Numero 15 del 9 ottobre 2019
#FreeRojava
Sommario
Siria, a fianco dei combattenti per la libertà pag. 3 di Umberto DE GIOVANNANGELI
La Sinistra che vince - pag. 10 di Aldo AVALLONE
L’inferno in terra - pag. 13 di Raffaele FLAMINIO
Per una storia dello Statuto dei Lavoratori - pag. 18 di Giovan Giuseppe MENNELLA Il grande buio - pag. 26 di Umberto SCOTTI DI UCCIO
Dalla parte della vita, della generazione e della cura - pag. 28 di Antonella BUCCINI
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Esteri
Siria, a fianco dei combattenti per la libertà Umberto DE GIOVANNANGELI
Un tradimento consumato a metà. Ma quella mezza marcia indietro del “traditore della Casa Bianca” non ferma il Sultano di Ankara. "Nessun ritiro delle truppe Usa dalla Siria". Lo ha detto un funzionario dell'amministrazione Trump in una conference call con i reporter della Casa Bianca, secondo quanto riportano alcuni media. Solo tra 50 e 100 uomini delle forze speciali Usa nel nord della Siria - ha affermato il funzionario - sono interessati dall'ordine del presidente americano, che non vuole metterli in pericolo. Saranno quindi dispiegati in altre basi. "Non c’è 3
nessuna luce verde nei confronti della Turchia per un massacro dei curdi. Dire questo è da irresponsabili": così nel corso di una conference call con i reporter della Casa Bianca si è espresso un funzionario dell'amministrazione statunitense, aggiungendo come "le azioni decise dal presidente sono solo mirate a proteggere i nostri soldati". A provocare la correzione di rotta è stata la reazione sorpresa del Pentagono e negativa degli stessi repubblicani che, in massa, hanno definito la decisione di Trump un "grave errore", una mossa "disastrosa", perché abbandona gli alleati che combattevano contro la jihad islamica. Il primo a manifestare preoccupazione è stato il senatore conservatore Lindsey Graham, fedelissimo di Trump e compagno di golf. Parlando a Fox News, il senatore ha commentato: "Se non avessi visto il nome di Trump sul tweet, avrei pensato che fosse la motivazione usata da Obama per giustificare l'abbandono dell'Iraq". "E' una grande vittoria per Iran e Assad, e per l'Isis - ha aggiunto il senatore - è una decisione miope e irresponsabile. Farò tutto ciò in mio potere per sanzionare la Turchia se faranno anche un solo passo per attaccare i curdi. Io sono pronto a tagliare le relazioni con la Turchia. Credo che gran parte del Congresso la pensi allo stesso modo". Graham ha minacciato sanzioni bipartisan e la richiesta di sospensione dalla Nato nei confronti del governo di Ankara. Se la repubblicana alla Camera, Liz Cheley, ha definito il ritiro un "errore catastrofico" e il senatore Marco Rubio un "grave errore con implicazioni che vanno oltre la Siria", il senatore Mitt Romney ha bollato l'annuncio di Trump come "tradimento". "E' come dire - aggiunge - che l'America non è un alleato affidabile, favorisce il risorgere dell'Isis e preannuncia un altro disastro umanitario". Sull'onda delle dure e compatte reazioni, il presidente ha corretto la propria posizione, minacciando Ankara: "Se la Turchia farà qualcosa che, nella mia grande e impareggiabile saggezza, considererò oltre il limite, distruggerò completamente l'economia turca (l'ho già fatto!)". Intanto il ministro degli Esteri iraniano Moham4
mad Javad Zarif ha ribadito al suo omologo turco Mevlut Cavusoglu "l'opposizione" di Teheran a una "azione militare" turca in Siria. Lo riporta una nota del ministero degli Affari Esteri. Nel corso di una telefonata con Cavusoglu, avvenuta lunedì sera, Zarif ha anche chiesto "il rispetto dell'integrità territoriale e della sovranità" della Siria. Ma le reazioni internazionali non fermano i carri armati e l’artiglieria di Erdogan. Il ministero della Difesa turco ha annunciato di aver terminato i preparativi per la sua offensiva nel nord della Siria contro le milizie curdosiriane Pyg/Ypg e ha ha avvertito che Ankara "non tollererà mai la creazione di un corridoio del terrorismo lungo il confine". "La creazione di una safe zone è necessaria per dare una vita sicura ai siriani e contribuisce alla pace e alla stabilità nella nostra regione", scrive il ministero in un tweet. Una fonte citata dal quotidiano Hurriyet, ha assicurato che "i preparativi sono stati completati nel minimo dettaglio" e "le Forze armate sono pronte a partire non appena riceveranno l'ordine dalle autorità politiche. Se è oggi sarà oggi, se è domani sarà domani, inizieremo non appena arriverà l'ordine", ha aggiunto la fonte. Già nella serata di lunedì - artiglieria di Ankara ha iniziato a bombardare obiettivi delle milizie curde ad alMalikiyah, località siriana situata nella provincia nordorientale di Hasakah, a ridosso del confine turco. Lo hanno riferito fonti locali citate dal sito del quotidiano 'Sabah', secondo le quali nel mirino dell'artiglieria sono finiti "elementi" delle Unità di Protezione del Popolo (Ypg) curdo - che Ankara considera un'organizzazione terroristica - alle porte di al-Malikiyah. Nonostante l'accordo sul meccanismo di sicurezza - si legge in un tweet di Mustafa Bali, portavoce delle Forze democratiche della Siria (Fds) l'alleanza curdo-araba - le forze americane non hanno rispettato i loro impegni e hanno iniziato a ritirarsi dal confine tra Siria e Turchia, lasciando che l'area si trasformi in una zona di guerra". "Ma - aggiunge il tweet - le Fds sono determinate a difendere il nordest della Siria a tutti i costi". Poi: "Se ci 5
