l'Unità Laburista - Il capitalismo della sorveglianza - Numero 17 del 16 ottobre 2019

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Numero 17 del 16 ottobre 2019

Il capitalismo della sorveglianza


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Sommario

Rojava, nel nome di Orso - pag. 4 Umberto DE GIOVANNANGELI

Il Gruppo ’63 - pag. 13 di Giovan Giuseppe MENNELLA

Serve ancora il Sindacato? - pag. 18 di Raffaele FLAMINIO

Zingaretti chiama, Grillo risponde - pag. 24 di Aldo AVALLONE

Hevrin Khalaf - pag. 28 di Antonella BUCCINI

Il Parlamento dimezzato - pag. 31 di Altonella GOLINELLI

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Shoshanna Zuboff e il capitalismo della sorveglianza - pag. 34 di Giovan Giuseppe MENNELLA

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Esteri

Rojava, nel nome di Orso Umberto DE GIOVANNANGELI

Sentirsi parte di un popolo coraggioso, tradito da tutti. Condividerne le ragioni, lo spirito, il sacrificio. Ed essere disposti a pagarne il prezzo più alto: quello della vita. E’ la fascinazione delle nuove “Brigate internazionali” combattenti nella regio4


ne del Rojava, a fianco dei Curdi. Senza memoria non c’è futuro. Era il 18 marzo quando la notizia della morte di Lorenzo Orsetti sconvolse l'Italia intera. L'anarchico fiorentino, di 33 anni, si era arruolato con le truppe curde delle Unità di protezione dei popoli (Ypg), impegnate nell’offensiva nell’est della Siria con le Forze siriane democratiche (Fds) e sostenute dalla coalizione a guida statunitense. Lorenzo era stato ucciso nel corso di una battaglia a Baghuz, ultima roccaforte dello Stato Islamico in Siria prima della capitolazione finale. Di lì a qualche giorno infatti Daesh sarebbe stato sconfitto nel paese. Alessandro, Annalisa e Chiara Orsetti, familiari di Lorenzo, hanno scritto una lettera aperta: “Lorenzo, nostro figlio e fratello, è morto il 18 marzo 2019 in Rojava combattendo a fianco dei curdi e delle forze confederate della Siria contro l'ISIS e gli ultimi resti il califfato. La sua storia, la storia di un giovane che partendo da Rifredi aveva deciso di lasciare tutto, la sua città, casa, lavoro, famiglia, amici… per sostenere il popolo curdo in questa lotta ha emozionato molte persone. Vi scriviamo per chiedervi: volete abbandonare chi ha combattuto l’Isis? Lorenzo è stato riconosciuto come un esempio di partigiano internazionalista e antifascista, che ha scelto da che parte stare e di schierarsi concretamente andando a combattere dove c'era bisogno di lottare per sradicare il fascismo che in quelle aree si stava affermando nelle forme dell'Isis e delle forze che lo sostengono. Attraverso la sua scelta di vita e la sua morte ha fatto conoscere a tanti la realtà che si sta costruendo nel Rojava, nella zona nord-est della Siria, dove la democrazia che nasce dal basso, fondata sul rispetto delle diversità sociali e culturali, per una parità reale tra uomo e donna, sulla autogestione, sulla economia sociale si sta affermando. Non tutti forse lo sanno, questa realtà si chiama Confederalismo Democratico ed è un laboratorio sociale che nasce dalle idee di Ocalan, leader curdo del PKK imprigionato da 25 anni nelle prigioni turche, senza il minimo rispetto dei suoi diritti e delle sue garanzie. È un esempio di coesistenza tra i 5


popoli e quindi porta pace e sicurezza in un’area sociale così instabile e travagliata, scossa da attentati, conflitti, stragi… Ora questa realtà, costruita col sangue di oltre 11.000 curdi e 36 volontari internazionali, è minacciata e potrebbe essere distrutta. L'esercito turco e i gruppi paramilitari che Erdogan sostiene nell'area – che non sono altro che un altro modo con cui l'ISIS prova a riproporsi – si stanno preparando ad attaccare il Rojava per eliminare la rivoluzione curda e tutto quello che rappresenta. Questa aggressione militare turca si può ancora fermare, se c’è una mobilitazione generale. Vi chiediamo: se abbiamo pianto per Lorenzo riconoscendo la bellezza del suo gesto davvero non vogliamo fare nulla per impedire questa nuova guerra? Abbiamo ancora voglia di scendere in piazza, protestare, gridare il nostro sdegno e la nostra rabbia indicando i mandanti e le colpe, mostrando la nostra voglia di un mondo più giusto e umano? Il Comune di Firenze prenderà posizione? E la Regione Toscana? Tutto serve per fermare questa aggressione e serve ora. Lorenzo ha combattuto a Afrin nel 2018, dove sono stati migliaia i morti causati dall'invasione turca: vogliamo continuare a sostenere Erdogan, l'esercito turco e l'Isis in questa guerra ingiusta fornendo armi con le nostre fabbriche e soldi dell’Unione Europea per non aprire il corridoio balcanico ai migranti?Molti hanno pianto per Lorenzo-Orso Tekoser combattente colpiti dalla sua morte, ma ora potrebbe morire nuovamente e con lui tanti giovani curdi e altri popoli che vivono nel Rojava. Non facciamolo morire nuovamente, facendo morire gli ideali e la causa per la quale si è sacrificato. Lorenzo ci ha mostrato che nessuna causa è così lontana e così estranea alla nostra vita e che spesso è questione di scelte”.La morte di Lorenzo Orsetti aveva profondamente emozionato migliaia di persone anche per la capacità che il giovane ebbe di esorcizzarla con una lettera-testamento pubblicata dopo il decesso: "Ciao, se state leggendo questo messaggio significa che non sono più in questo mondo". Lorenzo Orsetti continuava con parole di speranza e corag6


