l'Unità Laburista - San Giovanni è decollata - Numero 26 del 18 Dicembre 2019

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Numero 26 del 18 dicembre 2019

San Giovanni è decollata


Sommario 

L’Editoriale/Di Movimenti, Sardine e banchi - pag. 3 di Fabio CHIAVOLINI

Israele: la maledizione delle urne - pag. 8 di Umberto DE GIOVANNANGELI

Io l’ho capita così - pag. 13 di Antonella GOLINELLI Imitatori e falsari nella storia dell’arte. Parte seconda - pag. 16 di Giovan Giuseppe MENNELLA Piazza San Giovanni e la partecipazione ritrovata pag. 27 di Aldo AVALLONE Ciò che veramente conta è sempre invisibile - pag. 30 di Antonella BUCCINI

Domenico Barbaja, un milanese che fece fortuna a Napoli - pag. 33 di Giovan Giuseppe MENNELLA

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l’Editoriale

Di Movimenti, Sardine e banchi Fabio CHIAVOLINI

Dovete sapere che ho un’anima politicamente divisa a metà. Il cervello laburista mi spinge a teorizzare un partito “pesante”, anche se non in senso vetero-leninista – bensì basato sulle “constituencies”, come da modello (appunto) laburista. Il cuore... beh, il cuore libertario è movimentista: quando percepisce un movimento di Sinistra spontaneo, non organizzato, un po’ incasinato ed anche “confuso” (nel senso buono), accelera i battiti. Perché solo dai “brodi primordiali” – dove tutto è possibile e niente è scolpito nella pietra – possono nascere le idee nuove. Per questo non riesco a condividere le critiche alle 6000 Sardine ed alla loro “naïveté”3


Ma meno male che non hanno le idee troppo chiare! – e neppure in programma di diventare un partito, almeno per ora (anzi, è proprio quel “almeno per ora” che, al limite, mi preoccupa un po’.). Meno male che Santori afferma candidamente che non gliene frega niente di “comandare” ma l’orizzonte resta la piazza e la mobilitazione permanente antifascista. Non voglio fare nessun parallelo automatico con il passato ma sono uno che, a 54 anni e passa, di movimenti qualcosa sa. Dopo le fondamentali lotte operaie del periodo ‘66-‘72, che portarono allo Statuto dei Lavoratori ed al riconoscimento dei diritti sociali e politici del Lavoro (mentre poco o nulla riconosco al movimento studentesco del ‘68, secondo me perso in ogni utopia ipotizzabile in questo quadrante della galassia, fondamentalmente funzionale all’ego ipertrofico di alcuni suoi leader - ancor oggi in pieno vigore e corso - e palestra d’allenamento dei peggiori ispiratori degli anni di piombo, a Sinistra come a destra) ci fu un breve periodo “di stanca”.

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Nel ‘77 esplose un Movimento che durò 14 anni: prima il ‘77 propriamente detto, poi il Movimento per la Pace, poi la Pantera. Tre modi diversi di definire lo stesso Movimento: ché, alla fine, quando andavi in piazza trovavi quasi sempre le stesse facce più “i nuovi”. Questo longevo Movimento non fu mai omogeneo, né egemonizzato da nessuno: anzi, al suo interno ci si trovava di tutto, dagli indiani metropolitani e gli hare krishna ai partitini extraparlamentari, dai piccoli partiti parlamentari di estrema Sinistra ai movimenti giovanili dei partiti istituzionali di Sinistra, dai Sindacati sino – addirittura – ai giovani repubblicani ed agli scout cattolici. Certo: dal ‘77 all’’84 le bandiere c’erano, di ogni sigla anche microscopica – ma erano talmente varie e tante che era come se non ci fossero; dall’’85 all’’89 qualche bandierina resisteva ma era sovrastata dal mare di bandiere della pace; dall’’89 al ‘91 il simbolo fu quasi unicamente la zampa della Pantera. Quel Movimento ebbe tre ruoli fondamentali: 1. portare in piazza su temi condivisi i giovani (e meno giovani) della Sinistra, facendo in modo di mantenere un’unità fisica - la piazza - ad una parte che tendeva storicamente (e drammaticamente) a frazionarsi: insomma, si poteva anche essere enormemente distanti in termini di analisi e sintesi politica ma poi, su 5/6 temi comuni, il Movimento riusciva a portare in piazza tutti e mantenere quel compagnonnàge di massa che faceva comprendere che, alla fine, eravamo tutti Compagne e Compagni; 2. ancorare a Sinistra il PCI che, dopo le vittorie elettorali del ‘72 e ‘76 e nonostante Berlinguer, date le “giunte rosse” delle città e delle Regioni, mostrava già allora una preoccupante tendenza al consociativismo con quei socialisti (già craxiani) e quei socialdemocratici che erano avversari nel governo nazionale ma alleati negli enti locali: le oceaniche manifestazioni del Movimento servivano a ricordare al 5


“partitaccio” che esisteva un popolo di Sinistra cui quelle pratiche garbavano molto poco; 3. illustrare ai fascisti, con la manifesta fisicità della piazza, che era meglio (molto meglio) che continuassero ad arredare in tranquillità le proprie fogne piuttosto che anche solo pensare di mettere fuori non dico la testa – ma neanche il naso.

Bene: senza voler fare la morale alle 6000 Sardine, senza nessun accenno nostalgico – perché non c’è nulla di più triste d’un ex giovane che vuole indicare ai giovani veri la strada della propria ribellione – e mutatis mutandis, penso che il Movimento attuale serva più o meno agli stessi scopi, naturalmente con le differenze dovute ai tempi diversi e mutati. Certo, dal Movimento usciranno - oggi come allora - dei politici professionisti: è palese a tutti, per esempio, come Mattia sia un predestinato (e, detto tra di noi, parrebbe meritarselo). 6


Non ho lezioni da impartire ai ragazzi delle 6000 Sardine, né particolari e non richiesti consigli da dargli. Gli auguro solo di avere davanti – nei modi, con i nomi e le simbologie che vorranno adottare – tre lustri pieni di attivismo e di lotta da “anticorpi antifascisti” come abbiamo avuto noi. Perché, poi, la vita va come deve andare: ma sapere di aver prestato un lungo servizio al Paese come presìdi della Democrazia e dei diritti del popolo lavoratore (perché di questo si tratta) – e non per “potere” ma solo perché è giusto, questa consapevolezza non potranno togliervela. Mai. Quindi, in bocca al lupo, ragazze e ragazzi: noi vi saremo vicini e verremo, ogni volta che sarà possibile, dove ci chiamerete in piazza. Dateci dentro, non deludeteci e non mollate finché non avrete veramente più nemmeno una stilla d’energia da spendere. E non temete chi vi critica: è tutta gente che ha più o meno la nostra età e con noi in piazza non c’era – o, se c’era, si teneva defilata. Nel pezzo, dopo la foto della vostra piazza di Bologna, ve ne ho appiccicate qui e la alcune “gemelle” delle nostre (nell’ordine: ‘77, ‘85, ‘91) : perdonerete il sentimentalismo da vegliardo. State bene.

