l'Unità Laburista - Cattolici e fascismo - Numero 20 del 4 novembre 2019

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Numero 20 del 4 novembre 2019

Cattolici e fascismo


Sommario

Baghdad-Beirut le rivoluzioni che possono cambiare il volto del Medio Oriente - pag. 3 Umberto DE GIOVANNANGELI

Le lotte operaie in Italia negli anni ’60 del Novecento - pag. 9 di Giovan Giuseppe MENNELLA La falsa ineluttabilità della vittoria della destra pag. 17 di Aldo AVALLONE

Imola!1! - pag. 19 di Antonella GOLINELLI

Gran Bar Vares reloaded - pag. 22 di Antonella BUCCINI

Le organizzazioni cattoliche e il fascismo - pag. 25 di Giovan Giuseppe MENNELLA La guerra tra editori e giganti del web - pag. 31 di Aldo AVALLONE

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Esteri

Baghdad-Beirut le rivoluzioni che possono cambiare il volto del Medio Oriente Umberto DE GIOVANNANGELI

Baghdad-Beirut: le rivolte che mettono in crisi il tribalismo etnico-confessionale e riscrivono il vocabolario politico del Medio Oriente. Quella in atto, a Baghdad come a Beirut, è una rivoluzione culturale, ancor prima che sociale: è la rivoluzione 3


dei cittadini, in gran parte giovani, che si sentono iracheni, libanesi, e non sunniti o sciiti,cristiani...Scendono in piazza sventolando bandiere nazionali, esaltando un diritto di cittadinanza che riporta al centro lo Stato-nazione, lo Stato dei cittadini, rompendo le vecchie gabbie identitarie comunitarie. I manifestanti contestano l'alto tasso di disoccupazione e la corruzione della classe politica. Secondo l'organizzazione non governativa Trasparency Internacional, l'Iraq è il secondo produttore al mondo di petrolio, ma anche il 13esimo più corrotto: un cittadino su cinque vive al di sotto della soglia di povertà e la disoccupazione giovanile è intorno al 25%. La prima fase delle mobilitazioni era iniziata ai primi del mese proprio nella capitale e a Nassiriya a cui era seguita una repressione col pugno di ferro da parte delle forze dell'ordine. Un pugno sempre più insanguinato. Solo l'ultima delle mattanze che ha insanguinato l'Iraq: nei giorni nella città di Karbala, città santa degli sciiti, un gruppo di uomini mascherati ha sparato sulla folla che manifestava in piazza contro il carovita e la politica di quelle che vengono definite "élites corrotte". Secondo il bilancio della Commissione irachena per i diritti umani, le vittime sono 18 e circa 800 i feriti. Si tratta dell'ennesima manifestazione finita nel sangue nell'Iraq polveriera: sino ad oggi, dopo un mese di proteste, i morti sono oltre 250. Sempre secondo la Commissione, le forze di sicurezza hanno usato lacrimogeni, acqua bollente e proiettili di gomma per disperdere i manifestanti, che denunciano l'alto tasso di disoccupazione e l'assenza di servizi pubblici, oltre che la corruzione degli esponenti di governo. Secondo una esclusiva della Reuters, sembra che alcune milizie paramilitari, gli Hashid, per lo più musulmani sciiti appoggiati dall’Iran, stiano collaborando con il governo iracheno per reprimere la protesta di queste ultime settimane. Il modo scelto per farlo è decisamente radicale visto che si tratta di schierare cecchini che fanno fuoco sulla folla. Secondo Reuters alcuni miliziani si sarebbero anche nascosti tra i manifestanti per poi fare fuoco e lasciare a terra circa 50 vittime. Il popolo iracheno è sceso in piazza per il sesto giorno consecutivo nella seconda tranche di proteste contro il governo del primo ministro Adel Abdul Mahdi. Nonostante la linea dura, la repressione sanguinosa e i reiterati coprifuoco, però, la popolazione continua a scendere in piazza a protestare. “Le nostre richieste? Vogliamo lavorare, vogliamo lavorare. Se non vogliono trattarci come iracheni, allora ci dicano che non siamo iracheni e troveremo altre nazionalità e migreremo in altri paesi”, afferma un manifestante a Baghdad. La frustrazione coinvolge particolarmente i giovani fra i quali in tasso di disoccupazione è elevatissimo (15% contro l’ 8% della media nazionale). Questo non è un governo - gridava un manifestante - ma è un’accozzaglia di partiti e milizie che hanno distrutto l’Iraq”. Fonti ufficiali riferiscono che dal 2004, a un anno di distanza dall’invasione statunitense che ha determinato la cacciata di Saddam Hussein, circa 4


450 miliardi di fondi pubblici sono svaniti nelle tasche di politici e uomini di affari. In questa situazione, corruzione e politica appaiono intrinsecamente connessi, secondo quanto riporta il quotidiano The New Arab. Non solo i ministri sono spesso implicati nelle frodi, ma il settore pubblico è sovradimensionato e facile da truffare e si contraddistingue per i con migliaia di impiegati “fantasma” che percepiscono stipendi, senza lavorare in realtà. Secondo i dati parlamentari, dal 2003 questo costo è costato all’Iraq 228 miliardi di dollari, anche se questo numero potrebbe essere significativamente più alto. Le diverse fazioni che si contendono il potere, l’influenza e l’accesso ai fondi del tesoro hanno come primo interesse quello di continuare a finanziare le proprie reti. La corruzione è all’origine delle gravi difficoltà economiche e dell’aumento della povertà e della disoccupazione. È il principale motivo per cui mancano i servizi di base. Il fabbisogno energetico dell’Iraq non è coperto neanche per metà nonostante dal 2003 a oggi siano stati spesi 40 miliardi di dollari per la rete elettrica. Il parlamento è estremamente corrotto. Su 328 parlamentari iracheni, 273 non hanno voluto svelare la loro situazione finanziaria al Comitato per l’integrità. “Il vero male dell’Iraq oggi è la corruzione le cui conseguenze negative si riversano sulla vita di tutti i giorni della popolazione. La corruzione nega i diritti delle persone, crea povertà, blocca lo sviluppo”, racconta al Sir dalla capitale irachena Nabil Nissan, da 11 anni direttore Caritas Iraq, Tangenti e clientelismo: sono questi i nemici degli iracheni “preoccupati anche dall’instabilità politica, dalla presenza delle milizie paramilitari che hanno combattuto l’Isis, dalla mancanza di sicurezza,. Le sfide sono tante come testimoniano i numeri: “la disoccupazione è al 22% e riguarda in particolare i giovani, 1,7 milioni di sfollati interni, 3 milioni di disabili, 1,5 milioni di orfani, più di 1 milione di donne divorziate”.Vogliamo vivere. Non è questione di soldi, ma di vivere. Lasciateci vivere”, afferma la 21enne Batoul ad al Jazeera. Sono le voci della piazza irachena. I giovani di Piazza Tahir, il cuore della protesta a Baghdad, chiedono una nuova carta costituzionale, un tribunale per processare i corrotti e riforme reali di redistribuzione della ricchezza. Le stesse richieste, la stessa voglia di futuro animano i giovani protagonisti della “primavera libanese”. "Il popolo vuole far cadere il regime. Non siamo banditi, abbiamo diritti e li stiamo chiedendo", sono alcune delle grida dei manifestanti. "Alcune persone stanno cercando di rendere questa protesta violenta - dice una giovane dimostrante, Rawaa Shahabeddine, 21 anni, in merito al tentativo di Hezbollah di attaccare i manifestanti - ma noi non saremo violenti. Questa è una rivoluzione pacifica e otterremo quello che vogliamo". Il Paese dei Cedri ha uno dei debiti pubblici più alti al mondo, ma il livello di profitti delle sue banche commerciali, vicine ad alcuni politici e che detengono gran parte del debito, sono superiori a quelli dei Paesi occidentali. 5


