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GIANFRANCO CIVOLANI
A TUTTO
CIV SESSANT’ANNI CONTROCORRENTE
A cura di Valeria Vacchetti, Lamberto Bertozzi e Giuliano Musi
Con un ricordo di Sabrina Orlandi, Roberto Beccantini, Adalberto Bortolotti e l’editore Roberto Mugavero
MINERVA
A p. 1 una poesia cara al Civ che abbiamo ritrovato nel suo studio. Ci è sembrato giusto riproporla esattamente così come è l’originale, consunto e spiegazzato, al fine di ricreare, unitamente alle altre immagini che compongono questo libro a lui dedicato, un suo personale album di famiglia.
INDICE Prefazioni di Sabrina Orlandi..................................................................................... 11 Roberto Beccantini................................................................................ 15 Adalberto Bortolotti.............................................................................. 19 I salvatori dei bambini......................................................................... 27 Addio campione.................................................................................... 34 Scivolone del Bologna. Ritorno sul ring di Mazzinghi....................... 39 Fisionomia del Bologna nel campionato ’58-59.................................. 42 Gli “Assoluti” di tennis, Pietrangeli e Lea Pericoli, si sono laureati campioni..................................................................... 44 Tra Spal e Bologna un derby alla paesana.......................................... 46 Bologna-Modena 7-1: Pascutti e Nielsen pioggia di gol...................... 49 Mario Montesanto quattro volte leone............................................... 52 Il cammino della speranza di Fulvio Bernardini............................... 54 Dall’alba al trionfo: domenica 7 giugno 1964. È il giorno della verità.......................................................................... 58 Bonjour tristesse................................................................................... 66 Su “questo” nuovo Cavicchi… c’è chi ci giura..................................... 72 Milva, Giardiello, Maurizio Arena, Marciano, Little Tony: appuntamento “italiano” al Madison già dal pomeriggio per una notte piena di pugni............................................................... 78 Benvenuti: “Sono il più forte di tutti”.................................................. 82 La grande boxe ha di che sfamarsi...................................................... 85 Keith Swagerty...................................................................................... 89 Serafini: concentrazione per imparare............................................... 92 Kociss fa sempre tilt.............................................................................. 94 Vivi Corsini divina del basket.............................................................. 97 Little big Dan il mago dell’Illinois...................................................... 100 Krešimir Ćosić..................................................................................... 105 La “penna” del mese di Nando Macchiavelli: Gianfranco Civolani...109 Lettera aperta a Savoldi..................................................................... 114 Lettera aperta a Bob Vieri.................................................................. 117 Mondiali di Argentina: Mendoza....................................................... 120
McLombard e la sua lingua................................................................ 124 È arrivato Tognazzi, tifa Corea.......................................................... 127 Il Messico è caricatissimo: ecco il grido di battaglia… Vinceremo per la patria!........................ 131 Agnolin e le magiche videocassette................................................... 133 Vent’anni dopo, quando Kreitlein espulse Rattin ed il match diventò una corrida................................ 135 Perché Meneghin ha dato un calcio a mezzo miliardo?.................. 137 Antognoni si è preso la rivincita: “Finalmente ci sono riuscito: Firenze per tutta la vita!”.................. 142 L’eterno fanciullo per bene................................................................ 147 Questa sera al Maracanà festa d’addio. Zico: Italia super con Baggio..................................................................151 Alla festa di Zico si scatena il Ct Lazaroni con una polemica: “Non dite bugie è super Brasile”........................................................ 155 Zico, ancora Re per centomila........................................................... 159 Girone B Urss: era il bomber Ponierzielnik… gli eredi del Signor Lunedì.............. 164 Zavarov, ultimo Zar incompreso....................................................... 