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Esteri

Israele: la maledizione delle urne Umberto DE GIOVANNANGELI

Un record mondiale di cui non menar vanto: tre elezioni anticipate in nemmeno un anno. Israele, cronaca di una crisi politica che sta assumendo sempre più i caratteri di una crisi di sistema che va ormai ben oltre la vecchia divisione tra destra e sinistra. Dopo settimane di trattative da “suk”, sia il premier in Carica, Benjamin “Bibi” Netanyahu sia il suo rivale più accreditato, l’ex capo di stato maggiore di Tsahal e leader del partito centrista Kahol Lavan (Blu-Bianco) hanno gettato la spugna: nessuno dei due è riuscito a mettere assieme i 61 voti necessari per avere la maggioranza alla Knessset (il parlamento israeliano, 120 deputati) per dar vita a un nuovo esecutivo. E allora si torna al voto: data prevista, 2 marzo 2020. Se i sondaggi danno conto di una incertezza sull’esito del voto (Blu-Bianco viene dato in 8


leggero vantaggio sul Likud), una cosa è assodata: sarà una campagna intrisa di veleni, di odio, nella quale non esisterà l’avversario ma il “Nemico” da additare come “traditore”, “golpista” (accusa scagliata da Netanyahu contro il procuratore generale d’Israele, Avichai Mendelblit), reo di averlo incriminato per corruzione, frode e abuso di potere in tre casi giudiziari. Una cosa è certa: Israele si prepara a una campagna elettorale ancora più avvelenata, se è possibile, di quelle che l’hanno preceduta nei mesi scorsi. “Tenete i vostri bambini lontani dalla tv, ci saranno nuove elezioni e saranno un festival di odio, violenza e disgusto”, avverte Yair Lapid, numero due di Kahol Lavan (Blu-Bianco) che ha condotto assieme al leader Benny Gantz le trattative per la formazione dell’esecutivo. Il fallimento delle trattative tra Likud e Blu-Bianco, ha reso inevitabile lo scioglimento del Parlamento e il ritorno alle urne: confermata la data del 2 marzo su cui c’era già l’intesa da giorni. Saranno elezioni decisive per l’attuale premier Netanyahu, incriminato per corruzione, frode e abuso di potere in tre casi giudiziari. Ma sarà un voto decisivo anche per Benny Gantz, che dopo due elezioni sul filo di lana spera di dare la spallata finale a Netanyahu con la promessa di cambiare, se vincerà, l’intera politica israeliana degli ultimi anni dominata dal più longevo primo ministro in carica, Ben Gurion compreso. Ora “Bibi” deve passare al vaglio delle primarie del suo partito, in programma il prossimo 26 dicembre. A contendergli la premiership è Gideon Saar, l’avversario di sempre. Se sarò eletto a capo del Likud lo porterò alla vittoria – ha dichiarato Saar martedì, citando i sondaggi che gli attribuiscono maggiori probabilità di costruire una coalizione stabile – È molto chiaro, d’altra parte, che se andiamo avanti come adesso non otterremo una posizione migliore di quella che abbiamo ottenuto nelle ultime due elezioni”. Siamo solo alle prime schermaglie di una campagna dell’uno contro l’altro armati. Ecco, ad esempio, l’intrepido Lapid paragonare la retorica di Netanyahu a quella di un seguace del medico-colono di estre9


ma destra Baruch Goldstein che il 25 febbraio 1994 aprì il fuoco contro un gruppo di musulmani in preghiera nella Tomba dei Patriarchi a Hebron, uccidendone 29 e ferendone altri 125. “Le parole che sono uscite dalla bocca di Netanyahu negli ultimi giorni sono istigazione alla violenza”, ha scandito Lapid davanti ai giornalisti israeliani. “Sono parole pronunciate da un seguace di Baruch Goldstein, non da un primo ministro. Finirà male. Anche lui sa che finirà male”. Ed ecco Yuval Steinitz, uno dei ministri più vicini a Netanyahu, ribattere che “Gantz ha intenzione di consegnare il futuro d’Israele agli arabi, portandoli al governo”. Stavolta, concordano gli analisti politici a Tel Aviv, non basterà per tenere unito il Paese, agitare lo spettro del nemico esterno (l’Iran, Hezbollah, Hamas). Quel sentire comune, quel vivere in trincea, non metaforica, che ha rappresentato per decenni il solido collante nazionale, è saltato. “Con ipocrisia, cinismo e veleno, è iniziata la terza stagione elettorale di Israele in un anno”, titolava Haaretz a commento dell’ennesima trattativa fallita. “Al peggio non c’è mai fine verrebbe da dire assistendo alla miserabile rappresentazione che il ceto, perché tale si è ridotto ad essere, politico sta offrendo al paese – dice Zeev Sternhell, il più autorevole storico israeliano – Non c’è uno straccio di visione, un benché minimo confronto di idee, di programmi, tutto si riduce ad inappagate ambizioni personali, ad una insaziabile voracità di potere. Ci sarebbe bisogno di una rivolta morale, di uno scatto d’orgoglio nazionale, ma forse è solo un’illusione. La politica non deve sperare che a risolvere la crisi di sistema in atto sia la magistratura, aggiunge Sternhell. Quanto alla sinistra, “se vuole ancora ragione d’esistere – rimarca lo storico israeliano – deve smettere d’inseguire la destra sul suo terreno, ma farsi portatrice di una idea di cambiamento che sappia unire, mobilitare, creare entusiasmo soprattutto tra i giovani”. Comunque vada a finire, una cosa è certa: gli arabi israeliani hanno conquistato uno spazio centrale nella vita politica d’Israele. “Non siamo più una riserva indiana, chiunque intenda 10


governare il paese deve fare i conti con noi. Siamo diventati l’ossessione di Netanyahu e della destra più integralista. Per noi è una medaglia”, ribadisce Ayman Odeh, presidente della Joint List, la Lista Araba unita che nelle elezioni del 17 settembre ha ottenuto tredici seggi, diventando la terza forza parlamentare alla Knesset. Odio, colpi bassi. Accuse velenose come quelle scagliate non solo da Netanyahu, ma anche dal leader di Yisrael Beiteinu, (destra nazionalista) Avigdor Lieberman, che ha definito l’alleanza dei partiti arabi israeliani una “quinta colonna”, aggiungendo che questa definizione non va messa tra virgolette, ma intesa letteralmente. “Quinta colonna di chi? – ribatte Odeh – Dei palestinesi, che la destra oltranzista vorrebbe spazzare via dalla West Bank, come se milioni di persone potessero essere cancellate con un tratto di penna o deportate in massa verso dove peraltro… Una pace giusta e duratura con i palestinesi, fondata sulla soluzione a due Stati, non è una concessione che Israele fa sulla base di un astratto principio di giustizia e legalità internazionale, tanto meno un cedimento ai “terroristi”. Riconoscere il diritto del popolo palestinese a vivere in uno Stato indipendente a fianco dello Stato d’Israele, è un investimento sul futuro che Israele fa per se stesso. Non esistono scorciatoie militari per dare soluzione al conflitto israelo-palestinese, l’unica via praticabile è quella del dialogo, del negoziato, del compromesso. Se questo per qualcuno vuol dire essere una “quinta colonna”, allora sì, lo siamo. Siamo la “quinta colonna” di una pace tra pari. Noi vogliamo vivere in un luogo pacifico basato sulla fine dell’occupazione, sulla creazione di uno stato palestinese accanto allo Stato di Israele, sulla vera uguaglianza, a livello civile e nazionale, sulla giustizia sociale e sicuramente sulla democrazia per tutti. Un’aspirazione che non potrà mai essere realizzata se al governo ci saranno ancora Netanyahu e le destre razziste. C’è bisogno di una discontinuità netta col passato. L’uscita di scena di Netanyahu è importante ma non basta per imprimere una svolta radicale nel governo 11


