l'Unità Laburista - Caporetto - Numero 25 del 13 dicembre 2019

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Numero 25 del 13 dicembre 2019

Caporetto


Sommario

L’EDITORIALE/Caporetto - pag. 3 di Fabio CHIAVOLINI

Piazza, bella piazza - pag. 5 di Aldo AVALLONE

Imitatori e falsari nel mondo dell’arte. Parte prima pag. 9 di Giovan Giuseppe MENNELLA L’Italia nelle spire del MES - pag. 19 di Raffaele FLAMINIO Siria, Palestina: la vergogna del mondo. Intervista alla PremioNobel per la Pace Mairead Maguire - pag. 25 di Umberto DE GIOVANNANGELI

Il fascismo e i giovani - pag. 36 di Giovan Giuseppe MENNELLA

Piazza Fontana, i vecchi e i nuovi fascismi - pag. 43 Aldo AVALLONE

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di


L’Editoriale

Caporetto Fabio CHIAVOLINI

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Inutile girarci tanto intorno. Quella britannica è stata una vera e propria Caporetto: non solo per il Labour UK ma per tutta la Sinistra europea e mondiale. Certo, la questione della Brexit ha complicato enormemente la situazione, così come va riconosciuto che un risultato da oltre il 32% dei voti farebbe leccare i baffi alla quasi totalità dei partiti di Sinistra europei e che Corbyn ha preso in carico un Labour che si avviava mestamente verso il 20% dei consensi, l’ha portato fino alla “quasi vittoria” con il 41% due anni fa e lo lascia “in salute”, con un terzo dei consensi elettorali generali ed il 54% nella fascia d’età sino ai 30 anni: e con un asse politico che, nel tempo, si è così tanto spostato a sinistra da rendere difficile un ritorno tout court al blairismo. Ma il punto è un altro. Era in campo il “campione mondiale” della Sinistra, il modello di leader e di Partito organizzato cui guardavamo tutti: il “Grande Timoniere” ed il “Partito-guida”. Contro un leader tory che definire folkloristico è riduttivo. Bene: come in tutta Europa ed in tutto il mondo, ha vinto il “finto populista” (in realtà prodotto di punta delle èlites inglesi) e, soprattutto, l’estensione territoriale - ancor prima che numerica - del voto conservatore fa paura. La destra ha conquistato tutte le aree rurali e depresse, tranne quelle dove dominano i pur progressisti Scottish National Party, Sinn Fein e Plaid Cymru: l’estensione della marea blu è interrotta solo dagli “spruzzi” rossi delle grandi città, dove vive la popolazione più colta, benestante ed istruita e dove le infrastrutture ci sono e funzionano. Lo UK profondo, quello dove non c’è lavoro, né infrastrutture, né salute, né futuro ha premiato i reazionari. Qualcosa vorrà pur dire - ed è venuto il momento che incominciamo a chiederci cosa ed a porre rimedio ad una distanza Sinistra-Popolo che si fa imbarazzante. Per intanto, grazie a Jeremy di averci provato, con enorme coraggio, una buona efficacia relativa ed ogni stilla d’energia: evidentemente, però, non è bastato. 4


Politica

Piazza, bella piazza Aldo AVALLONE

Quindicimila Sardine sabato 30 novembre a Napoli, dove la manifestazione è stata spostata, su indicazione della Questura, per ragioni di capienza, dalla piÚ piccola piazza del GesÚ a piazza Dante. Stessa cosa avvenuta a Milano, domenica primo dicembre, dove venticinquemila Sardine si sono ritrovate sotto la pioggia battente a Piazza del Duomo in luogo della inizialmente prevista, meno ampia, piazza dei 5


Mercanti. Quarantamila a piazza della Repubblica e Firenze e seimila a Treviso, feudo leghista da anni, città che conta appena ottantamila abitanti. E poi Padova, Taranto, Cosenza, Palermo, Rovigo, La Spezia e tante altre ancora. L'iniziativa di quattro amici per protestare contro il leader leghista Matteo Salvini, nata a Bologna appena tre settimane fa, ha assunto nel giro di pochi giorni una struttura nazionale. I lettori più maturi ricorderanno la canzone di Claudio Lolli da cui abbiamo “rubato” il titolo. Il testo raccontava di una piazza incazzata per i morti assassinati dai fascisti negli anni della strategia della tensione. Erano tempi bui, culminati con la strage della stazione di Bologna il 2 agosto del 1980. Allora le piazze si riempivano per chiedere giustizia a uno Stato assente se non complice attraverso i servizi segreti deviati. Oggi le piazze si riempiono di un popolo allegro e pacifico per protestare contro il clima di odio che la Lega e il suo leader Salvini ha instaurato nel Paese. Sabato 30 novembre ero in piazza a Napoli. Nella mia lunga vita ho partecipato a centinaia di manifestazioni, dalle lotte studentesche degli anni ’70 a quelle sindacali, dal movimento dei girotondi a una presenza da osservatore al primo “vaffaday” di Beppe Grillo. Ebbene, sabato scorso a piazza Dante ho costatato di persona che il movimento delle Sardine è qualcosa di totalmente diverso da tutto ciò che si è visto finora. Certo, ho incontrato con piacere tanti compagni, anche quelli che non vedevo da anni. E questo è sicuramente un dato positivo. I delusi, gli arrabbiati, gli scontenti di sinistra (e sappiamo bene quanti ce ne siano) hanno sentito il bisogno di scendere di nuovo in piazza ad affermare con la loro presenza la speranza di un cambiamento. Ho visto anche tanta gente normale, chi non si riconosce in un ambito politico definito ma che non ha più voglia di parole di odio e d’intolleranza, quelle che hanno caratterizzato maggiormente la propaganda della destra nel nostro Paese. Ma il dato, secondo me, più rilevante è stato la presenza di tanti, tantissimi giovani. Ho incontrato i ragazzi dei centri sociali e non è stata una 6


sorpresa. Ma ho incontrato, soprattutto, giovani che prima di organizzare il loro sabato sera erano lì con gli amici, con la ragazza, a guardarsi intorno per cercare di capire. Difficile quantificarne la presenza. A occhio, credo che rappresentassero almeno il trenta, quaranta per cento dei partecipanti. Ed è assolutamente confortante. Uno dei meriti maggiori delle Sardine è sicuramente quello di riuscire a parlare ai giovani attraverso i media a loro vicini e adoperando il loro linguaggio. Un merito non da poco visto il quasi totale disimpegno degli ultimi anni. La rinascita del Paese potrà avvenire solo con il riavvicinarsi dei giovani alla politica perché solo loro possiedono quell’entusiasmo e quell’energia necessari a uscire dalla palude nella quale navighiamo. In tempi recenti molti movimenti, nati sotto una forte spinta emotiva, si sono dissolti dopo pochi mesi. Chi non ricorda “I girotondi” e il “Popolo viola”? L’unico che è riuscito a radicarsi e avere uno sviluppo importante che lo ha portato fino al governo del Paese, è stato il Movimento Cinque Stelle, con il quale appare obbligatorio proporre un confronto. L’uso della Rete, l’iniziale organizzazione attraverso i social, il rifiuto di contatti con i partiti tradizionali sono elementi in comune, ma le analogie si fermano qui. Il Movimento di Grillo nacque con una forte connotazione aggressiva nei confronti del sistema politico e con una decisa caratterizzazione populista. Né di destra né di sinistra. Inoltre, i Cinque Stelle avevano nel comico genovese un leader riconosciuto che, per lungo tempo, ha gestito verticisticamente il movimento. Le Sardine sono tutt’altro. Le Sardine sono tolleranti e inclusive, si riconoscono nei

valori

della

Costituzione,

sono

apertamente

antifasciste.

Hanno

un’organizzazione orizzontale e democratica. E non hanno capi carismatici. Si tratta di differenze fondamentali che contano e conteranno ancora di più nel prossimo futuro. Il movimento è in fase di crescita rapida, sta sviluppandosi addirittura al di fuori dei confini nazionali con manifestazioni programmate a Madrid, Bruxelles, 7


Parigi. La grande stampa internazionale ha dedicato pagine alle Sardine: hanno scritto di loro il Washington Post, il New York Times, il Wall Street Journal e Deutsche Welle. Finora è tutto andato liscio ma “qui si parrà la tua nobilitate”, viene da pensare, riprendendo il grande Alighieri. L’energia in gioco è tanta, il potenziale è grande ma convertire la popolarità in progetto politico è tutta un’altra storia. Le Sardine saranno capaci di andare oltre questa fase superando la fluidità e lo spontaneismo attuale? Riusciranno le forze di sinistra a trovare una sintonia con le “belle piazze” di questi giorni e a dare risposte politiche alla forte richiesta di cambiamento che viene dal basso? Domande decisive che attendono risposte chiare se vorremo provare, tutti insieme, a sconfiggere la destra.