ritirassimo come vuole la Turchia lasceremmo un vuoto enorme tra i principali centri abitati, che favorirebbe il ritorno dell'Isis". Erdogan vorrebbe avere il controllo di una fascia di territorio piuttosto ampia: sarebbe un corridoio profondo una trentina di chilometri e lungo più di 400 chilometri lungo il confine tra Turchia e Siria, a est del fiume Eufrate, dove si trovano i curdi (a ovest dell’Eufrate ci sono già forze alleate con la Turchia). Quell’area è in buona parte controllata dalle milizie curde delle Unità di protezione popolare (Ypg) sostenute dagli Usa, sulle quali Washington fece affidamento per combattere l'Isis. Erdogan ha anche annunciato la creazione di nuove città e villaggi dove reinsediare un milione di rifugiati siriani arabo-sunniti per trasformare i curdi in una minoranza lungo la frontiera. La politica di arabizzazione dei territori curdi e annessione strisciante alla Turchia marcia già a pieno regime nel Nord-Ovest della Siria, dove apriranno tre facoltà dell’università di Gaziantep e da dove i curdi vengono espulsi. Nei fatti, quella che si sta configurando è la creazione di un protettorato “ottomano” nel Nord della Siria, che minerebbe l’unità territoriale dello Stato siriano, o di ciò che ne resta dopo oltre otto anni di una devastante guerra per procura, il che potrebbe portare ad uno scontro armato tra la Turchia e il regime di Bashar al-Assad, che pure Ankara, assieme a Russia e Iran, ha fino ad oggi sostenuto. L’invasione turca, supportata nei fatti dall’inerzia della comunità internazionale, è il sintomo di una paura che unisce autocrati di diversa estrazione: che una utopia possa diventare realtà. Che un percorso di autodeterminazione, intriso di sofferenza, sangue, passaggi tragici, possa finalmente raggiungere un primo, storico obiettivo. Un sogno chiamato libertà. Una libertà che si fa Stato: il Kurdistan. Uno Stato plurale, laico, e per questo vissuto come una minaccia, non solo geopolitica, ancor più grave del “Califfato” islamico, da autocrati e teocrati che imperano nella regione, a cominciare dal “Gendarme di Ankara”, il presidente Erdogan. Nessuno ha mai regalato qualcosa al 6
popolo curdo. Un popolo disperso in più Stati, minoranza nel migliore dei casi mal tollerata e più spesso repressa brutalmente, ieri da Saddam Hussein oggi da Erdogan. Un popolo ancora senza Stato ma con una forte, radicata, identità nazionale. Sono state anzitutto le milizie curde a combattere a Mosul, a Raqqa, come hanno fatto eroicamente a Khobane, contro gli oscurantisti tagliagole al soldo di Abu Bakr al-Baghdadi. E mentre combattono (le donne in prima linea) i curdi costruiscono le fondamenta di una entità statuale o comunque di istituzioni politiche che non discriminano in base all’etnia o alla fede professata. Il loro è un pluralismo reale, nel quale la diversità è vissuta come ricchezza e non come minaccia. I curdi, il popolo più grande al mondo senza uno Stato. Repressi ma mai domi. Sono le milizie dell’Ypg ad essere accorse per prime a difesa dei yazidi sterminati dai naziislamisti dell’Isis. Sono loro, i curdi in armi ad essersi opposti per primi all’avanzata del califfato in Iraq e a condurre l’assedio alla “capitale” siriana del Califfato, Raqqa. Nel nord della Siria, l’obiettivo è quello di “creare un sistema sociale autonomo”, come ha detto all’agenzia di stampa curda Firat, Nesrin Abdullah, comandante dell’unità femminile delle Unità di Protezione del Popolo (Ypg), che in questi mesi hanno portato avanti una dura lotta contro il Califfato Eppure, per Erdogan restano il nemico principale, ancor più di Bashar al-Assad. E Ciò che spaventa gli autocrati e ai teocrati mediorientali non è la forza militare dei curdi (poca cosa rispetto all’esercito turco, il secondo, dopo quello americano, quanto a dimensioni in ambito Nato) ma la capacità attrattiva del modello politico e istituzionale che propugnano: un Confederalismo democratico che ridefinisca in termini di autonomia (in particolare in Turchia e in Siria) gli Stati centralistici ed etnocentrici. In un Grande Medio Oriente segnato da una deriva integralista o da controrivoluzioni militari, il “modello curdo” va in controtendenza. Perché si ispira all’idea che più spaventa califfi, sultani, teocrati e generali: l’idea della democrazia. Sentirsi parte 7
di un popolo coraggioso, tradito da tutti. Condividerne le ragioni, lo spirito, il sacrificio. Ed essere disposti a pagarne il prezzo più alto: quello della vita. E’ la fascinazione delle nuove “Brigate internazionali” combattenti nella regione del Rojava, a fianco dei Curdi. Di esse faceva parte Giovanni Francesco Asperti, 53 anni, originario di Ponteranica, alle porte di Bergamo, sposato e padre di due figli (13 anni il ragazzino, 14 la ragazzina). I miliziani curdi, sul loro sito, hanno reso noto che l'uomo, conosciuto con il nome di battaglia di Hiwa Bosco, è rimasto vittima di uno "sfortunato incidente mentre era in servizio a Derik, il 7 dicembre" 2018 Sul sito della milizia, Unità per la protezione dei popoli (Ypg), che combatte contro l'Isis in Siria, si spiega che “Hiwa Bosco'” era uno delle "centinaia di rivoluzionari che si erano uniti alla lotta contro l'Isis nella regione curda di Rojava e nel nord della Siria" e "durante tutta la sua vita nella lotta di liberazione ha dato l'esempio di una vita rivoluzionaria". Il sito pubblica anche la foto di Asperti. Volontari da tutta Europa si sono uniti ai curdi nella lotta contro l’Isis a partire dal 2014. Chi scrive ha provato a scavare nelle storie di alcuni di loro: storie diverse, età diverse, ma una comune ricerca di senso, di sentirsi parte di una comunità cosmopolita che abbraccia la causa del più debole. In questa scelta di campo, non c’è niente di religioso, tanto meno di “jihadista”. Combattono, certo, ma non hanno il profilo dei foreign fighters che hanno ingrossato le fila dell’Isis. Non sono animati dall’odio, non intendono imporre uno stile di vita totalizzante, non sono alla ricerca di un riscatto sociale o in fuga da una vita di stenti ed emarginazione. Niente di tutto questo è presente nella vita di Asperti. L’orizzonte è quello della libertà. La Brigata internazionale ha combattuto con le forze speciali curde sul fronte di Raqqa, dove si era specializzata in assalti notturni. Nell’estate del 2017 contava su una decina di volontari italiani. Fra loro c’era anche Claudio Locatelli, di Curno, in provincia di Bergamo, che ieri ha espresso il suo “dolore dovuto a ogni combattente che ha 8