d’Israele. Noi arabi israeliani non vogliamo essere tollerati, ma considerati cittadini d’Israele a tutti gli effetti, né più né meno degli ebrei israeliani. È questa la sfida che lanciamo. Ed è una sfida che investe l’essenza stessa della democrazia e dell’idea di nazione. A votarci, il 17 settembre, non sono stati solo gli arabi israeliani, ma tanti ebrei israeliani che condividono la nostra idea di democrazia, che si battono perché lo Stato d’Israele sia, a tutti gli effetti e su ogni piano, lo Stato degli Israeliani, ebrei e arabi. È la rivendicazione di un diritto di cittadinanza che supere le appartenenze comunitarie. Un governo che lavorasse per questo, sarebbe davvero un governo del cambiamento. Ed è su questa linea che andremo, di nuovo uniti, alle elezioni di marzo”. Con ipocrisia, cinismo e veleno, è iniziata la terza stagione elettorale di Israele in un anno, titolava Haaretz a commento dell’ennesima trattativa fallita. È la notte della democrazia. I tempi dei “Grandi d’Israele” sono finiti. Oggi la scena è dominata da mezze figure. E’ la notte della democrazia. Una notte che si preannuncia molto lunga e oscura.

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Politica

Io l'ho capita cosĂŹ Antonella GOLINELLI

Succede che un ufficio antiriciclaggio si accorge di anomalie e fa una segnalazione. Succede che la segnalazione ha un seguito e iniziano le indagini. Succede che le indagini arrivano a una fondazione. Succede che la vicenda diventa pubblica. Succede che parte una polemica non da poco e una controffensiva imponente. Considerazione: la linea difensiva parte dal principio di finanziamento ai partiti. Peccato che pare si parli di finanziamenti mai resi pubblici, destinati a una fondazione di corrente che fa capo all'ex segretario d’un partito ed ex presidente del con13


siglio. Il dettaglio sta nel fatto che nel frattempo, non appena costituitosi il governo post Papeete, parte di quella corrente ha dato vita a un’altro partito, i vivaisti per intenderci, con a capo sempre l'ex segretario del partito di prima ed ex presidente del Consiglio. Da lì la pretesa, immaginifica, di paragonare una corrente a un partito, basandosi sulla confusione di momenti e identità dei ruoli. Succede che le indagini vanno avanti. Succede che salterebbe fuori che il segretario di questo e quel partito avrebbe ottenuto un prestito di un bel po' di euro per comprare una villa. Succede che il prestatore avrebbe avuto una nomina importante. Non scherziamo! Le nomine di quel tipo e pure le altre sono “in quota”. L'importante non è il ritorno economico. L'importante è il potere. Succede che ricominciano le polemiche, non ancora sopite, sul fatto. Succede che scendono in campo nuovamente i troll. Succede che il segretario vivaista va ospite di una nota trasmissione televisiva di approfondimento. Succede che l'intervista non gli piace, forse non gli son piaciute le domande. Va a sapere. Succede che poco dopo escono in rete foto, indirizzo e tutto il resto della casa del conduttore. Succede che il giornalista chiede al segretario di fermare le truppe. Succede che il segretario scrive un post di scuse che non san tanto di genuino, innescando sospetti e utilizzando sofismi. 14


Succede che il segretario di cui sopra fa un altro post esaltando un post di un suo seguace. Succede il finimondo nel web. Lo so ho partecipato. Succede che il giornalista va in trasmissione e racconta il fatto. Succede che viene riportato il post di elogio. Si scatena il finimondo. Io stavo guardando un film e mi sono ritrovata in questo calderone. Succede che nello stesso blocco di trasmissione vengono divulgate alcune perle di questo tizio. Che il conduttore si rifiuta di leggere. Ce le leggiamo da soli. Ora, io questo tizio lo conosco e l'ho praticato per un bel po' di tempo. All'ennesimo salto del carro cominciò a mazzolare tutti e a bannare. Devo ammettere che non sono facile a scandalizzarmi, sono nota per colorire il linguaggio, però... ehi... lì era un po' tanto, tutto e sempre. Con tutti. Beh insomma, per concludere, succede che sul web tutti quelli che avevano subito attacchi da lui là insorgono. O risorgono. Praticamente all'unisono. È stato impressionante. Nessuno ha rinunciato ad esprimere un pensiero. E non son stati, non siamo stati, nemmeno cattivi. Irridenti sì, cattivi no. Silenzio per un giorno. Poi l'ho incrociato di nuovo su un amico. Si vede che ci aveva sbloccati tutti. #mognint

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Arte e Storia

Imitatori e falsari nella storia dell’arte. Parte seconda Giovan Giuseppe MENNELLA

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Nel ‘900, specialmente nella prima metà del secolo, l’Italia pullulò di botteghe di falsari di opere d’arte antiche. Sul mercato c’era una grandissima richiesta di capolavori italiani, specialmente del periodo d’oro del Rinascimento. Le richieste provenivano soprattutto dall’estero, segnatamente dal mondo anglosassone della Gran Bretagna e degli Stati Uniti. Il falsario di talento riusciva a cogliere gli elementi artistici e compositivi dei capolavori da contraffare, ma i veri vantaggi economici li realizzavano gli intermediari, spesso personaggi privi di scrupoli e abituati a navigare a cavallo della zona grigia tra artisti e malavita. Negli anni ‘20 del ‘900 la richiesta di capolavori italiani era al suo massimo. Quasi non passava giorno che non comparisse sul mercato un nuovo capolavoro, soprattutto del ‘400, che placasse la fame degli acquirenti che rischiavano davvero di comprare qualsiasi cosa a occhi chiusi. Nel 1922 il Fine Arts Museum di Boston acquistò per 400.000 dollari un monumento sepolcrale di Maria Caterina Savelli attribuito a Mino da Fiesole, datato intorno al 1430. Peccato che Maria Caterina nel 1430 avesse solo un anno di età, essendo nata nel 1429. Poi uscì sul mercato anche una statua presunta di Simone Martini, ispirata a un dipinto dello stesso artista raffigurante una Annunciazione. Anche in questo caso, ben presto fu chiarito dagli studiosi che Simone Martini non realizzò mai una scultura. Poiché alla fine di quegli anni ‘20 del Novecento ormai il mercato era saturo di opere del ‘400 italiano, fu chiaro che doveva operare un falsario- artista particolarmente abile che le produceva. Dario Del Bufalo, architetto allievo di Bruno Zevi, archeologo e organizzatore di molte mostre tra cui una sezione della Biennale di Venezia nel 1986, raccolse al Castello della Cecchignola a Roma, da lui restaurato, una collezione di quei falsi del misterioso personaggio. Si scoprì che era Alceo Dossena (1878-1937), di Cremona, un artista con atelier in 17