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Storia e Arte

Imitatori e falsari nel mondo dell’arte. Parte prima Giovan Giuseppe MENNELLA

Nel mondo dell’arte figurativa alcuni personaggi hanno incarnato la parte di abili imitatori dei lavori altrui, spesso sono stati veri e propri falsari. Gli imitatori sono quelli che copiano lo stile di qualche grande maestro, ma non pretendono di spacciare i loro manufatti per autentici. Considerano il loro lavoro come manifestazione della loro abilità, per aumentare la propria notorietà e ottenere commissioni in prima persona. Viceversa, i falsari pretendono di spacciare i loro manufatti come autentico prodotto di qualche grande maestro del passato o dell’antichità classica per venderli ad amatori d’arte o mercanti con pochi scrupoli. 9


Spesso, proprio gli stessi grandi maestri si sono fatti imitatori, per dimostrare la loro abilità e avere il gusto di ingannare qualche esperto. Talvolta si sono fatti veri e propri falsari, di se stessi per aumentare il fatturato commerciale, o di altri artisti per puro guadagno in periodi di scarso lavoro. Sarà interessante tracciare una storia d’imitatori e falsari d’arte nel corso del tempo. Marcantonio Raimondi (1480-1534) fu un abile artista padovano, incisore sopraffino nel periodo di massimo fulgore della Repubblica di Venezia. Avendo un grande interesse per l’incisione d’arte nel mondo germanico, e anche per motivi commerciali, tradusse su rame numerose xilografie del grande pittore tedesco Albrecht Durer. Riprodusse 17 tavole della vita della Vergine, forse acquistate a Venezia, e la Piccola passione, tutte opere di Durer. Poiché le riproduzioni delle xilografie originali furono realizzate a bulino, apparvero addirittura più belle e dal tratto più definito degli originali. Giorgio Vasari ha scritto che erano tutte belle e Raimondi ne vendette moltissime, tanto che Durer, messo sull’avviso da alcuni conoscenti, lasciò immediatamente le Fiandre dove risiedeva e andò a Venezia per querelare Raimondi davanti alla magistratura della Repubblica, chiedendo che venisse impedita la copia dei suoi lavori. Però ottenne solo che al Raimondi fosse vietato di riprodurre nelle copie il famoso monogramma AD. Michelangelo Buonarroti (1475-1564) già da ragazzo usò copiare alcuni lavori del suo maestro Domenico del Ghirlandaio, facendoli tanto veritieri che neanche il vero autore se ne accorse. Ancora da giovanissimo, trovandosi a frequentare il giardino di San Marco, dove Lorenzo il Magnifico aveva sistemato le collezioni di famiglia di arte classica, scolpì, secondo la concorde testimonianza dei biografi Vasari e Condivi, una testa di fauno da un antico originale frammentario e la mostrò al Magnifico che la apprezzò ma gli disse che i denti erano troppo perfetti per un sogget10


to anziano. Allora Michelangelo tolse via un dente e rimosse la relativa gengiva. Quando Lorenzo tornò dal suo giro intorno al giardino, mostrò di apprezzare la prontezza e l’abilità del giovane artista e lo ammise nella sua accademia di artisti. Poi, la testa di fauno andò perduta nel saccheggio del 1494 dopo la seconda cacciata dei Medici. Ma l’episodio più famoso riguardante Michelangelo imitatore dell’arte antica fu quello relativo al cosiddetto Cupido dormiente, oggi perduto. I suoi biografi Paolo Giovio, Ascanio Condivi e lo stesso Giorgio Vasari, nella edizione del 1568 delle sue Vite dei pittori e scultori, ricordarono la sua statua di Cupido, di età tra sei e sette anni, scolpita su commissione di Lorenzo di Pierfrancesco dei Medici, dopo il ritorno da Bologna dove aveva preso parte giovanissimo al cantiere dell’arca di San Domenico. Era un’opera che, insieme al Cupido-Apollo pure ormai disperso, si ispirava all’arte antica, ma non in modo filologicamente consono. Su istigazione dello stesso Lorenzo, e forse all’insaputa di Michelangelo, si prese la decisione di sotterrare il Cupido per patinarlo come se fosse stato un reperto archeologico e poterlo rivendere sul ricco mercato delle opere d’arte dell’antica Roma. La frode riuscì, grazie all’intermediazione del mercante Baldassarre Del Milanese che convinse il cardinale Raffaele Riario, un ricco collezionista, ad acquistare l’opera, per la somma di 200 ducati, quando invece Michelangelo ne aveva ricevuti solo 30 da Lorenzo di Pierfrancesco dei Medici. In questo frangente entrò in luce, come fulcro di molti inganni, la figura ambigua dell’intermediario privo di scrupoli, che con il passare del tempo sarebbe stata sempre più importante in materia di imitazioni e falsificazioni nell’arte. La storia del Cupido di Michelangelo si concluse male per i truffatori, perché il cardinale Riario, insospettito, riuscì a risalire a Michelangelo grazie alla cui sincera testimonianza smascherò l’inganno e si fece restituire i ducati. Tuttavia, ammirato dell’abilità di chi aveva saputo imitare così perfettamente gli 11


antichi, lo portò a Roma e lo introdusse nell’ambiente cardinalizio, dove il giovane scultore avrebbe conosciuto alcuni dei suoi grandi committenti e spiccato il volo per la gloriosa carriera di autentico gigante dell’arte figurativa. Il Cupido passò in mani sempre più illustri, da Cesare Borgia a Guidobaldo da Montefeltro fino a Isabella d’Este, marchesa di Mantova, che, dopo averne rifiutato l’acquisto anni addietro come imitazione dell’antico, alla fine coronò il suo sogno, lungamente accarezzato, di avere nel suo studiolo un’opera di quello che ormai era diventato il più grande Maestro del Rinascimento. Già ai tempi di Isabella d’Este, come del resto oggi, se si trovasse un’opera di Michelangelo che imitasse l’antichità classica, certo sarebbe valutata molto di più di un’opera autenticamente antica. Per la cronaca, anzi per la storia, l’opera fu acquistata nel 1632 da Carlo I Stuart, re d’Inghilterra, insieme alla gran parte delle preziose collezioni d’arte dei Duchi di Mantova che ormai erano andati in bancarotta. Se ne persero poi le tracce, probabilmente andò perduta nell’incendio del Palazzo di Whitehall a Londra nel 1698. Annibale Carracci (1560-1609), insieme al fratello Agostino (1557-1602), ebbe la commissione di affrescare Palazzo Farnese a Roma. I due si trovarono a disquisire con alcune illustri personalità del mondo artistico e culturale al piano nobile del Palazzo circa il vero e il falso nell’arte. Agostino parlò con passione e competenza da un punto di vista puramente teoretico. Al che Annibale si avvicinò al muro della stanza e cominciò a disegnare con un carboncino, dicendo ad alta voce “li dipintori habbino a parlare con le mani”, volendo significare che gli artisti manuali non possono e non debbono perdersi in teoria ma dedicarsi a fare praticamente le figurazioni artistiche come imitazione del vero. Fu un anticipo della polemica e dell’opposizione tra artefici pratici e studiosi teorici che avrebbe occupato nel futuro tutta la storia dell’arte e delle stesse imitazioni e falsificazioni. Luca Giordano (1634-1705) riprodusse sempre vari capolavori dei suoi colleghi 12


pittori del passato, come Tiziano e Tintoretto, senza scopo commerciale ma solo per dimostrare la sua bravura artistica. Era tanto abile a dipingere qualunque soggetto in brevissimo tempo che si meritò il famoso soprannome di “Luca fa presto”. Su istigazione di un priore, fece un Durer così più vero del vero che lo fece acquistare dallo stesso committente per 600 scudi. Il priore, accortosi dell’inganno, gli fece causa ma perse. Giuseppe Guerra (1697-1761) era un pittore e restauratore napoletano, allievo di Francesco Solimena, che nel 1750 si offrì a Carlo di Borbone come restauratore delle pitture antiche venute fuori dagli scavi archeologici di Ercolano e Pompei. Non ritenendo sufficiente il compenso propostogli, rifiutò l’incarico e si trasferì a Roma dove intraprese la più redditizia attività di falsario delle pitture pompeiane ed ercolanesi che vendette a personaggi importanti, come il Re d’Inghilterra Giorgio II, Alessandro Albani, l’ambasciatore danese a Roma barone Gleichen, tutti collezionisti appassionati di antichità, di cui erano sempre alla ricerca, come del resto molti altri personaggi europei alle prese in quel periodo con il tradizionale Gran Tour in Italia. Guerra aveva aperto uno studio di pittore-restauratore nelle stalle di Palazzo Chigi, dove ingannava i committenti dicendo che le pitture ad affresco che vendeva loro a caro prezzo, in realtà dipinte da lui, erano quelle che gli arrivavano clandestinamente da Pompei su carri di fieno e che lui restaurava. Dovevano giungere a Roma clandestinamente perché Carlo di Borbone aveva posto un severo divieto all’esportazione dei capolavori antichi che andavano emergendo dagli scavi. I falsi erano realizzati con la tecnica dell’encausto su un intonaco durissimo e un arriccio bianco. Il procedimento sedicente antico aveva indotto Johann Joachim Winckelmann (1717-1768) e altri studiosi a dubitare dell’autenticità delle opere, in quanto contenevano caratteri poco chiari che non sembravano derivare né dal greco, né dal latino. L’abate Mattia Zarillo, custode del Real Museo di Capodimonte e 13