167 Costarica, quel soffio di “Bora”.......................................................... 170 Final Four Ncaa a Indianapolis.......................................................... 173 Tanto di Cappello................................................................................ 176 Leffe-Bologna 2-0. Balesini e Lomi non hanno pietà....................... 179 Ciao Faelino amico di Bologna........................................................... 182 Domenica Crevalcore-Bologna al Dall’Ara, dai 7 scudetti rossoblù a un derby inedito in C1.............................. 186 Bologna tutto esaurito domenica il grande derby: una città in fibrillazione. Buckler-Filodoro -4.................................. 190 L’altro Buffon che copriva le spalle al Gre-no-li............................... 196 Bucci & Scariolo: quando il derby diventa… beautiful.................... 199 Teatro La Ribalta: una volta si chiamava Teatro della Soffitta........ 201 Quel mito olandese, ma è un “modello” non trasferibile: ecco perché..................................................................204 Per Giorgino un giorno da Fogli e Nielsen........................................ 206 Il numero uno dello Slavia non conosce Bologna? Caro Signor Presidente studi meglio la situazione........................... 210 Se potesse parlare il cappotto di Ulivieri direbbe così: “Vi racconto come faccio a scaldare tutta una città”........................ 212
Dallo Sterlino al Dall’Ara: storie di grandi sfide e di Dolce Vita...... 215 Nino..................................................................................................... 218 I pugni in tasca.................................................................................... 221 Una sfida per uomini forti e tecnici veri........................................... 224 17 anni dopo, ora Strasburgo è dimenticata..................................... 228 La palla al cesto dei ragazzi di via Castiglione.................................. 230 È morto Lamberti il “Napoleone” che ha fatto la storia fortitudina .234 Quando il Barone sfidava il bostoniano............................................ 236 Cinque accesissime sfide che Bologna ricorderà per sempre: che peccato non poter assegnare due scudetti................................. 239 Quando il tricolore valeva solo gazzose............................................ 241 La storia. Oggi la Virtus celebra il tricolore numero 14................... 243 Un giorno così lo aspettavo da trentacinque anni........................... 248 Il ricordo dei cinque precedenti scontri con l’Anderlecht nel racconto di un cronista dal cuore rossoblù... 251 Beppe-gol toppa stupenda.................................................................. 254 Bologna, Pagliuca è già tra i grandi................................................... 258 Pavinato e l’atroce monetina............................................................. 259 E oggi alziamoci tutti in piedi per dire grazie a Ciccio..................... 261 Cané, boxe e simpatia......................................................................... 265 Vite vendute........................................................................................ 267 Sport e spettacolo, tante piccole truffe da Allodi a Cappello........... 271 Dopo 43 anni di presidenza lascia la Libertas Civolani: “Così ho ceduto una parte della mia vita”......................................... 273 100 anni alla Civ: mio caro Bologna mi hai rapito il cuore.............. 276 Coni, nella parata di stelle brilla il “Civ”........................................... 279 Bolognavideo...................................................................................... 281 Se n’è andato il migliore: con Bulgarelli muore la poesia............... 285 L’intervista della domenica: Gianfranco Civolani............................ 289 Un secolo di calcio bolognese............................................................. 293 Il ricordo del Civ: nel 1961 al cabaret era un mio rivale.................. 300 Con l’Atalanta tante storie di risse e mercato................................... 303 Addio a Renna, ala del settimo scudetto rossoblù............................ 305 Amore fatto di nulla........................................................................... 309 Postfazione dell’Editore....................................................................... 321
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Sabrina Orlandi e il Civ si preparano alla telecronaca di una partita del Bologna. Nella doppia pagina precedente: Gianfranco Civolani, giĂ molto serio, al liceo Galvani. Il cerchio nero intorno al suo viso lo fece direttamente lui.