gio piene di ironia: "Beh, non rattristatevi più di tanto, mi sta bene così. Non ho rimpianti, sono morto facendo quello che ritenevo più giusto, difendendo i più deboli e rimanendo fedele ai miei ideali di giustizia, eguaglianza e libertà". E ancora: "Quindi, nonostante la mia prematura dipartita, la mia vita resta comunque un successo e sono quasi certo che me ne sono andato con il sorriso sulle labbra. Non avrei potuto chiedere di meglio. Vi auguro tutto il bene possibile e spero che anche voi un giorno (se non l'avete già fatto) decidiate di dare la vita per il prossimo, perché solo così si cambia il mondo. Solo sconfiggendo l'individualismo e l'egoismo in ciascuno di noi si può fare la differenza. Sono tempi difficili, lo so, ma non cedete alla rassegnazione, non abbandonate la speranza, mai! Neppure per un attimo. Anche quando tutto sembra perduto e i mali che affliggono l'uomo e la terra sembrano insormontabili cercate di trovare la forza e di infonderla nei vostri compagni. E' proprio nei momenti più bui che la vostra luce serve. E ricordate sempre che ogni tempesta comincia con una singola goccia. Cercate di essere voi quella goccia. Vi amo tutti, spero farete tesoro di queste parole. Serkeftin. Orso, Tekoser, Lorenzo". Di queste brigate internazionale faceva parte anche Giovanni Francesco Asperti, 53 anni, originario di Ponteranica, alle porte di Bergamo, sposato e padre di due figli (13 anni il ragazzino, 14 la ragazzina). I miliziani curdi, sul loro sito, hanno reso noto che l'uomo, conosciuto con il nome di battaglia di Hiwa Bosco, è rimasto vittima di uno "sfortunato incidente mentre era in servizio a Derik, il 7 dicembre" 2018. Sul sito della milizia, Unità per la protezione dei popoli (Ypg), si spiegava che “Hiwa Bosco'” era uno delle "centinaia di rivoluzionari che si erano uniti alla lotta contro l'Isis nella regione curda di Rojava e nel nord della Siria" e "durante tutta la sua vita nella lotta di liberazione ha dato l'esempio di una vita rivoluzionaria". Il sito pubblica anche la foto di Asperti. Volontari da tutta Eu7


ropa si sono uniti ai curdi nella lotta contro l’Isis a partire dal 2014. L’Unità labirista ha provato a scavare nelle storie di alcuni di loro: storie diverse, età diverse, ma una comune ricerca di senso, di sentirsi parte di una comunità cosmopolita che abbraccia la causa del più debole. In questa scelta di campo, non c’è niente di religioso, tanto meno di “jihadista”. Combattono, certo, ma non hanno il profilo dei foreign fighters che hanno ingrossato le fila dell’Isis. Non sono animati dall’odio, non intendono imporre uno stile di vita totalizzante, non sono alla ricerca di un riscatto sociale o in fuga da una vita di stenti ed emarginazione. Niente di tutto questo è presente nella vita di Asperti. L’orizzonte è quello della libertà. La Brigata internazionale ha combattuto con le forze speciali curde sul fronte di Raqqa, dove si era specializzata in assalti notturni. Nell’estate del 2017 contava su una decina di volontari italiani. Fra loro c’era anche Claudio Locatelli, di Curno, in provincia di Bergamo, che ha espresso il suo “dolore dovuto a ogni combattente che ha scelto la via del campo”. Una battaglia in cui, in questi anni, sono morti al fianco dei siriani e dei curdi decine di giovani europei. Insieme a Locatelli sono infatti altri 17, comprese due donne, gli italiani considerati in forze allo YPG. "Da un mese civili e miliziani curdi sono sotto attacco della Turchia e delle milizie islamiste sue alleate, il governo turco sta cercando di cancellare chi ha combattuto Daesh e lottato per una società egualitaria e antisessista, col suo esercito, il secondo della Nato, nostro alleato". Così racconta all’Ansa quanto sta accadendo in Siria 'Gabar Carlo', nome di battaglia di un "combattente internazionalista" italiano. 'Gabar', come un monte del Kurdistan turco dove 40 anni fa è cominciata la lotta di quel popolo, e 'Carlo' per Carlo Giuliani: lui ha 30 anni, è di origini pugliesi, e la scorsa estate ha lasciato casa, lavoro e tutto il resto per unirsi come volontario combattente alle Unità di protezione del popolo, Ypg, le milizie curdo-siriane in lotta contro l'Isis e per la rivoluzione confederale del Rojava. Gabar è arrivato in Basur, Kurdistan iracheno, l'1 a8


gosto 2017, per poi passare in Rojava due settimane dopo ed è tornato in Italia un mese fa. "Vorrei tornare dai miei compagni in Siria, ora però non è possibile. Ho portato la rivoluzione con me - dice - e voglio raccontarla per far sentire la voce di chi non ha voce". In questo momento nelle Ypg ci sono, secondo Gabar, cinque combattenti italiani, quattro uomini e una donna, sui fronti di Afrin, Deir Ez Zor e in Rojava. Gabar, invece, zaino in spalla e kalashnikov fra le braccia, era a Raqqa quando l'ex capitale dello Stato islamico è stata liberata. "Eravamo appostati di fronte all'ospedale - racconta - l'ultimo edifico nelle mani di Daesh, per trattare la liberazione dei civili ancora prigionieri". "Le forze siriane democratiche, Sdf, hanno rispettato il cessate il fuoco - ricorda - gli uomini di Daesh no e dopo avere più volte mandato in fumo le trattative hanno lasciato andare gli ultimi civili, chiedendo di andare a sud, condizione che non è stata accettata. La notte fra il 13 e il 14 ottobre, l'ospedale è stato ripulito e Raqqa liberata. "Lì però si continua a morire per le mine - spiega - in strada e nelle abitazioni rimaste in piedi, dove i civili tornano e saltano in aria". La prima volta che Gabar ha sentito parlare dei curdi era un bambino, nel 1998, quando il leader del Pkk Ocalan era in Italia, lo aveva visto in tv, in uniforme militare. "Lo definivano terrorista, ma mio padre mi spiegava che era un partigiano e lottava per la liberazione del suo popolo". Quella suggestione di bambino, anni dopo, si sarebbe trasformata in impegno concreto. "Durante l'assedio di Kobane - spiega Gabar - ho capito che dovevo andare a guardare con i miei occhi

la

rivoluzione

dei

curdi,

perché

non

riguarda

solo

loro.

L'obiettivo della costituzione di uno stato nazionale è stato superato da quello di confederalismo democratico, di autonomia e autogoverno dai Paesi in cui i curdi vivono e convivono con altri popoli, arabi, assiri, siriani, turcomanni. Non si va lì solo per i curdi, sconfiggere i regimi è una lotta che riguarda tutti e ovunque". Le donne, nel processo di riforma democratica, hanno un ruolo determinante. "Le uni9