accademico ercolanese, fu invitato da alcuni acquirenti dei falsi di Guerra a stimarli. Lo Zarillo li giudicò autentici e informò il governo borbonico delle esportazioni clandestine da Pompei verso lo Stato Pontificio. Un’inchiesta ordinata dal primo ministro borbonico Bernardo Tanucci identificò come spacciatore delle pitture il Guerra che fu arrestato. Si trovò così nella scomoda posizione di essere considerato un ladro mentre era un falsario. Tra le due accuse quella che gli avrebbe procurato meno danni giudiziari era quella di falsario, per cui dimostrò praticamente, dipingendo un affresco antico davanti agli stessi inquirenti, che di falso e non di furto si era trattato. Guerra anticipò di due secoli il più famoso caso del falsario olandese Van Meegheren che, accusato di avere rubato e poi venduto un dipinto di Vermeer a Goering, cosa per cui rischiava la pena di morte, fu costretto a dipingere di nuovo lo stesso quadro, Cristo e l’adultera, mai esistito nel catalogo di Vermeer, per dimostrare che era un falso spacciato da lui e non un autentico del grande artista olandese. Nel 1764 Johan Joachim Winckelmann (1717-1768) credette di riconoscere in un encausto rappresentante Giove e Ganimede un autentico affresco ercolanese. Infatti, nella sua “Storia delle arti e del disegno presso gli antichi” scrisse che “tornò alla luce un giorno del settembre 1760 una pittura che oscurava tutte le pitture ercolanesi conosciute”. Si riferiva a una immagine in cui il fanciullo Ganimede bacia Giove assiso in trono. Tuttavia, con il passar del tempo iniziò ad avere qualche sospetto. Infatti, in una nuova edizione del libro soppresse il passo sul dipinto. I sospetti che non fosse autentico furono corroborati dal fatto che il bacio di Ganimede a Giove non era stato ricordato da alcun testo classico e solo Raffaello lo aveva effigiato in un affresco della villa La Farnesina a Roma. Inoltre, la pedana del trono di Giove era avvolta da volute baroccheggianti tutt’altro che classiche. Alla fine, grazie alla confessione dello stesso autore della contraffazione, si scoprì la verità. 14


A realizzare il dipinto era stato Anton Rafael Mengs, uno dei più rappresentativi artisti del tempo. D’accordo con Giovan Battista Casanova, fratello meno noto di Giacomo e intenditore e commerciante di antichità, aveva pensato di dimostrare la sua abilità a rifare l’antico ingannando il più grande storico dell’arte del tempo che oltretutto gli era anche amico. Mengs non lo fece certo per ragioni economiche, era uno degli artisti più accreditati sul mercato, ma probabilmente per segnare un punto a favore in quell’antica diatriba, tra “li dipintori”, cioè gli artisti manuali e i teorici e critici, di cui si erano visti gli esempi con i Carracci e con Luca Giordano e che si sarebbe aggravata a partire dall’800 e fino ai giorni nostri. I primi convinti del loro “mestiere” e i secondi sempre più lontani dalla realtà delle tecniche e sempre più arroccati in un mondo autoreferenziale delle teorie e delle ipotesi. Hans Holbein il giovane (1497-1543) dipinse una Madonna che gli era stata commissionata dal borgomastro di Basilea Jacob Meyer. Il quadro raffigura il committente, la sua prima moglie e la seconda moglie con le figlie attorno a una composizione con la Madonna e il Bambino. Il quadro fu commissionato probabilmente per testimoniare la fede cattolica del borgomastro, in opposizione alla Riforma protestante che stava guadagnando terreno in città; oppure, secondo un’altra ipotesi, per ringraziare la Madonna per l’aiuto prestatogli per uscire assolto da un processo per malversazione. L’opera può essere datata tra il 1526 e il 1528. Dopo i primi passaggi di mano, fu acquistata nel 1626 dal mercante d’arte di Amsterdam Michel Le Bon che ne fece realizzare una copia dal pittore seicentesco Bartholomeus Sarburgh, presumibilmente per incrementare i suoi profitti. Nel prosieguo del tempo, dopo altre vicende, dall’inizio del XIX secolo, le due versioni si trovarono una alla Gemalderie di Dresda e l’altra nel Palazzo reale del Principe d’Assia a Darmstadt. Da allora si accese una lunga e famosa disputa su quale delle due Madonne fosse l’originale, se quella di Dresda o quella di Darmstadt. Durante il procedimento di 15


riconoscimento, la pittura di Dresda fu identificata come l’originale perché la maggior parte dei contemporanei e degli artisti la considerò la più bella e compiuta. In realtà, l’originale si sarebbe rivelato essere la pittura di Darmstadt. Evidentemente il copista della pittura di Dresda nel XVII secolo aveva apportato al lavoro di Holbein alcune modifiche che sembrarono corrispondere più al gusto delle epoche successive a quella dell’originale. La disputa interessò artisti, storici dell’arte e soprattutto gran parte del pubblico tedesco. Nel 1871 si tenne a Dresda una mostra di Holbein realizzata per offrire al pubblico l’opportunità di esprimere un’opinione e scriverla su registri forniti dall’organizzazione. Quella partecipazione del pubblico alla disputa fu il primo studio empirico nel campo dell’estetica abbinata alla psicologia, in quanto, contrariamente all’opinione del pubblico e degli artisti, prevalse alla fine l’opinione degli studiosi di storia dell’arte che identificarono l’originale nella Madonna di Darmstadt. Un altro esempio di discrepanza di opinione tra gli artefici manuali e i critici. Le moderne indagini a raggi X e infrarossi hanno confermato che l’originale del XVI secolo è quello di Darmstadt, come intuito dai critici, mentre il dipinto di Dresda è la copia fatta da Bartholomeus Sarburgh ,databile al 1635/1637. Giovanni Morelli (1816-1891) fu un anatomopatologo e appassionato conoscitore di arte italiano. Studiò materie scientifiche in Germania e Svizzera, diventando un esperto conoscitore della lingua e della cultura germaniche. Durante gli studi scientifici maturò anche una grande passione e competenza per la storia dell’arte, il disegno e lo studio del corpo umano. Partecipò al Risorgimento e nel 1861 fu eletto deputato del Regno d’Italia. In questa funzione pubblica intraprese importanti iniziative per la tutela e valorizzazione del patrimonio artistico italiano. Mettendo insieme le sue competenze di anatomopatologo e conoscitore dell’arte, elaborò il “Metodo Morelli” per riconoscere i falsi capolavori. Il metodo si basava 16


sull’osservazione minuta di particolari anatomici, come le mani, le dita, le unghie, i nasi, le orecchie che i grandi maestri dipingevano sempre uguali e riconoscibili. Fu lodato come conoscitore d’arte da critici del calibro di Bernard Berenson, Abi Warburg, Franz Wickoff. Spesso i collezionisti si rivolgevano a lui prima di ogni acquisto. Insieme al grande studioso Cavalcaselle nel 1862 intraprese un viaggio di studio e catalogazione di opere d’arte in regioni meno conosciute come Umbria e Marche. Acquisì numerose opere per l’Accademia Carrara di Bergamo e scrisse gli articoli di identificazione delle opere con lo pseudonimo di Ivan Lermolieff. Il suo approccio può essere considerato come tipicamente positivistico e meccanicistico, tipico dell’800, perché si basava su minimi particolari esclusivamente anatomici. Un altro studioso Berenson, di lì a pochi anni, doveva inaugurare un approccio più moderno e completo, ispirantesi alla totalità dell’opera, alla sua iconografia e alla documentazione contenuta negli archivi. Nel 1887 a Roma, durante i lavori di demolizione e lottizzazione di Villa Ludovisi, nell’area corrispondente agli antichi Horti Sallustiani, fu ritrovato quello che sarebbe passato alla storia dell’arte come Trono Ludovisi. Opera singolare, priva di riferimenti simili, fu molto discussa fin dal tempo del suo rinvenimento a causa della forma inconsueta e della tipologia del suo rilievo. La parte superiore del manufatto è fratturata e quindi non è possibile stabilire con certezza la sua forma originaria e la sua funzione. Secondo la maggior parte degli studiosi era parte di un trono colossale, anche se altri hanno pensato alla balaustra di una scala o alla parte superiore di un tempio o di un’edicola. L’immagine è quella di una figura femminile sorretta da due ancelle, con un sottile velo che tende a nascondere la scena. La datazione è del V secolo avanti cristo, intorno agli anni 460 o 450. Secondo l’interpretazione più accreditata rappresenterebbe la nascita di Venere dalla spuma del mare a Cipro, oppure, secondo altri, Persefone che risale sulla terra dal mondo 17


degli Inferi. Subito dopo il suo ritrovamento si scatenò una vera e propria guerra tra i collezionisti che volevano acquistarlo. Alla fine, con rammarico di alcuni miliardari tra cui Neil Warren, la acquistò lo Stato italiano. Qualche tempo dopo fu ritrovato un altro frammento simile da Paul Hartwig che lo notò in via Margutta. Questa volta Warren riuscì a completare l’acquisto, per 165.000 dollari. Questo secondo frammento si trova attualmente al Fine Arts Museum di Boston che lo acquistò come antico. Soprattutto su questo secondo pezzo ritrovato è forte il sospetto che si tratti di un falso, costruito per accontentare la grande richiesta di opere antiche che c’era sempre stata, ma ovviamente era aumentata sull’onda del primo ritrovamento del 1887. Sul secondo pezzo, quello scoperto da Hartwig a via Margutta, gli studiosi sono divisi, metà di essi lo considera autentico, l’altra metà un falso. Quasi unanime la considerazione del Trono Ludovisi come autentico, con l’importante eccezione di Federico Zeri che non si convinse mai che potesse essere veramente un’opera greca del V secolo avanti Cristo ma la considerava un manufatto ottocentesco. Anche alcuni esperti di area genovese hanno affermato che potrebbe essere di mano dello scultore Santo Varni.

