l'Unità Laburista - Di mucche e corridoi - Numero 19 del 30 ottobre 2019

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Numero 19 del 30 ottobre 2019

Di mucche e corridoi


Sommario

Rojava, quella di Erdogan - e dei suoi sponsor - è anzitutto una “pulizia politica” - pag. 3 Umberto DE GIOVANNANGELI

Jeremy Rifkin. Un Green New Deal globale - pag. 9 di Giovan Giuseppe MENNELLA

L’arpia e l’unicorno - pag. 15 di Antonella BUCCINI

Napoli non è una carta sporca - pag. 18 di Raffaele FLAMINIO

L’Umbria e il risultato che “rafforza” il Governo - pag. 26 di Aldo AVALLONE Umbria - pag. 30 di Antonella GOLINELLI Italia 1968. Il processo ad Aldo Braibanti - pag. 32 di Giovan Giuseppe MENNELLA

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Esteri

Rojava, quella di Erdogan, e dei suoi sponsor, è anzitutto una “pulizia politica” Umberto DE GIOVANNANGELI

Non è “solo” una pulizia etnica. Non è solo l’invasione di uno Stato da parte dell’esercito di un altro Stato. Quella compiuta dal “Sultano” di Ankara in Rojava è soprattutto una “pulizia politica”. Diciamolo con chiarezza, usando termini che per qualcuno posso suonare “arcaici” ma per quanti, a sinistra, non rinnegano la propria storia, racchiudono valori e una comunanza assolutamente positivi e assolutamente attuali. Il dittatore turco, con il suo nazionalismo-islamista, ha inteso spazza3


re via, con l’avallo di Donald Trump, la compiacenza della Nato, la vergognosa latitanza dell’Europa e la copertura di Vladimir Putin, non le combattenti e i combattenti delle Ypg e Ypj, ma le compagne e i compagni che nel Rojava avevano costruito un modello di società, una idea di comunità senza Stato, fondata su principi e valori che, essi sì, rappresentano una minaccia mortale per tutti coloro che, a diverso titolo e con una gradazione di complicità, hanno sostenuto l’invasione turca. Quel modello, socialista, libertario, fondato sulla crescita dal basso di istituzioni realmente rappresentative, rappresenta una minaccia mortale per regimi teocratici, militari, sessuofobici, per élite corrotte e predatrici. “In Rojava il popolo curdo ha attuato un progetto profondamente democratico di autogoverno diverso da qualsiasi cosa mai vista in Medio Oriente e in tutto il mondo. E’ la società più democratica e rivoluzionaria che abbiamo visto sin dalle collettività anarchiche in Spagna nel 1936”, annota Debbie Bookchin, riflettendo sul bel libro di Norma Santi e Savio Vaccaro “La Sfida anarchica nel Rojava”. “E’ stato per me un onore – aggiunge Debbie – sapere che le strutture politiche del Rojava sono state costruite su molte idee elaborate da mio padre, Murray Bookchin e che hanno influenzato il leader curdo Abdullah Ocalan. Bookchin le ha denominate ‘municipalismo libertario’, rivendicando le idee di cittadinanza attraverso la partecipazione attiva alle decisioni che riguardano il nostro quartiere, i nostri paesi e le nostre città...L’esempio del Rojava è cruciale per orientarci verso un futuro più razionale, democratico ed ecologico. E’ molto importante che questo progetto continui a realizzarsi”. Ed è proprio questo progetto che la Turchia di Erdogan ha provato a spezzare, a spazzare via. Ecco allora che pulizia politica e pulizia etnica si fondono, in un progetto che non nasce con l’invasione. Ma molto prima. Una nuova ricerca di Amnesty International ha rivelato che, nei mesi che hanno preceduto la sua incursione militare nel nordest della Siria e prima del tentativo di creare la cosiddetta “zona sicura” ol4


tre i suoi confini, la Turchia ha rimpatriato forzatamente rifugiati siriani. Amnesty International ha incontrato o parlato con rifugiati che hanno denunciato di essere stati picchiati o minacciati dalla polizia turca affinché firmassero documenti in cui attestavano di aver chiesto di tornare in Siria. In realtà, le autorità turche li hanno costretti a tornare in una zona di guerra e hanno posto le loro vite in grave pericolo. “L’affermazione della Turchia secondo le quali i rifugiati siriani stanno scegliendo di tornare indietro in mezzo al conflitto è pericolosa e disonesta. La nostra ricerca mostra che queste persone sono state ingannate od obbligate a tornare in Siria”, ha dichiarato Anna Shea, ricercatrice di Amnesty International sui diritti dei migranti

e

dei

rifugiati.

In assenza di statistiche ufficiali, stimare il numero delle persone rimpatriate a forza è difficile. Ma sulla base di decine di interviste realizzate tra luglio e ottobre del 2019, Amnesty International ritiene che negli ultimi pochi mesi i rimpatri siano stati centinaia. Le autorità turche parlano di un totale di 315.000 persone tornate in Siria in modo del tutto volontario. Amnesty International ricorda che rimpatriare rifugiati siriani è un’azione illegale che li espone a gravi rischi di subire violazioni dei diritti umani. “L’accordo tra Turchia e Russia dei giorni scorsi fa riferimento al ‘ritorno volontario e sicuro’ dei rifugiati in una cosiddetta ‘zona sicura’ ancora da realizzare. La cosa agghiacciante è che i rimpatri ci sono già stati e in modo né sicuro né volontario. Ora altri milioni di rifugiati siriani sono a rischio”, ha sottolineato Anna Shea. Il governo turco sostiene che tutti i siriani che tornano in patria lo fanno in modo volontario, ma la ricerca di Amnesty International mostra che molti di loro sono stati obbligati o ingannati allo scopo di firmare la documentazione sul cosiddetto “rimpatrio volontario”. Alcuni hanno dichiarato di essere stati picchiati o minac5


ciati di violenza affinché firmassero. Ad altri è stato detto che si trattava di un modulo di registrazione della propria presenza, dell’attestazione di aver ricevuto una coperta dalla direzione di un centro di detenzione o di una dichiarazione sull’intenzione

di

rimanere

in

Turchia.

Amnesty International ha verificato 20 casi di rimpatrio forzato attraverso autobus zeppi di decine di altre persone ammanettate coi lacci di plastica che a loro volta sembravano

vittime

di

rimpatrio

forzato.