tà di protezione del popolo, Ypg, sono composte da uomini e donne che combattono e godono di grande autonomia, nella società e nel movimento. Nella società mediorientale, la centralità del ruolo della donna e la lotta al patriarcato sono davvero un fatto rivoluzionario". "La prima cosa che ti spiegano - dice - è che il fine della lotta è l'autodifesa del popolo, c'è un'etica alla base di ogni azione, nessuno va a combattere solo per uccidere, al primo posto c'è la sicurezza dei civili". Fra i suoi ricordi c'è quello sul fronte di Deir Ez Zor, zona di pozzi petroliferi rimasti sotto il controllo di Daesh per giorni. "Il camioncino dei rifornimenti non poteva arrivare e scarseggiava tutto, ma quello che c'era si condivideva e con mezzo litro di tè si beveva in dieci, ora mi chiedo come fosse possibile e mi tornano in mente le parole di un compagno di Cipro, 'quando tornerai a casa questo poco e questo sporco ti mancherà', ed è vero". "Mi manca il senso di comunità - dice - il fatto di entrare in villaggi dove i civili, disperati, ci davano tutto per sostenerci perché ti accorgi che ciascuno sente sulla propria pelle il dolore degli altri e c'è un rispetto inimmaginabile e nessun individualismo. E' questo il senso della rivoluzione, di comunità e solidarietà, che ciascuno di noi porta con sé quando torna a casa". Gabar traccia, infine, la differenza fra gli stranieri come lui che si uniscono alle Ypg e i foreign fighters dell'Isis. "Io non sono fuori legge per lo Stato italiano e le Ypg non sono organizzazioni terroristiche; loro sono mossi dall'odio, sono pronti a uccidere e a morire per il risentimento, lo hanno dimostrato gli irriducibili di Raqqa, foreign fighters arroccati nell'ospedale fino alla fine e non per chissà quale principio o fede, molti di loro non hanno mai letto il Corano. Per loro combattere è uno strumento di rivalsa sociale, sono inebriati dal potere di ammazzare, stuprare, ed esaltati dalle droghe". "I volontari internazionalisti - infine - non combattono per soldi, nel modello di società e nel movimento curdo non servono per vivere, il necessario per il quotidiano ti viene dato". "Le Ypg - dice Gabar - compiono operazioni di difesa e 10


respingimento del nemico, di ricognizione e assalto per liberare porzioni di territorio, la guerra è per lo più tattica, non è azione continua, è fatta di noia e terrore". Prima l'esperienza umanitaria, poi quella militare. A fianco dell'Ypg) contro l'Isis. E’ la storia di Karim Franceschi, 29 anni, di Senigallia, padre italiano e madre marocchina, che ha combattuto più volte, senza aver avuto prima d'allora esperienze in campo militare. Ha imbracciato le armi nel 2015 come soldato semplice per liberare Kobane, dove si era addestrato per la prima volta, e nel 2016 come comandante, quando l'obiettivo era Raqqa, capitale del califfato nero. La sua storia di “combattente per la libertà”, Karim l’ha raccontata in due libri: “Il Combattente. Storia dell’italiano che ha difeso Kobane” (BUR-Rizzoli) e, il più recente "Non morirò stanotte" (Rizzoli), presentato nello spazio autogestito Arvultùra di Senigallia dove il combattente "Marcello" (era il suo nome di battaglia) ha passato diversi anni impegnato in attività culturali e solidali. "La mia esperienza militare è finita, non tornerò a combattere. - dice a- Ora spetta alle popolazioni siriane e curde continuare a dare vita a quell'esperienza democratica per cui tante migliaia di persone hanno sacrificato la vita o tutti i propri averi". In una intervista, Karim, spiega il perché della sua scelta: “Perché guardavo questi uomini e donne che resistevano all’ISIS e mi riconoscevo nei loro valori. Nella loro causa ho trovato i valori della nostra democrazia, della Costituzione italiana, valori che ho ereditato da mio padre che è stato partigiano. Parlo dei valori della resistenza e della libertà.…”. I curdi, il popolo più grande al mondo senza uno Stato. Repressi ma mai domi. Sono le milizie dell’Ypg ad essere accorse per prime a difesa dei yazidi sterminati dai naziislamisti dell’Isis. Sono loro, i curdi in armi ad essersi opposti per primi all’avanzata dei miliziani di al-Baghdadi

in Iraq e a condurre l’assedio alla

“capitale” siriana del Califfato, Raqqa. Nel nord della Siria, l’obiettivo è quello di “creare un sistema sociale autonomo”, come ha detto all’agenzia di stampa curda 11


Firat, Nesrin Abdullah, comandante dell’unità femminile delle Ypg, che hanno portato avanti una dura lotta contro il Califfato Eppure, per il presidente della Turchia, Recep Taayp Erdogan, restano il nemico principale, ancor più di Bashar alAssad. Un nemico da annientare, con o senza il via libera di Washington. E ciò che spaventa gli autocrati e ai teocrati mediorientali non è la forza militare dei curdi (poca cosa rispetto all’esercito turco, il secondo, dopo quello americano, quanto a dimensioni in ambito Nato) ma la capacità attrattiva del modello politico e istituzionale che propugnano: un Confederalismo democratico che ridefinisca in termini di autonomia (in particolare in Turchia e in Siria) gli Stati centralistici ed etnocentrici. In un Grande Medio Oriente segnato da una deriva integralista o da controrivoluzioni militari, il “modello curdo” va in controtendenza. Perché si ispira all’idea che più spaventa califfi, sultani, teocrati e generali: l’idea della democrazia. Una idea per la quale vale ancora la pena battersi. Almeno per gli uomini della “Brigata internazionale”. Almeno per Lorenzo-Orso, per ““Hiwa Bosco”. Per i nuovi partigiani.

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Cultura

Il Gruppo ’63 Giovan Giuseppe MENNELLA

Nell’ottobre del 1963 all’Hotel Zagarella di Solunto, vicino a Palermo, avvenne un incontro di intellettuali, poeti e romanzieri che sarebbe passato alla storia come uno snodo importante nelle vicende culturali italiane. Nacque, infatti, in quella riunione il Gruppo ’63. I fondatori furono Edoardo Sanguineti, Alfredo Giuliani, Nanni Balestrini, Umberto Eco, Angelo Guglielmi, Elio Pagliarani, Furio Colombo, Antonio Porta, Germano Lombardi, Giancarlo Marmori e molti altri Parteciparono a quella riunione iniziale anche esponenti di altre riviste e correnti letterarie, come quelli di Officina e de Il Menabò. Un nome su tutti quello di Francesco Leonetti. Ma altri scrittori e intellettuali furono sfiorati dal Gruppo ’63, come Luigi Malerba, Giorgio Manganelli, Gianni Celati, Amelia Rosselli, Alberto Arba13


sino, Nico Orengo, Giuliano Scabia, Enrico Filippini. Si erano rivelati negli anni ’50 nella Rivista “Il Verri”, fondata nel 1956 da Luciano Anceschi, in cui ebbero modo di scrivere poesie e anche recensioni critiche di poeti italiani. In quella sede Alfredo Giuliani stroncò le poesie di Pasolini definendole elegiache e sentimentali e quelle di Franco Fortini considerandole crepuscolari. Furono definiti da Anceschi i lirici “novissimi”, per distinguerli dai poeti che si erano affermati nei primi anni ’50, pure partecipanti alla rivista, che erano stati definiti i lirici “nuovi”. Non si sarebbero occupati solo di letteratura, e di poesia in particolare, ma anche di teatro, di cinema, di pittura, di arte concettuale, in un fervore culturale a 360 gradi, tanto che a Palermo in quei giorni si tennero spettacoli teatrali, letture di poesia, mostre d’arte. La loro produzione fu essenzialmente poetica, ma anche di prosa, tanto che nel 1965, sempre a Palermo, tennero un altro incontro sul romanzo della neoavanguardia. Predilessero in particolare il romanzo senza trama, il romanzo-conversazione di Alberto Arbasino, o il romanzo-collage di Nanni Balestrini. Secondo loro, il romanzo più era incomprensibile, più era artisticamente valido. Natalia Ginzburg, che pure aveva scritto romanzi atipici, fu svalutata dal Gruppo perché troppo leggibile. Il movimento si caratterizzò per la rottura rispetto alla cultura precedente e per la critica dei vecchi linguaggi della poesia tradizionale e di un’idea convenzionale di impegno, nella società e nella politica, che veniva dal neorealismo. Secondo Angelo Guglielmi non ci dovevano essere messaggi, nessuna attenzione al significato, ma solo al significante. Gli scrittori convenuti a Palermo cercavano un dialogo letterario con la modernità italiana del boom economico ma rispetto al neocapitalismo di quegli anni ebbero 14