Secondo l’ultimo rapporto dell’Undp, l’agenzia Onu per lo sviluppo umano, per ineguaglianza dei redditi il Libano è al 129° posto su 141 Oaesi. L’1% più ricco possiede il 25% dell’intero redito nazionale. Nel 2017 il 20% di tutti i depositi era concentrato in 1.600 conti correnti: lo 0,1% del totale dei depositi nelle banche libanesi, molte delle quali sono di proprietà dei politici di turno o dei loro parenti, ed è dei giorni scorsi la notizia di un procedimento penale nei confronti dell'ex premier Najib Mikati, uno degli uomini più facoltosi del paese, accusato di aver ottenuto dalla Audi Bank prestiti agevolati per l'acquisto di alcune case. Almeno un milione, dei sei milioni di libanesi, è povero. L’arrivo in questi anni di un milione e mezzo di rifugiati siriani ha spinto nella povertà altri 200mila libanesi: offrendosi per salari inferiori, i profughi hanno sottratto lavoro non specializzato alla fascia sociale libanese più debole. La protesta è giunta al suo decimo giorno. E dal primo, è riecheggiato diverse volte un coro diffusosi durante tutte le primavere arabe: “Al shab yurid isqat al nizam, “il popolo vuole la caduta del sistema”. Il popolo, non una delle sue comunità etnico-confessionali. Oggi è tutto l'establishment ad essere sotto accusa, e lo si vede dalla diffusione del coro “Killon yanii Killon” (“tutti significa tutti”): i manifestanti non hanno timori a fare i nomi dei principali dominus nazionali, come lo stesso premier Hariri, lo speaker del Parlamento Nabih Berri, il ministro degli Esteri e capo del Movimento patriottico libero Gebran Bassil, il Capo di Stato Michel Aoun, il segretario di Hezbollah Hassan Nasrallah. I giovani di Beirut non fanno sconti a nessuno. Vogliono cambiare il “sistema”. E una classe dirigente che con quel sistema si è arricchita oltre misura. Riflette su Internazionale Pierre Haski di France Inter: “Ci sono diversi punti in comune tra le due rivolte che agitano l’Iraq da un mese e il Libano da qualche giorno. Prima di tutto c’è il rifiuto generalizzato della corruzione e dell’inefficacia dei governi, espresso da una gioventù privata del suo futuro e che, nell’epoca dominata da internet, non si rassegna alla mediocrità e all’incuria. In secondo luogo c’è il desiderio di superare le divisioni religiose che da tempo definiscono le società dei due paesi. Questo aspetto è evidente in Libano, dove la costituzione ereditata dalla presenza francese si basa sugli equilibri delle confessioni religiosi. Le centinaia di migliaia di persone che scendono in piazza rivendicano una maggiore laicità, e per farlo in settimana hanno organizzato una catena umana dal nord a sud. In Iraq è evidente la volontà si superare la divisione tra sunniti, sciiti e curdi che ha segnato l’epoca successiva alla caduta di Saddam Hussein, anche se le rivolte coinvolgono soprattutto le grandi città e molto meno le regioni sunnite appena sopravvissute alla guerra contro l’Is (e sono del tutto assenti nel Kurdistan autonomo). La risposta delle autorità è molto diversa nei due paesi. In Iraq il governo usa il pugno di ferro per sfiancare il movimento di protesta, e al momento il bilancio è di 220 morti e ottomila feriti. In Liba6


no l’atmosfera è invece incredibilmente festosa, anche se è palese la fragilità dell’equilibrio attuale. Ma c’è un altro punto in comune: il Libano e l’Iraq sono terre d’influenza per l’Iran e al centro di rivalità regionali. Questo rende le due rivolte estremamente pericolose, perché non mettono in discussione solo gli interessi di pochi politici. In effetti è impossibile immaginare che in Libano Hezbollah possa cedere il controllo del potere solo grazie alla spinta della piazza, così come il governo iracheno non intende “farsi da parte” solo perché lo chiedono i manifestanti. A quasi dieci anni dalla primavera araba, governi dalla discutibile legittimità continuano a rifiutarsi di cedere alla volontà del popolo, la cui voce è sempre più forte e chiara”. Una voce unificante. Come ha scritto L’Orient le Jour, il giornale francofono di Beirut, al contrario di trovare la raison d’être nell’identitarismo etnico settario, l’onda di proteste libanesi sembra trovare la propria spinta nella riscoperta di un’unità fra libanesi finalmente trascendente la setta d’appartenenza di ognuno. La piazza terremota il “palazzo”. Travolto dalle proteste antigovernative, ormai arrivate al tredicesimo giorno, Il premier libanese, Saad Hariri, ha annunciato in un discorso in tv le dimissioni del governo. La decisione è arrivata dopo tredici giorni di proteste in tutto il paese. “Le mie dimissioni sono la risposta alle richieste delle piazze in Libano”, ha detto, lanciando poi un appello al popolo, perché “mantenga la stabilità e la sicurezza del Paese”. ‘“I ruoli vanno e vengono, ma la dignità e la sicurezza del Paese sono più importanti’”, ha aggiunto Hariri. Rivolgendosi poi a “tutti i partner politici”, Hariri ha detto che “oggi la nostra responsabilità è quella di trovare i modi per proteggere il Libano e risanare l’economia”. Secondo Hariri “esiste una possibilità seria che non deve essere sprecata e rimetto le mie dimissioni nelle mani del presidente e di tutti i libanesi”.”Ho cercato di trovare una soluzione alla nostra crisi nell’ultimo periodo, di ascoltare le necessità delle persone e di proteggere il Paese dai rischi per la sicurezza e per l’economia, ma ho raggiunto un vicolo cieco,” ha continuato, aggiungendo: “Abbiamo bisogno di uno shock positivo per risolvere questa crisi” Hariri ha poi invitato i libanesi a mettere la sicurezza economica e sociale del Libano tra le loro priorità”. E per evidenziare il concetto ha citato il padre, Rafiq Hariri, ex primo ministro assassinato nel 2005: “Nessuno è più grande del proprio Paese”.I manifestanti nel centro di Beirut hanno festeggiato sventolando bandiere e lanciando slogan alla notizia delle dimissioni del primo ministro. E’ una rivolta sociale e, insieme, culturale generazionale quella che investe non solo l’Iraq e il Libano, ma, anche l’Egitto e, sia pur in maniera meno evidente, la Giordania. Con l'acqua potabile e l'elettricità razionate, con un accesso sempre più limitato a servizi sanitari e scolastici di qualità, senza lavoro e senza prospettive di poter emigrare all'estero, a est del Mediterraneo centinaia di migliaia di giovani stanno dando voce alla loro rabbia per una situazio7