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PREFAZIONE E FU SUBITO CIV di Sabrina Orlandi
Lui era un papavero alto alto e non è che nel 2001 io fossi ancora piccolina, ma tornare dalle vacanze e trovarsi lì davanti Gianfranco Civolani in persona un po’ di soggezione addosso te la mette. Eravamo negli studi di èTV-Rete7 e per Gianfranco, che veniva da Telesanterno, era la prima volta nella sua nuova casa. Il passaggio era avvenuto grazie alla mediazione di Christian Pavani, che oggi è presidente della Fortitudo basket ma allora era un manager televisivo. «Allora cara Sabri – attacca lui – non sopporto vallette, veline e portaborse in genere. Io preferisco fare il solista ma se accetto di lavorare in due o in tre o in cinquanta, siamo tutti uguali. Tutti giornalisti, intendo.» Quindi faccio la giornalista dei miei anni e, accorciando tempi e modi, gli rispondo sorridente: «Ottimo Civ, grazie!». Civ, appunto. Era il suo secondo soprannome, più corto del primo, che fino ad allora, per più di quarant’anni, era stato “Civola”. Gli dev’essere suonato bene e ha lasciato che lo chiamassi così in tv, prima che fossero in chissà quanti a salutarlo come Civ. Era certo: il Civ sarebbe diventato il bastone della mia giovinezza. Il giornalista senza complimenti, a meno che non fossero per lui. È stato facile fare accettare le sue sentenze scolpite nella roccia: quando siamo diventati per la prima volta una coppia in tv, lui aveva già scritto di tutto e di più per una quarantina di anni. Calcio e basket, atletica e pugilato, non c’era sport che il Civ non conoscesse, non aveva opinione che fondasse sull’impressione o sullo stato d’animo, ma sempre sull’esperienza, su quel sapere e sentire da giornali-
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sta che nessuno, neanche di fronte alle prese di posizione più dure, aveva il coraggio di contestare. Sì, sono arrivate sommesse richieste, simili a preghiere, di filtrarlo, ammorbidirlo o arrotondarlo: tutto inutile, tutto inapplicabile. Se il Civ avesse dovuto sacrificare anche per una sola volta il suo pensiero sull’altare della diplomazia, non sarebbe mai più stato se stesso. Abbiamo lavorato insieme per diciotto anni, tutti i giorni, ma proprio tutti, anche quelli di vacanza. Le mie s’intende. Perché le sue non esistevano. Per il Civ le ferie erano “uno stato dell’anima” e lui in quello stato non era in grado di fermarsi. Come gli è capitato in molte città, Parigi compresa. Un viaggio in auto fino alla capitale della Francia, un giro della piazza, una coca-cola al tavolino del Café de Flore e poi, rivolto a Valeria: «Bene, possiamo tornare a casa». Da quando lo conosco, è stata l’unica volta in cui non l’ho sentito per una giornata intera. Il mio “cell” ha suonato sempre, comunque e ovunque, Natale, Pasqua o Capodanno che fosse, perché il Civ viveva soprattutto per lavorare e per preparare nel modo migliore il suo punto. Per un paio di volte non gli è stato possibile andare in onda e non se n’è mai fatto una ragione. A distanza di mesi dal “fattaccio”, giocava d’anticipo: «Sabri, non è che il prossimo Natale arrivo e non trovo nessuno che mi apre, vero?». «Ma no Civ, stai tranquillo, sai com’è, c’è gente strana che il giorno di Natale si siede a tavola per pranzare. Se vieni all’una e mezza è facile che non ci sia nessuno.» Starsene un po’ in famiglia e pranzare con i propri cari il giorno di Natale: per il Civ riti e abitudini superflui, lontani dal suo stile di vita. Fu costretto a mediare, ma telefonava sempre all’ora di pranzo del 25 dicembre: «Fai gli auguri a tutti, ma prima dimmi il menù». Avere la conferma che noi comuni mortali santifichiamo la festa con il cibo lo divertiva molto, lo trovava estremamente pagano. «Quindi voi per