via Margutta a Roma. Fu lo stesso Dossena a svelarsi perché nel dicembre del 1928 citò in tribunale Alfredo Fasoli e Alfredo Pallesi, due intermediari che gli pagavano pochissimo i suoi falsi, per poi rivenderli, secondo lui a sua insaputa, a collezionisti sprovveduti a un prezzo maggiorato di 100 volte. I due contrattaccarono e accusarono Dossena di essere un mitomane e anche un antifascista che usava sputare su una statua di Mussolini che teneva nella sua bottega. Però Dossena spiegò in modo convincente il metodo che usava per rendere fintamente antiche le opere che realizzava. Immergeva le statue semifinite in fosse nelle quali aveva versato acqua, sterco di cavallo e urina di stalla. Le statue erano prima scaldate per assorbire le materie della fossa a macchie, diventando così simili a quelle del Rinascimento. Dossena fu difeso da un avvocato davvero importante, nientemeno che Roberto Farinacci, gerarca fascista e concittadino di Dossena, che strumentalizzò la vicenda a favore del fascismo e del proprio giornale Il Regime. Farinacci sottolineò abilmente che Dossena era un artista italiano talmente abile da ingannare gli americani del Museo di Boston e quindi un grande personaggio e un grande italiano. Dopo la guerra furono rinvenute nella casa della figlia di Farinacci a Cremona una Mater dulcissima e una Musa seduta, opere di Dossena che evidentemente erano state una parte del compenso pagato al fascistissimo avvocato. Dossena fu assolto e ne uscì come vincitore. Tuttavia, dopo la caduta del fascismo e la fine della guerra, documenti d’archivio, contenenti i rapporti delle spie dell‘Ovra che lo sorvegliavano, svelarono che Dossena sapeva benissimo che le sue opere erano vendute dagli intermediari ai collezionisti come autentiche del ‘400 italiano Ma chi era stato Alceo Dossena? Era nato povero e si era formato da autodidatta presso uno scalpellino di Cremona che scolpiva tombe al cimitero. Poi aprì bottega a Parma. Trasferitosi a Roma, iniziò nel 1916 il rapporto con Fasoli e Pallesi. Tenne mostre in vari paesi, tra cui una a New York all’Hotel Plaza e molti musei chie18


sero di comprare sue opere nello stile italiano del ‘400, così richiesto e quasi bramato in quel primo Novecento. Una troupe cinematografica tedesca riprese il suo lavoro facendogli pubblicità come se fosse una specie di reincarnazione di uno scultore rinascimentale. Ben presto l’ondata di quel successo svanì e Dossena rientrò nell’anonimato, perché non poteva essere valutato come un importante e originale artista contemporaneo, ma solo come un, sia pur abile, imitatore. Morì nel 1937. Attualmente alcune sue opere sono esposte al Museo Ala Ponzone di Cremona. La vicenda di Dossena, ma se ne potrebbero citare altre consimili, dimostra che il falsario è importante e ricercato quando incarna e soddisfa con la sua opera i gusti di un momento storico in cui gli appassionati e i collezionisti desiderano possedere opere di uno specifico periodo del passato. Passata quella moda, finito quel gusto, anche il falsario perde di interesse, di appeal, e rientra nell’anonimato. Il critico d’arte Max J. Friedlander ebbe a dire che i falsi devono essere serviti caldi, appena sfornati. Tra la fine dell’800 e i primi del 900, la città di Siena e l’arte senese assursero a grande fama presso gli intenditori e i collezionisti. Dai musei d’oltreoceano proveniva una grande richiesta di capolavori senesi e si riscontrava altrettanto fervore di esportazioni da parte di mercanti d’arte e intermediari italiani. Fino alla seconda guerra mondiale furono esportate moltissime opere dalla città toscana, specialmente dipinti a fondo d’oro, alcuni autentici, molti falsi. Lo scrittore Federigo Tozzi, nel romanzo “Tre croci”, narrò gli accadimenti e le persone legate a quell’ambiente, soprattutto il mondo degli antiquari e dei commercianti di antichità false che lavorarono a soddisfare quella fame di opere senesi presso gli appassionati stranieri. Molti storici dell’arte, catalogatori e mercanti d’arte si impegnarono a stimare e ac19


creditare le opere toscane da vendere. Personaggi come il grande critico Bernard Berenson e il suo allievo Frederick Mason Perkins non poche volte credettero vere e acquistarono alcune opere contraffatte. Si scoprì che le produceva Federico Ioni (1866-1946), capo di una banda di falsari di dipinti senesi, tra cui dittici, trittici e polittici. Ioni alla fine della carriera scrisse un libro di memorie in cui si dilungò anche sugli errori di attribuzione commessi da Bernard Berenson. Anche Ioni, come del resto Dossena, volle riscattare le sue umili origini, provenendo da una famiglia in cui il padre si era ucciso ancora prima della sua nascita. Fu abbandonato all’ospedale senese di Santa Maria della Scala e poi, da adolescente, fu messo a bottega per imparare il mestiere da un artigiano. Ben presto acquisì una particolare maestria nel restaurare opere malconce che erano restituite come nuove. Riuscì a restaurare particolarmente bene una Madonna col Bambino di Benvenuto di Giovanni, usando un procedimento che si valse di un particolare liquido. Il successo fu tale che la Madonna restaurata fu acquistata da Frederck Mason Perkins, esperto e cultore d’arte americano, allievo di Bernard Berenson. Oggi il dipinto è rovinato, probabilmente corroso dal famigerato liquido di Ioni. Un’altra Madonna di Benvenuto di Giovanni è oggi in una collezione privata di New York. Ioni per i suoi ritocchi di restauro si ispirò ai maestri senesi. Poi, il passo dai ritocchi ai quadri autentici fino alla costruzione di falsi del tutto nuovi fu breve e, tutto sommato, logico e facile. Acquisì una tale abilità e conoscenza nel campo della pittura senese antica, o sedicente tale, che fu nominato soprintendente dell’Istituto di belle arti, con il compito di occuparsi anche della galleria dei dipinti e della formazione degli studenti. Oggi quella galleria è diventata la Pinacoteca di Siena. Ben presto in città scoppiarono polemiche, riprese dalla stampa, sulle sue dubbie attività e sugli incarichi ufficiali rivestiti. Aveva prodotto una Madonna che fu attribuita 20


alla scuola di Duccio di Buoninsegna e un altro dipinto riconducibile a Benozzo Gozzoli, il miracolo di San Nicola di Bari. In particolare, quest’ultimo dipinto non fu riconosciuto come falso neanche da Federico Zeri che riuscì a rendersi conto del suo errore soltanto più tardi, riflettendo su alcune incongruenze iconografiche e quando fu in grado di confrontarlo con una tavola simile, pure realizzata da Ioni, in possesso di un amico. Produsse anche la contraffazione di una tavola di Francesco di Giorgio Martini, che ingannò molti critici. La tavola non fu mai ritoccata da un restauratore e la superficie ancora oggi è quella manipolata da Ioni. Produsse una Imago pietatis, cioè Cristo morto tra due dolenti, in uno stile prossimo ad Andrea Mantegna, una specie di prototipo dello stesso Mantegna, ispirandosi a uno consimile, veramente esistente, di Giovanni Bellini. Il procedimento di invecchiamento per fingere una patina che simulasse l’antichità consisteva nel sottoporre i lavori da lui dipinti al caldo, al freddo, alle intemperie. Tuttavia commetteva anche errori banali che con le tecniche odierne sarebbero facilmente riconoscibili. La vicenda di Ioni fu quella di un falsario di successo, anche di talento. Lui scrisse che voleva ingannare il mondo intero e ci riuscì anche; acquistò la villa detta dell’Annuncio, dove morì. Nelle sue memorie si definì un pittore di quadri antichi, non un falsario. Secondo lui i falsari sono quelli fanno i biglietti di banca, uno che rifà i quadri antichi è un imitatore e sono poi le lobby affaristiche dei mercanti internazionali d’arte che inquinano il mercato, spacciando per autentiche le imitazioni. Il 4 giugno del 1940 giunse al Museo Archeologico di Napoli un dono di Mussolini. Erano sette ritratti policromi dipinti su tondi di terracotta, di età ellenistica, risalenti al III Secolo avanti Cristo, con volti di uomini e donne provenienti dagli scavi archeologici di Centuripe, in provincia di Enna, in Sicilia. In precedenza erano stati acquistati per una somma notevole sul mercato antiquario da Giovanni Rosini che li aveva appunto donati al Duce per ottenere il titolo di conte di Castelcampo. Al 21