ne descritta dagli analisti come "esplosiva". Una esplosione che potrebbe cambiare il volto del Medio Oriente.

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Storia del Movimento Operaio

Le lotte operaie in Italia negli anni ’60 del Novecento Giovan Giuseppe MENNELLA

Dopo un immobilismo durato dalla fine della guerra, negli anni ’60 ripresero con vigore le lotte operaie nelle fabbriche, e non solo. Fin dai primissimi anni ’60, nelle fabbriche italiane si produsse a ritmi sempre più frenetici, imposti anche dal nuovo ciclo produttivo della catena di montaggio, come si addiceva a una Nazione che stava producendo il più grande sforzo della sua 9


storia di accumulo di ricchezza capitalistica e di miglioramento del prodotto interno. Come scrisse Ralf Dahrendorf nel suo prezioso libretto “Quadrare il cerchio”, nei periodi di accumulazione di ricchezza capitalistica la libertà politica e/o la coesione sociale tendono fatalmente a essere compresse. In Oriente la libertà politica (vedi tigri asiatiche) a causa della grande forza delle strutture familiari e di clan, in Occidente la coesione sociale, a causa della dichiarata adesione alla democrazia rappresentativa di stile inglese e statunitense. In Italia la libertà politica nel dopoguerra fu senz’altro garantita, vedi il rifiuto del Ministro dell’Interno Scelba alla richiesta dell’ambasciatrice americana Claire Booth Luce di mettere fuori legge il PCI, ma non certo la coesione sociale. Lo sviluppo economico fu assicurato dallo sradicamento delle masse contadine dal Sud per andare a lavorare nelle industrie del Nord, dalle condizioni di vita pessime degli immigrati interni nelle grandi città del triangolo industriale e, appunto, dalle condizioni di lavoro dure degli operai, con ritmi di lavoro massacranti e pochi diritti sindacali e politici. Il malessere operaio iniziò a trovare sbocco in lotte più dure e convinte proprio all’inizio di quegli anni ’60, in pieno miracolo economico, anche grazie all’apporto di nuove leve di operai giovani e combattivi, moltissimi provenienti dalle regioni meridionali. Gli obiettivi: usufruire di ritmi di lavoro meno massacranti, riduzione dell’orario di lavoro, maggiori diritti sindacali, salari più alti. Insomma, i lavoratori chiedevano di ottenere la parte che spettava loro della accresciuta ricchezza del Paese, visto che questa era stata accumulata soprattutto con il loro sudore. Anche la crisi economica del 1964, la Congiuntura, fu recuperata sulla pelle degli operai, tagliando il salario di produttività. In un’inchiesta del quotidiano “Il Giorno” sulla 10


condizione operaia, Giorgio Bocca parlò di quegli operai dei primi anni ’60 come della generazione “corta”, nel senso che invecchiava prestissimo per le condizioni proibitive in fabbrica. Un aspetto importante della questione fu che il Sindacato, grazie alle prime lotte più convinte, riuscì a entrare anche nelle fabbriche, mentre fino ad allora si era limitato a partecipare solo alle trattative di carattere nazionale a Roma. Cominciarono a verificarsi mobilitazioni spontanee, esplosive, difficili da governare, perché era appunto cambiata la composizione sociale degli operai. Era nato l’operaio-massa, non specializzato, che lottava duramente, alzava l’asticella, voleva tutto, come del resto recitava il titolo di un romanzo di avanguardia di Nanni Balestrini del Gruppo ’63. Il ’68 degli operai ebbe il suo prodromo nel luglio 1962 con i disordini e gli scontri con la polizia a Piazza Statuto a Torino, dove gli operai protestarono sotto la sede della UIL che si era ritirata all’ultimo momento dalle trattative per miglioramenti salariali intraprese con le industrie della zona. Piazza Statuto si caratterizzò, oltre che per la nuova composizione sociale degli operai partecipanti, anche per la divisione intercorsa all’interno delle Organizzazioni Sindacali che, già di per sé, erano piuttosto refrattarie ad ascoltare le esigenze e le richieste della base operaia che si rivelò essere più avanti dei Sindacati. Si potrebbe pensare che i fatti di Piazza Statuto stiano al ’68 degli operai come alcune opere artistiche dell’inizio del decennio, pensiamo al film di Bernardo Bertolucci “Prima della Rivoluzione” o a quello di Marco Bellocchio “I pugni in tasca”, stiano alla protesta e al malessere ideologico di molti studenti e intellettuali borghesi che pure si sarebbero manifestati apertamente nel 1968. Comunque, non solo i Sindacati, ma anche l’opinione pubblica e i Partiti politici non compresero appieno ciò che stava accadendo. Non si capì che il ribellismo non 11