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ricordare un uomo che spezzava pane duro, vi ingozzate di carnazze e di dolciumi. Mah!» Articolo o conversazione che fosse, Civ faceva sempre un Punto. Spesso, anche dei punto e a capo. Diceva che di fare trasferte passando ore in macchina o in treno non se ne sarebbe più parlato. Ma si firmò la deroga per quel fine maggio del 2008, quando il Bologna e migliaia di bolognesi partirono per Mantova, dove i rossoblù di Arrigoni si sarebbero giocati la promozione, certificata poi sette giorni dopo al Dall’Ara con il Pisa. Salì sull’auto delle donne: Rita Mandini e Francesca Blesio con me e il Civ. Sapevamo che di mangiare zucca e risotto al Civ importava meno di zero e quindi, perfide, lo portammo direttamente all’outlet della moda che è sulla strada. «Fate quel che vi pare, vi aspetto qui» e si sedette al tavolino a bere il caffè e a leggere un giornale. Quando tornammo, il Civ era sotto assedio. Decine di bolognesi lo avevano riconosciuto e circondato per parlare di calcio e di quel che poteva accadere qualche ora dopo. È stato come portare in trasferta il Papa del giornalismo sportivo bolognese: tutti sorpassando la nostra Panda (con la scritta èTV sulla fiancata) strombazzavano al Civ, che il clacson forse non lo sentiva neanche, ma che “sentiva” eccome solidarietà e affetto, anche se gli piaceva tenere nascosti i suoi sensori. Ecco dunque il primo libro del Civ senza il Civ. È una gioia sapere che Valeria Vacchetti (con il consenso della signora Rosella) ha cucito un lavoro meticoloso e magistrale, partendo dal 1957 e viaggiando fra articoli e appunti fino ai giorni nostri. Un lavoro immane quello di Valeria, l’unica che ha avuto il permesso dal Civ di mettere mano nelle sue cose più preziose: migliaia di libri, foto, cimeli, giornali e riviste. L’Editore potrebbe togliere firma, titolo, foto, copertina, tutto e non cambierebbe nulla, perché basta iniziare a leggere per sapere, dopo quattro parole, che un articolo è del Civ. Lui non c’è più, ma ha lasciato una marchio di fabbrica. Come fanno i grandi.
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PREFAZIONE di Roberto Beccantini
Conobbi Gianfranco attraverso Giuseppe Ghillini, presidente della Federbaseball. Eravamo a metà degli anni Sessanta, gli anni del boom. Bologna, città all’avanguardia: attorno al calcio, una botta di adrenalina, un sacco di sport. Fra questi, il baseball. Papà conosceva Ghillini che conosceva Civolani. Sapeva, Ghillini, che Civola, corrispondente di “Tuttosport”, cercava un ragazzo di bottega: in gergo, un “galoppino”. Papà gli parlò della mia passione per i giornali e il giornalismo, Ghillini ne parlò a Civ. Era il 1966. Avevo 15 anni e mezzo, frequentavo il liceo classico Marco Minghetti. Scoccò un qualcosa che, all’inizio, fu cerino e, poco dopo, scintilla. Ci fiutammo al telefono: io rapito, lui concreto. Subito in mischia. A Casalecchio di Reno, per Libertas Aurora-Verona 6-14, partita della Serie B di baseball. Ho conservato quel numero di “Tuttosport” come il più caro dei cimeli. Martedì 7 giugno 1966: a pagina 9, in un’epoca in cui le pagine erano distese di piombo, senza il silicone della grafica a gonfiarne il panorama, affioravano un tabellino e una decina di righe, con una parentesi all’inizio. E dentro la parentesi, il paradiso di due lettere: r. b. Le mie iniziali. “Imposte” dal Civ. Fu il cielo a toccarmi con un dito, non viceversa. Prendete un debuttante e fategli segnare un gol al primo pallone. Ecco: provai le stesse emozioni, le medesime capriole nella pancia. Mi ha dato del lei per un sacco di tempo, poi siamo passati al tu. Quando Zelio Zucchi lasciò vacante la cattedra del basket a Torino, la direzione scelse Gianfranco. Che non aveva nessunissima voglia di muoversi da Bologna. L’amava trop-