scelto la via del campo”. Una battaglia in cui, in questi anni, sono morti al fianco dei siriani e dei curdi decine di giovani europei. Insieme a Locatelli sono infatti altri 17, comprese due donne, gli italiani considerati in forze allo YPG. il governo turco sta cercando di cancellare chi ha combattuto Daesh e lottato per una società egualitaria e antisessista, col suo esercito, il secondo della Nato, nostro alleato". Così racconta va all’Ansa quanto stava accadendo in Siria 'Gabar Carlo', nome di battaglia di un "combattente internazionalista" italiano. 'Gabar', come un monte del Kurdistan turco dove 40 anni fa è cominciata la lotta di quel popolo, e 'Carlo' per Carlo Giuliani: lui ha 30 anni, è di origini pugliesi, e nell’estate di due anni fa ha lasciato casa, lavoro e tutto il resto per unirsi come volontario combattente alle Unità di protezione del popolo, Ypg, le milizie curdo-siriane in lotta contro l'Isis e per la rivoluzione confederale del Rojava. Gabar è arrivato in Basur, Kurdistan iracheno, l'1 agosto 2017, per poi passare in Rojava due settimane dopo ed è tornato in Italia un mese fa. "Vorrei tornare dai miei compagni in Siria, ora però non è possibile. Ho portato la rivoluzione con me - dice - e voglio raccontarla per far sentire la voce di chi non ha voce". Una voce di libertà che va sostenuta oggi più che mai. La voce di un popolo in lotta per la vita. Il popolo curdo.
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Politica
La Sinistra che vince Aldo AVALLONE
Mentre nel febbraio 2014, in Italia Renzi rassicurava il presidente del Consiglio Letta con l’ormai famoso «Enrico, stai sereno», in Portogallo il governo di centrodestra era, di fatto, commissariato dalla Troika che imponeva misure di forte austerità in cambio di un prestito di 78 miliardi di euro. Fatto fuori il buon Letta, il segretario del Pd prese in mano le redini del governo, che ha guidato fino alla debacle del referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, approvando la “buona scuola”, il “jobs act”, abolendo l’articolo 18, riscuotendo la totale approvazione di Confindustria e la critica serrata delle organizzazioni sindacali. A Renzi è succeduto Gentiloni, il cui esecutivo si è contraddistinto quale naturale continuazione poli10
tica del precedente. Il mite Paolo è rimasto in carica fino alle elezioni politiche del marzo 2018 che hanno visto la resistibile ascesa del Movimento 5 Stelle, dovuta soprattutto alle scellerate politiche messe in campo dai governi precedenti a guida PD che, nelle urne, ha pagato un sostanzioso prezzo in termini di consenso. Mentre nel nostro Paese governavano i “progressisti” del Pd, nell’ottobre del 2015, si votò in Portogallo. In quel Paese era al potere il centrodestra che confermò il successo ottenendo la maggioranza relativa ma insufficiente a governare. In quella tornata elettorale però accadde un fatto nuovo: il Partito Socialista, guidato da un avvocato di Lisbona, Antonio Costa, ottenne un successo insperato sull’onda di uno slogan semplice ma efficace “basta austerità”. Con l’appoggio esterno dei due partiti di estrema sinistra, Costa riuscì a formare il nuovo governo. Quello strano connubio, nato da un accordo che prevedeva da un lato il rispetto dei vincoli di bilancio e dall’altro l’allentamento delle misure di austerità imposte dall’Europa, ha avuto vita lunga e felice. Il boom turistico, il basso costo del lavoro, una politica fiscale accogliente nei confronti dei cittadini stranieri (va ricordata la detassazione dei redditi degli stranieri che risiedono nel Paese per almeno sei mesi l’anno) in combinazione con altre misure a sostegno dell’economia e dell’export, hanno consentito al Portogallo di registrare una crescita ben superiore a quella della media europea: il Pil nel 2018 si è attestato a un +2,1%. Oggi il deficit è calato ben oltre la soglia fissata dall’Unione europea (benché il debito pubblico resti alto) e Costa è riuscito a ripristinare alcune misure a favore dei lavoratori che erano state cancellate negli anni precedenti. Ha ristabilito la tredicesima e gli scatti d’anzianità per i dipendenti pubblici, reintrodotto alcuni giorni di festa nazionale, cancellato la sovrattassa sui redditi personali, abbassato l’Iva al 13 per cento per molti prodotti alimentari, alzato il salario minimo garantito da 557 a 580 euro mensili. 11
Domenica scorsa si è votato nuovamente in Portogallo: il Partito Socialista ha ottenuto il 36,7 per cento dei voti mentre i rivali del centrodestra del Partito Socialdemocratico hanno ottenuto il 27,9 per cento. Si accodano il Blocco di sinistra con il 9,6% , seguito dalla coalizione di sinistra al 6,3% , i popolari di destra al 4,2% e gli ambientalisti di Pan al 3,3%. Il premier Costa sperava di raggiungere la maggioranza assoluta ma ciò non è accaduto e dovrà necessariamente raggiungere una qualche forma di accordo con almeno una delle altre formazioni della sinistra portoghese. Ma nessuno dubita che riuscirà a formare un nuovo esecutivo sotto la sua guida. Il Portogallo e la sua capitale Lisbona sono oggi un cantiere aperto: i fondi che provengono dall’Europa vengono ben spesi e tutto fa pensare che il boom lusitano possa continuare anche nei prossimi anni. Si conferma il successo di una sinistra socialista e di governo, accorta sui conti pubblici ma attenta, soprattutto, ai bisogni dei lavoratori. La dimostrazione pratica che le esigenze della finanza possono convivere con quelle dello sviluppo economico. L’esperimento di un socialismo vincente che può essere serenamente trasferito ad altri Paesi dell’Europa. Al nostro, in particolare, se solo si avesse un po’ più di coraggio politico.