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Politica

L’Italia nelle spire del MES Raffaele FLAMINIO

La dimostrazione plastica dell’importanza dell’Unione Europea, per chi ancora non l’avesse compreso a fondo, è determinata dall’aggiornamento del Fondo Salva Stati di cui in questi giorni i 19 Stati membri, utilizzatori della moneta unica (Euro), stanno approntando. Il dibattito, in Italia invece, stagna nella palude dei tatticismi e delle convenienze particolari in un clima di perpetua campagna elettorale. Intanto il debito pubblico Italiano lievita pericolosamente sulla soglia dei 2.400 miliardi di euro pari a un debito pro capite di circa 33.000 euro a cittadino, compresi i neonati. I dati sull’evasione fiscale e contributiva stimata, calcolati della commissione presieduta da Enrico Giovannini, ammontano a 109,7 miliardi di euro (fonte Il Sole24 ore del 2 dicembre 2019). Dunque, i numeri sono implacabili e incontrovertibili, eppure una parte della poli19


tica sembra non accorgersi di questa polveriera su cui sta seduta. Fatta questa doverosa istantanea, cercheremo di spiegare a beneficio dei nostri lettori che cos’è e in che consiste il MES (Meccanismo europeo di stabilità). Qual è la sua genesi. Quando furono siglati i trattati europei, gli Stati membri del Nord Europa chiesero di inserire l’art. 123 che vietava l’aiuto agli Stati in difficoltà economica. Il timore di questi Paesi economicamente più forti risiedeva nella convinzione che i membri più deboli scaricassero sugli altri popoli europei i loro enormi debiti. Salvo poi costatare che la crisi mondiale del 2008 minacciava l’esistenza stessa dell’Europa, attaccando Italia, Portogallo, Spagna, Grecia e Irlanda. Fu così deciso in sede europea di istituire il Fondo Europeo di Stabilità Finanziaria. Il nascente organismo dal punto di vista giuridico si costituisce in una società di diritto lussemburghese che può prestare denaro agli Stati membri o acquistare i loro titoli di Stato a interessi calmierati rispetto a quelli reperibili sui mercati finanziari. Questo meccanismo si è poi evoluto nell’attuale MES. Il MES ha un capitale di 700 miliardi di euro cui contribuiscono in maniera proporzionale al Pil tutti i membri. La Germania contribuisce con il 27% del capitale, l’Italia è terza con il 18% (14,3 miliardi di euro). Il MES decide di aiutare o meno il Paese in difficoltà con una super maggioranza di voti dei Paesi appartenenti all’Unione e stabilisce regole che contemplino il taglio del deficit e del debito attraverso riforme strutturali. L’organismo opera in coordinamento con la Commissione europea cui spetta il compito di negoziare con il Paese coinvolto nel salvataggio. Dal luglio 2012 il vecchio organismo è stato sostituito, appunto, dal MES, con la previsione che l’assistenza finanziaria ai Paesi insolventi sia condizionata alla partecipazione del settore privato (bail-in). 20


Il MES si muove su due direttrici: aiuti alle banche e aiuti agli Stati. Il prolungarsi della crisi che, vede coinvolti, anche, i Paesi più stabili ha consigliato una riforma. Una delle proposte pregnanti di questa riforma è costituita dalla previsione che sia il MES a fornire il Backstop (muro di protezione, termine mutuato dal Baseball per evitare alla palla di finire fuori campo a colpire gli spettatori) al fondo di risoluzione comune per le banche. Infatti, quest’ultimo, è stato costituito per accantonare, tramite i contributi versati dalle banche dei Paesi membri, le risorse indispensabili per far fronte e aiutare le risoluzioni del sistema creditizio europeo. La diffidenza degli Stati così detti forti è stata sconfitta dalla persistenza della crisi del sistema bancario che investe tutto il continente. Nel caso di crisi bancarie, i capitali messi a disposizione (linea di credito di 55-60 miliardi di euro pari all’1% dei depositi garantiti bancari) dovranno essere restituiti direttamente dalle banche interessate senza passare attraverso la finanza dello Stato a cui appartiene l’istituto di credito. Questo per preservare le comunità nazionali da fardelli sul debito pubblico. Più complesso è il caso del salvataggio di interi Stati. Nella ristrutturazione dei debiti sovrani degli Stati in difficoltà, verrebbero coinvolti anche i Paese creditori, detentori, del debito che vedrebbero tagliarsi il valore dei titoli in portafoglio. In questo caso sarebbero attivati meccanismi di protezione anche nei confronti di questi ultimi. L’idea cardine della proposta di riforma, conduce a ragionare in termini di difesa del sistema complessivamente, difendendolo da eventuali mire speculative. Nella fase di ristrutturazione del debito degli Stati in crisi, la procedura per la concessione degli aiuti prevede un’analisi della sostenibilità del debito stesso. Saranno, quindi, il MES, organismo tecnico presieduto dai ministri economici dell’UE e la Commissione europea, organismo politico, a eseguire l’analisi. 21


I compiti, dei due organismi, sono quindi combinati: la Commissione, organo politico, avrà lo scopo della tenuta dell’Europa, mentre il MES opererà da un punto di vista prettamente tecnico, verificando la capacità, dei Paesi coinvolti, a ripagare il debito. Nell’idea complessiva maturata a Bruxelles, il combinato disposto delle nuove regole e delle ingenti disponibilità economiche costituite da centinaia di miliardi di euro, scoraggerebbe la speculazione ponendola di fronte alla possibilità di perdere ingenti quantità di denaro destinato agli attacchi diretti agli Stati membri in difficoltà. Come si diceva, il nuovo Trattato, contempla, la collaborazione tra la Commissione e il MES nell’analisi complessiva, politica e tecnica, incluso il parere della BCE per la sostenibilità dell’operazione ma, qualora ci fosse divergenza tra i due organismi prevarrebbe il parere della Commissione. Ma vediamo cosa sta accadendo in casa nostra. La bozza della riforma, seppur scritta nelle stanze segrete degli uffici belgi, era nota a tutti coloro avessero voluto interessarsi fin dal 4 dicembre 2018. Quindi nessuna sorpresa. Il Presidente del Consiglio nel giugno 2019, in epoca di governo Giallo-Verde, informò le Camere sulla struttura della riforma del MES e l’intero governo che con i suoi ministri economici ha partecipato alla “segreta” stesura del nuovo MES. I verbali delle commissioni parlamentari riporterebbero esplicitamente gli interventi e i virgolettati dei ministri e dei commissari Leghisti. Non si capisce quali siano i segreti e, su quali basi siano fondate le accuse di alto tradimento rivolte al Presidente del Consiglio, già responsabile del governo precedente del quale faceva parte la Lega di Salvini. Se da un lato le opposizioni, pretestuosamente insorgono, anche nella compagine di maggioranza, nel Movimento 5 Stelle, l’aria che tira è tutt’altro che rassicurante. I segnali d’incertezza nel perimetro del governo sono plasticamente rappresentati dall’impassibilità manifestata da Di Maio che, in occasione della relazione tenuta 22