un atteggiamento ambivalente, da un lato un’adesione di massima, dall’altro una critica radicale dei modelli di comunicazione che lo caratterizzavano. Inoltre, si posero in contrasto con la vecchia classe intellettuale del dopoguerra che ritennero avesse occupato troppi posti di potere nell’editoria, nell’università, nell’industria culturale. I loro bersagli furono Italo Calvino, Carlo Cassola, Alberto Moravia, Giorgio Bassani. Umberto Eco, però, negò sempre che intendessero dare la scalata al potere culturale, perché molti di loro erano già inseriti in posizioni di potere. Comunque, più tardi, lo stesso Eco scrisse un romanzo popolare e leggibilissimo come “Il nome della rosa” e Angelo Guglielmi diventò l’acclamato direttore di RAI tre. Più che altro, si ispirarono ad alcuni intellettuali del passato, caratterizzati dai loro atteggiamenti di rottura, come Marinetti e il Futurismo, Gadda, Alberto Savinio. Marinetti e i futuristi per la loro vocazione goliardica alla beffa, all’irriverenza, allo scherzo. Gadda perché aveva criticato il neorealismo in quanto infedele alla realtà perché ne rappresentava solo la superficie, solo i suoi aspetti fenomenici. Sperimentalismo a oltranza, fondato sul plurilinguismo, mescolanza di idiomi e di linguaggi, rappresentazione del disordine, della schizofrenia del tempo presente, Giuliani parlò di nevrosi schizomorfa del nostro tempo, destrutturazione del lessico e della sintassi, rifiuto del mercato e di una comunicazione che falsificava e respingeva la realtà. Queste alcune delle posizioni programmatiche del Gruppo. Al suo interno ci fu una duplicità di posizioni. Una che privilegiò la sprovincializzazione della cultura italiana, la liquidazione del vecchio umanesimo e del sentimentalismo, l’altra che considerò la sperimentazione artistico-letteraria come omologa alla rivoluzione sociale contro il neocapitalismo, solidarizzando nella sua rivista “Quindici” con la contestazione del movimento studentesco e operaio al sistema di potere vigente. 15


Il Gruppo ’63 fu sempre divisivo, suscitando, fin dal suo esordio, polemiche roventi, con adesioni entusiastiche e ripulse forti. Va ricordata la polemica di Andrea Zanzotto con Edoardo Sanguineti negli anni ‘50. Zanzotto, che pure fu poeta sperimentale, accusò il movimento di fare una trasgressione di facciata. Al che Sanguineti gli fece leggere la raccolta di poesie Laborintus del 1956. Il poeta veneto affermò che gli era sembrata la trasposizione in parole di un esaurimento nervoso, di un mal di testa e Sanguineti replicò che era certo un esaurimento nervoso, ma di carattere sociale, che rispecchiava la situazione della realtà in quel periodo. I poeti principali del Gruppo furono Sanguineti e Pagliarani inseriti in una antologia curata da Alfredo Giuliani, chiamata appunto “I novissimi”, edita una prima volta nel 1961 presso un piccolo editore e poi da Einaudi nel 1965. Nell’antologia Alfredo Giuliani, ideologo del Gruppo e che vi si autodefinì “settario”, sostenne che la poesia non poteva che essere contemporanea del sentimento della realtà del tempo, cioè al suo linguaggio, e non poteva essere irreale rispetto al tempo presente. Con la sua visione “schizomorfa” la poesia doveva prendere possesso di una realtà già di per sé in veloce evoluzione, soprattutto in quel momento storico. Secondo Giuliani vivere era già rappresentare la realtà e la vita, quindi fare poesia doveva essere forzare la realtà e la vita e costringerle a riscriversi liberamente. La poesia non doveva rappresentare, ma intensificare la vita, comunque riprodurre il disordine e la nevrosi dissociativa del tempo trovando un linguaggio che vi fosse omologo. Nella poesia Elio Pagliarani recuperò il verismo di fine ‘800, con uno stile umile, frantumando la cronaca per giungere alla realtà nascosta delle cose. Il suo poema in versi “La ragazza Carla” fu una sorta di conversazione in versi, un collage. Il romanziere di punta del Gruppo fu Nanni Balestrini che lavorò su un materiale già esistente, si potrebbe dire che non scrisse nulla di suo. Il suo libro su Sandokan, 16


il capo camorra casertano, uscito due anni prima di Gomorra di Saviano, fu un reportage polifonico redatto con materiale documentaristico, una sorta di stream of reporting. Un altro testo importante per capire le intenzioni artistiche del Gruppo fu “Opera aperta” di Umberto Eco. In definitiva, il Gruppo ’63 assommò molti meriti e alcuni difetti. Tra i primi vanno annoverati una spericolata libertà di idee, pur con esiti artistici disuguali, lo svecchiamento della lingua letteraria italiana, la creazione di un laboratorio culturale contro il sentimentalismo, il patetismo, l’ipertrofia dell’Io, e anche il coinvolgimento e l’influenza esercitata su qualche avversario, come Pasolini. Tra i secondi, la convinzione di essere sorti per incarnare il punto più avanzato di sempre della storia letteraria italiana, la svalutazione di molti altri autori, come la Ginzburg, una certa autoreferenzialità e modi di procedere quasi militareschi.