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po: nello sport, nella politica, nell’arte, nella vita. Mai e poi mai l’avrebbe tradita. Da ogni trasferta, rientrava appena possibile: mania che mi ha attaccato. Alla marines: compiuta la missione, tutti a casa. E se dalla redazione lo pregavano di restare, nessun problema: c’era sempre il telefono. Consigliò me. E così, il 20 agosto 1970, a nemmeno 20 anni, esordivo fra Giglio Panza, il direttore, e Gian Paolo Ormezzano, fra Gianni Romeo e Pier Cesare Baretti. Per questo, e per molto altro, gli devo tutto. Mi ha insegnato a governare l’enfasi, a domare l’ansia, a disarmare la paura. Mi spiegò che, nelle interviste, le domande devono essere corte, per dar spazio alle risposte. E, alla fine del testo, sempre il virgolettato dell’interlocutore, mai un inciucio tipografico fra un mezzo quesito e un mezzo salamelecco. Mai. Guai. Se n’è andato il 3 novembre di un anno fa. Una domenica. Sapevo che stava male, ma sapevo anche che era già stato male e sempre si era ripreso. Non questa volta. Me lo comunicò Matteo Marani. In casi del genere, si rischia di scivolare sulla buccia del sentimentalismo che, uomo libero e scrittore di rottura, visceralmente detestava. Ma come faccio a restare freddo di fronte a ricordi così forti, a episodi così nitidi? Come quella volta al Minghetti, durante l’ora di chimica del professor Gualandi, quando il bidello bussò alla porta della nostra aula per comunicargli che, in segreteria, c’era una telefonata per me. Era Gianfranco che mi chiedeva se nel pomeriggio avrei potuto fare un salto a Ravenna per un’amichevole del Torino: «È il Toro, caro Beccantini, e sa cosa significa per il nostro giornale». A ogni dicembre partoriva un libro. Li ho quasi tutti, sparsi nello studio come le sue ceneri sui colli di Bologna, libri di calcio, ma anche di basket, di teatro, di cultura. Raccontandosi, raccontava il vasto mondo che aveva navigato e i suoi protagonisti, dai più colti ai più pittoreschi. Come faccio a dimenticare il giorno in cui, all’Olimpiade di Monaco, entrai
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nella sua camera e mi trovai davanti a un plotone di mele? O tutte le volte che, a Bologna, mi spediva ai pranzi ufficiali di questa o quella società perché la tavola proprio non la reggeva? A Basilea, il giorno in cui con Fabio Monti ci trovammo tutti a caccia di Socrates, il “filosofo” brasiliano che, nel mirino della Roma, sarebbe poi passato alla Fiorentina, ci dettò addirittura i tempi: «Bei passeroni, avete mezz’ora, non un minuto di più». Con l’età, un po’ ponte e un po’ muro, ci siamo staccati. Non però allontanati. Lo chiamavo sotto Natale, implacabile, e ci scambiavamo opinioni, battute, facevamo le pulci a tizio e a caio. Ci divertivamo. Lo leggevo sul “Corriere dello Sport – Stadio” e leggerlo era come telefonargli. C’è chi avrebbe parlato di pigrizia e chi (gentile eufemismo) di malizia. Non ho dubbi come l’avrebbe chiamata lui: paraculismo. Bologna e il Bologna, la televisione e la radio. La Virtus, di cui era tifoso, ma anche la Fortitudo, Peppino, con il suo negozio di bigiotteria in via Clavature, ombelico di ogni gossip cestistico (e non), Aza Nikolić con la sua giacca di camoscio e Dan Peterson con il suo slang da aspirante stregone. Le arringhe dell’avvocato Gianluigi Porelli, i foulard di Giuseppe Brizzi, presidente di un Bologna non proprio memorabile: erano i cavalli di battaglia di Gianfranco, montati con il disincanto del cowboy che non intende patteggiare con il rodeo delle sue idee. E che aveva, dell’ironia, lo stesso concetto che emerge dalla storia del romanziere David Foster Wallace: «La vera ironia si usa solo in casi d’emergenza. L’uso prolungato la fa diventare la voce di gente in gabbia che ha finito per amare le proprie sbarre». Sono stato fortunato, molto fortunato. A quei tempi, i miei tempi, se un giornalista cambiava testata veniva sostituito. Oggi, si stapperebbe champagne. E lo sono stato ancora di più perché la mamma, pur piangendo davanti allo specchio della sua camera, non mi disse resta, mi disse vai. Già, la mamma.