da Conte alle Camere, non ha mostrato sorrisi o soddisfazione alle parole del Premier. Appare evidente che, il Movimento Cinque Stelle sia stretto nella morsa di Salvini e del Governo. Per il momento, sembra, che le sorti della trattativa siano nelle mani del Ministro Gualtieri che oggi (4 dicembre ndr) incontrerà i suoi colleghi dell’eurogruppo. Il tentativo è quello di puntare a uno slittamento in sede europea per tentare un compattamento della maggioranza in vista del voto al Senato, calendarizzato per la prossima settimana. Il Presidente del Consiglio Conte e il Ministro dell’Economia Gualtieri continuano a tessere la tela degli equilibri interni al Governo fornendo rassicurazioni ai “gialli di governo” che la partita non è chiusa, un trattato europeo è fino all’ultimo modificabile ed emendabile, non si firmano cambiali in bianco. Il Premier ribadisce la volontà dell’Italia di trattare nella logica del pacchetto, confermando che se non si dovesse trovare la quadra sul MES, non verrà apposta nessuna firma sull’ipotesi di Unione Bancaria. Agitare le acque, secondo il presidente del consiglio Conte equivale a far salire lo spread. Lo spartiacque di questa convulsa vicenda, rimane la data dell’11 dicembre, in cui il Senato della Repubblica, dopo le comunicazioni del Premier, metterà ai voti le risoluzioni parlamentari. Indirettamente la Francia potrebbe fornire una sponda efficace per lo slittamento, considerato che il Parlamento transalpino ha bisogno di tempo per recepire nella propria Costituzione la modifica del trattato. Ma non solo il Mes tiene in apprensione la maggioranza. I dossier aperti sul tavolo governativo sono molteplici e tutti scivolosi: l’Ilva, Alitalia, la prescrizione, la Banca Popolare di Bari, un ginepraio nel quale il premier Conte dovrà provare ad avventurarsi. Occorre un cronoprogramma preciso che detti i tempi di scansione delle questioni. Forse il tutto sarà possibile solo dopo la definizione del decreto fiscale. E’ indubitabile che le questioni domestiche incrocino anche quelle riguardanti 23


l’Europa di cui nessuno può fare a meno, neanche la Germania e i Paesi nordici nella sua orbita. Il calo della produzione industriale che vede la locomotiva teutonica rallentare e la debolezza del suo sistema bancario inducono alla riflessione la cancelleria berlinese. Da parte sua l’Italia con il suo enorme debito pubblico e la dilagante evasione fiscale, dovrà responsabilmente e con il concorso di tutte forze della compagine governativa, ridurre i suoi fardelli che altrimenti graverebbero pesantemente sulle sorti degli Italiani e le opinioni dei Tedeschi. Aggiornamento del 5 dicembre Slitta al 2020 la ratifica del Mes. Questo l’esito della riunione dell’eurogruppo dei ministri finanziari tenutasi ieri a Bruxelles. Il ministro Gualtieri ha ottenuto alcune modifiche sul meccanismo “salva Stati”. Se ne parlerà all’eurosummit dei Capi di governo che si terrà il prossimo 13 dicembre. L’apertura da parte dell’Europa è dovuta principalmente al rischio di caduta del governo Conte proprio su questo tema. Se oggi in Italia si dovesse tornare alle urne, con molta probabilità arriverebbe al governo una maggioranza sovranista che potrebbe rimettere in discussione l’intero Trattato. E ciò, naturalmente, non sarebbe ben accetto alla nuova Commissione europea appena insediatasi.

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Esteri

Siria, Palestina: la vergogna del mondo. Intervista alla Premio Nobel per la Pace Mairead Maguire Umberto DE GIOVANNANGELI

“Piango e prego per il martoriato popolo siriano. I riflettori internazionali si sono di nuovo spenti su una tragedia che ha distrutto un paese, provocato centinaia di migliaia di vittime, milioni di profughi. In me c’è dolore e rabbia, sì, tanta rabbia. E condivisione di una sofferenza indicibile. Da oltre 8 anni la Siria, il suo martoriato, meraviglioso popolo sono vittime di una guerra per procura. E gli ultimi in ordine di tempo a subire sofferenza e ingiustizia per la guerra senza fine sono i curdi 25


siriani. Nelle scorse settimane, quando la Turchia ha invaso il Nord della Siria, si è scritto e detto di tradimento da parte dell’Occidente. Un tradimento non solo verso coloro che hanno combattuto contro i criminali dell’Isis, ma un tradimento verso l’umanità. E il termine più corretto per sintetizzare quanto sta avvenendo in Siria è, oggi più che mai, vergogna”. A sostenerlo, in questa intervista concessa a l’Unità laburista è Mairead Corrigan Maguire, Premio Nobel per la Pace nel 1976. Nata a Belfast da famiglia cattolica, Maguire, decise di dedicarsi alla pace nel suo Paese dopo che i tre figli della sorella furono investiti e uccisi da un’auto di cui aveva perso il controllo un membro dell’esercito repubblicano irlandese, colpito poco prima a morte da un soldato inglese. A seguito di quella tragedia la sorella si tolse la vita e Mairead fondò con Betty William, con cui ha condiviso il Nobel, il movimento “Donne per la pace”. Maguire è anche presidente della Nobel Women’s Initiative, la fondazione che unisce le donne insignite di questo prestigioso riconoscimento. “Non bastano le parole per fermare le armi. Occorre creare un movimento internazionale che chieda alle Nazioni Unite di agire, subito, per porre fine a questi crimini contro l’umanità”. D)Sulla Siria è tornata a incombere una cappa di silenzio. Dell’invasone turca del Nord della Siria, della fine della popolazione curda non si hanno più notizie: sono scomparsi dalle prime pagine dei giornali. Non sembrano fare più notizia. Eppure la sofferenza dei civili continua.... R)”Dimenticare la Siria non risponde ad una logica meramente mediatica, per la quale alla fine una tragedia, un conflitto finiscono per stancare, non “fanno più notizia”. Ma sarebbe riduttivo famarsi a questa pur amara constatazione. Il fatto è che dietro questo colpevole silenzio c’è la responsabilità di una comunità internazionale che, in molti dei suoi attori globali e regio26


nali, ha da anni fatto della Siria il campo di battaglia di guerra per procura condotta da quei Paesi che hanno come unico interesse quello di spartirsi il territorio siriano, e a loro non importa se ciò significa morte, distruzione, milioni di persone costrette a fuggire dalle loro case, da città e villaggi ridotti a un cumulo di macerie. Dov’è la giustizia, dov’è l’umanità in Siria? Ciò che accade in Siria, e non da oggi, è qualcosa di terribile, di devastante, che oltre al dolore dovrebbe suscitare in ogni coscienza umana un moto di indignazione e di rabbia. Un popolo intero è vittima di una guerra per procura portata avanti da potenze che hanno finanziato e alimentato il terrorismo. Nei miei viaggi in quel Paese martoriato ho avuto modo di parlare con tanti siriani di ogni etnia e fede religiosa: sciiti, alawiti, sunniti, cristiani…Ho trovato in loro non solo una sofferenza indicibile ma anche una straordinaria dignità e un desiderio comune: vivere in pace. La Siria, mi hanno detto in molti, non sta vivendo una guerra civile ma una invasione straniera. In Occidente si pensa che la Siria sia popolata solo da combattenti e sfollati, ma non è così, perché nonostante tutto ciò che hanno dovuto subire, sono ancora in tanti, la grande maggioranza, a credere e lavorare per la riconciliazione, per superare la paura e per mantenere unito il loro paese che altri vorrebbero dividere, realizzando protettorati confessionali. Una delle colpe della comunità internazionale è di non aver voluto ascoltare queste voci, sostenerle, riconoscerle. Ma questa Siria del dialogo esiste e rappresenta l’unica speranza per un futuro di pace. E’ la Siria di quanti rifiutano tutte le violenze e continuano a lavorare per la risoluzione dei conflitti attraverso la negoziazione e l'attuazione di un processo democratico. La pace va sostenuta e non boicottata. Mi lasci aggiungere che non c’è pace senza giustizia e senza il rispetto dei diritti delle minoranze, di ogni minoranza”. D)Nel giustificare il ritiro del contingente americano dalla Siria, il presidente degli 27


Stati Uniti, Donald Trump, ha affermato che la guerra all’Isis è terminata, che lo Stato islamico è stato sconfitto al 100% come dimostra anche l’eliminazione del capo di Daesh, Abu Bakr al-Baghdadi. R)”L’Isis non è stata sconfitto, semmai ha ampliato il suo raggio d’azione, in Asia, in Africa, nella stessa Europa, come dimostra il sanguinoso attacco a Londra. Ma oggi appare chiaro che il vero obiettivo di tutti quei Paesi che hanno condotto una guerra per procura in Siria, non era la distruzione del cosiddetto Stato islamico ma la spartizione della Siria in tanti protettorati eterodiretti. Ed è quello che sta avvenendo oggi nel Nord della Siria. Ma al signor Trump questo non interessa, è riuscito perfino a lodare il comportamento di un autocrate ossessionato da manie di potenza come Erdogan!”. D)Oggi a lottare per i propri diritti, per la loro stessa esistenza, sono i curdi siriani nel mirino delle armate turche. R)”E’ l’ennesimo, tragico capitolo di una storia di violenza che sembra non avere mai fine. In ciò che accade non c’è nulla di naturale, non siamo di fronte a un cataclisma, a un terremoto: siamo di fronte all’esercizio della forza da parte di uno dei Paesi, non il solo, che sta portando avanti da tempo il proprio disegno di potenza in Siria”. D)In molti hanno parlato e scritto di tradimento da parte dell’Occidente, a partire dagli Usa, che ha pugnalato alle spalle coloro che avevano combattuto l’Isis. R)”Lei parla di Occidente, io aggiungerei anche quei Paesi arabi che l’Isis l’hanno sostenuta, addirittura creata, con l’obiettivo di distruggere lo Stato siriano. Se un giorno dovesse celebrarsi una Norimberga siriana, sul banco degli accusati dovrebbero sedersi in tanti. In questo caso, non si vuole colpire solo una minoranza che 28