era un’azione di provocatori, magari fascisti mascherati da rivoluzionari ma spia di un reale malessere sociale. Più tardi nel decennio, durante le lotte del 1968, operai e studenti rivendicarono insieme cambiamenti non solo nei luoghi di lavoro e di studio ma anche, se non soprattutto, nei rapporti sociali. Anche i Partiti, si diceva, non compresero le esigenze delle lotte operaie e studentesche che si andarono addensando. In realtà i Partiti stessi, specialmente dal 1962 al 1968, attraversarono serie crisi. Andò in crisi innanzitutto la formula di governo del Centrosinistra, dalla Congiuntura economica del 1964 e anni seguenti, che pretese un ridimensionamento delle sperate riforme cosiddette “di struttura”, nonché rumori di colpi di Stato, il famoso tintinnare di sciabole di cui parlò Nenni, per bloccarle. Non solo, ma anche il PCI attraversò anni difficili: innanzitutto era avvenuta la fine dell’alleanza con il PSI; poi nel 1964 la morte di Togliatti che privò il Partito della sua guida storica, quindi l’unificazione dei due tronconi del Partito socialista nel PSU. Il Partito di Botteghe Oscure diede troppa attenzione a queste emergenze di politica politicante, dimenticandosi di cogliere gli umori e i fermenti che s’innalzavano dalla società, dai giovani operai e dai giovani studenti. Finché non si arrivò all’espulsione dei dissidenti del Manifesto, che rivendicarono proprio questo maggiore ascolto, con il Partito diviso tra un Longo che voleva andare più verso i giovani, un Amendola decisamente ostile alla proposta di Longo e un Ingrao che, pur aderendo a parole alle posizioni più innovative, lasciò espellere i dissidenti senza prendere posizione. Insomma, il PCI non produsse nessuno sforzo per comprendere ciò che stava accadendo nella società, non comprendendo in tempo la trasformazione neocapitalista degli anni ’60. Tuttavia, più tardi, ripristinò l’abitudine di mandare i militanti e i 12


funzionari di partito ai cancelli delle fabbriche e alle porte delle scuole per condividere le loro lotte. Su questi ritardi e questa crisi dei Partiti tradizionali si innestò la nascita dei gruppi extraparlamentari di sinistra. Gli studenti cominciarono a conoscere gli operai delle fabbriche e i due gruppi cominciano a manifestare insieme. Nella primavera del 1968 irruppe la contestazione studentesca, con la sua ansia di cambiamento portata fuori dalle aule per saldarsi con gli operai che già si erano proiettati fuori dalle fabbriche. Per gli operai il Movimento studentesco fu un’occasione per unire le lotte verso la trasformazione del sistema e posero in chiaro la loro esigenza di essere ascoltati e non colonizzati intellettualmente dagli studenti. Nacquero così i CUB, Comitati Unitari di Base delle aziende e le Assemblee spontanee degli studenti. Il 19 aprile del 1968 a Valdagno fu abbattuta dai manifestanti, soprattutto operai, la statua del senatore dell’800 Gaetano Marzotto, il fondatore dell’omonima azienda di filati e tessuti. Fu un evento straordinario, la caduta di un simbolo di un certo modo di fare azienda, basato sul paternalismo di un sistema dove vigeva una repressione durissima, di lavoro basato sul cottimo e su ritmi frenetici. Furono arrestati molti operai, ma il Consiglio comunale di Valdagno si dimise in blocco per ottenerne la scarcerazione. I nuovi operai chiesero non solo miglioramenti salariali, ma le trasformazioni delle modalità di lavoro, come il superamento della durissima catena di montaggio, tipica del fordismo, ormai spinta al suo massimo. Nel dicembre del 1968 scesero in lotta anche i braccianti. Il 2 dicembre ad Avola, in Sicilia, i braccianti manifestarono contro le gabbie salariali. L’ultimo contratto bracciantile era stato rinnovato nel 1966 con la divisione dei salari e delle ore di lavoro in zone e ad Avola, per le medesime mansioni, i braccianti per contratto lavoravano per più ore e percepivano meno salario orario rispetto ad altre zone limitro13


fe. La Polizia sparò ad altezza d’uomo e due manifestanti furono uccisi. Altri due morti ci furono a Battipaglia il 9 aprile del 1969, in scontri con le forze dell’ordine causati dalle proteste per la chiusura di alcuni stabilimenti e la perdita di posti di lavoro. Entrambe le proteste e le vittime erano nate da proteste del tutto spontanee per rivendicare diritti. Anche in questi casi spiccò la latitanza delle organizzazioni di rappresentanza istituzionale di braccianti e operai. Il Movimento studentesco unificò le due stragi e ne fece un simbolo dell’esigenza stringente di cambiare la società a colpi di proteste rivoluzionarie. Il gruppo musicale di Antonio Infantino e dei Tarantolati di Tricarico compose una canzone allora giustamente famosa per ricordare le vittime di Avola e qualcuno non giovanissimo la ricorderà sicuramente. Ma i tempi erano ormai maturi perché si ottenessero risultati tangibili da quelle proteste spontanee, anche perché i Sindacati e i Partiti della Sinistra capirono che ormai non si poteva tardare ulteriormente a dare risposte istituzionali, legislative e contrattuali, alle giuste e non più rinviabili esigenze di miglioramento della vita delle classi fino ad allora subalterne e sfruttate. Nell’autunno del 1969 vennero a scadenza numerosi contratti nazionali di lavoro di svariate categorie pubbliche e private che coinvolgevano circa cinque milioni di lavoratori. Quello più importante e che si rivelò anche decisivo per trascinare dietro di sé altre categorie, fu quello dei metalmeccanici. Le richieste vertevano sulle condizioni di lavoro in fabbrica, sul diritto di assemblea, sulla parità tra impiegati e operai, sulla riduzione dell’orario di lavoro, oltre che sui miglioramenti salariali. Le trattative tra Sindacati e Datori di lavoro pubblici e privati iniziarono nel mese di settembre di quell’anno così importante e furono caratterizzate immediatamente da forti tensioni. Il 19 novembre a Milano ci furono 14