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Di primo pomeriggio, mentre dormicchiavo nella poltrona del tinello, rito che ho coltivato con lo zelo del chierichetto che fui a San Cristoforo, nel cuore della Bolognina, talvolta squillava il telefono. Rispondeva lei. Se era una zia, continuavo a ronfare, beato. Ma se l’approccio suonava più o meno: «Buongiorno, dottore. Glielo passo subito», sapevo chi era. E sapere che era lui, mi dava un brivido (sarò all’altezza delle richieste?), ma era bello, oh sì, era proprio bello.
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PREFAZIONE ERA IL CIV, ERA BOLOGNA di Adalberto Bortolotti
Gianfranco Civolani se n’è andato a quasi 84 anni. Da due combatteva contro la malattia. Nato a Bologna il 28 novembre 1935, si era laureato in Giurisprudenza, specializzato in Psicologia del lavoro. Direttore artistico del teatro La Ribalta negli anni Sessanta, mecenate della pallacanestro femminile con cui ha raggiunto più volte la Serie A, aveva fatto anche il dirigente nel baseball. Giornalista dal ’57, presto era diventato per tutti il Civ. Inviato per “Tuttosport” dal 1961, e in seguito per il “Corriere dello Sport – Stadio”, Civolani raccontò sei Mondiali e due Olimpiadi, e naturalmente il Bologna. Era diventato il punto di riferimento per l’opinione cittadina sulla squadra. Con Sabrina Orlandi a èTV aveva formato una miscela irresistibile: Il punto del Civ era l’appuntamento irrinunciabile. Eravamo quasi coetanei, Gianfranco e io, rispettivamente classe 1935 e 1936, in realtà divisi da non più di qualche mese. Le nostre vicende professionali si incrociarono presto, per poi protrarsi sotto bandiere volta a volta comuni e diverse, “Tuttosport”, “Stadio”, “Guerin Sportivo”. Profondamente lontani per carattere, scoprimmo di avere le stesse passioni sportive: il Bologna nel calcio, la Virtus nella pallacanestro, Fausto Coppi nel ciclismo e poi l’indimenticabile Checco Cavicchi, pugile e filosofo contadino, sul quale proprio Gianfranco ha scritto pagine memorabili, fra le sue più ispirate e coinvolgenti. Ora che la notizia (purtroppo non inattesa) della sua scomparsa mi ha raggiunto, mi scopro a riavvolgere il nastro di un
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percorso che per sessant’anni ci ha visto lavorare intorno agli stessi avvenimenti, agli stessi personaggi, noi prima giovani poi stagionati cronisti, testimoni di uno sport, e non solo, che mutava faccia e imponeva cambi di marcia e di giudizio. Talvolta alleati, talaltra concorrenti, avversari mai. Eravamo a cavallo tra liceo (classico, lui Galvani, io Minghetti) e università (Giurisprudenza entrambi) quando provammo a scrivere insieme su un giornaletto locale di basket, unitamente a un bravissimo collega, Franco Vannini. Si chiamava “Il pivot” e l’editore era un tipo piccoletto e simpaticissimo, che lasciava puffi un po’ dovunque e figuriamoci se, impegnato com’era a dribblare i creditori, poteva trovare il tempo, e la materia prima, per allungarci una qualsiasi forma di compenso. Volontariato puro, però in un prestigioso ufficio proprio di fronte alla Sala Borsa (culla della pallacanestro bolognese, il Palasport era ancora di là da venire) che fungeva da redazione. Sinché un giorno non ci fu più né l’editore, si fa per dire, né l’ufficio, e onestamente fu un peccato, perché quel foglio artigianale era tutt’altro che malvagio. Quella fu la nostra comune rampa di lancio. Un altro dato condiviso fu l’ingresso ufficiale nella professione. Lavoravamo entrambi a “Tuttosport”, io a Firenze, Gianfranco a Bologna, in uno stato di abusivismo totale, peraltro esteso ad altri eccellenti colleghi sparsi fra Torino e le redazioni periferiche. Sinché, un bel giorno la Finanza fece irruzione nella sede del giornale e impose all’editore di regolarizzare immediatamente tutte le posizioni “in nero”. Gianfranco e io, quindi, iniziammo il praticantato giornalistico nello stesso giorno, in illustre compagnia. Cito per tutti Pier Cesare Baretti che di “Tuttosport” fu direttore storico, per poi saltare il fosso e diventare dirigente autorevole della Fiorentina, sino a quando la sua passione per il volo lo condusse giovane a una morte tragica.