rivendica, giustamente, i propri diritti. Ciò che s’intende colpire è anche il modello di democrazia che i curdi siriani hanno cercato di realizzare, fondato sulla convivenza e la condivisione e non sull’esclusione in base all’appartenenza etnica o religiosa. E’ questa idea di democrazia che fa paura ai signori della guerra, quelli che mirano a trasformare la Siria in tanti protettorati confessionali. I curdi sono un popolo, non una confessione religiosa; un popolo disperso, nel quale convivono musulmani e cristiani, e le stesse istituzioni che i curdi siriani hanno realizzato nel Rojava sono espressione di una idea di democrazia che non fa discriminazioni religiose o di genere. Non stanno rivendicando uno Stato a parte, smembrato dalla Siria, ma il diritto a preservare la loro esperienza che potrebbe essere utile ad un confederalismo democratico su cui costruire la nuova Siria”. D)Nei giorni dell’invasione turca del Rojava si sono succeduti un numero infinito di appelli all’Onu.. R)”Quanta ipocrisia era contenuta in alcuni di quelli appellanti. Le Nazioni Unite sono gli Stati che la compongono, e tra essi, ci sono quelli che hanno fomentato la guerra in Siria, direttamente o per procura. Non mancano gli strumenti per porre fine a questa tragedia, ma la volontà politica di usarli. Sia chiaro: quando parlo di strumenti non mi riferisco alle armi. Non si tratta di muovere guerra alla Turchia. Una guerra non cancella un’altra guerra, ne moltiplica le vittime e la sofferenza. Ma le Nazioni Unite avrebbero potuto p inviare una forza d’interposizione a garanzia delle popolazioni civili ed esercitare pressioni diplomatiche ed economiche sulla Turchia perché ponesse fine all’operazione militare, lavorando per una Conferenza di pace che avrebbe dovuto definire un processo di transizione democratica che avesse come protagonista il popolo siriano. Perché sono i siriani a dover decidere del proprio futuro. Ma nulla di questo è stato non dico fatto ma nemmeno ten29


tato. E questa si chiama complicità”. D)A colpire l’immaginario collettivo è stato il fatto che in prima linea nella difesa del popolo curdo siriano siano le donne... R)”Laddove c’è un movimento di resistenza che lotta per la libertà, per la democrazia, per una società più giusta, di quel movimento le donne sono le principali protagoniste. Perché sanno unire idealità e concretezza, perché da madri generano vita e ne sanno, più degli uomini, il valore”. D)Dalla Siria ad un’altra realtà mediorientale che suscita interesse a corrente alternata. Una realtà che lei conosce molto bene: la Striscia di Gaza. Una situazione disperata che Israele imputa ad Hamas che controlla l’enclave palestinese e che non ha impedito alla Jihad islamica palestinese di utilizzare quel territorio per lanciare centinaia di razzi contro le città dello Stato ebraico. R)”Sono da sempre fautrice della disobbedienza civile e della resistenza non violenta. Ho vissuto gli anni terribili della guerra in Ulster e la mia famiglia ha pagato un prezzo pesantissimo in quel conflitto. Ho imparato allora la potenza del dialogo, dell’unirsi per chiedere pace, perché l’altro da sé non venisse visto come un nemico ma come qualcuno con cui incontrarsi a metà strada. Ma Israele sta abusando della sua forza, e nel farlo commette un grave errore…”. D)Quale? R)”Quello di illudersi che la pace e la sicurezza possano essere garantite e preservata dalla forza militare. Non è così. La pace, per essere davvero tale, deve coniugarsi con la giustizia. Senza giustizia non c’è pace. E non c’è pace quando un popolo è sotto occupazione, quando viene derubato della sua terra o segregato in villaggi-prigione. Quello palestinese è un popolo giovane, e intere generazioni sono 30


nate e cresciuto sotto occupazione, passando da un conflitto all’altro, senza speranza, con la sola rabbia come compagna. E dove c’è rabbia, dove la quotidianità è sofferenza, è impossibile che cresca la speranza”. D)Lei ha visitato più volte Gaza e altre volte è stata respinta da Israele. Come ci si sente nei panni di “nemica d’Israele”? R)”Quei “panni”, per usare la sua metafora, io non li ho mai indossati. Ho imparato sulla mia pelle cosa significhi discriminazione e odio. Io mi sento amica d’Israele e un amico vero è quello che prova a convincerti che stai sbagliando, che proseguendo su una certa strada finirai male. E’ questo che provo a dire agli israeliani: riconoscere il diritto dei palestinesi a uno Stato indipendente, al fianco del vostro Stato, porre fine all’embargo a Gaza e alle inumane punizioni collettive, è fare onore a voi stessi, alla vostra storia. E’ investire su un futuro di pace che non potrà mai essere realizzato con le armi. Lo ripeto: non si può spacciare l’oppressione come difesa. Questo è immorale. La colonizzazione non favorisce la pace, ma alimenta l’ingiustizia. Da tempo nei Territori vige un sistema di apartheid e denunciarlo non significa essere “nemica d’Israele” e tanto meno anti semita. Significa guardare in faccia la realtà”. D)La questione palestinese sembra essere uscita dall’agenda dei leader mondiali. R)”E’ terribile il solo pensare che per “far notizia” si debba usare l’arma del terrore. E’ una cosa terribile, contro cui continuerò a battermi in ogni dove. La violenza è un vicolo cieco, un cammino insanguinato. Ma cinque milioni di palestinesi non sono diventati tutto ad un tratto dei “fantasmi”. Non si sono volatilizzati. Continuano a vivere sotto occupazione e sotto un’apparente “tranquillità” cresce la rabbia, la frustrazione, sentimenti sui quali possono far presa gruppi estremisti. Per questo 31


occorre rilanciare il dialogo dal basso, favorire le azioni non violente, la disobbedienza civile, e in questa pratica unire palestinesi e israeliani, musulmani, cristiani, ebrei, come riuscimmo a fare noi in Irlanda del Nord, marciando insieme cattolici e protestanti. E poi c’è la diplomazia, la politica, che è fatta anche di atti simbolici che possono avere in prospettiva un grande peso”. D)Un atto del genere quale potrebbe essere a suo avviso? R)”Il riconoscimento dello Stato di Palestina. Un atto politicamente forte, che faccia rivivere l’idea di una pace fondata sul principio “due popoli, due Stati”. Sarebbe un bel segnale se fosse l’Europa, come Unione e non solo come singoli Paesi membri, a rilanciare questa prospettiva. In nome di una pace nella giustizia. La pace vera. Un mondo senza guerra e violenza è possibile”.

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Politica

Voglia di Stato Aldo AVALLONE

Dopo un mese di silenzi, l’AncelorMittal si è rifatta viva sulla vicenda dell’Ilva di Taranto. Per rimanere in Italia la richiesta degli indiani è scioccante: quattromilasettecento esuberi, di cui tremila già nel 2020 e i restanti millesettecento nei tre anni successivi. Di fatto un dimezzamento della forza lavoro dell’acciaieria pugliese. Dopodiché si spegnerebbero gli altiforni che verrebbero sostituiti da nuovi “forni elettrici ad arco” per garantire una produzione iniziale di 4,5 milioni di tonnellate di acciaio che potrebbe salire fino a 6 milioni. Questo è quanto prevede il nuovo piano industriale illustrato il 4 dicembre scorso al MISE dall’amministratore delegato di ArcelorMittal Italia, Lucia Morselli. Appare utile ricordare che l’accordo firmato nel 2018 prevedeva una produzione di 8 milioni di tonnellate annue. Il ministro Stefano Patuanelli non ha nascosto il proprio disappunto. È ovvio che una proposta di questo tipo è irricevibile sia da parte del governo che dai sindacati. E se l’esecutivo lascia aperto uno spiraglio per proseguire la trattativa, le organizzazioni 33


dei lavoratori bocciano in toto il piano che, secondo il segretario della Cgil, Maurizio Landini, sarebbe propedeutico alla chiusura totale dello stabilimento. Con simili premesse appare veramente difficile che possa essere trovato un accordo. Si ripropone, quindi, un tema estremamente rilevante nell’approccio alle diverse crisi che stanno attanagliando il tessuto industriale e produttivo del Paese. Quello delle partecipazioni statali. Tema complesso e spinoso che apre dibattiti accesi sulla possibilità di un intervento dello Stato nella gestione, totale o in compartecipazione, di imprese in difficoltà. Non solo l’Ilva ma anche Alitalia, in questo momento, potrebbero essere interessate a un intervento di questo tipo. Nel dibattito pubblico torna prepotentemente voglia di IRI (Istituto per la ricostruzione industriale) che, istituito nel 1933 dal Fascismo, nel dopoguerra è stato uno dei pilastri della ripresa economica nel Paese. I tempi naturalmente sono cambiati, la globalizzazione ha mutato profondamente i rapporti economici e il turbo capitalismo imperante non può accettare interventi dello Stato che mitighino, in qualche maniera, la ricerca unica del massimo profitto. Io penso che non esista solo il denaro, che le persone e il loro lavoro rappresentino valori che devono essere salvaguardati. Certo, lo Stato può e deve incentivare l’arrivo di capitali privati favorendo condizioni di sviluppo territoriale attraverso la fiscalità agevolata, può e deve migliorare la rete infrastrutturale che, soprattutto nel Mezzogiorno, è ancora carente. Può e deve approvare misure che attraggano investimenti sia interni che esteri. Condizioni necessarie allo sviluppo ma, se non fossero sufficienti, lo Stato può e deve intervenire in prima persona. Nel caso dell’Ilva, ritengo che il governo debba presentare un proprio piano industriale capace di coniugare produttività e occupazione con il risanamento ambientale e la tutela della salute dei lavoratori e dei cittadini. La presenza del pubblico sarà la garanzia principale del mantenimento degli impegni presi. Non dovrà mai più avvenire che una multinazionale disattenda gli accor34


di sottoscritti, com’è avvenuto a Taranto.