Qasim*, un padre 39enne di Aleppo, ha riferito di essere stato trattenuto per sei giorni in una stazione di polizia di Konya dove gli è stato detto: “Scegli: un mese, due mesi o anche un anno in prigione oppure vai in Siria”. John*, un siriano di religione cristiana bloccato dalla guardia costiera turca mentre cercava di raggiungere la Grecia, ha riferito di essere stato minacciato in questo modo da funzionari dell’immigrazione turca: “Se ti rivolgi a un avvocato, ti terremo qui sei o sette mesi e ti faremo male”. Dopo essere arrivato in Siria è stato trattenuto per una settimana, nella città di Idlib, da Jabhat al Nusra, un gruppo armato islamista legato ad al-Qaeda. Ha dichiarato ad Amnesty International di “esserne uscito vivo per miracolo”. Ogni volta che i rifugiati siriani interagiscono con la polizia o con i funzionari dell’immigrazione della Turchia, rischiano l’arresto e il rimpatrio: può accadere durante un controllo di documenti in strada o nel corso di un’intervista per rinnovare il documento di soggiorno. La spiegazione più comune fornita per giustificare il rimpatrio è l’assenza di registrazione o la presenza fuori dalla provincia di registrazione. Ma sono stati rimpatriati anche rifugiati che avevano documenti validi per la provincia in cui erano residenti. Nella stragrande maggioranza dei casi, i rifugiati rimpatriati sono uomini adulti caricati su autobus nella provincia turca di Hatay e fatti scendere oltre il valico di Bab al-Hawa, nella pro6


vincia siriana di Idlib. Fa eccezione il caso di Kareem*, un 23enne di Aleppo, che ha denunciato di essere stato rimpatriato da Istanbul insieme a due minorenni di 15 e 16 anni privi di documenti. La loro madre aveva supplicato di farli scendere dall’autobus ma le era stato risposto che i due ragazzi avevano violato la legge e dunque dovevano essere rimpatriati. Nabil*, sposato e padre di un bambino di due anni, ha raccontato di essere stato arrestato, insieme alla moglie e al figlio e con oltre 100 persone, ad Ankara nel giugno 2019. Salvo tre uomini soli, si trattava di nuclei familiari. Dopo tre giorni, è stato detto loro che sarebbero stati trasferiti in un campo nella provincia di Hatay, ma invece sono stati caricati sugli autobus e rimandati nella provincia di Idlib. “Le autorità turche devono cessare immediatamente i rimpatri in Siria e assicurare che tutte le persone rimpatriate possano fare rientro in Turchia e accedere nuovamente a servizi fondamentali”, ha sottolineato Anna Shea. “L’Unione europea e il resto della comunità internazionale, invece di spendere energie per tenere i richiedenti asilo alla larga dai loro territori, dovrebbero aumentare di molto gli impegni per il reinsediamento dei rifugiati siriani dalla Turchia”, ha concluso Shea. Tutto era stato preparato, pianificato. Ed ha avuto un precedente che la comunità internazionale ha fatto finta di non vedere. Per pavidità, perché, al di là delle lacrime di coccodrillo e di una diplomazia parolaia, a imporsi è la diplomazia delle armi, e la politica di potenza. Sono i bambini in divisa esibiti da Erdogan (come facevano quelli dell’Isis che per lungo tempo il “Sultano” ha protetto e non ha mai combattuto). Il precedente, quinque. L’anno scorso, ricorda sempre Debbie Bookchin, i turchi assediarono Afrin, una regione del Rojava: “Questo assalto era un monumento all’indifferenza capitalista, alla sofferenza umana, Trecentomila persone curde sono state espulse dalle loro abitazioni e dislocate nei campi profughi 7


all’aperto dove se ne contano ancora centosettantamila. La Turchia ha usato metodi di rapimento, tortura, omicidio, ha bruciato ettari e ettari di terra coltivabile. La Russia, l’Iran, gli Stati Uniti che si preoccupano solo delle rispettive sfere di influenza e dei tesori economici, sono complici del genocidio del popolo curdo. Adesso la Turchia sta tentando di distruggere il resto del territorio del Rojava”. Ed ecco la Tv turca che immortala, con tanto di inni patriottici e retorica nazionalista, l’ingresso dei carri armati e dei suoi “eroici soldati” a Kobane, la città che le combattenti e i combattenti curdi avevano strappato a quelli dello Stato islamico pagando un tributo di sangue come nessun altro. Ora su Kobane conquistata da Erdogan sventola la bandiera turca. Nessuno può dire “non sapevo”, “non ho visto”...Se ha ancora un senso alto e nobile dirsi di sinistra, e agire da sinistra, essere a fianco delle compagne e dei compagni del Rojava è oggi il vero discrimine. * Per proteggere le persone intervistate, sono stati usati nomi di fantasia

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Ambiente

Jeremy Rifkin. Un Green New Deal globale Giovan Giuseppe MENNELLA

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In questi giorni Jeremy Rifkin è in giro per l’Italia per presentare il suo nuovo libro “Un Green New Deal globale”, in cui affronta con la solita passionalità visionaria i problemi di un mondo che deve cambiare totalmente, approfittando della ennesima rivoluzione industriale appena cominciata, per salvare il Pianeta dall’estinzione di massa che sarebbe alle porte. Vediamo per sommi capi quali sono le tesi e le proposte contenute nel libro. Rifkin parte dal concetto che è prossima a scoppiare la più grande bolla economica della storia, quella dell’economia delle energie fossili. Il presupposto è che da quest’anno, 2019, le energie eolica e solare sono diventate competitive sul mercato e andranno sempre più a scalzare la presenza dell’energia ricavata dai fossili, petrolio in primis. Questo significa che le imprese che hanno fatto investimenti per centomila miliardi di dollari nelle energie fossili andranno incontro al fallimento se non li diversificheranno in tempo sulle energie rinnovabili. Secondo Rifkin, si è già verificato un massiccio disinvestimento di risorse economiche dalle filiere dei combustibili fossili, nell’ordine di almeno diecimila miliardi di dollari. Il problema che occorrerà affrontare seriamente è il modo di impiegare proficuamente le risorse economiche che si renderanno così disponibili per dare una concreta ed efficace sterzata verso un’economia che dovrà essere orientata sulle energie rinnovabili. Le iniziative in questo senso che stanno prendendo alcune istituzioni pubbliche non sembrano ancora molto efficaci e Rifkin porta l’esempio dell’accordo di Parigi in cui novemila città del mondo hanno presentato delle proposte per la nuova economia verde: si tratta, in effetti, solo di progetti pilota puramente teorici non ancora efficacemente sperimentati e, soprattutto, finanziati, come centraline per auto elettriche, palazzi autoalimentati etc. La vaghezza di questi progetti sarebbe data dall’assenza di proposte concrete su come fare ad attrarre gli 10


enormi capitali che occorrerebbero e che pure si stanno rendendo teoricamente disponibili per i disinvestimenti dall’economia fossile e che aumenteranno a dismisura nel medio termine. Che il cambio di economia, da una con energia fossile a una con energia verde, non sia più rinviabile è confermato da una indagine del Gruppo per lo studio dei cambiamenti climatici dell’ONU che ha fatto presente che, per colpa delle emissioni fossili, siamo sull’orlo della sesta estinzione di massa della storia del mondo. Dopo ogni estinzione sono stati necessari dieci milioni di anni per riprodurre la vita. Già da ora c’è la quasi certezza che, se le cose continuassero allo stesso modo, tra ottanta anni andrebbero perse il 50% delle specie attualmente viventi E aggiungiamo che esisteva una probabilità su vari milioni che la vita nascesse su questo pianeta, eppure è nata. Che ci sono voluti miliardi di anni perché si sviluppasse, dai primi procarioti ed eucarioti fino all’homo sapiens. Quindi, sarebbe davvero il caso di darsi da fare per non sprecare tutti questi miracoli che hanno consentito l’esistenza degli esseri viventi, a cominciare dall’uomo che, peraltro, a sua volta è davvero solo un granello di polvere nell’immensità dell’universo, anzi degli universi, come aveva intuito fin dal ‘500 Giordano Bruno. Secondo Rifkin non c’è quasi più tempo da perdere per evitare le conseguenze catastrofiche che potranno portare all’estinzione dell’umanità. Infatti, ci vorranno dieci anni per creare le nuove infrastrutture necessarie per la riconversione all’economia verde del solare e dell’eolico. Rifkin auspica una rivolta mondiale per combattere l’estinzione delle forme di vita, come nel passato sono avvenute rivoluzioni e guerre per questioni religiose o per ottenere più diritti. Da questo punto di vista ritiene molto utile la mobilitazione dei giovani, e non solo di quelli, cui sta lavorando il movimento promosso da Greta Thunberg. 11