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Lavoro

Serve ancora il sindacato? Raffaele FLAMINIO

Che cosa è il sindacato? A che serve il sindacato? Quanto costa il sindacato? Mi difendo da solo! I sindacati non fanno niente, si arricchiscono solo sulla pelle di chi lavora! Sono le domande e le affermazioni di vulgata. Riportarlo in forma scritta non sortisce lo stesso effetto dell’ascolto. Si avverte sempre disprezzo, astio, risentimento, sufficienza, nel tono della voce delle persone. Non v’è dubbio che la crisi complessiva della rappresentanza abbia coinvolto anche le organizzazioni sindacali, provocando una forte emorragia d’iscritti e conseguentemente un mancato ricambio generazionale dei quadri. I superstiti hanno dif18


ficoltà nell’interpretazione dei complessi e veloci cambiamenti del lavoro e dei lavori. Una difficoltà interna al sindacato ma che coinvolge anche altri settori della società, come i partiti politici che sono rimasti spiazzati e intontiti dalla radicalità e crudeltà del cambiamento prodotto dalla globalizzazione delle merci e della finanza. Le risorse economiche, che per i sindacati sono più che mai necessarie, essendo essi libere associazioni previste dalla Costituzione, costituiscono ragione di vita e capacità organizzativa. Purtroppo, come ampiamente riportato dalla stampa, alcuni scandali recenti che hanno visto coinvolti alcuni autorevoli esponenti sindacali, hanno minato ulteriormente la fiducia dei lavoratori nei confronti delle organizzazioni stesse. I tardi anni ottanta e tutti gli anni novanta avevano proposto un ottimismo incauto, oggi lo si può affermare con cognizione di causa, che ha prodotto individualismo e disintermediazione; la crisi dei partiti politici e la dilagante corruzione hanno fatto il resto. Il frutto di quell’idea di società è maturato nei giorni che viviamo. L’ultima grande manifestazione sindacale degli anni duemila è stata quella organizzata dalla CGIL di Sergio Cofferati, che vide scendere in piazza milioni di lavoratori in difesa della Legge 300 del 1970 (lo Statuto dei lavoratori) e del suo articolo 18 che tutelava i lavoratori dai i licenziamenti illegittimi con la reintegra nel posto di lavoro. Un grande sforzo si sta compiendo, ancora, per sanare la ferita profonda e sanguinosa che si produsse sui referendum ad escludendum, proposti dalla Fiat di Marchionne, che vide drammaticamente diviso il movimento sindacale. Una sua parte sposò con estremo convincimento le tesi padronali. Ciò che successe è storia ma 19


quella divisione ha aperto la strada alle molteplici modifiche delle leggi sul lavoro che una parte del movimento sindacale ha appoggiato e accompagnato, compiendo, più o meno consapevolmente, un’ operazione di disgregazione culturale e politica del movimento, tentando di cannibalizzarne una parte. La drammatica scelta compiuta ha poi dimostrato a posteriori che i diritti del lavoro e delle persone non sono negoziabili. Questo brevemente è il percorso storico che abbiamo vissuto in questo inizio di millennio e che una parte dei lavoratori non ha compreso appieno. Le nuove generazioni cresciute nel miraggio dell’individualismo e del cannibalismo primordiale, hanno abdicato mestamente sul confine della sopravvivenza. Hanno assorbito il concetto del lavoro come privilegio e non come diritto costituzionale, soggiacendo all’idea del si salvi chi può, contribuendo inconsapevolmente alla dittatura del dumping salariale prodotto dalla logica del mero profitto. Il movimento sindacale confederale, ridotto a brandelli dall’incapacità di leggere i profondi cambiamenti intervenuti, dalle furbizie delle rendite di posizione, dalla mercificazione dei principi cardine dell’agire sindacale come “essere soggettività, capacità di organizzare e compiere scelte necessarie” si è sostenuto soprattutto con il contributo e la partecipazione dei pensionati, che del mondo del lavoro avevano e ne conservano coscienza viva. Se per un verso questa dinamica ha prodotto un argine alla liquefazione del movimento, dall’altro ha bloccato il processo di comprensione del gigantesco cambiamento in atto, privando il sindacato degli strumenti anche linguistici per la declinazione di una nuova e più efficace progettualità. L’attendismo e gli equilibrismi degli apparati hanno svuotato miserevolmente le assise congressuali che sono divenute negli ultimi anni kermesse di esistenza in vita, senza sviluppare una necessaria e benefica autocritica rigeneratrice, perpetuan20


do modelli vecchi e corrosi non aderenti alla realtà contingente. Queste dinamiche conservative impediscono l’afflusso di nuove energie giovanili che abbiano ben chiari quali siano i rapporti di forza che si sono costituiti nel mondo del lavoro e che avvertono riprodursi pedissequamente nel perimetro delle organizzazioni sindacali. Il vuoto di progettualità e di reazione degli ultimi anni, ha riprodotto le paure e le incertezze sui luoghi di lavoro, riportando le lancette dell’orologio del tempo agli albori delle lotte sindacali. Il vuoto impedisce l’esigibilità di tanti buoni accordi che si producono nell’ambito delle categorie contrattuali, ha favorito, insieme alla destrutturazione del lavoro, il fiorire di contratti pirata, di fasulle organizzazioni sindacali al servizio dello sfruttamento e della prevaricazione. La crisi identitaria, nella quale il sindacato italiano versa, ha innescato una lotta per la sopravvivenza delle gerarchie che ha bloccato sul nascere ogni iniziativa dal basso tesa alla valorizzazione di idee e concetti innovativi. La critica costruttiva spesso è deliberatamente ignorata. Questo meccanismo di protezione automatico ha innescato dinamiche per la costituzione di minoranze o di aree programmatiche con il fine di negoziare strapuntini di potere con la facoltà del ricatto. Oggi più di sempre si avverte la mancanza di un’oggettiva e continua scolarizzazione dei quadri secondo regole condivise e inviolabili.

La crisi odierna non è da ricercarsi nelle sole responsabilità ascrivibili agli errori commessi e perpetrati fin qui dal movimento sindacale ma trae forza anche da concetti diffusisi nella società nella fallace convinzione che i corpi intermedi siano inutili. Ragionamento perseguito tenacemente dai governi di qualunque connotazio21


ne politica che hanno instillato nell’opinione pubblica e nei lavoratori l’idea, quasi ineluttabile, che la risoluzione della crisi economica passasse dalla violazione, se non più gravemente, dalla eliminazione dei diritti dei lavoratori. Questo canovaccio ideologico è stato riprodotto nelle più liberticide riforme del lavoro prodotte in Italia, una per opera della signora Elsa Fornero e l’altra dal renziano Jobs Act. La reazione sindacale a questi provvedimenti è stata timida e di facciata, lo spread ha dominato la scena politica. A tal proposito si ricordano solo quattro ore sciopero e una manifestazione tenutasi a Roma promossa dalla Cgil. Una parte del movimento sindacale, in quelle occasioni invece, si è limitata a blande dichiarazioni di circostanza. La pressione sui posti di lavoro è aumentata, le ristrutturazioni aziendali sono deflagrate e, migliaia di lavoratori sono stati collocati in cassa integrazione straordinaria o licenziati per motivi economici. La paura e l’oscurantismo sono tornati a regnare sui luoghi lavoro, le assunzioni non sono avvenute, il precariato è aumentato. Questo ciclone che si è abbattuto sul sindacato ha prodotto la perdita di milioni d’iscritti senza il ricambio di nuove adesioni. I lavoratori precari, seppure in assenza di diritti ma affamati di salario preferiscono subire piuttosto che rimanere disoccupati. Anche quei pochi giovani assunti con i contratti a tempo indeterminato a tutele crescenti, temendo i ricatti dei datori di lavoro, preferiscono non iscriversi al sindacato. 22