scontri violenti per il diritto alla casa e fu ucciso l’agente di polizia Annarumma. In quello stesso novembre, fu firmato con l’Intersind il contratto nazionale di lavoro dei metalmeccanici dipendenti dalle aziende pubbliche che previde l’ottenimento delle quaranta ore lavorative settimanali. Con la Confindustria la situazione appariva di più difficile soluzione, ma con la mediazione decisiva del Ministro del Lavoro Carlo Donat Cattin, il 21 dicembre, fu firmato anche il contratto dei metalmeccanici privati. Era tempo, non si poteva attendere ulteriormente, anche perché il 12 di quel mese era scoppiata la bomba di Piazza Fontana cambiando tutte le prospettive della politica e, come si capì dopo, della storia italiana. Fu una grande conquista per la classe lavoratrice, che giunse all’epilogo di quel decennio di lotte operaie e poi anche studentesche, iniziato a Torino a Piazza Statuto. A Torino, all’inizio dell’autunno caldo, si svolse anche un’altra vicenda epocale: la vertenza FIAT. A seguito di uno sciopero non autorizzato la FIAT sospese dapprima tremila lavoratori per ragioni disciplinari e poi ben ventottomila per problemi di produzione. A quel punto furono inaugurate nuove modalità di scioperi spontanei. Lo sciopero articolato, nel quale un piccolo gruppo di operai della catena di montaggio si fermava e bloccava tutta la produzione. O quelli senza preavviso, a gatto selvaggio. Con queste azioni fu chiaro quanto ormai gli operai si rendessero conto di essere forti, di quanta visibilità avessero ormai acquisito per portare all’attenzione dell’opinione pubblica il loro bisogno di miglioramenti normativi sostanziali. La conquista finale di quel decennio di lotte, forse la più importante, fu la legge numero 300 del 20 maggio 1970, lo Statuto dei Lavoratori, dovuta all’azione soprattutto dei Ministri del Centrosinistra di area socialista, in particolare del Ministro del Lavoro Giacomo Brodolini, predecessore di Donat Cattin, che firmò il contratto di lavoro dei metalmeccanici e che comunque pose mano anche allo Sta15


tuto. La legge fu anche un punto di partenza sul piano dell’attenzione politica verso Sindacati e operai. In conclusione, si può dire che le lotte operaie degli anni ’60 marciarono per qualche periodo di conserva con quelle degli studenti e degli intellettuali, ma forse produssero un’eredità e risultati anche maggiori. In Italia la saldatura tra movimenti operai e movimenti studenteschi fu più evidente che in altri Paesi, ad esempio la Francia, e il ciclo delle lotte operaie che hanno prodotto conseguenze fruttuose è stato più lungo, ponendosi grosso modo dal 1968 fino al1973.

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Politica

La falsa ineluttabilità della vittoria della destra Aldo AVALLONE

Un sondaggio Demopolis, pubblicato il 30 ottobre scorso, riporta le intenzioni di voto degli italiani in caso di eventuali elezioni politiche. La Lega è data al 33%, il PD al 19, il M5S al 18, Fratelli d’Italia all’8,5, Forza Italia al 6, Italia Viva al 5,8, LEU al 2,5. L’affluenza sarebbe al 70%. Eseguendo due semplici addizioni risulta che lo schieramento di centrodestra (Lega, FdL, FI) raggiunge in totale il 47,5% mentre una compagine formata da tutte le forze che appoggiano l’attuale governo arriva al 45,3%. Lo scarto, quindi, è di soli 2,2 punti percentuali. Questi numeri che, ripetiamo, rappresentano soltanto intenzioni di voto al 30 ottobre, mostrano un 17


Paese diviso a metà. La prima considerazione da fare è che la narrazione comune di una destra straripante in caso di competizione elettorale è totalmente falsa. La seconda, che le forze politiche alternative a questa destra, egemonizzata dall’estremismo salviniano, per avere qualche chance di vittoria devono presentarsi unite. Ovviamente non è possibile prevedere se e quando si andrà a nuove elezioni né, fattore rilevante, con quale legge elettorale si andrà al voto. La scadenza della legislatura è al 2023 e ci si augura che possa giungere al suo termine naturale. Due punti percentuali non sono nulla e possono essere facilmente recuperati attraverso un’efficace azione di governo. Il tempo sicuramente c’è, a patto che si remi tutti nella stessa direzione, mettendo da parte egoismi e protagonismi esasperati. La manovra economica in fase di definizione, dati i presupposti, rappresenta un buon compromesso tra le esigenze di bloccare l’aumento dell’IVA, previsto dalle clausole di salvaguardia, e investire risorse a favore dei servizi ai cittadini come, ad esempio, lo stanziamento di due miliardi aggiuntivi al fondo sanitario nazionale. Il sondaggio Demopolis, cui abbiamo fatto riferimento, indica anche il gradimento degli italiani nei confronti di alcune misure della legge di bilancio 2020. Ebbene, il 74% degli intervistati si è dichiarato a favore della riduzione del cuneo fiscale che consentirà un lieve aumento nelle buste paga dei dipendenti con un reddito inferiore ai 35mila euro. Inoltre, il 66% si è detto favorevole alla scelta di puntare sui pagamenti elettronici, a condizione di rivedere i costi di commissione da corrispondere alle banche. Significa che il governo si sta muovendo nella giusta direzione e ci si augura che nei prossimi mesi, con maggiori risorse a disposizione, possa adottare ulteriori e ancora più efficaci misure che vadano incontro alle esigenze delle classi più disagiate. Sarebbe un’inversione di rotta significativa rispetto al precedente esecutivo e consentirebbe di recuperare facilmente i 2 punti percentuali che, ad oggi, dividono i due schieramenti. 18


Politica

Imola!1! Antonella GOLINELLI

Caspita! Mi si è dimessa la sindaco di Imola! Dice che le pareva di stare nella foresta dei pugnali volanti, che non ce la faceva più e che #adesso farà la disoccupata perché si era licenziata dalla UIL dove lavorava. Che già qui mi chiedo perché non sia andata in aspettativa. Ma va bene. La sindaco di Imola è, o forse sarebbe meglio dire era, una five strass. Di provata fede mi dicono. In 15 mesi sono passati dall'aver strappato il comune al centro sinistra, il predecessore è Manca, alla debacle più totale. Partiamo dall'inizio, io ci andai in compagnia di un'amica di provata fede sfavillante all'iniziativa all'autodromo. Ne raccontai nel blog. C'era tutto un mondo politico, 19


a partire da Di Maio, Giarrusso, candidati vari alle politiche e la candidata sindaco di Imola. Ora, io pratico l'argomento da tempo, vedo tutti i pregi e i difetti (non lo nego, anzi ne vado orgogliosa, e tante volte mi chiedo come non li vedano gli altri), ma alcune dichiarazioni sui punti del programma mi hanno lasciata interdetta. Per esempio la sostituzione del portone della rocca. Ok. Va bene. Un punto di programma? Ma ti metterai d'accordo con la sovrintendenza, finanzierai il capitolo di spesa (magari con gli utili derivanti da CONAMI) e lo fai. Non mi pare difficile. Non credo sia riuscita. A proposito di CONAMI: mesi e mesi di polemiche su questa struttura, che il sindaco di Imola presiede, di cui fanno parte i comuni del comprensorio (tra i quali il mio) ed HERA, che produce utili normalmente utilizzati per finanziare iniziative sui vari territori. Da quel che ho capito la signora li voleva lei per il bilancio gli utili. Ma anche no. Ma questo è solo un esempio. Nel frattempo veniva quotidianamente attaccata dalle opposizioni - che mi pare normale - e dai suoi, il che mi pare meno normale. Fino all'ultimo atto delle dimissioni di 6 consiglieri five strass. Al che si è dimessa. E che poteva fare? Tutto un fiorire di video con accuse che vanno da robe da asilo Mariuccia a fatti un po' più sostanziosi. Lamenta la signora la solitudine e l'abbandono dei vertici del movimento. Lei pensava che avendo quel salotto di Imola a disposizione i big l'avrebbero utilizzata come vetrina. Sè! Illusa! È andato Grillo e non l'ha nemmeno cercata (detta con espressione lamentosa). Bugani l'ha abbandonata (detta ancor più lamentosamente) e quando chiedeva aiuto e consiglio non le rispondevano 20