Propone quello che definisce il metodo di “Internet delle cose”. Cioè realizzare attraverso Internet le tre cose che nella storia dell’uomo sono sempre state fondamentali per arrivare a cambiamenti totali del modo di produzione e della Società, cioè l’energia, la mobilità e la comunicazione. Dovrà essere realizzata una terza rivoluzione industriale, quella di energia, mobilità e comunicazione tutte basate su Internet, come la prima era stata basata sulla stampa, il vapore, il carbone, le ferrovie e gli Stati Nazione, la seconda sul telefono, la radio, la televisione, il petrolio e le automobili costruite a buon mercato con il metodo di Henry Ford. In pratica, l’energia verde solare ed eolica dovrebbe essere prodotta e distribuita digitalizzandola attraverso Internet, con energia prodotta dalle singole case e dagli individui e venduta agli altri in caso di surplus, condividendo l’energia tra tutti per mezzo dei computer. Serve una decisa convergenza verso la mobilità elettrica o elettronica utilizzando energia solare ed eolica mediante veicoli senza guidatore gestiti collettivamente. Gli edifici dovranno diventare come piccole centrali elettriche. Il tutto gestito orizzontalmente, cioè attraverso cooperative di edifici che generano energia e ricaricano auto elettriche, in modo da passare dalla globalizzazione a una gestione di energie globali effettuata del tutto localmente tra edifici e tra individui. Una sorta di glocalizzazione. Per fare tutto questo, occorrerebbe che si muovessero con tutto il peso dei poteri pubblici quelli che Rifkin definisce i tre elefanti del mondo: Stati Uniti, Unione europea e Cina. Non si potrà contare sugli Stati Uniti perché hanno imboccato, con Trump la via dell’autarchia economica e seguono tipi di politiche antiche ed arretrate, mentre Europa e Cina sono più avanti. Quindi proprio Unione europea e Cina dovrebbero prendere l’iniziativa per organizzare infrastrutture intelligenti a economia verde, coinvolgendo nei progetti quante più potenze medie e piccole possibili. 12


Sulle obiezioni che sono portate contro la possibile ingerenza di controllo sui cittadini che potrebbe essere così esercitata dai governi, soprattutto dalla Cina, Rifkin risponde che da un lato il colosso asiatico non ha dato l’impressione di voler effettuare forti controlli e dall’altro occorre assolutamente fare affidamento sulle centinaia di milioni di asiatici con cui si potrebbe condividere l’energia pulita. L’importante sarebbe fare reti internet smart, staccandosi dalle reti nazionali. Un’altra possibile obiezione è rappresentata dal fatto che l’Europa potrebbe essere frenata negli investimenti dall’obbligo di non spingere il debito pubblico oltre il 3% del PIL. Rifkin risponde che è il momento per l’Unione europea di superare questo limite, anche per implementare l’economia verde e per favorire le economie di regioni europee in crisi, come l’Italia meridionale, che hanno una grandissima disponibilità di energia solare. Lo studioso della storia dell’energia Marino Nicolazzi ha fatto presente però che il cambiamento del modo di produrre energia ha un costo enorme che va tenuto presente; infatti, l’economia a energia fossile ha avuto successo perché a buon mercato, visto che non si si sono mai considerati i costi del degrado ambientale. Rifkin gli ha controbattuto affermando che attualmente tutto il settore elettrico si sta staccando dal fossile, proprio perché dal 2019 l’eolico e il solare stanno diventando più economici dell’energia fossile e, anzi, quei paesi e quelle regioni ancora aggrappati totalmente all’energia fossile, come gli USA, il Canada e il Medio Oriente, rischiano una crisi economica terribile a breve o medio termine se non riconvertono rapidamente la loro economia alle energie pulite. Per fare un esempio, la Wolkswagen ha già comunicato che è entrato in produzione quello che sarà il suo ultimo veicolo non elettrico, giacché dal 2028 non sarà più conveniente produrre veicoli non elettrici All’obiezione di Putin che ha detto che, in caso di riconversione dell’economia 13


globale alle energie verdi, i Paesi in via di sviluppo non cresceranno più per i prossimi vent’anni, Rifkin risponde che secondo indagini della Banca Mondiale andranno invece in grave crisi economica proprio i Paesi produttori di energie fossili che non stanno facendo niente per modificare i loro investimenti nel campo dell’energia. Insomma, Rifkin nel suo libro e nelle discussioni che ne stanno scaturendo, si sta facendo paladino di un nuovo inizio economico-produttivo del mondo, con la solita passionalità e il solito impegno. Non è dato sapere per ora se le sue visioni siano solo utopistiche, ma davvero viene voglia di credere che non lo siano.

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Donne

L’arpia e l’unicorno Antonella BUCCINI

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Suona strano, in questi tempi di feroce regressione, che ben tre trasmissioni televisive, pur se destinate a un pubblico di nicchia, si occupino di donne: “Valorose”, “Le ragazze” e “ Illuminate”. L’implicito riconoscimento già nel titolo non camuffa una ruffianeria spicciola, si tratta di donne comunque giovani e straordinarie. Nellie Bly, prima reporter donna della storia ha fatto il giro del mondo da sola e a sessanta anni è partita inviata di guerra; Alice Grey capì che la scoperta dei Lumiere aveva bisogno di storie e inventò il cinema diventando la prima regista e produttrice; Benedetta Murachelli negli anni ’50, ben prima delle rivendicazioni femministe, ha vissuto, fra mille difficoltà, la libertà del suo sentire. Tutti esempi, dunque, di coraggio, anticonformismo, tenacia e genialità, tutti sottratti alla storia delle donne. Già perché queste testimonianze ancora una volta evidenziano questa grande omissione in un racconto dell’umanità dove le donne non hanno un passato ma solo un’ opaca rappresentazione di mogli e madri, magari le più riconoscibili quelle dietro al grande uomo, o di accessorio ornamentale e comunque declinate sempre al presente. Chi lavora e magari ha anche fatto carriera lo ha fatto con il rischio di “perdere la femminilità”, messaggio surrettizio destinato ancora a sminuire o cancellare il valore di una donna. La storia delle donne dunque non esiste. Per ricostruirne il senso e la presenza occorre indagare ricorrendo ai miti, alle fiabe, al folclore, all’archeologia, nel tentativo di restituire loro la legittima parte e alle opere prodotte la giusta dimensione. Questa menzogna, funzionale a una visione gerarchica e oppressiva dell’umanità, è anche un furto di identità. La rimozione di artiste, scienziate, filosofe ha di fatto impedito l’assunzione e quindi l’elaborazione di modelli fondanti nello sviluppo identitario di ciascuna donna. In eguale maniera il disconoscimento di un passato di lotte e sofferenze di tutte le donne che hanno militato per l’emancipazione mutila le successive generazioni della memoria indispensabile per maturare la consapevolezza della propria condizione e della necessi16