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Che tempi, quei tempi. La comune passione per la boxe, che allora era una cosa seria, faceva sì che Gianfranco partisse da Bologna con la sua incredibile Anglia (vettura non memorabile, di cui doveva essere l’unico proprietario in Italia), valicasse la Futa, mi caricasse a bordo a Firenze e arrancasse lungo l’Aurelia sino a Roma, dove Giorgio Tosata (altro appassionato della noble art, anch’egli nato giornalisticamente a “Tuttosport”, poi trasferitosi a Roma al seguito di Antonio Ghirelli, come redattore capo del “Corriere dello Sport”) aveva procurato i posti a bordo ring per seguire le mitiche riunioni di Zappulla, protagonisti futuri campioni quali Teddy Wright e Rafiu King. Che tipo era allora Gianfranco Civolani, non ancora Civ? Vulcanico, come poi è rimasto sino agli ultimi giorni. I molteplici interessi lo portavano a fruttuose scorribande in altri settori, dal teatro alla politica, ma scrivere era la sua molla primaria. Pubblicò un rarissimo libretto di poesie, dal romantico titolo Ferire d’amore. Non mi do pace di averlo perduto in uno dei traslochi. Riuscì persino a firmare un manuale di cucina, lui che pranzava con una mela e a cena saltava del tutto. E poi gli articoli, redatti a piena velocità, spesso improvvisati al telefono. Le interviste, un pezzo forte del suo repertorio, senza prendere un appunto. «Ma lei non scrive?» gli chiedeva perplesso l’intervistato, subito fulminato da un’occhiata luciferina. «Non ne ho bisogno, io ricordo tutto.» Odiava, sin d’allora, le regole e le gerarchie. Era in effetti un magnifico lupo solitario, che per dare il meglio aveva bisogno di agire in assoluta libertà. Quando lasciai “Tuttosport” per tornare alla mia Bologna, destinazione Stadio, correva l’anno ’63, sì, quello che introdusse all’unico (sinora e chissà per quanto tempo ancora) scudetto rossoblù del dopoguerra. I colloqui con Fulvio Bernardini erano uno spasso, e Gianfranco e io tornammo a lavorare in coppia, lui per “Tuttosport” e io per “Stadio”.