nemmeno. Ma si farà cosi. Povera donna. Parliamoci chiaro: tradizionalmente il sindaco di Imola va in parlamento finito il giro. La città è di gestione complessa per una miriade di motivo che vanno dai siti produttivi all'autodromo. Ci sono eccellenze sul territorio. Persino scolastiche. È chiaro che per amministrare un comune cosi devi essere preparato e avere una bella squadra. E pure un partito dietro. Qui il principio “fate governare ad una casalinga che sa come si fa” cade e mostra tutti i suoi limiti. Ovvero che non è vero niente. Fatto sta che una città conosciuta in tutto il mondo è immobilizzata da 15 mesi. Momento gossip: il compagno della oramai ex sindaco è della lega, non so bene anche livello, ma poco importa. Importa un po' di più che alla sua elezione abbiano contribuito parecchio i voti leghisti. Chissà se queste dimissioni sono lontanamente parenti dell'agosto del Papeete? La mia impressione personale è che la signora si sia ritrovata a fare il vaso di coccio tra vasi di ferro, vittima predestinata di faide interne sanguinose. Chissà se la rivedremo, magari in altra veste. In ogni caso, anyway, anche qui il fallimento del movimento è stato palese. Mi vien da dire che non son buoni da niente. #mognint

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Satira

Gran Bar Vares reloaded Antonella BUCCINI

Con particolare accortezza Gino affondava il cucchiaino nella panna. “Questo è caffè, dio bon” sussurrò senza sollevare lo sguardo dalla tazzina imbrattata. “Altro che quei puzzoni di napoletani….l’acqua…. l’aria…. paisà! Venite a Vares per un caffè fatto ad arte! Ti pare?” chiese al Palestra seduto di fronte che, immerso nella lettura della terza pagina del Gazzettino, muoveva le labbra come quando si prega in solitudine. “E poi non mi venite a dire che al sud qua… e…. là” continuò Gino lappando un ricciolo di panna sul labbro, “cioè noi qui, se ci mettiamo, le cose le facciamo per bene, noi abbiamo voglia e laurà dio bon! Mica come quei terrun che stanno a scaldare le ciapp al sole e si prendono i nostri dané Ti pare?” chiese ancora. Aveva finito la panna e il risucchio che fece per bere il caffè distolse il Palestra dal giornale. “Ma che stai a cianciare, testina! Invece di leggere il giornale… già ma tu di poli22


tica che capisci… un cazzo capisci! Paisà terrun…. Lo sai che ha fatto il capitano? Lo sai ciaparatt?” provocò il Palestra mentre si sistemava il colletto della camicia hawaiana gettando uno sguardo alla statuina della Vergine Maria collocata proprio all’ingresso del Gran Bar Vares. Gino succhiò l’ultima goccia di caffè scuotendo la testa per dire no. “ Il capitano ha smontato la Segre, hai capito gnurant!” disse gongolante il Palestra. “Cioè?” “Il nostro grandissimo capitano è un difensore della libertà, non vogliamo bavagli noi!” “Certo e neanche lenzuola, ti ricordi tutti quelli che abbiamo fatto strappare dai balconi di quei fottuti comunisti?” “Te se propri un pirla! Noi siamo contro il razzismo, le discriminazioni, l’antise… “semino” si introdusse Gino “Antisemitismo”…. corresse il Palestra sollevando gli occhi, questa volta, direttamente al cielo “Si si volevo dire proprio quello, siamo contro gli ebrei….” “Ma va a dà via el cu!” sbottò il Palestra “Scusa e allora perché quel… come si chiama…Lenrter…. Lerna…” “Lerner” intervenne il Palestra “Si proprio lui, perché lo volevamo cacciare a Pontida quando è venuto a romperci i maroni, quell’ebreo nasone…” “Ma che c’entra. Lo volevamo cacciare perché con il suo giornalone dice tutte falsità su di noi, ecco perché. Non siamo contro gli ebrei, noi. Certo, a volte esagerano, proprio come la Segre, per esempio” rispose il Palestra. “Perché? Scrive pure lei sui giornaloni?” 23


“No, che dici. Ha voluto la commissione. Una commissione che deve decidere chi è razzista e chi no. Ma il nostro capitano si è fatto sentire, eccome se si è fatto sentire” “Che ha fatto?” “Ha detto chiaro e tondo: chi è il giudice? Chi stabilisce chi è razzista? No perché se sono questi qua, i poltronari, non ci sto, ha detto. Magari qualche fighetta comunista viene a dirci che “prima gli italiani” è razzista. E no bello mio, gli italiani vengono prima di questi quattro negher morti di fame” concluse il Palestra con la stessa soddisfazione di Gino dopo la panna e il caffè. “E quindi?” “Quindi nisba! Non abbiamo votato per la commissione e quando hanno applaudito la Segre e si sono alzati in piedi noi non ci siamo mossi. Li belli seduti, indifferenti! Viva la libertà! “E certo, mica poi ti puoi alzare in piedi per tutte le sciure!….”