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Ambiente e Sfruttamento
L’inferno in terra Raffaele FLAMINIO
Dede mi tiene per mano. La sua pelle è nera e lucente come l’ebano. Non parla. Mi indica la strada con lo sguardo rivolto all’orizzonte. La lascio fare docilmente, mi lascio accompagnare. Ho ancora il fiato corto, la mia tshirt bianca che uso per dormire è inzuppata di sudore. Sarà la mia coscienza sporca di occidentale che mi ha rigurgitato nella mente le immagini di Sodoma e Gomorra. Luoghi infernali. Dede avverte il mio malessere, mi stringe la mano, mi sussurra di stare calmo non c’è nulla temere. Lei è la mia guida, mi proteggerà. Io sono un visitatore che deve 13
conoscere. Proseguiamo ancora di qualche chilometro. La pianura è ampia ed estesa. Il sole è alto come le verdeggianti erbe che accompagnano il nostro percorso. Gli alberi di acacia, di tanto in tanto, ci accarezzano con la loro confortevole ombra. Li in fondo alla pianura il fiume Odawa si riversa nella azzurra Korle Lagoon; siamo in Ghana. Le rive della laguna brulicano di vita. Il villaggio è adagiato sulle placide rive della laguna. Le barche armate da pesca, solcano la superficie di zaffiro delle pescose acque della laguna di Korle. Il pesce è abbondate così come i raccolti incoraggiati dalle piene dello Odawa. Dede finalmente mi parla: «vedi qui regna un grande spirito. Uno spirito generoso e operoso, pacifico. Mi ha sposata perché io convincessi questa gente a rimanere qui in questo luogo di pace e prosperità». Mi lascia la mano, Dede. L’aria si fa irrespirabile, colonne di fumo nero si alzano nel cielo che prima era chiaro e terso. Gli occhi si stringono, le lacrime sciolgono la nera fuliggine depositata sulle orbite. La Korle lagoon placida e mite non esiste più. Intorno a me ci sono montagne di rifiuti elettrici ed elettronici. Mi avvicino alla riva che è tutto un fetido acquitrino; il mefitico fango si aggrappa ai piedi, alle caviglie. Non mi vuole abbandonare. Sull’acqua nera galleggia di tutto. Le schede cpu dei computer navigano indisturbate tra isole di frigoriferi ammassati e rugginosi, selve di tubi catodici carbonizzati vomitano fosforo. Le poche mucche presenti brucano la rada erba contaminata per sfamarsi, altre, invece, guidate da manipoli di ragazzini seminudi e denutriti trascinano in carretti di fortuna fili ricoperti di plastica variopinta destinati alla combustione per ricavare il rame sottostante. Un’umanità disperata ma vivace e laboriosa mi circonda. I bambini, che non perdono mai l’ottimismo in questo inferno in terra, regalano sorrisi. Loro si aggirano festanti tra queste macerie in14
salubri. Scavano come se fosse un gioco, una caccia al tesoro, sciamano verso le baracche di fortuna dove i più grandi e gli adulti preparano i fuochi per la fusione delle plastiche dei nostri apparati digitali dismessi e inutilizzabili. Molti impugnano martelli che percuotono per un giorno intero, tutti i giorni della loro vita, i materiali da cui, una volta rottamati e bruciati, estraggono rare stille d’oro, argento, che poi rivenderanno per pochi spiccioli. Mi guardo intorno, vedo un girone dantesco, donne, bambini e uomini condannati da una vita grama a lottare per la sopravvivenza. Afferro per un braccio uno dei tanti bambini, la voce non vuole uscire, la gola mi brucia come tutto il corpo e gli chiedo: «che cosa è questo?», lui mi guarda sorpreso e mi sorride, poi mi dice: «benvenuto ad Agbogloshie, qui sei a Sodoma e Gomorra. Come ci sei arrivato? Tu non sei di qui?» Penso che io sia causa di ciò anche inconsapevolmente. Dede è andata, forse mi ha fatto incontrare lei questo ragazzino, forse nonostante tutto il grande spirito e la sua sposa ancora abitano questo che fu un luogo salubre. Chiedo al ragazzino il suo nome e di farmi da guida nell’inferno. Si chiama Kofi. Mi dice di seguirlo, mi racconta quello che non so. Siamo in un sobborgo di Accra, la capitale del contemporaneo Ghana, qui arrivano tutti i rifiuti “E – Waste” del cosi detto primo mondo, quello ricco. Milioni di container pieni di p.c., stampanti, schermi, tastiere, frigo usati e quasi sempre guasti giungono a Tema, il porto di Accra. Dicono che sia un’opera benemerita, una sorta di alfabetizzazione digitale per gli indigeni. Le strade della capitale pullulano di negozietti e bancarelle che propongono ogni sorta di “comodità”, poi dopo un breve utilizzo finiscono a Sodoma e Gomorra. La mia giovane guida mi dice che qui hanno la certezza, con l’esperienza fatta tutti i giorni, che questi apparecchi digitali 15
abbiano una data di scadenza programmata. Siamo una manica di fessi, le Corporation ci hanno fuso il cervello, paghiamo pure lo smaltimento nel prezzo. Nel prezzo però non è compreso lo scempio ambientale e umano che questa stupidità comporta. Lui viene dal nord povero e, tutto sommato, qui sta meglio che lì. Il sacrificio comporta molta sofferenza ma, almeno 100/200 cedi al giorno riesce a guadagnarli e, risparmiando un po’, può anche mandare qualcosa a casa. Mentre racconta, mi guardo intorno, alcuni fuochi si sono estinti, chini sulle braci decine di anime luride raccolgono il rame, briciole d’oro e argento che ripongono in piccoli sacchetti che poi rivenderanno in cambio di pochi cedi, corrispondenti a 3,5 euro giornalieri. Ci sono mercati di ortaggi e frutta in questa città dannata, tutto é contaminato dai metalli pesanti così come l’acqua che serve per farli crescere. Intuisco, però, che la disperazione altrove va ben oltre la visione di quello che ho davanti e allora è meglio questo. Ho ripreso a sudare copiosamente, sento le smanie è come se fossi in un incubo che non mi fa dormire. Kofi mi dice ancora che qui le malattie gastrointestinali, il cancro, e quelle polmonari la fanno da padrone. Lui lo sa perché molti suoi amici e conoscenti sono stati visitati dai medici delle ONG; non dovrebbero più lavorare, ma come si fa? Lui dai medici sfugge, ritiene che sia più importante lavorare per imparare e acquisire conoscenze utili al riciclo efficace. Mi conduce in una “scuola” che non è altro che una fatiscente baracca di lamiera ingombra di componenti elettronici e taniche di plastica; non capisco la relazione tra quegli oggetti. Tira fuori da un angolo una tanica colorata, un lato è tagliato a modo di sportello, mi dice: «vedi questa è un’unità centrale ricostruita da quella che voi chiamata spazzatura! E’ bella non credi? Poi funziona. Ecco, qui, si fa anche questo. E al diavolo quella legge che vi 16