In queste condizioni diventa difficile per il sindacato organizzarsi e agire. Il blocco dei rinnovi dei contratti di lavoro nel settore pubblico, la chiusura dei siti industriali per riorganizzazioni aziendali, la debolezza della legislazione impongono al sindacato un serio ripensamento del proprio agire, fatto di concrete proposte legislative attraverso gli istituti consentiti dalla Costituzione (leggi d’iniziativa popolare) supportate e accompagnate da adeguate forme di lotta. La premessa di tali operazioni è il costante coinvolgimento dei lavoratori da parte delle organizzazioni sindacali che devono impegnarsi quotidianamente in quest’opera di informazione e dialogo. Il radicamento in mezzo al lavoro vivo, è la prima azione rivendicativa che il sindacato possa fare. La CGIL ha fatto un’operazione di questo tipo, ha raccolto un milione e centocinquantamila firme per presentare una legge d’iniziativa popolare intitolata “Carta dei diritti universali del lavoro”. Peccato che la proposta non abbia visto l’adesione delle altre sigle sindacali. La necessità di un sindacato forte e autonomo dal potere politico è utile e urgente: l’internazionalizzazione dei diritti del lavoro è il giusto bilanciamento alla globalizzazione dei capitali e delle merci, a tutela della dignità di chi con le proprie mani ogni giorno costruisce un futuro migliore per l’umanità. In quest’ ottica, l’unità sindacale diventa ancor più necessaria e costituisce un elemento vincente che affonda le radici in terreni antichi arati dalle sapienti mani di sindacalisti come Giuseppe Di Vittorio, Bruno Buozzi e Achille Grandi. Pur attraverso le comprensibili difficoltà, il nuovo corso impresso dal neo Segretario Generale della Cgil, Maurizio Landini, si muove in questa direzione per provare a ri-costruire un sindacato forte che si riconosca nello spirito costituzionale capace di affrontare le nuove sfide che il futuro ci proporrà. 23


Politica

Zingaretti chiama, Grillo risponde Aldo AVALLONE

Sulle pagine dei giornaloni nazionali non si fa altro che evidenziare che “un governo non può nascere esclusivamente per fermare qualcuno”. Affermazione ovvia quanto riduttiva. Credo che ciò che faccia la differenza stia tutto in quell’avverbio, quell’esclusivamente, che segna la linea di confine di una partenza e non di un arrivo. Secondo me, un governo può nascere per contrastare un’emergenza nazionale, è già successo in passato, con dubbi risultati con il governo Monti, ed è accaduto anche in diversi altri Paesi europei dove l’esigenza di governabilità ha costretto forze che in campagna elettorale si erano combattute a trovare poi comunque un accordo. Come ad esempio in Germania con la Grosse Koalition. Il Conte bis è nato da un’emergenza altrettanto impellente: quella di fermare l’ascesa al potere di 24


una destra illiberale e fascista che avrebbe condotto la nazione fuori dall’Europa, portandola sotto l’influenza della Russia di Putin. Si può storcere la bocca e turarsi il naso di fronte a un accordo oggi “anomalo” tra sinistra riformista e Movimento 5 Stelle ma non si può negare l’evidente risultato ottenuto. Partendo da questa premessa, assolutamente non secondaria, va ora individuato l’orizzonte entro cui, nei prossimi mesi, il nuovo esecutivo potrà e dovrà agire per provare a dare una svolta positiva al Paese. Un primo punto essenziale è l’aver ritrovato un ruolo in Europa. Importanti passi diplomatici sono stati mossi sulla via della messa in discussione degli accordi di Dublino sull’immigrazione. Niente di decisivo ma l’approccio possibilista di alcuni Paesi europei a farsi carico di quote di migranti giunti in Italia apre uno spiraglio per la risoluzione di un problema che l’ex ministro dell’Interno Salvini aveva tutto l’interesse propagandistico a non risolvere affatto. Anche la disponibilità da parte dell’Europa a concedere lo sforamento da parte dell’Italia del vincolo sul rapporto deficit – pil è stata resa possibile dall’ingresso nel governo di forze dall’indubbia fede europeista quali il Partito Democratico, Leu e Italia Viva. Inoltre, non è da sottovalutare come nel Paese sia mutato il clima di odio e d’intolleranza che la Lega aveva instaurato. L’Italia non è certo diventata nel giro di poche settimane il paradiso terrestre ma si respira un’atmosfera certamente più tollerante. Si ricomincia, sia pure timidamente, a parlare di diritti, di salute pubblica, d’investimenti sulla scuola e l’istruzione. Ecco, il nodo su cui si “parrà la nobilitate” del nuovo governo sarà proprio la capacità di intervenire su questi temi anche in condizioni di scarsa disponibilità economica. La manovra 2020 dovrà necessariamente tenere conto del congelamento dell’aumento dell’IVA previsto dalle clausole di salvaguardia adottate dai passati governi. Benché, a mio avviso, si sarebbe potuto discutere di un aumento dell’IVA su alcuni beni di lusso quali auto di grossa cilindrata, barche, gioielli, eccetera, l’indirizzo dell’esecutivo va nel senso 25


di bloccare l’aumento in maniera generalizzata. Provvedimento necessario a non deprimere i consumi. Per questo dovranno essere impegnati circa ventitré miliardi. La restante disponibilità servirà a tagliare il cuneo fiscale ai lavoratori e alle imprese mentre due miliardi serviranno a incrementare il fondo sanitario nazionale. Assolutamente condivisibile la proposta del ministro della Salute Speranza dell’abolizione del superticket e l’adozione di una gradualità della compartecipazione sulle prestazioni sanitarie, la cui entità verrebbe legata al reddito. Ancora poco, certo. Ma si nota un cambio d’indirizzo rispetto al governo precedente la cui priorità era la flat tax al 15 per cento con conseguente riduzione del gettito fiscale e ovvia conseguente riduzione dei servizi ai cittadini. Anche una rinnovata apertura alle parti sociali nel discutere i provvedimenti da adottare contribuisce a stemperare le tensioni e a promuovere un clima positivo nei rapporti tra politica, imprese e lavoratori. Che cosa accadrà nei prossimi mesi oggi nessuno lo può prevedere. Un sondaggio Ixè del 9 ottobre scorso rivela che la destra non è maggioritaria nel Paese. Movimento 5 Stelle, Pd, Leu, Italia Viva e Più Europa superano il 51 per cento delle preferenze. E anche in Umbria, il candidato comune delle sinistre e del M5S, Bianconi, ha superato, sia pure di pochi decimali, il candidato delle destre che era dato in vantaggio fino a pochi giorni addietro. Un dato confortante che, se confermato nelle urne, rafforzerebbe non di poco il governo nazionale. Il segretario del Partito Democratico, Zingaretti, proprio qualche giorno fa ha lanciato la proposta di trasformare l’attuale accordo con il Movimento 5 Stelle in un’alleanza stabile in grado di contrastare elettoralmente la destra. A dire il vero le risposte non sono state incoraggianti, sia all’interno del partito sia da parte di Di Maio, ma appare evidente che si tratti posizionamenti tattici. Soprattutto tra i 5 Stelle dove Di Maio, dopo la fine della collaborazione con Salvini, sta vivendo una forte crisi di leadership. 26


La risposta a Zingaretti è giunta direttamente da Beppe Grillo che a Napoli, tra un diluvio di applausi di iscritti e simpatizzanti, alla festa per i dieci anni del Movimento, ha dichiarato che il governo è l’unica strada per ottenere risultati e il Pd non è un mostro (almeno non più della Lega). E se lo dice lui, non c’è dubbio che il Movimento lo seguirà senza remore. Che Luigino Di Maio approvi o meno.

