza recuperare un elettorato ormai sfinito da promesse e balletti continui sul nulla. Rasenta il ridicolo la volontà di ottenere un elettorato facilmente influenzabile, data l'immatura età, e manovrabili con titoli di comodo, facilmente ripetibili e moltiplicabili, senza che la capacità critica dei destinatari si adeguatamente preparata e pronta a cogliere i messaggi surrettizi. 29
Ma li volete lasciare in pace ‘sti ragazzini! Ma non vi vergognate nemmeno un po'! Lasciate vivano la loro vita da adolescenti senza tentare di adescarli con richiami da sirene. Evitate di prenderli in giro con queste promesse. Che non sono nemmeno allettanti. Badate piuttosto a fornire loro una preparazione e un futuro. Che giĂ l'avete portato via a genitori e nonni senza nessuna vergogna. La vostra è una dichiarazione di debolezza, una resa alla vostra inettitudine, all'incapacitĂ di rendere questo mondo, il nostro mondo, un posto dove vivere civilmente e dignitosamente. Immagino sia la diretta conseguenza del cercare candidati sempre piĂš giovani e manovrabili, per consentire al potere di reiterare e salvaguardare se stesso. Solo che tra un po' vi tocca andare all'asilo per reclutare. #mognint
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Economia
Perché non aumentare l’IVA Aldo AVALLONE
Il governo è alle prese con la manovra economica 2020. Sui giornali si legge di tutto un po’ ma l’unico argomento che sembra interessare i media è se si riuscirà o meno a scongiurare l’aumento dell’IVA imposto dalle clausole di salvaguardia. Clausole di salvaguardia che dal 2011 ogni governo si trascina dietro come un macigno e che impediscono qualsiasi prospettiva di reale sviluppo. Si cercano ventitré miliardi di euro, non proprio noccioline. Il primo ministro Conte annuncia di averli trovati (fortunato lui!) subito smentito dalle opposizioni. Insomma questa vicenda dell’aumento dell’IVA sta, di fatto, bloccando il dibattito su tutta la legge di bilan31
cio 2020 che dovrebbe avere altre priorità. Innanzitutto la riduzione del cuneo fiscale, di cui dovrebbero beneficiare i lavoratori a reddito medio-basso. Quindi, tutte quelle misure necessarie allo sviluppo: dagli incentivi all’assunzione agli investimenti per opere pubbliche, dalla messa in sicurezza degli edifici scolastici al risanamento ambientale. Siamo davvero così sicuri di voler usare questi ventitré miliardi per bloccare l’aumento dell’IVA? Nel dibattito in corso si leggono alcune soluzioni per recuperare i fondi. Ad esempio, aumentare l’IVA di due punti sui prodotti tassati al 10 per cento se acquistati in contanti, mentre si otterrebbe uno sconto di un punto percentuale se pagati con sistemi tracciabili. Sembra un approccio accettabile tendente a recuperare una parte di evasione fiscale. Ma sicuramente non sufficiente a reperire tutte le risorse necessarie.
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Allora, c’è da chiedersi se non sia il caso di liberarsi di queste clausole una volta per tutte. La soluzione è semplice: abbassare l’IVA su tutti i generi di prima necessità e aumentarla su tutti i prodotti di lusso quali gioielli, liquori, auto di grossa cilindrata, barche, eccetera. Se ne può cominciare a discutere o è una proposta troppo di sinistra?
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Testata online aperiodica Proprietà: Comitato per l’Unità Laburista, Strada Sesia 39 14100 Asti (AT) Direttore Responsabile: Aldo Avallone - Stampatore: www.issuu.com web: www.issuu.com/lunitalaburista - mail: lunitalaburista@gmail.com - Tel. +39.347.3612172 Palo Alto, CA (USA), 3 ottobre 2019 36