siete fatti voi ricchi». Capisco che si riferisce alla Convenzione di Basilea del lontano 1989, che tutti i paesi europei hanno sottoscritto per poi infischiarsene. Gli U.S.A, poi, neanche l’hanno sottoscritta, loro ergono i muri per non vedere. Altri falò ardono e insieme a loro il mio corpo; non ho più volontà sono stremato. A un tratto mi sento stringere la mano, Dede, è tornata, la sposa dello spirito della Korle lagoon mi guarda, nel suo sguardo c’è soddisfazione. Apro gli occhi, osservo sulle mie ginocchia il p.c. portatile, dal quale mi rimbalza un titolo di una pagina web: “Agbogbloshie: la città -discarica più grande dell'Africa”.
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Storia e Diritti
Per una storia dello Statuto dei Lavoratori Giovan Giuseppe MENNELLA
Lo Statuto dei Lavoratori entrò in vigore il 20 maggio 1970 con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica della legge n. 300. In quel 1970 l’Italia contava cinquantasette milioni di abitanti e diciannove milioni di occupati, di cui il diciannove per cento nell’agricoltura, il quarantacinque per cento nell’industria e il trentotto per cento nei servizi Il mondo del lavoro cominciò a essere importante nella società italiana del dopoguerra già con la Carta Costituzionale, diventata la legge fondamentale dello Stato il Primo Gennaio 1948, precisamente con l’articolo 1 in base al quale “L’Italia è u18
na Repubblica democratica fondata sul lavoro”. Nei lavori preparatori e in una prima stesura era scritto che la Repubblica era fondata “sui lavoratori” ma la dizione era sembrata troppo simile a quella che poteva essere adottata in uno Stato socialista tendente al marxismo e il compromesso fu trovato da Amintore Fanfani e dagli altri esponenti della Sinistra democristiana che posero l’accento sul lavoro in senso generale, comprensivo non soltanto degli operai delle fabbriche e dei contadini. Anche prima della Costituzione erano state introdotte per legge alcune garanzie, come il limite massimo di undici ore lavorative per i minorenni, le dodici ore massime per le donne, il diritto di associazione, alcune norme sulla sicurezza, il divieto del caporalato. Fin dagli anni ’50, non si poteva più prescindere dal migliorare le condizioni di lavoro, tanto più se si considera che proprio in quegli anni di sviluppo industriale e di accumulazione capitalistica fossero più compressi il salario e i diritti dei lavoratori e in genere la loro coesione sociale. Il Segretario della CGIL Giuseppe Di Vittorio, fin dal Congresso del 1952 aveva invocato l’adozione di una legge quadro sul lavoro e le ACLI di Milano avevano redatto il libro bianco “La classe lavoratrice si difende” sullo sfruttamento degli operai nelle fabbriche. Nel 1955 fu pubblicata un’inchiesta del Parlamento sulle condizioni di lavoro nelle fabbriche. In anni di discriminazione ideologica dovuta all’avvento della Guerra Fredda, i lavoratori erano anche oggetto di sospetti per la preponderante appartenenza ai partiti della sinistra marxista. Si deve ricordare che proprio in quegli anni si verificarono anche innumerevoli casi di vessazioni a danno degli operai. Stiamo parlando dei reparti confino e delle schedature. 19
I reparti confino erano magazzini o uffici spogli e disadorni dove erano relegati, dopo averli demansionati, i dipendenti ritenuti ingestibili per ragioni politiche o sindacali, in genere iscritti ai partiti della sinistra, per poi licenziarli dopo qualche tempo. Il caso più eclatante fu quello dell’Officina Sussidiaria Ricambi (OSR) di Corso Peschiera a Torino dove la FIAT confinò centotrenta operai definiti “facinorosi” ma che in realtà erano operai che si battevano per i loro diritti. La storia della OSR fu raccontata dal sociologo Aris Accornero nel libro del 1959 “FIAT confino” delle edizioni Avanti. Inquietante è considerare che simili pratiche siano state ripetute di recente dalla stessa FIAT a Pomigliano D’Arco con il trasferimento di numerosi dipendenti in un capannone desolato a venti chilometri dall’interporto di Nola e dall’ILVA di Taranto dell’imprenditore Riva con il trasferimento di altri dipendenti non acquiescenti nella Palazzina spoglia del Laminatoio a freddo. Un altro caso di vessazione nei confronti degli operai fu quello delle schedature in FIAT. L’azienda torinese realizzò negli anni ‘50 centinaia di migliaia di schedature dei dipendenti, valendosi di una struttura di spionaggio interno, per conoscerne vita privata, abitudini, moralità, orientamenti politici e religiosi. Il caso venne fuori in seguito ad una causa di lavoro intentata contro la FIAT da un dipendente che era stato assunto con le mansioni di fattorino, ma era stato addetto a redigere relazioni scritte su abitudini e precedenti penali dei dipendenti. In seguito alla causa civile fu svolta un’inchiesta penale a carico di funzionari dell’azienda che portò l’allora “pretore d’assalto” Raffaele Guariniello a sequestrare centinaia di migliaia di fascicoli con schedature. Anche questa vicenda è stata raccontata da Bianca Guidetti Serra nel libro “Le schedature FIAT” edito nel 1984 da Rosenberg dopo il rifiuto di pubblicazione da parte della Einaudi. Intanto, con il miracolo economico si verificò un movimento continuo della popo20