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Storia e Politica

Il fascismo e i giovani Giovan Giuseppe MENNELLA

L’interesse di Mussolini e del Fascismo per il mondo giovanile e per il suo sfruttamento a fini di potere, venne da lontano, ebbe le sue radici nell’osservazione dell’importanza che rivestirono i giovani in due avvenimenti determinanti dell’inizio del XX Secolo: l’avvento del Futurismo e l’entrata in guerra dell’Italia nel 1915. Il Futurismo mise in luce l’importanza di uno svecchiamento della cultura. Intese ispirarsi alla forza di avvenimenti nuovi che si susseguirono in quell’inizio del se36


colo e che ebbero un impatto molto forte proprio sui giovani, come le guerre moderne, le trasformazioni sociali dei popoli, i grandi cambiamenti politici, le nuove scoperte tecnologiche e di comunicazione, come il telegrafo senza fili, gli aeroplani, le prime cineprese. Insomma, tutto un anelito di novità che non poteva non piacere ai giovani, il desiderio di bruciare il passato e concentrarsi su un dinamico presente, mettendo al bando vecchie ideologie in nome della tecnica e del progresso. Anche l’entrata in guerra dell’Italia nel 1915 era stata favorita dai giovani che furono definiti “la generazione del ‘15”, quelli nati nell’ultimo decennio del XIX Secolo. Furono una minoranza, certo; i giovani borghesi che avevano “invocato” la guerra, gli intellettuali di professione che avevano manifestato in favore dell’intervento e avevano combattuto al fronte, spesso come ufficiali di complemento, mostrando una ferrea capacità di sacrificio. Fu una minoranza giovanile davvero esigua ma capace di indirizzare il paese verso la guerra, atteggiamento sfruttato dai circoli nazionalistici, dagli esponenti delle industrie di armi, dal Presidente del Consiglio Antonio Salandra e dal Re che già per loro interessi volevano arrivare a quello sbocco. Mussolini se ne ricordò nel dopoguerra, soprattutto dopo avere instaurato la dittatura, tendendo sempre a incanalare quelle energie giovanili versi i propri fini. Quei giovani erano figli della borghesia colta con forte impianto umanista, appartenente al mondo delle lettere e delle professioni, sensibili all’appello dell’onore e della patria. La capacità di sacrificarsi per la patria era la misura del loro onore, costituirono una minoranza che amava credere che la grandezza della patria fosse affidata nelle loro mani. L’anelito e l’ispirazione erano rivolti al volontarismo mazziniano e garibaldino dei loro nonni che avevano fatto il Risorgimento, non dei loro padri che se ne erano stati tranquilli, nell’ultimo scorcio del XIX Secolo, 37


nell’Italietta umbertina del “piede di casa”, dove si pensava agli affari e alle professioni e non alla gloria e all’onore. Quei ragazzi, diventati adulti, abbracciarono tutte le tendenze e le idee politiche possibili, diventarono poi un Dino Grandi, ma anche un Ferruccio Parri e un Piero Calamandrei. Un caso interessante di unione di ragazzi giovani sotto insegne ideali e culturali fu quello de “Il giornalino della Domenica” che Luigi Bertelli, alias Vamba, l’autore del “Giornalino di Gianburrasca”, diresse e pubblicò dal 1906 al 1911. Il giornalino era rivolto ai figli della media e alta borghesia, “a un pubblico eletto di sane idee e di gusti fini, cui prema trasmetterli puri e intatti ai propri figli”, di un’età compresa tra i 7 e i 15 anni. Il giornalino della Domenica ebbe collaboratori illustri, gli scrittori Grazia Deledda, Capuana, Renato Fucini, Salvatore Di Giacomo, Luigi Pirandello, Antonio Fogazzaro, i disegnatori Filiberto Scarpelli e Sergio Tofano. Si sviluppò un dialogo a tu per tu tra direttore e giovani lettori, gruppi di ragazzi che avevano gli stessi interessi e si conobbero anche tra loro, formando gruppo. Nel 1908 ci fu un raduno nazionale dei giovani lettori al Parco delle Cascine a Firenze per la festa del grillo. Da allora, i ragazzi del giornalino si riunirono a maggio di tutti gli anni in varie città. Si abituarono a fare una sorta di politica per i giovani, a essere esponenti di uno Stato balocco, di cui rivestivano le varie cariche, convinti che li si dovesse ascoltare anche se non avevano diritto di voto. La loro idea era di riscattare un prezioso patrimonio ideale, proprio dei padri della patria e dello spirito risorgimentale e antiaustriaco, sciupato e vilipeso da una generazione dei padri fallita, protagonista di un gioco politico grigio e meschino che aveva portato, tra l’altro, alla Triplice alleanza con l’Austria e la Germania. Tuttavia, Vamba, saggiamente, non volle mai che assumessero connotazioni partigiane e anzi li invitò a sentirsi liberi e a non mettersi alcun distintivo che li facesse identificare come sostenitori di questa o quella parte politica. 38


Le guerre del Risorgimento, soprattutto le imprese dei volontari, furono considerate da quei giovani una splendida avventura vissuta dai loro omologhi di cinquanta anni prima. Che fosse vista come un’avventura è confermato dal successo che ebbero proprio in quell’inizio di secolo i romanzi di Emilio Salgari. In fondo le avventure di quei personaggi, soprattutto quelle in terre lontane come il ciclo della Malesia di Sandokan, altro non erano che una trasposizione in quel tempo presente delle avventure e dell’audacia giovanilistica e volontaria del Risorgimento, di cui i ragazzi di allora erano affamati. E così, Sandokan poteva essere visto come Garibaldi, Yanez come Nino Bixio, Marianna Guillonk come Anita Garibaldi, i tigrotti di Mompracem come i garibaldini e Mompracem come Caprera. A differenza di Vamba, Mussolini, che aveva osservato e riflettuto su quegli avvenimenti e quelle sollevazioni ideali che avevano avuto a protagonisti i ragazzi e i giovani, una volta salito al potere, comprese che era utile servirsene, quasi fin dalla culla, condizionandoli e indirizzandoli verso ideali ormai consoni alle particolari idee ed esigenze di dominio sue e del Regime, non certo più agli ideali futuristi, risorgimentali e mazziniani dell’anteguerra. Il Fascismo sfruttò anche la presa su molta parte della popolazione giovanile dei simboli dei monumenti ai caduti nei cimiteri di guerra e i parchi della rimembranza delle imprese eroiche che si edificarono dopo la Grande Guerra. I partiti democratici e antifascisti non capirono l’importanza di portare dalla loro parte i giovani, anche se nel secondo dopoguerra molte attività e istituzioni giovanili create dal fascismo sopravvissero, come le colonie estive e i centri per l’infanzia. Con la legge del 10 dicembre 1925 fu istituita l’Opera Nazionale maternità e infanzia, l’ONMI. Per la prima volta l’Italia costituì un ente parastatale specificamente finalizzato all’assistenza sociale alla maternità e all’infanzia. Il modello fu la legi39