tà di non abbassare mai la guardia perché la discriminazione sessuale è ancora affare loro. Le giovani non devono mai pensare che la libertà e l’indipendenza di cui oggi godono in qualche misura siano appartenute con analoga semplicità alle loro madri ma non è un principio comune. Si pensi alla narrazione che passa ancora attraverso i cosiddetti giornali femminili dove ogni profilo identitario è sistemato con le diete dedicate, la cellulite da combattere o la modalità per conquistare finalmente l’uomo della vita. Le trasmissioni citate sono forse un piccolo evento popolare, un segnale comunque significativo di un altrove femminile tutto ancora da valorizzare e che semmai fosse colto dalla politica in procinto, pare, di potenziare lo studio della storia nelle scuole, si potrebbe indulgere al miracolo. Michela Murgia una delle donne celebri testimoni ne “Le ragazze”, si sofferma su una conversazione di un po’ di tempo fa dove il suo interlocutore la canzona dal momento che sperando in un mondo migliore, in regole giuste, nell’uguaglianza le chiede perché non credere anche nell’unicorno. Michela allora ha comprato un piccolo unicorno, un po’ “frocio” come dice lei con la criniera azzurra, che tiene a portata di mano. Sarebbe probabilmente di conforto per ciascuna di noi adottare un simbolo di resistenza. Per restare nel mitologico opterei per una piccola arpia rivalutandone la brutta reputazione …. ma non troppo.

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Sud

Napoli non è una carta sporca Raffaele FLAMINIO

Questa settimana ho ospitato in città un caro amico, Mario. Ci siamo incontrati per portare a termine un lavoro. Mario mi ha chiesto però, se 18


nel tempo residuo disponibile, gli facessi da guida in giro per la città. Parlo di Napoli, naturalmente. Mario è una persona amabile ed estremamente colta, un appassionato giurista e storico dilettante. Un gentiluomo d’altri tempi. I suoi natali sono marchigiani ma, la sua vicenda umana si è svolta prevalentemente a Torino, da cui è stato adottato e coltivato. Il sospetto di un napoletano è sempre forte nei confronti di un sabaudo e per giunta juventino. Inoltre, la storia patria è stata fatta dai vincitori e noi ancora oggi ne patiamo le interpretazioni e ne sopportiamo le distorsioni. I grandi viaggiatoti dei Gran Tour calavano dal freddo ed efficiente Nord, tutti allineati e coperti nel perimetro rigido di regole, vincoli dettati da regolamenti e codici. Il paesaggio rapiva, il clima abbracciava amorevolmente ma la gente, che orribile umanità! Fatta di poveri, pezzenti e lazzari, il più basso ordine antropologico che un Regno potesse offrire. Le corrispondenze degli ambasciatori, in particolare quelli di sua maestà Britannica, sono state quelle che hanno maggiormente contribuito alla creazione di questo luogo comune che tuttora resiste. E che anche Mario, pur nel suo essere uomo colto e scevro dai pregiudizi, sentiva persistere nel suo animo. La conferma mi è giunta quando abbiamo cominciato a bighellonare per la città. La luce chiara e azzurra dell’ottobre partenopeo l’ha stordito. Il tepore l’ha coccolato, la moltitudine umana vociante e numerosa è stata percepita, inizialmente, come una minaccia. Il cliché del Gran Tour si è ripetuto. E la domanda è nata spontanea nella mente di Mario. Era scattato il Timer. «Perché una grande città come Napoli, con le sue tradizioni e la sua storia millenaria, ricca di musicisti, di artisti e letterati tra i quali anche il mio conterraneo Giacomo Leopardi, non ha la forza di 19


riscattarsi e di porre ordine nelle cose? » Come dice Totò “e qui che casca l’asino”, caro Mario. Allora io lo guardo sorridendo benevolmente e gli dico: «Perché la nostra origine è greca, perché anche sotto i Romani la prima lingua era il greco, perché noi viviamo di Agorà. Noi abbiamo bisogno del contatto fisico che è fatto di gestualità anche nel parlare. Tu, quando la giornata e bella dalle tue parti che fai? » Pensandoci un po’, mi risponde: «esco mi godo il sole, la luce, vado a oziare, osservo guardo meglio la città, mi godo un panorama ». «Noi lo facciamo tutti i giorni, - gli dico - l’ordine deve cedere per forza qualcosa alla fantasia e alla creatività. La grande arte, pure quella del Nord, da dove nasce? Dal Kaos. La moltitudine, le piazze, le taverne, la promiscuità, la luce, sono gli elementi che colpiscono. Il passaggio dalle tenebre alla luce acuisce la curiosità, l’immaginazione, come pure la solidarietà, l’integrazione, l’economia di sussistenza». La nostra passeggiata per via Toledo lo rapiva, indeciso se guardare i palazzi nobili che incorniciavano la via o la folla di turisti, napoletani, giovani che come un fiume incessante affollava il percorso. Il mio appassionato amico rifletteva. Eccome se rifletteva!. Osservava e si dava risposte strada facendo. La monnezza, perché è sempre questo il cruccio di chi viene a Napoli, è raccolta ordinatamente dentro e vicino ai cestini colmi, ai bidoni della raccolta differenziata pronta per essere asportata, la gente è tanta è impossibile che non c’è ne sia. Questo pensava Mario. Poi d’improvviso mi chiese di attraversare i Quartieri Spagnoli, non osavo proporglielo. Suppongo che la sua passione per la storia e la voglia di rompere un tabù contemporaneo sui quei luoghi, lo abbia spinto ad assecondare 20


questo suo desiderio. Le vie anguste e l’altezza dei palazzi lo incuriosivano, ogni tanto lo coglievo a sbirciare nei bassi. La sua soddisfazione principale stava nel fatto che osservando, il pregiudizio calava e il sorriso appena accennato stampato sul suo viso corrispondeva all’esperienza personale senza filtri che stava vivendo. I Quartieri Spagnoli nel 1500 erano gli alloggiamenti delle truppe vicereali e dunque per difendere la città e facilitare l’ordine pubblico le vie, come quelle di un castello, dovevano essere anguste, tali da poter essere difese anche da un numero ridotto di militi; la pianta dei quartieri è quella a reticolo come gli accampamenti romani, l’altezza dei fabbricati era resa necessaria dalla demografia cittadina e dalla morfologia del territorio che prevalentemente risulta collinare e quell’insediamento giace ai piedi della collina del Vomero. Dunque Mario si dava risposte scaturite dalla conoscenza esistente e dall’osservazione diretta. Le tortuose e strette strade, le improvvise piazze e le ricche chiese che ci apparivano d’improvviso davano a Mario, senza che io parlassi, la soddisfazione della comprensione, Napoli non butta niente, contiene e rigenera, trovando una forza ostinata nel volersi rinnovare nelle sue immense difficoltà. Prima di continuare per la Pignasecca, mercato popolare all’aperto nel centro città, ci siamo concessi la pausa di una “tazzulella ‘e cafè” per rifocillarci e rendere omaggio alla tradizione. La tazza di caffè è un modo di scambiare quattro chiacchiere in breve su gli argomenti più svariati. L’ultima formazione del Napoli calcio, le alte temperature che consentono di andare ancora al mare in autunno inoltrato, i commenti dei turisti sulla città. Un micro cosmo di comunicazione e di contatto di cui la città non può fare a meno. Le commedie di De Filippo e i film di Totò sono pieni di “tazzulelle ‘e cafè”, mi ricorda Mario che, a questo punto, ne ha ben chiare le ragioni e le origini. La conversazione scivola poi su alcune considerazioni che la 21