lazione dal Sud verso le Regioni più ricche del Nord per cercare lavoro nelle fabbriche. In molti discorsi e interventi dei leader politici e sindacali della sinistra si fece presente che i vantaggi dello sviluppo stavano andando solo ai datori di lavoro mentre i lavoratori rimanevano vittime del totale potere di comando degli imprenditori nelle fabbriche. Si avvertì l’esigenza stringente di nuovi rapporti sindacali per indirizzare l’economia e la società verso un maggior potere dei lavoratori e del Sindacato nelle fabbriche, soprattutto sul cruciale problema delle assunzioni e dei licenziamenti. Intanto, era entrata nelle fabbriche una nuovissima leva di lavoratori, perlopiù giovani e moltissimi provenienti dal Sud, molto combattivi. Furono loro a dare vita nel 1962 alla prima manifestazione con scontri violenti e cariche della Polizia avvenuta, per ironia della , proprio a Piazza Statuto a Torino, anche se lo Statuto in questione era quello albertino. In contemporanea andò maturando uno spostamento dell’asse politico dal Centrismo dei pieni anni ’50 al Centrosinistra, con il sempre più stringente coinvolgimento del Partito Socialista nell’area di Governo. Il Governo Moro entrato in carica nel 1963, primo governo organico di Centrosinistra, fu il promotore di altre leggi di tutela, come il divieto di licenziamento in caso di matrimonio. Nel 1965 fu adottato un testo di legge sugli infortuni e le malattie sul lavoro e alcune norme migliorative sulle pensioni. Molto importante nel 1966 l’introduzione della norma sulla giusta causa nei licenziamenti, applicabile alle aziende con più di trentacinque dipendenti, un vero prodromo dello Statuto e, in particolare, di quello che sarebbe diventato il suo articolo 18. Alla fine dei ’60, il nuovo Ministro socialista del Lavoro Giacomo Brodolini promuove la norma sul calcolo retributivo delle pensioni che sarebbe rimasta in vigore 21
fino alle riforme pensionistiche della fine del ‘900 e dei primi anni del 2000 e quella sull’introduzione del salario unico sia per il Nord che per il Sud, cioè l’abolizione delle cosiddette “gabbie salariali” Si arriva così al 1969, anno di snodo sia per la vertenza sui contratti di moltissime categorie, il cosiddetto “Autunno caldo”, sia per la decisione del Ministro Brodolini di istituire una Commissione per la scrittura dei diritti dei lavoratori, con a capo l’allora giovane giuslavorista, di area socialista, Gino Giugni. Non si poteva rinviare ulteriormente una normazione complessiva sull’argomento; le lotte sindacali nelle fabbriche si erano intensificate ulteriormente per tutti gli anni ’60, soprattutto per ottenere il diritto di assemblea che non era mai stato consentito da nessuna legge e lo stato di conflitto su questa richiesta aveva già causato qualcosa come quattordicimila denunce penali contro sindacalisti. Brodolini morì prematuramente per un tumore e non fu in grado di vedere il varo della legge. Gino Giugni non accettò mai di essere definito come il padre dello Statuto, sottolineando sempre che l’ideatore e il vero padre ne era stato Brodolini. Entro il 1969 la Commissione Lavoro del Senato approvò un disegno di legge che era quello presentato dalla Commissione Giugni, integrato da contributi provenienti dal PCI, dal PSIUP e dalla Sinistra Indipendente. L’11dicembre 1969 il disegno di legge fu approvato in prima lettura al Senato, con il voto favorevole dei Partiti del Centro Sinistra e del Partito Liberale. Il giorno dopo, 12 dicembre, scoppiarono le bombe di Piazza Fontana. Nel 1970, il 14 maggio, durante il terzo Governo Rumor, la Camera votò il testo definitivo nello stesso testo del Senato, avendo il Governo e tutta l’assemblea rinunciato a tutti gli emendamenti dopo un discorso e su iniziativa del Ministro del Lavoro Carlo Donat Cattin.. Il Partito Comunista, peraltro insieme al PSIUP, si astenne, considerando che la legge avrebbe dovuto essere adottata attraverso la lotta sindacale e che il limite di 22
applicabilità della legge alle aziende al di sopra dei quindici dipendenti fosse ingiusto. Come si è detto all’inizio, la legge n. 300, denominata Statuto dei Lavoratori, fu pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 20 maggio 1970. Gli articoli erano quarantuno divisi in sei Titoli. Lo Statuto si applicava solo alle aziende con più di quindici dipendenti. L’articolo più famoso di tutti doveva diventare l’articolo 18 sull’annullamento dei licenziamenti senza giusta causa e il reintegro dei lavoratori ingiustamente licenziati. La norma sarebbe stata sottoposta a due referendum abrogativi e cambiata nel 2012 dalla Legge Fornero e nel 2015 dal JOBS Act del Governo Renzi Il Titolo primo verteva sui diritti individuali dei lavoratori. Il Titolo secondo su diritti collettivi e libertà sindacale. Il Titolo terzo sull’azione del Sindacato in fabbrica. Il Titolo quarto sulla repressione dell’attività antisindacale . Il Titolo quinto sul Collocamento e il Titolo sesto sulle disposizioni finali e penali. Le polemiche dei sostenitori e dei detrattori della legge furono sempre maggiormente incentrate sull’art. 18, con i primi favorevoli alla sua estensione anche alle imprese con meno di quindici dipendenti per evitare il dualismo di applicazione delle norme sul lavoro e i secondi favorevoli alla sua abrogazione anche per le aziende con più di quindici dipendenti per contrastare l’eccessiva piccolezza delle aziende dovuta alla precisa volontà degli imprenditori di tenerle sotto i quindici per non subire l’annullamento dei licenziamenti e i reintegri. Nel corso degli anni furono proposti tre referendum abrogativi concernenti norme dello Statuto Il primo, nel 1995, su iniziativa dei Radicali, dei Repubblicani e del Partito Comunista per dare la potestà d’intervento nelle contrattazioni anche ai Sindacati comunque firmatari di accordi e non solo a quelli nazionali. Un secondo, nel 2000, per abolire le garanzie dell’articolo 18 anche per le aziende 23