Museo si tenne una cerimonia ufficiale per l’acquisizione delle opere, alla presenza di Giuseppe Bottai, Ministro dell’Educazione nazionale e di Pietro Fedele, presidente dell’Istituto poligrafico dello Stato. Da allora i sette manufatti giacciono in un deposito e nessuno li ha più visti, salvo gli spettatori di un recente documentario televisivo. La ragione è che dopo molte peripezie sono stati riconosciuti come falsi. Era stato Giulio Emanuele Rizzo, cultore di arte antica a procurarli al conte di Castelcampo, alias Giovanni Rosini. Le immagini femminili riprendevano le caratteristiche delle donne degli anni ‘20 e ‘30 e non avevano nulla di quelle del terzo secolo avanti Cristo. Erano tutti dipinti fatti male e facilmente individuabili come contraffatti, ma non si seppe o non si volle capire l’imbroglio per quella sempre incombente esigenza di procurarsi opere di un certo periodo di cui ci fosse scarsità. Oltretutto, il grande archeologo Paolo Orsi (1859-1935) che aveva scavato a Camarina e Piazza Armerina, quando nel 1924 fu nominato sovrintendente di Centuripe, aveva messo sull’avviso che circolavano pezzi sedicenti di quella località ma di dubbia provenienza e autenticità. Rizzo aveva anche inviato in visione quei pezzi, insieme ad altri, a Guido Libertini, un intenditore e collezionista di antichità, che li espose nel Museo di Siracusa di cui era direttore. Anche alcuni illustri critici d’arte e sovrintendenti come il già citato Bernard Berenson e Amedeo Maiuri direttore degli scavi di Pompei, li ritennero autentici. Rizzo commise un errore dando in visione alcune terrecotte simili a Carlo Albizzati, un archeologo molto esperto, dall’occhio infallibile e anche un antifascista sprezzante nei confronti di quelli che definiva archeologi in orbace. Dopo la pubblicazione delle opere nella serie dei “Monumenti della pittura antica scoperti in Italia” nel 1940, Albizzati si rese conto che i manufatti datigli in visione da Rizzo erano della stessa mano delle ceramiche di Centuripe e ne mise energicamente in dubbio l’autenticità. Guido Libertini, che ne aveva esposti alcuni al Museo di Siracusa, sicuro della loro autenticità, attaccò 22


violentemente Albizzati sostenendo che era un folle, un antifascista e un cattivo italiano. Furono probabilmente queste polemiche e questi dubbi che convinsero i responsabili del Museo Archeologico di Napoli, a cui erano pervenute tramite Mussolini, a non esporre le ceramiche. Nel dopoguerra fu ormai chiaro che erano dei falsi. In effetti, sottoposti a più moderne indagini scientifiche, i vasi donati a Mussolini si rivelarono dei supporti di materiale antico e provenienti dall’ambiente centuripino, ma dipinti in epoca moderna. Tuttavia, restò sconosciuta l’identità del falsario, o dei falsari, che fu svelata solo molti decenni dopo, addirittura nel 2014. Si trattava di Antonino Biondi, un restauratore, tombarolo, falsario, ricettatore, morto nel 1961, che ancora nel 1951 disse di avere acquistato il corredo di una tomba di Centuripe riuscendo a rivenderlo al Museo di quella località. Comunque, era stato anche un artista di talento, definito il re degli “anticari”, com’erano definiti in dialetto siciliano gli artigiani bravi a manipolare i reperti antichi, capo di una vera e propria “banda degli anticari”. Nel 2014 è stato smascherato come autore dei falsi di Centuripe da Giacomo Biondi, suo omonimo, archeologo dell’Istituto per i beni archeologici e monumentali (Ibam) del CNR che svolge le sue ricerche presso l’Università di Catania, alla quale Libertini prima di morire aveva donato gli esemplari simili da lui esposti al Museo archeologico di Siracusa. Giacomo Biondi,

lavorando

alla

collezione

Libertini

donata

all’Ateneo

catanese

dall’appassionato collezionista, è entrato in possesso del taccuino di lavoro di Antonino Biondi dal quale ha potuto comprendere il suo metodo che consisteva nel modificare e migliorare i reperti anche di poco valore venuti fuori dagli scavi di Centuripe e a rivenderli come capolavori o poco meno. Gli esperti dell’Ibam del CNR hanno anche esaminato l’epistolario di Paolo Orsi e Guido Libertini e hanno ricostruito alcuni retroscena del periodo di quella vicenda, in cui nuove leggi vietarono scavi e compravendite di materiali archeologici da parte di privati, leciti fino 23


ad allora. Sono state anche ritrovate statuine in terracotta ricavate da matrici appartenute ad Antonino Biondi e usate dai suoi discendenti per produrre lecitamente copie destinate ad appassionati e turisti. Il caso più emblematico è una maschera di sileno, autentica, venduta negli anni ’30 al Museo Archeologico di Siracusa; una replica è esposta nel Museo di Centuripe che la acquistò negli stessi anni. Altre copie prodotte lecitamente circolano tuttora. Livorno, autunno 1909, Amedeo Modigliani ritorna nella sua città. La leggenda vuole che lavorasse ad alcune sculture che poi mostrò agli amici del caffè Biondi. Agli amici non sarebbero piaciute e lo avrebbero incitato, con il solito spirito sarcastico dei livornesi, a gettarle in acqua. La figlia Jeanne negò sempre che il padre potesse aver gettato le opere nel canale, perché nessun artista elimina da sé le proprie opere. All’inizio dell’estate del 1984 si stava tenendo a Livorno al Museo Progressivo di Arte contemporanea di Villa Maria una grande mostra su Modigliani, in occasione del centenario della nascita. I curatori erano i fratelli Dario e Vera Durbè, il primo Direttore della Galleria Nazionale di Arte Modena di Roma, la seconda direttrice del Museo Progressivo di Arte Moderna di Villa Maria a Livorno. La mostra riguardava il periodo dal 1908 al 1915, che comprendeva quindi proprio quel 1909 quando l’artista era ritornato in città e avrebbe gettato in acqua le sculture non finite. La città non lo aveva mai amato particolarmente, perché se ne era andato a Parigi, perché lo considerava ormai un francese e perché non era mai piaciuto il suo stile non troppo naturalistico e paesaggistico, essendo stata Livorno una città importante per i macchiaioli dell’800. In quell’inizio d’estate 1984 la mostra si stava svolgendo non destando un grande interesse. Così Vera Durbè si ricordò dei racconti sulle opere gettate nei fossi medicei e, per infervorare l’interesse sull’esposizione, cominciò a chiedere alle autorità cittadine di dragare il canale, detto “fosso reale”, per ritrovare qualcosa o quantomeno per tenere desta l’attesa 24