influencer Selvaggia Lucarelli, con evidente intento polemico, ha postato su alcuni social accusando i napoletani di appropriarsi del caffè, del pomodoro, delle patate e non ricordo di quale altro prodotto della terra, proveniente dalle Americhe o dall’oriente. Noi siamo ironici per natura, discendiamo dai Greci, siamo acuti osservatori e sappiamo valorizzare e conservare gelosamente ciò che riceviamo e che possediamo. Il caffè è straniero come pianta, non è napoletano, eppure è qui che si è nobilitato, diventato leggenda, un po’ come il tè nel mondo anglosassone. Neanche il tè è britannico, eppure i sudditi di sua maestà lo hanno trasformato in un’ occasione sociale. Il pomodoro non è napoletano, però sono i napoletani che l’hanno collocato sulla pizza. Nonostante fossimo profondamente attaccati alle nostre origini e al nostro regno, la pizza per eccellenza, la Margherita, l’abbiamo dedicata alla prima regina del regno d’Italia. Mario rifletteva e condivideva questi miei ragionamenti entrando sempre più nello spirito cittadino. Gustato il caffè, giungemmo alla Pignasecca: un esplosione caotica di colori, bancarelle, negozietti per turisti e indigeni, una contaminazione continua, anche scenografica, tra modernità e tradizione. Gli americani non producono film sui set costruiti, la loro fortuna non nasce dall’epopea del west? Noi abbiamo la nostra sceneggiatura e scenografia naturale, quotidiana. I prezzi delle merci di questo luogo sono molto contenuti, Mario lo ha notato subito facendo un confronto con quelli di Torino. Gli ho spiegato che questo è solo uno dei tanti mercati che in città svolgono una funzione sociale. uelloqqqqqqqqqqQuella dell’economia di sussistenza e di resistenza. Napoli è, forse, l’unica città che vede coesistere in ambiti ristretti gli ambienti sociali più disparati e questa coesistenza facilità la convivenza e la solidarietà, consente di vivere e di esistere secondo le 22


possibilità di chiunque. Quando si è agito diversamente, con le “deportazioni” in periferia, è nata Scampia. «Ma la camorra?» mi chiede Mario. La camorra sappiamo che esiste, non neghiamo la sua esistenza ma cerchiamo di farci i conti quotidianamente, arginandola con le armi della cultura e della pazienza, aprendo i luoghi della città, facendola vivere. Ogni giorno, ogni mese dell’anno, in città ci sono migliaia di occasioni passepartout che costringono la camorra a indietreggiare di un passo e quel piccolo spazio libero lo occupiamo noi. Le occasioni si chiamano Napoli Teatro Festival, Maggio dei monumenti, il San Carlo con i suoi spettacoli, Cinema d’estate nei parchi cittadini, spettacoli teatrali, esposizioni d’arte nelle case private del centro o nei bassi, visite guidate nella Sanità, i musei che si trasformano, divenendo luoghi di libri e di musica, festival di artisti di strada. Caro Mario, esiste una forte consapevolezza ma è necessaria tanta pazienza e prudenza. Gli propongo una visita per le strade e i luoghi del Vomero, voglio dargli un po’ di fiato, farlo sentire un po’ più a suo agio. Prendiamo la funicolare di Montesanto . Mario ripassa sorprendentemente la toponomastica delle strade percorse. Montecalvario, Vico Lungo Gelso, Pignasecca, Toledo. Me ne chiede ragione. La zona dei Quartieri Spagnoli prima dell’avvento del viceré Pedro de Toledo era una porzione fuori le mura della città aragonese. Posta ai piedi della collina di Sant’Elmo che dal Vomero precipitava in città, era assai verde e piena di pini marittimi e alberi di gelso. Nei pressi si praticavano mercati, era una zona salubre e amena. Quando si decise di costruire l’attuale via Toledo, asse viario che conduceva la città interna verso il mare, fu necessario abbattere i boschi di pino e gelso e gli orti fecondi. La leggenda narra che nell’attuale Pignasecca, chiamata Bianco23


mangiare per la sua salubrità, rimase in piedi un solo albero di pino, in napoletano, appunto, Pigna, dal frutto prodotto, sui suoi rami. Le gazze che precedentemente abitavano il bosco, si rifugiavano sull’albero superstite portando sui suoi rami i gioielli, che loro stesse avevano rubato dalle abitazioni circostanti. Le proteste della popolazione procurarono una scomunica da parte di un arcivescovo nei confronti dei volatili. L’editto fu inchiodato sul fusto del pino che in seguito morì. La denominazione Pignasecca trae origine dalla morte dell’albero e del suo frutto, la pigna, che inaridì, in dialetto “seccò”. La storia di vico Lungo Gelso, trae origine dal bosco dello stesso albero che consentiva l’allevamento del baco da seta, fondamentale per la produzione delle sete napoletane. Gli alberi si estendevano dalla collina di Salt’Elmo fino agli attuali quartieri spagnoli, e furono dati in gestione ai monaci Certosini dell’abbazia di San Martino al Vomero. Il bosco, inoltre, procurava ristoro dalla calura estiva e conforto per gli innamorati che si incontravano in quella zona, in barba ai principi del pubblico decoro. Tale ragione, accompagnata alla costruzione della nuova via, fu sufficiente per tagliare le piante dal luogo. A cui, però, è rimasto il nome nella toponomastica cittadina. Giunti al Vomero, dopo la corsa nella funicolare di Montesanto, Mario si è immerso nella calma borghese del quartiere collinare, attraversato dallo scintillio delle vetrine eleganti degli esercizi commerciali, apprezzando i viali alberati e il panorama offerto dal belvedere della Certosa di San Martino e dalla fortezza di Sant’ Elmo. La presenza continua di riferimenti a Santi e Monti riconducibili alla religione ha svelato a Mario il profondo legame che la città possiede con la religione e la leggenda. Ma a Napoli hanno convissuto e convivono istanze diverse: il culto di San 24


Gennaro e la caparbia laicità di Gennaro Serra di Cassano, eroe della rivoluzione Napoletana del 1799, rappresentano il forte intreccio tra religione e filosofia. Le avanzate tesi legislative di Gaetano Filangieri e Pietro Giannone hanno contribuito a influenzare lo spirito di libertà a cui la città e la sua gente ha sempre aspirato mentre lo spirito religioso, fatto di tradizionale adorazione per i morti, conduce alla liberazione dagli affanni terreni attraverso un percorso diverso. Mario si è goduto le passeggiate in riva al mare, i piatti della tradizione culinaria, la visita solitaria a Capodimonte e ai sui tesori, visitato la tomba del suo amato Giacomo Leopardi che finì i suoi giorni nella città che più rappresentava il suo delicato animo. Mario, si è sorbito il mio enorme orgoglio partenopeo. Povero Mario! Il mio Caro Amico ha liberato l’animo, gli occhi e la mente dai pregiudizi centenari, mi ha ringraziato per la breve visita e mi ha salutato con la voglia di ritornare. Benvenuto Mario e a presto rivederci.