con più di quindici dipendenti e un terzo, nel 2003, per estendere le garanzie dell’articolo 18 anche alle aziende con meno di quindici dipendenti. Questi ultimi due non raggiunsero il quorum e in particolare in quello del 2003 i votanti furono solo il 15% degli aventi diritto. Nell’agosto del 2001 dopo molti scioperi e un accordo in extremis per il comparto dei metalmeccanici, fu elaborata una legge delega per la riforma del mercato del lavoro, in particolare dell’articolo 18, che passò alla Camera il 15 novembre, basata sullo studio del giuslavorista Marco Biagi, il cosiddetto “Libro bianco”. Ci furono immediate proteste da part di CGIL, CISL e UIL che chiesero uno stralcio della questione dell’articolo 18 dalla legge. Il 23 marzo 2002 si svolse a Roma la più grande manifestazione sindacale della storia per il diritto dei lavoratori a continuare a usufruire dell’articolo 18, ma anche contro il terrorismo. Infatti, quattro giorni prima, il 19, il professor Biagi era stato ucciso dagli ultimi militanti delle Brigate Rosse. Venne poi la riforma del lavoro del Ministro Fornero del 2012 che rese più facili i licenziamenti individuali per motivi economici. Poi, con provvedimenti legislativi del 2014 e 2015, il Jobs Act del Governo Renzi, previde la possibilità da parte del datore di lavoro di licenziare senza giusta causa, tramite indennizzo e senza più obbligo di reintegro, un dipendente assunto con contratto a tempo indeterminato, lasciando invariato l’obbligo di reintegro soltanto per i licenziamenti discriminatori e per quelli disciplinari per i quali fosse provata l’insussistenza del fatto contestato. I provvedimenti legislativi noti come Jobs Act introdussero anche il contratto a tutele crescenti, un nuovo tipo di contratto per i nuovi assunti a tempo indeterminato dopo il marzo 2015 che previde una serie di garanzie destinate ad aumentare con il passare del tempo, finalizzato a contrastare il precariato; previde inoltre la modifi24
ca dell’articolo 4 dello Statuto riguardante gli strumenti di controllo dei lavoratori. Lo Statuto ha portato diritti e libertà nelle fabbriche. Si può dire che appartiene a un’epoca, il 1970, in cui i lavoratori erano all’offensiva sul piano sindacale e politico, mentre oggi sono sulla difensiva. Oggi il problema dello scarso sviluppo e della scarsa produttività delle aziende non è più tanto identificato con i vincoli dell’articolo 18 o con le eccessive garanzie accordate ai lavoratori dallo Statuto, ma piuttosto con i costi elevati dell’energia, con le lungaggini della burocrazia e della giustizia, con l’obsolescenza delle infrastrutture, con la criminalità organizzata. Con l’introduzione dei contratti a tutele crescenti non esistono più alibi per giustificare con l’eccessivo costo delle tutele le mancate assunzioni di personale a tempo indeterminato. Si può dire che attualmente più che di Statuto dei Lavoratori si può parlare di Statuto dei Lavori e più che di diritto del lavoro di diritto dei lavori. In effetti, oggi si vive un’epoca in cui non c’è una sola forma di lavoro che si svolge nell’unica sede della vecchia fabbrica fordista con migliaia di lavoratori concentrati in uno stesso spazio. Perciò le tutele del lavoro dovrebbero essere estese anche a forme diverse da quelle del passato e a quella platea di lavoratori ancora scarsamente garantiti che in Italia è stata sempre numerosa. Quindi un accompagnamento e una formazione professionale a un nuovo lavoro per chi ha perso quello vecchio, il riconoscimento di più diritti a milioni di precari cui garantire la possibilità di una maternità pagata, di una formazione professionale, di un acquisto di strumenti audiovisivi per la formazione e così via. 25
Etica
Il Grande Buio Umberto SCOTTI DI UCCIO
Come tutti i ragazzi del mondo, quarant’anni fa ero preso dall’entusiasmo e trascuravo la realtà; per esempio, ero assolutamente convinto di essere immortale, sulla base di un ragionamento di stampo epicureo. Ora sono invece convinto di quello che si dice in giro: pare che debba morire anche io. Non so esattamente quando, spero manchi molto tempo perché sto bene e me la spasso, ma la faccenda è certa: non scamperò alla morte. Nessuno può. Dunque certamente morirò, ma non so come. Spero che il trapasso sia lieve, che avvenga mentre dormo e sogno di attraversare un bel prato, mano nella mano alla compagna che ho appena baciato la sera prima, diretto a un picnic con i miei figli e tanti amici. Conto di arrivare a quel momento dopo aver speso tutto ciò che ho da 26
spendere, perché dopo la morte è meglio viaggiare leggeri. Spero di arrivarci ancora dritto sulle gambe, alla conclusione di una vita serena. Ma ahimè, non è affatto scontato che vada così; la sofferenza esiste. Molti attraversano un lungo percorso di malattia e di dolore, perché non io? E se toccherà a me, cosa mi resterà da desiderare? Tranquilli, questi non sono pensieri tristi, sono pensieri normali sulla condizione umana; li ho voluti personalizzare solo per mettere a fuoco la questione, che ora affronto con spirito pratico. Ecco il punto: che diritto possiamo conservare di fronte all’ineluttabilità della morte? Più precisamente: che diritto chiediamo che lo Stato ci garantisca? C’è un codice morale largamente condiviso, indipendente dalla formazione culturale e dal credo religioso: il rispetto delle ultime volontà. Questo principio è la risposta più forte e immediata alla domanda: che resterà di