su qualche clamoroso ritrovamento. Il fosso reale fu effettivamente dragato e a quel punto accadde il colpo di scena. Il 4 agosto 1984 fu trovata una testa scolpita. Allora la leggenda era vera? Ma la sorpresa ancora più grande fu che quello stesso giorno fu ripescata una seconda testa Molti critici esperti le esaminarono e diedero risposte affermative, le teste scolpite erano proprio opere di Modigliani. La prima più rifinita, la seconda più semplice e stilizzata e la critica disse che quella seconda testa sembrava una pittura. Lo confermarono Vera Durbè, ma anche i grandi critici d’arte Giulio Carlo Argan, Carlo Ludovico Ragghianti, Cesare Brandi. Ma Carlo Pepi affermò categoricamente che non potevano essere affatto nello stile di Modigliani; si presentavano come padelloni schiacciati, senza volume, senza nulla di artistico, spigolosi. Modigliani non era una specie di cialtrone come la città lo qualificava. Altro stupore quando il 10 agosto venne fuori dal fosso una terza testa, più simile nello stile alla prima ripescata il 4 agosto. Il 2 settembre la rivista settimanale Panorama pubblicò le rivelazioni di tre ragazzi livornesi, Luridiana, Gherarducci e Ferrucci che dissero che la testa definita con il numero 2 l’avevano fatta loro per uno scherzo goliardico, con martello, cacciavite e trapano elettrico, nello stile dell’umorismo livornese espresso dal giornale satirico “Il Vernacoliere”. Produssero anche una foto che scattata mentre la scolpivano. In puro stile Giuseppe Guerra e Van Meegheren, anche loro furono invitati a rifarle davanti alla stampa e ai mezzi di comunicazione di massa, cioè anche in diretta televisiva a Speciale Tg 1. Poi, il 13 settembre arrivò anche la rivelazione di Angelo Froglia, un artista performer che confessò che le teste 1 e 3 le aveva scolpite lui per dimostrare l’incompetenza dei critici d’arte. Ormai la mostra di Villa Maria che aveva perso ogni interesse e credibilità chiuse i battenti in sordina. Dario Durbè gridò al complotto, la sorella Vera si sentì male e fu ricoverata in ospedale, mentre proliferarono vignette in cui Giulio Carlo Argan si gettava nel Fosso reale con una delle false teste di Modì le25


gata al collo. Anche questa vicenda dimostrò che i falsi, o addirittura le burle, vengono fuori sull’onda della pressione generale, anche del mondo della cultura, che chiede di possedere e ammirare opere di un periodo artistico o di un autore di cui si avverte la mancanza e quindi il desiderio. Paul Valery scrisse che tutti gliel’hanno con i falsari, ma esistono personaggi piĂš bravi dei falsari e sono i loro ispiratori.

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Politica

Piazza San Giovanni e la partecipazione ritrovata Aldo AVALLONE

La bianca facciata settecentesca della basilica di San Giovanni in Laterano che domina l’omonima piazza ne ha viste tante di manifestazioni popolari. Ogni militante o simpatizzante di sinistra, almeno una volta nella vita, si è recato nello spiazzo antistante la cattedrale di Roma in una sorta di pellegrinaggio laico nel luogo simbolo di tutti i passaggi politici e sindacali più importanti nella storia del Paese. Da anni, però, nessun partito o organizzazione sindacale ha scelto piazza San Giovanni per i propri raduni. Troppo grande lo spazio da riempire e troppo grande il rischio di un flop. Esattamente un mese dopo l’esordio in piazza Maggiore a Bologna e dopo 113 altre piazze in Italia e in Europa, le Sardine decidono di convocare una manifestazione nazionale a Roma. Passo doveroso e necessario dopo i successi delle pre27


cedenti settimane. Scelgono piazza del Popolo ma la Questura, come già avvenuto in altre città, Milano e Napoli in primis, “impone” loro una piazza più grande. Viene deciso di tenere l’incontro proprio a piazza San Giovanni. E sabato scorso la piazza è tornata a riempirsi di un popolo pacifico e festante. Ci sono le attiviste della Sea Watch di Carola Rackete, c’è Pietro Bartolo, medico di Lampedusa, c’è Mattia Santori, l’ideatore del flash mob di Bologna da cui è nato tutto il movimento, ci sono i cittadini che leggono gli articoli della Costituzione, ci sono centomila persone, strette strette come sardine, che cantano dapprima l’inno di Mameli e poi Bella Ciao. Niente bandiere di partito, come chiesto espressamente dagli organizzatori e sui cartelli si leggono slogan come “Sardine di tutti i mari unitevi”, “Le sardine fanno bene”, “Siamo sardine ma non sordine: basta grida e insulti”. Nella piazza ritrovata si respira una bella atmosfera, carica di emozione e di energia positiva. “Speranza” è il termine che viene in mente guardando la marea di persone felici di essersi riappropriate di uno spazio pubblico di partecipazione. Le Sardine hanno dimostrato e stanno dimostrando, giorno dopo giorno, piazza dopo piazza, che nel Paese non esiste solo l’odio, esiste e vive la speranza di un modo di far politica diverso. E in questo momento storico è un merito straordinario. Ma ora viene il difficile. Il movimento si dovrà interrogare su come proseguire il cammino. I mestatori di odio, i mistificatori dell’informazione, anche alcuni intellettuali di una sinistra antica, non perdono occasione di accusare le Sardine di non avere un programma politico definito. Ebbene, è vero. Non esiste un programma di 300 pagine ma il Movimento tre cose le dice, chiare e forti: no al razzismo, no al populismo, no al fascismo. E non sono cose da poco. Dal palco di piazza San Giovanni, Mattia Santori ha elencato sei richieste al mondo della politica: 1. Pretendiamo che chi è stato eletto vada nelle sedi istituzionali a lavorare. 28


2. Che chiunque ricopra la carica di ministro comunichi solamente nei canali istituzionali. 3. Pretendiamo trasparenza dell’uso che la politica fa dei social network. 4. Pretendiamo che il mondo dell’informazione traduca tutto questo nostro sforzo in messaggi fedeli ai fatti. 5. Che la violenza venga esclusa dai toni della politica in ogni sua forma. La violenza verbale venga equiparata a quella fisica. 6. Abrogare il decreto sicurezza. Richieste di buon senso che bisognerà ascoltare. Rispetto al dialogo con la politica, Santori ha detto che sarà doveroso trovare un contatto ma il Movimento non è ancora pronto né a trovare i punti di un dialogo né un interlocutore. Un passaggio importante sarà rappresentato dal test elettorale in Emilia Romagna, dove i più recenti sondaggi (Emg Acqua presentato ad Agorà, Tecné, Pagnoncelli sul Corriere della Sera del 16 dicembre) danno il candidato del PD Bonaccini in vantaggio sulla leghista Bergonzoni. E in questa rimonta non può essere trascurato “l’effetto Sardine”. Da parte loro, i partiti che si riconoscono in un progetto riformista laburista non potranno assolutamente non fare i conti, nel prossimo futuro, con il Movimento. Senza provare a metterci su il cappello e nel pieno rispetto dei diversi ruoli. Appena un mese fa, il Paese sembrava destinato a finire irrimediabilmente nella morsa della destra leghista. Il pericolo non è superato, ovviamente. Ma oggi c’è una speranza nuova ed è obbligatorio aggrapparsi a essa. Perché la sinistra ha un compito da portare a termine: costruire una società migliore. Ed è un compito inderogabile. Perché, come ha scritto Miguel Cervantes attraverso le parole di Don Chisciotte: “Cambiare il mondo, amico Sancho, non è follia né utopia, ma solo giustizia”. 29