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Donne

Hevrin Khalaf Antonella BUCCINI

E’ stata violentata e poi massacrata con le pietre, sul cadavere ancora il disprezzo dei suoi carnefici. Il video dell’assassinio di Hefrin khalaf esibito in rete: un messaggio preciso, un esempio, una minaccia. Paradossalmente, la stessa barbarie, 28


mediata dal facile e immediato accesso, assume una gravità mitigata, rischia di perdere il significato assoluto dell’orrore. Hefrin era una giovane magnifica donna, nel pieno della sua vita, riconosciuta a livello internazionale per le sue capacità di mediazione e la sua tenacia nella ricerca di una convivenza pacifica tra etnie e religioni diverse, Segretaria Generale del Partito del Futuro Siriano, Ministro degli esteri del popolo curdo, popolo che pratica la democrazia e l’uguaglianza di genere e che sta combattendo contro la feroce aggressione della Turchia. La retorica dell’Europa in queste ore si diffonde come una melassa destinata a edulcorare coscienze, quelle ancora vitali, e consapevolezze. La riprovazione è d’obbligo, per carità, e poi magari qualche iniziativa giusto per... Hanno riflettuto molto i nostri politici europei e alla fine pare che si fermerà la vendita di armi alla Turchia ma la decisione spetterà a ciascun paese. L’intervento riguarderà i contratti futuri, praticamente una beffa. Intanto Erdogan ha fatto sapere che lui gli arsenali li ha già pieni. E’ realistico, quindi, pensare che i diffusi interessi economici suggeriscono “prudenza” a fronte di auspicabili interventi seriamente incisivi di isolamento della Turchia.

E’ questa, dunque, l’Europa?

Nell’esclusivo impegno a sedare ogni rigurgito di dignità, a derubricare il rispetto dei valori e delle vite umane, sfugge che questo orrore è alle porte del nostro confortevole mondo e che questi rivolgimenti, piuttosto che i 50 migranti sui barchini, possono compromettere sul serio la sicurezza e la pace dell’occidente. E mentre l’Europa cincischia con il nulla, le donne curde della Siria del Nord e dell’Est, combattenti vittoriose con i loro compagni sui jihadisti, hanno fatto un appello a tutte le donne del mondo contro l’attacco della Turchia attraverso una lettera aperta dove danno testimonianza della tragedia che si sta abbattendo sul loro popolo e sui valori che hanno difeso fin qui con coraggio e determinazione. 29


“...Come donne - concludono il loro richiamo - siamo determinate a combattere fino a quando otterremo la vittoria della pace, della libertà e della giustizia. Per ottenere il nostro obiettivo contiamo sulla solidarietà internazionale e la lotta comune di tutte le donne e gente che ama la libertà”.

Richieste delle donne: fine

dell’invasione e dell’occupazione della Turchia nella Siria del Nord; istituzione di una No-Fly zone per la protezione della vita della popolazione nella Siria del Nord e dell’Est; prevenire ulteriori crimini di guerra etnica da parte delle forze armate turche; garantire la condanna di tutti i criminali di guerra secondo il diritto internazionale; fermare la vendita di armi alla Turchia; attuare sanzioni economiche e politiche contro la Turchia. Messa da parte la vocazione onanistica della politica nostrana impegnata a comporre una sorta di distrazione di massa dai veri problemi, sarebbe decoroso declinare concretamente l’appello di queste donne straordinarie e abdicare all’impotenza.

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Politica

Il parlamento dimezzato Antonella GOLINELLI

Non voglio parlare di guerra. Si lo so che è l'argomento del momento, o meglio, la sospensione della vendita di armi alla Turchia. La guerra è una vicenda caotica e convulsa, che porta disordine, sporco, distruzione e morte. Poi c'è da mettere in ordine. E tocca alle donne. Come sempre. Sono contraria alla guerra come risoluzione delle controversie (cit). Sono ancor più contraria all'uso indiscriminato di strumenti evocativi quali missili, fucili e compagnia cantante. Mi astengo dall'esprimere opinioni che sconfinerebbero senza remore nella più cruda volgarità. È tempo di DEF ma non voglio parlare nemmeno di quello. Sento e leggo ipotesi incredibili e componenti dei partiti della coalizione di governo lasciarsi andare a dichiarazioni che non sono nemmeno logici. #mognint 31


Ad esempio le dichiarazione su quota 100 “è un debito sulle spalle dei giovani. Come il cambiamento climatico”. Ah si. Proprio. Fatemi capire: noi abbiamo pagato la pensione ai vostri vecchi e la nostra, eventuale, è un debito insopportabile per i giovani? Quindi? Ci ridate indietro i nostri versamenti? O per voi giovani virgulti sono donazioni a fondo perduto? Solo per capire. Io, nel caso, vorrei indietro la mia quota di tasse pluridecennale che è andata sull'istruzione di questi qui. La voglio indietro. Tanto non è servita a niente. Sostituiscano di tasca loro quanto mi verrebbe restituito. Guadagnano bene. Da troppo. Oh! e dopo questa lunga intro sono arrivata al punto. I dimezzamento del numero dei parlamentari. L'ultima votazione alla Camera è stata un plebiscito, una percentuale di consensi bulgara. Con dichiarazioni di ubbidienza al partito ma contrario al proprio sentire. Che poi uno dice: non c'è ancora il vincolo di mandato. Vota. Macché! Obbedienti, proni e in procinto di chiedere il referendum. Ma qui ci arrivo dopo. Dunque, questi hanno sancito la loro sostanziale inutilità. La coalizione estiva ha votato in cambio di un documento che definire aleatorio è fargli un complimento. Si, lo so che si riaffacciano fascinazioni antiche, si ripropongono sogni di gioventù, ma no! Per favore! A parte che alcune non funzionano laddove sono state applicate in parte, le modifiche regolamentari perché devono essere legate ad una riforma costituzionale? VOI AVETE VOGLIA DI RIDERE! Ho letto argomentazioni a sostegno del dimezzamento del calibro “perché? Tu che vantaggio hai avuto da tanti parlamentari?”. Che rimani li imbacalito. Questi pensano di avere vantaggi da meno? A parte che vorrei sapere quali vantaggi, ma vabbè, questo ragionamento fa il paio 32