noi? È un vincolo che contraiamo con i nostri cari; è un patto di solidarietà. È un contratto assicurativo della nostra dignità. Come tutti i diritti, anche questo è moderato dalla legge, in modo vario da Paese a Paese. In Italia, il rispetto delle ultime volontà non include la determinazione al suicidio; insieme a tanti altri cittadini che non conosceremo mai, ne hanno fatto le spese Piergiorgio Welby e Fabiano Antoniani, alias DJ Fabo, che hanno intrapreso una lunga e coraggiosa battaglia anche allo scopo di rendere emblematica la loro esperienza. Ed eccoci alla cronaca: la Corte Costituzionale ha sancito la non punibilità di Marco Cappato, che aveva accompagnato DJ Fabo in Svizzera per praticare il suicidio assistito. Di più, la Corte ha vincolato il Parlamento a legiferare sul tema. Considero in modo molto positivo questa sentenza: le parti politiche hanno rimandato vigliaccamente il tema troppo a lungo e ora dovranno schierarsi in modo e27
splicito. Vorrei allora aggiungere al dibattito sull’interruzione assistita della vita una considerazione personale, che viene dalla mia formazione scientifica. Appena una cinquantina d’anni fa, la discussione non avrebbe avuto alcun senso. Infatti, il problema non ha nulla a che fare con “il corso della Natura”; ha piuttosto a che fare con le tecnologie che mettiamo in campo “contro” il corso della Natura. Oggi le macchine possono tenere artificialmente in vita corpi gravemente compromessi; già è una pratica frequente, ma non c’è motivo di escludere che in futuro diventi quasi una routine. In questo contesto, chiedo: è realistico immaginare un codice etico eterno e indipendente dal progresso scientifico? Ha senso cercare nell’esperienza antica le risposte a problemi morali nuovi? Eppure, è ciò che molti fanno, in modo esplicito o implicito. Infine, la domanda cruciale. Supponiamo che a me andrà male e mi toccherà un percorso molto doloroso. L’opzione naturale (smettere ogni cura e aspettare) è praticabile, ma crudele. Restano due possibilità messe a disposizione dalla tecnologia: da un lato la morte che descrivevo, quel sogno d’amore nel prato; dall’altro lo stillicidio, sedato e attaccato a un marchingegno infernale. Per conto mio, non ho dubbi: scelgo il prato, sapendo che la maggioranza degli Italiani la pensa come me (http://www.today.it/politica/sondaggi-testamento-biologico.html). Spero che il Parlamento trovi la forza di rappresentarci in modo corretto ed equilibrato.
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Donne
Dalla parte della vita, della generazione e della cura Antonella BUCCINI
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C’è stato un tempo in cui il mondo era governato dalle donne. Lo racconta Ginevra Bompiani ne “L’altra metà di Dio”, ambizioso e sostanzioso testo che scava come e più di un archeologo nella ricerca dell’origine del nostro immaginario. E lo percorre attraverso tre figure, a noi contemporanei affini: la distruzione, la punizione e la mistificazione. L’indagine muove da una rinnovata lettura della Genesi, dall’analisi degli archetipi greci con incursioni nella Mesopotamia, tutti elementi fondanti della nostra civiltà, per svelarci i contorni di una società matrilineare, fiorente nel neolitico, pacifica, dove gli uomini non opprimevano le donne e le donne gli uomini. Entrambi veneravano una divinità femminile, la Grande Madre. Questa civiltà scompare con l’avvento del patriarcato mutuato dalla religione e dalla scrittura che deforma le Storie, quelle dei vinti, fino a declinare la Storia, che diventa unica, quella dei vincitori. Nonostante l’autrice ci mostri un’ulteriore e diversa versione narrata nella Genesi, la tradizione giudaico cristiana che si afferma ci racconta di Eva colpevole del suo slancio naturale alla conoscenza e di Lillith che si ribella al dominio sessuale di Adamo, libera poi, ma demoniaca. Le donne sono dunque responsabili di tutti i mali del mondo, il loro peccato è la conoscenza e la sessualità. Gli uomini trascinati nell’abisso sono incaricati di infliggere il castigo. E’ possibile, tuttavia, che il dominio dell’uomo, che avvolse in una sorta di oblio quel tempo preistorico, non sia riuscito a tacitare per sempre la paura nei confronti della donna ancora oggi incarnazione di quella divinità, quella grande madre che ha governato nella pace un mondo cancellato. Emblematica, pur essendo una storia greca che testimonia il passaggio tra diritto materno e paterno, è l’avventura di Bellerofonte. L’eroe, per una serie di vicende, chiede aiuto a Poseidone al fine di sopraffare con le sue acque la Licia, paese degli Xanti. Il popolo chiede a Bellerofonte di essere 30
risparmiato ma l’eroe non si placa. “Allora le donne gli muovono contro con le vesti alzate e la vista del loro sesso nudo lo riempie di tale terrore che gira i tacchi e scappa, tirandosi dietro le acque come lo strascico di una sposa in fuga”. La Paura, dunque, un’efficace e plausibile chiave di lettura, di tutta quella violenza esplicita o surrettizia subita dalle donne nel corso dei millenni. Del resto la mortificazione inflitta al femminile non sembra esaurire la propria funzione in una strumentale sottomissione ma assolve all’ulteriore mandato di rassicurazione e conferma dell’identità maschile. Un racconto dunque destinato a incidere sulla riflessione collettiva, fortemente partecipato dall’autrice che non si sottrae fornendo suggestioni della propria esperienza personale e che si augura, alla fine, e noi con lei “che le donne, aiutate dagli uomini, prendano la terra in mano e la riportino verso la vita. Perché la donna, al minimo dei suoi attributi, è dalla parte della vita, della generazione e della cura, qualità che ci sono ora indispensabili”.
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