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Politica

L’Umbria e il risultato “rafforza” il governo. Aldo AVALLONE

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che


La prevedibile vittoria del centrodestra alle elezioni regionali in Umbria discende da molteplici fattori. Si può certamente fare riferimento allo scandalo sui concorsi in sanità che ha visto coinvolto il precedente presidente, Catiuscia Marini, eletta con il Partito Democratico e poi costretta alle dimissioni. Si può considerare il momento politico nazionale che vede la destra in auge nel nostro Paese come in molti altri luoghi d’Europa e del mondo. Si può anche discutere del crollo del Movimento 5 Stelle che pare aver perso del tutto lo slancio propulsivo che lo aveva portato alla vittoria nelle politiche del marzo 2018: appena un anno e mezzo fa, eppure sembra passato un secolo! Non si comprende come, al loro interno, non sia stata ancora messa finalmente in discussione la leadership disastrosa di Luigi Di Maio. Si può e si deve valutare la scelta di Renzi di tenersi fuori da questa tornata elettorale. Ma questa è una decisione che si può anche comprendere: dopo aver perso tutte le elezioni dalle famose europee del 2014 in poi, non voleva assoggettarsi a un’altra sconfitta annunciata. Chi, però, deve interrogarsi maggiormente è il Partito Democratico. Consegnare alla destra, in questo modo, una regione dove in passato si era sempre vinto, significa che in quel territorio è accaduto qualcosa di clamorosamente distruttivo. A livello nazionale i primi commenti tendono a minimizzare la sconfitta. In Umbria hanno votato circa 450mila persone. Nemmeno la metà della popolazione di una città media, qual è, ad esempio, Napoli. Non può essere un test probante. Affermazione solo in parte condivisibile perché le elezioni di domenica scorsa hanno segnato in maniera evidente il crollo di un sistema di potere che i cittadini umbri hanno sonoramente bocciato. Una bocciatura che viene da lontano, il centrodestra aveva già vinto in parecchi comuni, in primis Perugia e Terni. Gli elettori umbri si sono ribellati a un’occupazione metodica e articolata di ogni struttura di potere. Clientelismo a ogni livello, di cui lo scandalo dei concorsi in sanità è solo il dato più evidente. 27


A tutto ciò si aggiunga la crisi economica che dal 2010 a oggi ha prodotto la perdita secca di otto punti percentuali di Pil e ha costretto alla chiusura quasi quattromila aziende. Negli anni precedenti il centrosinistra ha garantito una coesione sociale che pian piano è andata persa. In questo vuoto si è inserita la Lega. Se la storia insegna qualcosa, sarà molto difficile spodestare Salvini che subentrerà in tutto e per tutto al vecchio sistema di potere ormai sorpassato. La destra, naturalmente, cercherà di sfruttare questo successo anche a livello nazionale, sperando di mettere in crisi il governo, insistendo soprattutto sulle contraddizioni che si sono aperte, e cresceranno ulteriormente, nei 5 Stelle che hanno subito davvero una debacle epocale. Personalmente credo che proprio la sconfitta di dimensioni rilevanti servirà a tenere oltremodo unita la compagine governativa. Nessuno dei componenti l’attuale maggioranza ha interesse ad andare a nuove elezioni. Il Movimento 5 Stelle perché ne uscirebbe decimato, Renzi perché non ha ancora avuto il tempo di completare la sua “campagna acquisti” né di organizzare il suo partito sul territorio, il PD che spera con un’azione di governo efficace di far risalire le proprie quotazioni. Ma la percezione nell’opinione pubblica resta quella di politici il cui unico fine sia solo quello di rimanere attaccati alla poltrona. Prima o poi si tornerà a votare. Allora tutto è perduto? Razionalmente verrebbe da essere pessimisti. Ritengo che per superare l’impasse nella quale è caduta la sinistra nel nostro Paese occorra uno sforzo d’immaginazione e di volontà. Un gesto coraggioso che sparigli il gioco: superare gli attuali partiti e creare qualcosa di totalmente nuovo. Sia a livello di contenuti che di uomini. Un nuovo soggetto politico che fondi il suo esistere sui valori del socialismo e del laburismo, che torni nelle strade, nelle piazze, nelle sezioni ad ascoltare i bisogni della gente comune e li traduca in progetto politico. Utopia? Forse. Ma noi di sinistra non siamo stati sempre accusati di essere dei sognatori? E al28


lora proviamoci, almeno, a far sĂŹ che questo sogno si traduca in realtĂ .

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Politica

Umbria Antonella GOLINELLI

Quindi la coalizione di centro sinistra, quella di governo, ha perso. Una breve occhiata ai numeri ci racconta di numeri enormi per la Lega, una crescita impressionante del partito di destra piena e un calo enorme del berlusconismo. Dall'altro abbiamo una tenuta sostanziale del PD, un crollo verticale dei five strass e poco altro. Affluenza al 65%. Brevi considerazioni generali. 30


Intanto cosa vi aspettavate esattamente? Perché era piuttosto annunciata questa sconfitta. Una candidatura dell'ultimo minuto a seguito del cambio di governo agostano. Per me uno sconosciuto ma non ho approfondito. Ho capito una candidatura civica. Mah. Alcune cose saltano agli occhi. Per esempio è enorme il calo di voti dei five strass. Ho letto in giro numeri stratosferici. Numeri che avrebbero potuto non dico fare la differenza ma quasi. Mi chiedo come mai questa fuga. Per l'alleanza? Per le politiche proposte? Per quelle realizzate? Mi sembra piuttosto sciocco come comportamento. Considerato che dove governano non sono proprio sfavillanti. Anzi. Mi chiedo se abbiano effettivamente una valenza solo all'opposizione senza poter avere ambizioni di governo. Mi pare non abbiano ancora capito com'è il fatto. In effetti mi rendo conto che non erano e non sono in grado di reggere il confronto. Hanno ragione solo se parlano da soli. In caso contrario niente. Vivaisti non pervenuti. O non esistono o chissà cosa han votato a questo punto. Fatto sta che non han portato via quasi nulla dal PD. Anche qui è curioso! Stanno al governo e non si sono impegnati nella campagna. Forse perché si sapeva perdente? Comoda cosi! Ci si espone solo se si vince. Non si contribuisce. Non sia mai si appanni lo sfavillio del vivaista capo. #mognint Dunque abbiamo la mucca in corridoio. La domanda ora è: come facciamo a riportarla nella stalla? O al pascolo. Come preferite. Qualche idea ce l'avrei ma ve ne parlerò più avanti.