Donne

Ciò che veramente conta è sempre invisibile Antonella BUCCINI

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“Ciò che veramente conta è sempre invisibile”. Ad affermarlo, con un richiamo evidente ad Antoine De Saint Exupery, è imprevedibilmente Benedetta Barzini, icona della moda negli anni ’60. Benedetta Barzini, figlia di Luigi Barzini, storico inviato del Corriere della Sera e di Giannalisa Gianziana Feltrinelli, vedova di Carlo e madre di Giangiacomo, è la prima modella italiana ritratta su Vogue. E’ fotografata, tra gli altri, da Bern Stern e Richard Avedon, frequenta in amicizia Salvador Dalì, Andy Warhol, Marcel Duchamp, Truman Capote. Ma è una top model sui generis come racconterà negli anni successivi lei stessa. Dopo un’infanzia difficilissima con genitori assenti, la gratificazione non si coniuga con la posa glamour bensì con una sorta di riconoscimento, che legge come affettivo, di quel mondo che la reclama e che pure prelude alla sua fortuna professionale. Concede la sua immagine ai fotografi e alle passerelle mai la rappresentazione di sé, postulando da subito una sorta di impenetrabilità, di conservatorismo ostinato della sua persona. Un carattere che si radica ancor più negli anni successivi quando diventa giornalista, docente universitaria, sposa la causa femminista. Tutto questo, in qualche modo, passa in un singolare documentario che andrà in onda mercoledì su La Effe. Il filmato è “La scomparsa di mia madre” ed è girato dal figlio Beniamino Barrese. Si tratta dell’elaborazione di un annunciato abbandono e insieme il tentativo di fermarlo, di un’accorata ricerca di risposte ma anche una forma di esorcismo che quella scomparsa richiede. Benedetta è una donna di 75 anni, il corpo ancora esile e leggero come negli anni della moda, il viso volutamente pulito e segnato intorno a uno sguardo che non ammette licenze. Una ancora si, al figlio Beniamino al quale non si sottrae comunque in nome di quel dono di amore di madre che gli porge ma riluttante, a volte ruvida e provocatoria altre affettuosa, un dialogo fra i due politico, forte, intimo ma anche una sfida. Il dono allora è quel rincorrersi in immagini alle quali lei non dà alcun credito. Per Benedetta i ricordi affiorano alla mente senza 31


l’ausilio di sembianze, apparenze, figure o rappresentazioni, diversamente, sono ricordi che valgono poco. E tuttavia emerge l’urgenza del figlio di filmare, di fermare nella memoria l’essenza di una madre straordinaria, di penetrarne le istanze in una comprensione concettuale e affettiva. Benedetta vuole infatti “scomparire”, desidera abitare un altrove, affrancarsi da stereotipi e ambiguità, approdare a un mondo essenziale lontano da tutto ciò che ha frequentato. Una forma di commiato dunque che sembra aspirare al governo dell’ultimo e ineluttabile congedo ma anche a una mediazione che permetta finalmente all’amato figlio di emanciparsi proprio da lei. Una declinazione struggente, intima, conflittuale ma comunque universale della presenza, dell’assenza e poi della separazione tra una madre e un figlio. Presentato con successo in prima mondiale al Sundance Film Festival , parteciperà al London Film festival.

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La Storia degli Italiani

Domenico Barbaja, un milanese che fece fortuna a Napoli Giovan Giuseppe MENNELLA

Nella prima metà del XIX Secolo era ancora possibile che il percorso delle opportunità e del successo non portasse da Napoli a Milano ma seguisse il percorso inverso. Fu quello che capitò a Domenico Barbaja, milanese nato alla fine del XVIII Secolo, nel 1778. Barbaja fu insieme milanese, napoletano, europeo. Passò da ragazzo poverissimo a

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caffettiere, inventore di una nota bevanda calda, a impresario teatrale, a talent scout. Vide farsi grandi a Napoli Rossini e Donizetti, tra i grandi artisti ingaggiati o proprio scoperti da lui stesso, con geniali intuizioni. Arrivò alla musica lirica grazie al gioco d’azzardo. Da ragazzo poverissimo, a Miano, era stato garzone di caffettiere e aveva inventato una bevanda calda, corroborante, che fu definita “barbajata” che molti oggi cercano di riprodurre. Probabilmente a base di caffè, cioccolata, panna, dalle moltissime calorie, una mescolanza tra un cappuccino rinforzato e un “bicerin” che si beve ancora a Torino nell’omonimo caffè. Comunque, nel caffè dove aveva inventato la bevanda di successo, si giocava anche d’azzardo grazie al fluire dei denari che avevano portato gli occupanti francesi. Domenico si diede da fare con la gestione del gioco e diventò ricco esercitando la sua attività anche nel ridotto del Teatro alla Scala, nato, per la cronaca, sette giorni prima di lui, il 3 agosto del 1778. All’epoca, nei teatri lirici non si cantava solo, si mangiava, si giocava d’azzardo, si tenevano convegni amorosi nei palchi riservati. Nel 1809 si trasferì a Napoli con un contratto per la privativa del gioco nei teatri napoletani, non solo il San Carlo, ma anche il Fondo (l’attuale teatro Mercadante), il Nuovo e il Fiorentini. Anche nei teatri di Napoli si giocava d’azzardo, certamente anche al San Carlo e ben presto Barbaja, come gestore della privativa, accumulò una grossa fortuna. Quei soldi sarebbero fluiti ben presto, come vedremo, anche nelle tasche di grandi artisti, a cominciare da Rossini. Acquistò anche numerose proprietà immobiliari, vicino al San Carlo, a Chiaia, a Posillipo, a Ischia, e anche queste furono messe a disposizione dell’attività teatrale e dell’arte, ospitandovi grandi interpreti, dando sontuose feste promozionali dell’attività dei teatri. Rimise in piedi rapidamente, in sei mesi, il San Carlo dopo l’incendio del 1816, da 34


perfetto imprenditore creativo, utilizzando metodi sbrigativi, oggi forse impossibili, grazie alla sinergia instaurata con Ferdinando IV di Borbone, sovrano assoluto di Napoli. Anche in forza di quel successo fenomenale, divenne il signore incontrastato del San Carlo e dei teatri napoletani fin quasi al giorno della morte. Di lui ci ha lasciato un ritratto, non troppo lusinghiero, lo scrittore Philipp Eisenbeiss,. Tra i personaggi illustri che lo conobbero, Dumas padre disse che la testa era comune, ma gli occhi sprizzavano intelligenza e malizia, Stendhal testimoniò….Rossini disse che era il più calvo e il più cattivo degli impresari teatrale. Probabilmente quella di Rossini fu una ripicca per le questioni in sospeso e i contrasti che sempre sorgono tra persone che condividono un’attività creativa e difficile. Ma il ritratto che si trova nel Museo del Teatro alla Scala lo mostra diverso, con i capelli lisci e neri e con una barbetta risorgimentale, quindi o Rossini ha mentito per astio o i capelli erano posticci, oppure ancora, più probabilmente, quello scaligero deve essere un ritratto giovanile. Non fu mai un uomo di cultura, anzi piuttosto sbrigativo e quasi rozzo, si espresse sempre in un gergo metà milanese e metà napoletano. Ma seppe sempre mettersi al servizio della grande cultura, usando i proventi del gioco d’azzardo per ingaggiare i più grandi cantanti. In termini artistici e manageriali l’intuizione più felice fu quella di ingaggiare Rossini, già famosissimo e al massimo della maturazione espressiva. La cosa fu fattibile perché i proventi dei ricavi furono utilizzati per dotare il San Carlo di una grande orchestra e di una grande compagnia di canto. Gioacchino Rossini ebbe l’incarico di direttore artistico del San Carlo e del teatro del Fondo, con il conferimento di tutte le mansioni possibili e fu pagato moltissimo. Andò ad abitare in uno dei palazzi acquistati da Barbaja, com’era d’uso in quel periodo, nella centralissima via Toledo. Ancora oggi il palazzo è indicato nella to35