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Storia e Politica

Le organizzazioni cattoliche e il fascismo Giovan Giuseppe MENNELLA

Il regime fascista, con un’apposita legge del 1926, istituì l’Opera Nazionale Balilla con il compito di occuparsi del tempo libero e delle esigenze dei ragazzi italiani. In realtà il vero obiettivo era di controllare e inquadrare i giovani. Infatti, negli anni successivi, tra il 1927 e il 1928, furono sciolte tutte le organizzazioni giovanili non facenti capo all’Opera Balilla, compresi gli scout, i giovani esploratori. L’ASCI Associazione Scoutistica Cattolica Italiana fu sciolta il 27 gennaio 1927. Questa linea di azione s’inserì sulla scia logica dei provvedimenti totalitari che, per rendere sicura la dittatura, avevano già abolito ogni altra organizzazione sociale o politica non facente capo al Partito fascista, a iniziare da tutti i partiti di opposizione e dai sindacati. 25


Tuttavia, considerato che la Chiesa cattolica non si era certo opposta fermamente all’ascesa del fascismo e Mussolini voleva risolvere la questione del dissidio tra Stato e Chiesa, si giunse all’accordo tra regime e Vaticano siglato con i Patti Lateranensi dell’11 febbraio 1929, composti da un Trattato Internazionale, una Convenzione finanziaria e un Concordato tra Stato e Chiesa. Nell’ambito del Concordato fu riconosciuta l’esistenza delle organizzazioni cattoliche, principalmente dell’Azione Cattolica. Nonostante tutto, il fascismo puntò ugualmente al controllo di quelle organizzazioni e se ne originò un conflitto duro, con incendi e devastazioni di molte sedi. Nel 1931 Mussolini ordinò ai Prefetti la chiusura di tutti circoli dell’Azione Cattolica. A Sant’Ivo alla Sapienza, allora Università di Roma, scoppiarono proteste spontanee degli universitari iscritti alla FUCI, la Federazione Universitari Cattolici Italiani, nel cui seno stavano facendosi le ossa praticamente quasi tutti quelli che sarebbero diventati i dirigenti politici della futura Democrazia Cristiana. Papa Pio XI protestò duramente nell’Enciclica “Non abbiamo bisogno”, in cui si oppose al controllo totale dello Stato sull’educazione dei giovani, uno Stato che voleva una Chiesa che si doveva limitare all’esercizio delle sole pratiche liturgiche esteriori. Il Papa parlò di totalitarismo educativo del fascismo. Anche Alcide De Gasperi espresse nei suoi diari degli anni ’30 la preoccupazione per la pretesa dello Stato fascista di educare da solo i giovani. Non altrettanto fece Don Luigi Sturzo perché fu sempre avverso al comportamento della Chiesa e di Pio XI, giudicato pessimo, verso l’ascesa e il consolidamento del fascismo. In seguito alle proteste del Papa e delle gerarchie ecclesiastiche, nel 1931 si giunse a un compromesso in base al quale le sedi vennero riaperte, ma l’Azione cattolica si sarebbe limitata a impartire ai giovani la sola educazione religiosa. Restarono vietate le attività dei gruppi scoutistici cattolici. Le sedi dell’Azione cattolica furo26


no ampiamente infiltrate dal regime, tanto che sulle loro attività sono rinvenibili all’Archivio centrale dello Stato numerose relazioni delle spie dell’OVRA. Nell’Azione cattolica ci fu una certa qual libertà di pensiero che si può definire una sorta di afascismo, non vero e proprio antifascismo. Viceversa, le associazioni scoutistiche cattoliche, che continuarono ad esistere in forma clandestina, ebbero spesso un atteggiamento antifascista. D’altra parte, una delle prime vittime cattoliche del fascismo fu il prete ferrarese Don Giovanni Minzoni, assassinato nel 1923 dalle squadre di Italo Balbo proprio perché aveva organizzato i giovani scout cattolici contro il nascente fascismo agrario. I gruppi clandestini degli scout cattolici furono le Aquile Randagie a Milano e le Guide a Roma. Le Aquile Randagie, scoppiata la guerra e dopo l’8 settembre, fondarono il gruppo di resistenza al nazifascismo denominato OSCAR, che significava probabilmente Opera Scout Cattolica Aiuto Ricercati, il cui compito fu di fare espatriare clandestinamente persone a rischio, come ebrei, esponenti della Resistenza, prigionieri alleati. In questa pericolosa attività si distinse il diacono e poi prete don Giovanni Barbareschi che riuscì a far uscire da San Vittore Indro Montanelli ed era considerato con ammirazione e rispetto dallo stesso Cardinale di Milano monsignor Schuster. Da poco è passato sugli schermi un film, diretto da Gianni Aureli, dedicato alla storia delle Aquile Randagie, che ha anche avuto un sorprendente successo di pubblico. Le Guide erano presenti a Roma al circolo culturale della chiesa di San Marco, vicino a Palazzo Venezia, animato da don Paolo Pecoraro. Questi gruppi scout cattolici ebbero contatti anche con i gruppi scoutistici laici italiani e internazionali con cui condividevano il modo di interpretare la società e l’antifascismo. Le Aquile Randagie incontrarono anche Baden Powelli, il fondatore degli scout, che li incoraggiò alla resistenza al regime. Baden aveva sempre criticato i sistemi 27


totalitari di qualunque colore politico e i gruppi giovanili da essi organizzati, dalla Hitlerjugend in Germania ai giovani Pionieri in Unione Sovietica, in quanto il loro controllo dell’educazione dei ragazzi era contrario a tutti i principi liberali e progressisti propri del mondo anglosassone. Un altro prete che animò gruppi scoutistici cattolici antifascisti al Nord fu Don Pasquino Borghi a Reggio Emilia. Aprì la sua parrocchia agli antifascisti e fu trucidato insieme ai fratelli Cervi. Da quel momento il vescovo di Reggio Emilia si staccò definitivamente dalla Repubblica Sociale di Mussolini. Gli appartenente a questi gruppi parteciparono attivamente alla Resistenza, rischiando tutti la vita per le repressioni spietate dei fascisti e dei tedeschi, sia durante i mesi dell’occupazione nazista a Roma, sia più tardi nel Nord fino al 25 aprile 1945. Furono accomunati dal progetto di intraprendere concrete azioni in favore delle classi popolari, per gli ultimi della società, distinti sia dalla nascente Democrazia Cristiana che dal Partito Comunista. A Roma, il 12 marzo del 1944, in piena occupazione nazista, Don Paolo Pecoraro portò i giovani del suo circolo culturale scoutistico in Piazza San Pietro a gridare frasi antifasciste ai festeggiamenti per l’anniversario della consacrazione a Pontefice di Pio XII. Nella fase dell’occupazione nazista di Roma, altri due parroci pagarono con la vita l’impegno a favore dell’antifascismo: Don Paolo Pappagallo, ucciso alle Fosse Ardeatine e Don Pietro Morosini, il personaggio interpretato da Aldo Fabrizi in “Roma città aperta”, fucilato a Forte Bravetta. Don Paolo Pecoraro, che ebbe la sorte di scampare alla repressione, si incontrò più volte con Adriano Ossicini, cattolico comunista, per organizzare la lotta contro i nazifascisti. Adriano Ossicini fu un altro esponente cattolico che si distinse durante la Resistenza a Roma. Era favorevole all’apertura al comunismo nell’ambito del cattolicesimo, insieme ai compagni Marisa Cinciari, Franco Rodano, Tonino Tatò. Già nella 28