slazione del Belgio, dove un ente simile esisteva dal 1919. Anche la Norvegia e la Francia avevano già instaurato enti simili e in Gran Bretagna, Stati Uniti, Germania e Danimarca erano state varate leggi sulla maternità. L’Italia arrivò tra le ultime nazioni in questo campo. Il Fascismo pose l’accento sulla battaglia demografica e tese a debellare i tassi di mortalità infantile, allora assai alti in Italia, per avere una crescita quantitativa della popolazione, con l’obiettivo di portarla da 40 a 60 milioni di abitanti. Durante il discorso dell’Ascensione del 26 maggio 1927, Mussolini introdusse il concetto del “numero come potenza”, che andò di pari passo con l’interesse per l’eugenetica, che in Italia aveva avuto un rappresentante importante come Cesare Lombroso. Tuttavia, l’eugenetica fu intesa in modo distorto e asservita all’esigenza tipicamente fascista di miglioramento della razza. Le finalità dell’Opera furono il controllo e l’educazione dei giovani fin dalla prima infanzia e la subordinazione sociale delle donne. Il secondo punto è facile da capire: le donne dovevano solo pensare a fare figli e a stare in casa ad accudirli. Il controllo e l’educazione dei giovani fu perfezionato dalla successiva istituzione dell’Opera Nazionale Balilla e della Gioventù italiana del Littorio. Si rivolsero all’ONMI per assistenza le gestanti madri nubili e vedove e le gestanti e madri sposate il cui marito non era economicamente capace di sostenere le spese per l’allevamento dei figli. Ricevevano assistenza i bambini fino a cinque anni provenienti da famiglie povere e i bambini esposti all’abbandono, cioè i figli illegittimi, i cosiddetti figli d’ignoti, che erano esposti alla Ruota degli abbandonati, abolita nel 1923 dal primo Governo Mussolini. Nei primi anni difettarono le strutture ad hoc e l’assistenza fu svolta presso gli ospedali. Poi furono costruitd strutture come consultori materni e asili nei Comuni. Mentre nella prima fase i poteri di gestione delle attività e delle sedi dell’Opera fu40


rono decentrati ai Comuni, dal 1933 il potere di gestione fu trasferito a Commissari governativi straordinari e accentrato allo Stato e al Governo. Con questa stretta di controllo, l’attività passò da una eugenetica qualitativa, con controllo delle nascite, sterilizzazioni, aborti selettivi, a una eugenetica quantitativa che doveva favorire la natalità: quindi, l’aborto fu messo fuori legge, come in molti regimi dittatoriali. Nel dicembre 1925 Mussolini diede all’ex ardito Renato Ricci la guida del Movimento giovanile del Partito Nazionale Fascista, poi con la legge numero 2247 del3 aprile 1926 fu istituita l’Opera Nazionale Balilla come Ente autonomo. Il nome Balilla fu adottato in ricordo del giovane ragazzo genovese Giovanni Battista Perasso, detto appunto Balilla, che durante l’occupazione austrica di Genova, in una delle guerre di successione del ‘700, scagliò una pietra contro gli occupanti dando il via a una sommossa di popolo antiaustriaca. I bambini dai sei agli otto anni si chiamavano figli della lupa, dagli otto ai quattordici balilla e dai quattordici ai diciotto avanguardisti. Lo scopo era quello di infondere il sentimento della disciplina e dell’educazione militare, rendendoli consapevoli della loro italianità e del ruolo di fascisti del domani. La Gioventù italiana del littorio fu fondata il 27 ottobre del 1937, dalle ceneri di quelli che erano stati i Fasci giovanili di combattimento in cui erano compresi i giovani dai diciotto ai ventuno anni di età. Lo scopo di quest’altra organizzazione giovanile del fascismo fu di accrescere la preparazione spirituale, sportiva e militare dei ragazzi italiani. In effetti, Mussolini aveva ormai deciso che gli italiani dovessero diventare un popolo guerriero, pronto a conquistare le nazioni vicine in modo da rendere il regime capace di durare nel tempo. Nella GIL confluirono anche l’Opera Nazionale Balilla e tutte le organizzazioni che a essa facevano capo e tutte furono poste alle dirette dipendenze della segreteria nazionale del Partito fascista. 41


L’attività della GIL fu volta alla preparazione preliminare alle attività guerresche, all’insegnamento dell’educazione fisica nelle scuole elementari e medie, all’assistenza alla gioventù attraverso campi, colonie climatiche, borse di studio. Alcune delle strutture e delle organizzazioni burocratiche degli Enti che si sono descritti transitarono nella nuova Italia democratica e repubblicana. L’istituto delle colonie marine e montane per i bambini e i ragazzi delle famiglie meno abbienti durò anche nel dopoguerra. Ogni persona di una certa età non può non ricordare le immagini dei tanti ragazzini delle colonie estive sulle spiagge italiane con i cappellini bianchi. Anche chi scrive, ricorda che nell’amministrazione pubblica in cui lavorava esistevano gli uffici della ex GIL, ente da liquidare e mai liquidato, che era amministrato da un signore molto distinto, ai suoi giorni fascista convinto, anche piuttosto sordo per cui per farsi capire bisognava parlargli molto da vicino e a voce alta.

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Politica

Piazza Fontana, i vecchi e i nuovi fascismi Aldo AVALLONE

Quanti anni avevate, compagni, nel 1969? E dove eravate quel pomeriggio del 12 dicembre quando scoppiò la bomba alla Banca dell’Agricoltura a piazza Fontana a Milano? Io avevo compiuto da poco sedici anni, facevo parte del collettivo del liceo che frequentavo e mi avvicinavo al movimento “Lotta Continua” fondato da poco. Ero a casa e l’edizione speciale del telegiornale mi tenne inchiodato alla sedia fino a sera con la mente turbata e l’angoscia nel cuore. Il sessantotto era stato un anno di formidabili lotte studentesche e il sessantanove aveva visto le lotte operaie per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici infiammare il Paese. Nel luglio di quell’anno gli studenti, gli operai, i proletari torinesi si erano battuti per 43


un’intera giornata a Corso Traiano, riuscendo a tenere fuori dal quartiere la polizia in forze. Nel mondo si respirava un’aria nuova, una grande energia smuoveva le coscienze e noi tutti avevamo la consapevolezza che si stava per raggiungere qualcosa di veramente importante. Alle 16,37 di quel pomeriggio a piazza Fontana, le forze conservatrici compirono la prima di una lunga serie di stragi che avrebbero insanguinato la nazione negli anni successivi, con il palese scopo di spostare a destra le politiche nazionali. A quel tempo gli apparati statali erano ancora pieni di funzionari assunti nel ventennio fascista che avevano raggiunto posizioni di potere in magistratura, in polizia, nei Servizi. Qualcuno, addirittura, chiese la proclamazione dello stato d’emergenza con la soppressione delle garanzie democratiche. Diciassette morti e ottantotto feriti: questo il bilancio della bomba di Milano che cambiò la storia. Noi vecchi ricordiamo perfettamente quello che accadde in seguito: le accuse agli anarchici, l’arresto di Valpreda, Pinelli precipitato dalle finestre della Questura, le infinite indagini e i processi senza condanne. Non esiste una verità giudiziaria perché i due neofascisti di Ordine Nuovo, Franco Freda e Giovanni Ventura, che organizzarono l’attentato, non poterono essere giudicati nuovamente per un reato per il quale erano già stati assolti. Chi depositò materialmente l’ordigno non è mai stato individuato. Ma esiste una verità storica che va ben oltre a quella giudiziaria ed è certa la matrice fascista della bomba e che i Servizi segreti deviati parteciparono attivamente all’opera di depistaggio che partì immediatamente dopo l’attentato. Il titolo del libro “La strage di Stato”, si direbbe oggi un “instant book”, pubblicato poco dopo, riassunse il pensiero di tanti rispetto al coinvolgimento degli apparati statali nella strategia della tensione. Tutto ciò per noi, giovani in quegli anni, è impresso a fuoco nella memoria. Chi ha vissuto e lottato in quel periodo, finché vivrà, non potrà mai dimenticare. Ma cosa sanno i giovani e anche i quarantenni di oggi di quell’epoca? Temo pochissimo o nulla. Ho letto 44


qualche tempo fa che tre ragazzi su quattro, interrogati per un sondaggio, credono che la bomba di piazza Fontana sia stata collocata dalle Brigate Rosse. La memoria è importante. Nella scuola non si studia mai la storia contemporanea e allora dobbiamo essere noi a provare a riannodarne i fili, raccontando loro quello che accadde a Milano, le cause e gli scopi di quella strage. Nell’opinione pubblica si tenta di far passare l’idea che il fascismo sia definitivamente vinto, non rappresenti più un pericolo per le istituzioni democratiche. Non è così. Il fascismo, purtroppo, è ancora vivo e vegeto. Ha semplicemente assunto altre forme, oltre a quella dell’iconografia nostalgica di Mussolini. Nel razzismo, nell’intolleranza, nel non rispetto delle opinioni diverse, nel mistificare gli avvenimenti del passato, nel linguaggio di odio che riempie i social vive un fascismo diverso, più subdolo in quanto meno riconoscibile. Non mette più le bombe ma agisce come ha sempre fatto per contrastare ogni processo riformatore e progressista. Bisogna essere vigili, non abbassare la guardia perché in queste settimane un nuovo e forte movimento pacifico e democratico, quello delle Sardine, sta dilagando nel Paese ed è in momenti storici come questi che le forze reazionarie diventano più pericolose.

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Testata online aperiodica Proprietà: Comitato per l’Unità Laburista, Strada Sesia 39 14100 Asti (AT) Direttore Responsabile: Aldo Avallone - Stampatore: www.issuu.com web: www.issuu.com/lunitalaburista - mail: lunitalaburista@gmail.com - Tel. +39.347.3612172 Palo Alto, CA (USA), 13 dicembre 2019 48


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