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Storia e Diritti

Italia 1968. Il Processo ad Aldo Braibanti Giovan Giuseppe MENNELLA

Il 13 luglio del 1968 si celebrò in Corte d’Assise a Roma, in un’aula affollatissima, l’ultima udienza del processo ad Aldo Braibanti, uno degli episodi più emblematici di quell’Italia degli anni ’60, sospesa tra aneliti alla modernità e tratti di arretratezza sociale, culturale e del costume. L’imputato era un uomo di quarantacinque anni, non alto di statura, mingherlino, occhiali a pince-nez e corta barbetta. Era stato definito il filosofo comunista, semplicemente il filosofo o il professore, da giornali divisi tra quelli in maggioranza di 32


destra, dai commenti ostili, beffardi e sarcastici e quelli, pochi, che non andarono oltre un generico sostegno di facciata non essendo neanche totalmente informati sui fatti. L’unica eccezione, l’unica voce solitaria contro, fu quella di Marco Pannella che lo definì chiaramente un processo da Santa Inquisizione. In realtà era il processo a un intellettuale originale, disorganico, che non aveva una collocazione precisa in alcuno degli schieramenti che si confrontavano in quel momento e, soprattutto, all’omosessualità che in Italia ancora era oggetto di ostracismo e di vergogna. Braibanti era accusato del reato di plagio nei confronti del giovane ma maggiorenne Giovanni Sanfratello, in base all’art. 603 del Codice Penale fascista di Alfredo Rocco del 1930, ancora pienamente in vigore a quell’epoca. Il reato si riferiva a chiunque, con atti e parole, sottoponesse una persona al proprio potere riducendolo in totale soggezione. Era prevista una pena da un minimo di cinque anni a un massimo di quindici, ma nessuno era mai stato condannato per quel reato, anche se c’erano stati alcuni altri processi, l’ultimo pochi mesi prima, a carico dell’attore Maurizio Arena, accusato di plagio nei confronti della principessa Maria Beatrice di Savoia, che si era concluso con un’assoluzione. Il Pubblico Ministero chiese in quell’udienza la condanna dell’imputato a ben quattordici anni di carcere, solo uno in meno del massimo della pena, definendolo un diabolico e raffinato seduttore di spiriti che plasmava le menti per sete di possesso e dominio prima ancora che per perversione sessuale e, comunque, caratterizzato da omosessualità intellettuale. L’avvocato difensore si appellò al rispetto dell’articolo 21 della Costituzione che tutelava il diritto di parola e la libertà di espressione del pensiero, affermando che se si metteva fuori legge e si condannava la possibilità di seguire dei maestri e degli esempi, allora si sarebbe dovuta abolire tutta l’arte, tutto il cinema, il teatro, la televisione, la pubblicità, le opere letterarie. 33


L’attesa per la sentenza era vivissima. Ma chi era Aldo Braibanti e quali erano state le opinioni e le presunte azioni per cui era stato messo sotto processo? Aldo Braibanti era nato il 17 settembre 1922 a Fiorenzuola d’Arda, vicino Piacenza. Figlio di un medico condotto e di una maestra elementare, con un fratello, Lorenzo, medico ginecologo che sarebbe diventato il fautore del parto dolce, cui rimase sempre molto legato affettivamente. Frequentò il liceo a Parma e poi s’iscrisse alla facoltà di lettere e filosofia all’Università di Firenze. Nella città toscana fece le prime prove artistiche e letterarie, con alcuni componimenti poetici e alcuni collage. Durante la guerra aderì al movimento politico di Giustizia e Libertà, ma poi, per partecipare più attivamente alla Resistenza armata di stampo popolare, entrò nella clandestinità nelle fila del Partito Comunista. Fu arrestato nel 1943 insieme a Ugo La Malfa e sottoposto alle torture della famigerata banda Carità. Liberato con un falso ordine di scarcerazione nel Maggio 1944, fu partigiano in Toscana come Commissario politico delle formazioni combattenti del Partito Comunista e partecipò agli scontri per la liberazione di Firenze. Nel dopoguerra, dopo i fatti d’Ungheria, uscì da Partito Comunista non accettando il centralismo democratico e le scelte staliniste di quel Partito. La separazione fu dovuta anche al suo spirito indipendente e anarchico, che non sopportava linee politiche e ideologiche imposte dall’alto. Però, come testimoniato da lui stesso, rimase sempre una sorta di compagno di strada del grande Partito rosso, militando in quelle formazioni di sinistra in cui di volta in volta poteva riconoscersi. Nel dopoguerra i suoi interessi furono sin da subito la poesia, l’arte, la natura. Si ritirò a Castell’Arquato, nel piacentino, dove fondò un laboratorio di pratica artistica, di poesia, di ceramica, di fratellanza e discussione, “Il Torrione Farnese”, 34


nell’ambito del quale avviò una proficua collaborazione artistica con intellettuali del livello di Renzo e Sylvano Bussotti. Studiò anche la natura, appassionandosi particolarmente allo studio del mondo delle formiche, perché, come disse egli stesso, nessun essere vivente gli era così distante da non fargli capire quello che poteva esserci in comune. L’esperienza del Torrione Farnese durò sei anni, dal 1947 al 1953, e produsse come significativo risultato artistico un testo di poesia e altro, intitolato Il Circo, pubblicato in 4 volumi nel 1960. In quel periodo ebbe un’esperienza di teatro con il giovane Carmelo Bene, a cui insegnò come leggere in versi, con cui progettò esibizioni spettacolari e fantastiche, come fare degli spettacoli su palloni aerostatici volando per provocazione sulle teste dei ricchi borghesi residenti nelle ville di Portofino. Carmelo Bene disse sempre che, in quelle poche settimane, aveva conosciuto una persona geniale e originale con cui aveva progettato come demolire le convenzioni letterarie e teatrali. Nel 1953 tornò a Fiorenzuola d’Arda e diede vita a un cenacolo di poeti, musicisti, critici, artisti. Durante questo periodo conobbe Agostino Sanfratello che nel 1958 gli presentò il fratello diciottenne Giovanni. Braibanti prese Giovanni sotto la sua guida, perché gli sembrava il più seriamente e profondamente interessato all’arte figurativa. Entusiasta di quell’esperienza intellettuale e artistica, Giovanni, alla soglia dei venti anni, comunicò alla famiglia di voler abbandonare gli studi per dedicarsi all’arte e alla cultura. I familiari, molto conservatori e cattolici, non giudicarono con favore la decisione del figlio di abbandonare gli studi. Vedendolo esaurito e depresso, lo fecero visitare da uno psichiatra a Padova e poi in un ospedale psichiatrico di Modena. Giovanni se ne andò per qualche tempo a Parigi, ma poi ritornò in Italia, iscrivendosi alla facoltà di Architettura a Milano. 35