primavera del 1941, con Franco Rodano e don Paolo Pecoraro, redasse il Manifesto del Movimento Cooperativista. Dopo l’occupazione nazista di Roma lui e Franco Rodano fondarono il Movimento dei Cattolici Comunisti, integrato nella Sinistra Cristiana. Dopo il 1945, quando ormai occorreva prendere posizione tra i due grandi Partiti di massa DC e PCI, la Sinistra Cristiana si sciolse e Franco Rodano, Tonino Tatò, Giglia Tedesco e Luciano Barca confluirono nel PCI mentre Adriano Ossicini si mantenne indipendente e in alcune legislature repubblicane fu eletto nella Sinistra Indipendente. Nella fase dell’occupazione nazista di Roma molti combattenti antifascisti, non solo cattolici, come Tonino Tatò o Franco Rodano, furono aiutati a nascondersi e a lottare dai gruppi cattolici del dissenso. Nei conventi romani rimasero nascosti molti esponenti antifascisti. Nel Laterano, nel Collegio lombardo, a San Paolo fuori le mura si nascosero Nenni, Saragat, Ruini, il capo della Resistenza romana Bencivenga. È una storia che fu narrata da Enzo Forcella nel suo interessante libro “La Resistenza in convento”. Curioso che molti di quei personaggi, rifugiati nei conventi in quei mesi, non fecero mai parola di quegli avvenimenti, quasi che se ne vergognassero politicamente. Nel dopoguerra l’abbandono da parte della Democrazia Cristiana della sua matrice popolare, per approdare all’interclassismo, spinse alcuni di quei gruppi cattolici del dissenso di sinistra, nati già sotto il fascismo, a staccarsi dalla DC e ad avvicinarsi al PCI. Uno di questi rappresentanti fu Franco Rodano che, come abbiamo visto, divenne un importante esponente cattolico nell’ambito del Partito Comunista, un cattocomunista come si ebbe a definirlo, talvolta con malcelata ironia. I tempi erano cambiati e cattolici e comunisti, alcuni dei quali avevano fatto un percorso comune nella lotta antifascista, erano ormai comunemente considerati avversari giurati in tempi di guerra fredda. 29


In definitiva, la storia della lotta tra Chiesa e il fascismo per l’educazione dei giovani e la partecipazione di gruppi cattolici ad una Resistenza popolare e di sinistra è poco conosciuta e forse è stata sottovalutata dagli osservatori laici, sul presupposto che la Chiesa nella sua totalità avesse appoggiato senza riserve il fascismo. Ma la situazione, come si è visto, era stata ben più articolata e complessa.

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Editoria e Web

La guerra tra editori e giganti del web Aldo AVALLONE

Con un editoriale dal titolo perentorio “Droit voisin: Google doit aussi appliquer la loi”, pubblicato il 24 ottobre scorso, l’autorevole quotidiano francese “Le Monde” dà comunicazione ufficiale della guerra iniziata in Francia tra i giornali e i colossi del web (Google e Facebook, innanzitutto). Un conflitto che si annuncia lungo e sanguinoso ma che ha come fine ultimo un obiettivo importante: la difesa del diritto d’autore e, di conseguenza, quella della libertà di stampa. Ma cerchiamo di comprendere cosa è in gioco e come si è arrivati a questo punto. La vicenda nasce dall’approvazione, il 26 marzo scorso, da parte del Parlamento 31


europeo di una nuova direttiva per la tutela del diritto d’autore nella Rete. Dopo anni di battaglie, le associazioni di editori, giornalisti, autori in generale hanno ottenuto la facoltà di chiedere un giusto compenso ai colossi del web per l’uso delle loro “opere d’ingegno”. In sostanza la direttiva europea prevede la possibilità per i giornali di contrattare un compenso per i loro contenuti che appaiono nei risultati delle ricerche sul web. Gli editori lamentano l’uso indiscriminato dei loro prodotti senza ricevere in cambio un’adeguata remunerazione da parte, soprattutto, di Google, Facebook e Twitter, che hanno visto aumentare in maniera considerevole i loro proventi pubblicitari grazie anche ai contenuti prodotto dai media. La direttiva europea, per essere applicata, prevede che ogni Paese legiferi in materia. Ebbene, la Francia è stata la prima nazione ad approvare una legge ad hoc, entrata in vigore proprio il 24 ottobre scorso. In Francia ora gli editori dei giornali hanno il diritto di negoziare con Google e Facebook una remunerazione per l’utilizzo dei loro contenuti. In effetti, il motore di ricerca già paga un piccolo compenso agli editori dei giornali ma, secondo questi ultimi, sarebbe ben poca cosa rispetto ai profitti generati. La risposta di Google non si è fatta attendere e ha annunciato, sic et simpliciter, che non intende rispettare la legge. In caso contrario non pubblicherà più estratti di articoli su Google News ma solo titolo e indirizzo internet che rimandi all’articolo. L’effetto, per i giornali, sarebbe di totale oscuramento. Per questo, finora, i media francesi non hanno ancora fatto richieste economiche al gigante americano. La battaglia, però, è appena all’inizio e la questione sarà riportata ancora in sede europea con la richiesta di misure ancora più efficaci e stringenti. Il tema è alquanto controverso: da un lato c’è chi ritiene che la Rete, per le proprie peculiarità, debba essere un luogo di libero scambio e uso di contenuti affrancato 32


da qualsiasi vincolo, dall’altro c’è chi difende il proprio diritto a essere equamente remunerato per il proprio lavoro intellettuale. La crisi dei giornali negli ultimi anni ha assunto proporzioni preoccupanti. Ogni testata costretta a chiudere è uno spazio di libera informazione e, quindi, di democrazia che si restringe. La direttiva dell’Unione europea rappresenta una giusta maniera di conciliare le diverse esigenze e occorrerà trovare un accordo con le grandi piattaforme del web affinché rispettino la legge. Sono in gioco la credibilità delle Istituzioni europee e, bene ancora più prezioso, la libertà di stampa.

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Testata online aperiodica Proprietà: Comitato per l’Unità Laburista, Strada Sesia 39 14100 Asti (AT) Direttore Responsabile: Aldo Avallone - Stampatore: www.issuu.com web: www.issuu.com/lunitalaburista - mail: lunitalaburista@gmail.com - Tel. +39.347.3612172 Palo Alto, CA (USA), 4 novembre 2019 36


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