con il principio “più la gente rimane sul posto di lavoro più posti si creano”. Che passò come linea portandoci qui #adesso in questa situazione di disoccupazione, precarietà e tutto il resto che non occorre ricordare. È da un po' di anni che me lo domando che tipo di logica si agiti in tanti cervelli. Troverò una risposta prima o poi. In ogni caso, anyway, visto che la ratio è il risparmio io vorrei che tutti i votanti questa porcheria che lede la rappresentatività della popolazione lasciassero il mese in cassa a partire da ottobre. Vorrei anche rendessero le assegnazioni ai gruppi parlamentari. Se dobbiamo risparmiare facciamolo per bene perbacco! Questi, coloro che hanno votato la porcheria, si astengano in futuro di presentarsi in qualsivoglia lista. Se siete inutili, e ve lo siete detto da soli, statevi a casa. Ci saranno altri magari utili. Non si sa mai. E gli agitatori di professione, quelli con più giacche nell'armadio di una sartoria di Armani, si astengano dal mettersi in prima fila nel fronte del no dopo aver votato si. Non li voglio vedere sbraitare in tv. Non li voglio vedere sbraitare da nessuna parte. #mognint Un sussulto di dignità per favore.

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Cultura e Politica

Shoshanna Zuboff e il capitalismo della sorveglianza Giovan Giuseppe MENNELLA

La studiosa americana Shoshanna Zuboff ha scritto un interessante saggio, in italiano “Capitalismo della sorveglianza” ed è stata anche ospite lo scorso 5 ottobre a Ferrara al festival della rivista “Internazionale”. La tesi del libro è che da una certa data in poi, che si può fa risalire al 2017, i comportamenti umani sono stati ridotti a merce. Nel 2017 perché in quell’anno Google realizza un dispositivo che raccoglie i dati degli utenti di internet e li trasmette a parti terze che, a loro volta, li trasmettono ad altre parti terze e così via. Il dispositivo si chiama termostato Nast e ovviamente i dati trasmessi sono quelli estrapolati e lavorati per renderli appetibili per scopi commerciali. Il capitalismo non distribuisce più la ricchezza ma l’apprendimento. 34


L’esperienza umana, che prima era materia gratuita, è ormai materia che è trasformata in dati comportamentali e che poi è venduta come prodotto di previsione nei “mercati comportamentali a termine” dove operano imprese desiderose solo di conoscere il comportamento futuro delle persone. Ciò ha segnato una rottura radicale con il passato, quindi occorre usare termini nuovi al posto di quelli vecchi. I primi a usare il nuovo termine di “economia della sorveglianza” oppure di “capitalismo della sorveglianza” sono stati J. Bellamy Foster e R.W. McChesney in un articolo del 2014 sulla Monthly Review che hanno parlato di insaziabile desiderio di dati derivante dalla progressiva finanziarizzazione dell’economia. I dati di cui si appropriano le imprese sono quelli online e quelli offline. Dopo accurata elaborazione, sono utilizzati per migliorare, genericamente, beni e servizi, per scopi socialmente utili. Ma, per il residuo (behavioural surplus) i dati confluiscono in quei “prodotti di previsione” commerciati nei “mercati comportamentali a termine”. Coloro che si appropriano di quei dati e li elaborano, accumulano così immense ricchezze e la Zuboff si riferisce soprattutto a Google, considerato l’artefice del nuovo capitalismo. Attraverso il riconoscimento facciale si potrebbero perfino studiare i volti degli utenti per identificare le emozioni e fare previsioni future sui comportamenti commerciali. Il capitalismo di sorveglianza rischia di essere pericoloso soprattutto perché potrebbe provocare la fine dell’autonomia e della dignità come tratti distintivi del modo umano di ragionare e comportarsi. Rischia di fare all’umanità quello che il capitalismo industriale ha fatto alla natura, nutrendosi dello sfruttamento non del solo lavoro umano, come nella visione di Marx, ma della complessiva esperienza umana. 35


Ci sarebbe una nuova forma di potere, quello strumentale, che permette di conoscere il comportamento umano e di influenzarlo a vantaggio di altri. La sua forza non deriva da armi o eserciti, ma da un’architettura di dispositivi intelligenti. Il capitalismo della sorveglianza andrebbe combattuto non soltanto perché è monopolistico e viola la privacy ma soprattutto perché riduce a merce i comportamenti umani e attraverso il loro commercio consente straordinari arricchimenti. Tende ad automatizzare la persona stessa, non solo i flussi di informazioni sulla persona. Lo scambio tra la gratuità dell’accesso alla rete e l’appropriazione dei dati avviene con modalità che non garantiscono né una scelta consapevole né la realizzazione dell’efficienza, visto che questa implica che vengano effettuati tutti e soltanto gli scambi che sono reciprocamente vantaggiosi. Non si sa se per il consumatore il beneficio che deriva dall’accesso gratuito alla rete corrisponda al costo, in senso lato, della “cessione” ad altri dei suoi dati. Il perno del capitalismo della sorveglianza è l’utilizzo dei dati e la loro trasformazione in comportamenti da vendere nei “mercati comportamentali a termine”. I big data costano molto meno, nelle odierne condizioni, degli studi psicologici che si facevano per arrivare alla persuasione dei consumatori. Secondo C. Sunstein i monopolisti tipicamente sfruttano l’ignoranza delle persone o le loro debolezze comportamentali evitando di sollecitare le loro capacità di riflessione e deliberazione (On freedom 2017). Lo studioso Morozov, in una recensione sul libro, esprime alcune perplessità sulle posizioni della Zuboff. Non sarebbe chiaro se il capitalismo della sorveglianza conviva, e come, con un altro capitalismo più tradizionale come quello della produzione di merci. Sarebbe anche utile un confronto tra il capitalismo della sorveglianza e pratiche di consumo che vanno in direzione opposta e tendono a sopravvivere, cioè quelle con scopi sociali. Infine, ci sarebbe il rischio da parte della Zu36


boff di mettere insieme comportamenti e circostanze molto diversi, afferenti non soltanto alla pubblicità personalizzata online, come commercio, assicurazioni, finanza. In definitiva, però, sarebbe auspicabile che la legge, i cittadini informati e una governance seria creino un certo argine al capitalismo dei futures. Già J.K. Galbraith, nel suo studio “Affluent Society” espresse seri dubbi che i costi della pubblicità fossero giustificati da benefici sociali di almeno pari grandezza.

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Testata online aperiodica Proprietà: Comitato per l’Unità Laburista, Strada Sesia 39 14100 Asti (AT) Direttore Responsabile: Aldo Avallone - Stampatore: www.issuu.com web: www.issuu.com/lunitalaburista - mail: lunitalaburista@gmail.com - Tel. +39.347.3612172 Palo Alto, CA (USA), 16 ottobre 2019 40


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