Ed è qui, nel 1962, che Braibanti e Giovanni Sanfratello si rividero e riannodarono i rapporti. Ormai, oltre alla comunanza di interessi artistici e letterari, Giovanni Sanfratello trovò in Aldo Braibanti un compagno di vita, con un rapporto sentimentale omosessuale che, per quanto vissuto con discrezione, non avrebbe potuto non suscitare la riprovazione e lo scandalo in un’Italia ancora in larga misura cattolica, conservatrice, bigotta e patriarcale, I due andarono a vivere insieme a Roma, dove Braibanti lavorava come sceneggiatore, per allontanarsi dalla famiglia di Giovanni. Ma non sfuggirono per molto tempo alle reazioni familiari. Il 12 ottobre del 1962 Ippolito Sanfratello, il padre di Giovanni, presentò un esposto-denuncia alla Magistratura in cui accusava Braibanti di tutte le deviazioni del figlio dalla retta via familaire, dai genitori, dallo studio, dalla vita morigerata e di averlo assoggettato totalmente a sé, accusandolo appunto del reato di plagio. Alla denuncia allegò una dichiarazione di Pier Carlo Toscani, un elettricista che pure era stato allievo di Braibanti ma se ne era staccato, in cui accusava l’intellettuale piacentino di generiche pratiche turpi. Non contento della denuncia, Ippolito Sanfratello il primo novembre del 1964 fece irruzione nell’appartamento romano dei due e rapì letteralmente il figlio, peraltro maggiorenne (aveva ormai ventiquattro anni) e lo fece internare nel manicomio di Verona dove fu sottoposto a cure durissime e invasive, da cui uscì solo nel 1966, sottoposto peraltro a numerosi obblighi, tra cui quello particolarmente bizzarro di non leggere libri che avessero meno di cento anni. Intanto, l’istruttoria penale condotta dal giudice Antonino Loiacono continuò, sia pure con tempi lunghissimi, fino al 5 dicembre 1967 quando Braibanti fu arrestato per l’accusa del reato di plagio e portato a Regina Coeli. Il processo si aprì il 12 giugno 1968, dopo ben sei mesi di carcerazione preventiva, con le accuse di essere un degenerato, un ladro di anime, un satana a caccia di gio36


vani. Dietro tutto questo aleggiava da un lato il fantasma dell’omosessualità che in quella società italiana ancora largamente arretrata era uno stigma intollerabile, tanto che c’era un solo omosessuale dichiarato, l’intellettuale Giò Staiano, dall’altro la paura della borghesia benpensante verso gli squilli di rivolta contro le gerarchie e i valori costituiti che andava ormai montando in quell’avventurso anno 1968. Pasolini disse che gli italiani piccolo borghesi si scatenarono facilmente di fronte allo scandalo di un uomo debole e solo, ma indipendente, non appartenente ad alcuna conventicola Ovviamente, il processo destò un’eco vivissima nella società italiana, ma non molti si schierarono subito a favore dell’imputato, a cominciare dal Partito Comunista che tradì molti imbarazzi, anche più di quelli che andava tradendo verso i movimenti spontanei di contestazione dal basso di studenti e operai. Durante il processo, Braibanti fu difeso pubblicamente da Umberto Eco, Pier Paolo Pasolini, Alberto Moravia, Dacia Maraini. Solo dopo la condanna ci fu un maggiore impegno di intellettuali e movimenti politici, a cominciare dal tardivo interessamento del PCI, tanto che Pannella definì vile e stupido il silenzio di tanti intellettuali di fronte all’odissea di quell’uomo. La sentenza fu pronunciata il 13 luglio, con la condanna a nove anni di carcere. Immediatamente scoppiarono grida di protesta e tumulti tra gli spettatori presenti in aula, proseguiti per tutta la sera fuori dal Palazzo di giustizia. La cosa che appare oggi stupefacente è che in quel 1968 italiano si era potuto condannare un uomo per avere avuto relazioni sessuali con una persona maggiorenne e consenziente che peraltro era anche stata rinchiusa in manicomio e sottoposta a trattamenti pesantissimi per due anni. Quest’ultimo particolare pone l’accento su come fosse anche maturo il tempo per innovare la gestione e la legislazione dei manicomi e della malattia mentale in genere, come avevano già capito Franco Ba37


saglia e i suoi collaboratori. Braibanti cominciò a scontare la pena e naturalmente presentò appello contro la sentenza. Intanto, nel 1969 fu edito da Bompiani un volume collettivo di protesta e di solidarietà con il condannato, redatto da Cesare Musatti, Umberto Eco, Alberto Moravia, Virginia Bompiani e altri. In seguito, uscito dal carcere, Braibanti li ringraziò collettivamente con un suo articolo molto dignitoso e sobrio sul giornale L’Europeo. Alla fine del 1969 la sentenza d’appello realizzò un compromesso, abbastanza penoso, riducendo la condanna a quattro anni, di cui due furono condonati per i meriti resistenziali di Braibanti, che quindi fu immediatamente scarcerato per aver già scontato i due anni residuali, compresa la carcerazione preventiva. Braibanti sarebbe passato alla storia per essere stato il primo e unico condannato per il reato di plagio. Infatti, il 9 settembre del 1981 la Corte Costituzionale abrogò il

famigerato

articolo

603

del

Codice

Rocco

per

l’imprecisione

e

l’indeterminatezza della norma e per l’impossibilità di conferirle un contenuto oggettivo e sensato. Braibanti si ritirò nella sua modesta casetta al Portico di Ottavia a Roma, in un dignitoso silenzio e anche in una certa povertà. Mise in scena spettacoli teatrali e sceneggiati radiofonici; scrisse anche un libretto d’opera, “Le stanze di Azot”, musicato da Sylvano Bussotti. Nel 2002 espose i suoi collage composti con i rifiuti, come pezzi di bambola, fili elettrici, microchips. Nel 2006 gli fu assegnato il vitalizio per meriti artistici previsto dalla legge Bacchelli, quasi un tardivo riconoscimento, anzi un risarcimento, per l’ingiustizia subita. Nel 2012 si trasferì a vivere definitivamente a Castell’Arquato, sede della sua prima esperienza artistica, dove si spense il 6 aprile 2014, a novantadue anni. La vicenda umana, giudiziaria e politica di Braibanti ci fa capire che quegli anni 38


’60 in Italia, specialmente l’anno mirabile 1968, non furono solo gli anni della contestazione, del miracolo economico, del progresso della civiltà. Furono gli anni in cui vigeva il delitto d’onore, lo stupro era un reato contro la morale, il successivo matrimonio riparatore sanava legalmente la violenza carnale sulle donne, studenti che scrivevano di problemi sessuali su un giornaletto del liceo potevano essere arrestati, spogliati e perquisiti in caserma, si poteva essere sbattuti in manicomio e tenuti in catene per una denuncia di chiunque e per un nonnulla e magari condannati con sentenza passata in giudicato per avere avuto rapporti sessuali con un maggiorenne consenziente. I progressi più importanti e durevoli che hanno portato le vicende sociali, politiche e giudiziarie di quegli anni sono stati quelli della modernizzazione del costume e dei diritti individuali, cosa che nel tempo presente si tende a dimenticare e sottovalutare, a causa anche del mezzo secolo trascorso da allora, quasi che quei favolosi anni ’60 ci appaiono oggi ormai più lontani del medioevo.

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Testata online aperiodica Proprietà: Comitato per l’Unità Laburista, Strada Sesia 39 14100 Asti (AT) Direttore Responsabile: Aldo Avallone - Stampatore: www.issuu.com web: www.issuu.com/lunitalaburista - mail: lunitalaburista@gmail.com - Tel. +39.347.3612172 Palo Alto, CA (USA), 30 ottobre 2019 40


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