ponomastica comunale come il palazzo di Domenico Barbaja abitato da Rossini, di fronte alla stazione della Funicolare centrale che porta al quartiere del Vomero. La leggenda, ma forse la realtà, narra che una volta fu segregato da Barbaja nel palazzo per costringerlo a rispettare i tempi per la composizione dell’opera Otello. Finalmente, l’opera fu completata e andò in scena per la prima volta 4 dicembre del 1816 al teatro del Fondo e non al San Carlo che era ancora in ricostruzione dopo l’incendio che l’aveva distrutto completamente. Come si è detto, la ricostruzione del massimo teatro cittadino fu compiuta a tempo di record per iniziativa di Barbaja stesso, che divenne perciò affidabile anche agli occhi del Sovrano, nonostante avesse nominato Direttore artistico un murattiano come Rossini. Tanto che gli affidò l’appalto della costruzione della basilica di San Francesco di Paola in quella che è l’attuale Piazza del Plebiscito, che attira ancora oggi la curiosità e le fotografie di residenti e turisti. Né il Re né Barbaja videro completata la chiesa, ma l’opera fu ugualmente notevole. Si aprì così il vero periodo d’oro di Barbaja. Era di immensa prodigalità, ospitava gli artisti nei suoi palazzi, gli ospiti stranieri in una villa dotata di tutte le comodità, organizzava feste splendide con finalità promozionali e diplomatiche. Il contratto e quindi il ruolo esercitato da Barbaja come gestore dei teatri era all’avanguardia e sarebbe auspicabile, ma quasi impossibile, che anche oggi fossero previste le modalità di quel contratto: era tenuto a mettere in scena 110 rappresentazioni all’anno, con almeno tre titoli nuovi, di cui uno scritto da un compositore di primo livello, aveva l’obbligo di mettere in scena opere tradotte dal francese. Il rapporto tra Barbaja e Rossini fu di sinergia artistica. Il compositore pesarese, pur con tutti i contrasti e gli scontri che contraddistinsero il loro rapporto, lo definì un uomo geniale, che realizzava le cose con magnificenza e metteva sotto contratto grandi esecutori. Non può non venire in mente, a tal proposito, il film del 1992 sul36


la vita di Rossini, nel bicentenario della nascita, in cui il ruolo di Barbaja fu magistralmente interpretato da un simpaticissimo Giorgio Gaber, che aveva tutto sommato, se non il fisico, almeno lo spirito del ruolo, visto che era milanese e aveva partecipato alcune volte al festival della Canzone napoletana, con l’interpretazione divertentissima di quella buffa canzone che era “Ma tu vuliv’ a pizza”, in coppia con Aurelio Fierro. La stella più fulgida tra i cantanti ingaggiati fu quella di Isabella Colbran, soprano spagnolo che era stata allieva del famoso castrato napoletano Girolamo Crescentini. Stendhal scrisse che aveva occhi spagnoli belli e terribili. La fece debuttare nel 1811 ne “La vestale” di Gaspare Spontini. Non esistono documenti che attestino che ci fosse tra loro una relazione amorosa, ma è certo che ci fu tra lei e Rossini. Barbaja si consolò sentimentalmente con il soprano Annamaria Cecconi. Nell’opera di Rossini “Zelmira” cantarono entrambe. L’opera fu l’ultima composta da Rossini per i teatri di Napoli. Lo stesso Barbaja si trasferì per un periodo a Vienna, per dirigervi il teatro di Porta Carinzia e l’Hoftheater, con grande rammarico dei napoletani. A Vienna, un compositore allora particolarmente in auge, un certo Ludwig van Beethoven, ebbe a dire che Barbaja faceva solo balletto e non vera musica; evidentemente pesarono le differenze di gusto e sensibilità tra la cultura musicale italiana e quella tedesca. Comunque, la stessa Zelmira di Rossini fu l’anello di congiunzione tra Napoli e Vienna perché fu la prima opera che Barbaja fece mettere in scena nella capitale austriaca solo due mesi dopo il suo arrivo. Ebbe anche attenzione al repertorio mozartiano e portò a Napoli La clemenza di Tito. In Austria scoprì il grande Carl Maria von Weber, con i suoi Freischutz ed Euryante, dimostrando di avere una sensibilità e un gusto mitteleuropei, anche se il compositore tedesco non gli fu mai molto riconoscente, parlandone spesso male. 37


Nel 1826 assume la gestione della Scala di Milano, del teatro vero e proprio e non del solo foyer. Per Napoli, andato via Rossini, sceglie di investire sul giovane Donizetti, allievo a Bergamo di Giovanni Simone Mair, impegnandolo per quattro opere. Mette sotto contratto anche il Giovane Vincenzo Bellini, appena diplomato al Conservatorio di San Pietro a Majella. L’impegno viennese terminò nel 1828, quello alla Scala nel 1832. Quindi òa lavorare solo a Napoli, dove continuò per altri anni a ingaggiare sempre i più grandi artisti, anche tra gli esecutori, come Giovan Battista Rubini, Lablache e altri. Nel 1839 Rossini lo venne a trovare nella casa di Posillipo. Stavolta non con la Colbran, ma con la Pellissier con cui si sarebbe sposato ben presto. Il soprano definì l’incontro e l’atmosfera in casa Barbaja come abbastanza malinconici. Il contratto con il San Carlo venne a scadenza nel 1840 per non essere più rinnovato e il nostro Barbaja si ritirò a vita privata. Il 16 ottobre 1841 era in scena al San Carlo l’opera Ulrico di Oxford quando la recita fu interrotta poi annullata per annunciare la notizia della morte di Barbaja. Ci fu tra il pubblico moltissima emozione e nessuna protesta per l’annullamento dello spettacolo. I funerali si tennero nella chiesa napoletana di Santa Brigida, con via Toledo chiusa al traffico delle carrozze, mentre si innalzavano al cielo le note del Requiem di Mozart, diretto da Saverio Mercadante. L’elogio funebre fu pronunciato dall’illustre giurista Pasquale Borrelli che sottolineò come le intemperanze e le maniere sbrigative di Barbaja, rispetto al suo fiuto di grande intenditore di musica e di spettacolo, erano state come la polvere che ricopre l’oro antico. Scompariva così quel milanese che si era fatto soprattutto napoletano di genio. 38


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Testata online aperiodica Proprietà: Comitato per l’Unità Laburista, Strada Sesia 39 14100 Asti (AT) Direttore Responsabile: Aldo Avallone - Stampatore: www.issuu.com web: www.issuu.com/lunitalaburista - mail: lunitalaburista@gmail.com - Tel. +39.347.3612172 Palo Alto, CA (USA), 18 dicembre 2019 40


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