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Gianfranco era un po’ fissato con le nuove tattiche e le esponeva a Fulvio che lo smontava così: «A Gianfra’, tu non tè devi formalizza’ con due cose: i raddoppi e il 4-2-4». E poiché insisteva, Fulvio faceva l’offeso: «Non vorrai mica saperne di calcio più di me». E Gianfranco, a denti stretti: «Va bene, ammetto di saperne un po’ meno di te. Ma solo di te e di nessun altro, sia ben chiaro». Alla vigilia di quel campionato che fu drammatico (caso doping) e trionfale (scudetto nello spareggio contro la grande Inter all’Olimpico), fu con noi due che Bernardini si aprì in inattese confidenze. «Sinora abbiamo divertito e ci siamo divertiti. Adesso è arrivato il momento di vincere. E quindi dovremo essere più cauti. Niente di sensazionale, solo qualche ritocco. Fogli in marcatura diretta sul regista avversario, Bulgarelli dieci metri indietro, a centrocampo, a dettare i ritmi, Haller a ispirare le punte, Nielsen e Pascutti a cercare più spesso la porta. Saremo meno spettacolari e più concreti.» A “Stadio”, il capo redattore Bardelli capì al volo l’importanza e sparò il mio articolo in prima pagina. A “Tuttosport”, dove del Bologna importava il giusto, l’articolo di Civolani finì in posizione anonima, con un titoletto di maniera. Gianfranco era furioso: «Massa di incompetenti, dovrebbero cambiare mestiere». Ma poi mi aggiunse: «Hai visto che a forza di pressarlo, Fulvio si è convinto dell’importanza della tattica?» La sentiva un po’ sua quella conversione, e forse non aveva torto. Nei primi anni Settanta la televisione italiana scoprì, con colpevole ritardo, il talento comunicativo di Gianfranco e gli offrì una rubrica (molto gustosa, sul filo dell’ironia) nell’allora popolarissima Domenica Sportiva. E questo si collega a un’altra avventura automobilistica. Con Gianfranco alla guida (di un’Alfa GT, dai tempi dell’Anglia aveva fatto carriera) c’eravamo io e Oddone Nordio del “Carlino”, che anch’egli ha lasciato di recente. Destinazione Temi, dove giocava il Bologna di Pesaola. Civolani ci avvertì subito: «Facciamo presto a
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dettare i servizi, perché io devo essere a casa in tempo per il collegamento con la Domenica Sportiva». Il Bologna perse di brutto e i tifosi al seguito contestarono vivacemente Pesaola, che già era stato accolto con sospetto, per aver preso il posto dell’amatissimo Oronzo Pugliese. Io e Nordio facemmo presente che potevano esserci sviluppi e dovevamo interpellare il petisso. Gianfranco ballava sui carboni ardenti, ma non poteva tirarsi indietro. Per fortuna, Pesaola fu lapidario. Alla nostra domanda: «Hai pensato di dare le dimissioni», ci guardò con commiserazione e sparò una delle sue battute fulminanti: «Siete matti? E se le accettano?». Di corsa in vettura, sull’autostrada, con Gianfranco che guidava come un ossesso, sotto una pioggia battente. Io e Nordio cercavamo di offrirgli alternative: «Fermiamoci a Roncobilaccio, noi ci facciamo due tortelloni, tu ti colleghi con la Domenica Sportiva e poi ci racconti». «I tortelloni giammai» urlava Civolani, accelerando ancora. Sinché a una curva l’auto andò… dritta, fece una repentina carambola fra i guardrail, e noi ci meravigliammo molto di trovarci tutti e tre più o meno illesi. Arrivò la Stradale, che, ancor prima di chiedere com’eravamo messi, spiccò una salatissima multa per eccesso di velocità, rendendo Gianfranco ancora più furioso. Ma tutto sommato la conseguenza più seria fu che Civolani si perse la Domenica Sportiva. Fu col tempo che Gianfranco si fece conquistare dal fascino del teleschermo e dalla popolarità che ne derivava. Aveva seguito tutti i più grandi avvenimenti, sei Mondiali di calcio e due Olimpiadi, l’ultima volta che ci eravamo trovati insieme su una ribalta importante era stato in Messico ’86, ancora, in ruoli diversi, io per il “Guerin Sportivo”, lui per il “Corriere dello Sport – Stadio”, dove era approdato dopo la fusione, per rafforzare la redazione bolognese. Nelle tv e nelle radio locali divenne presto un’attrazione. Aveva l’istinto del geniale istrione, modulava la voce come un attore consumato, e poi c’era alla base la competenza maturata, oltre a una memoria
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prodigiosa. Fu quello il periodo in cui Gianfranco Civolani divenne semplicemente “il Civ”, un’istituzione, una specie di padre nobile per Bologna e il suo sport. Da oltre quarant’anni, il poliedrico Gianfranco era anche presidente-padrone di una squadra di basket femminile, che guidava con ferrea autorità, fra mille ostacoli, sostenendone in buona parte di tasca propria i crescenti oneri finanziari. Ne parlo malvolentieri, perché l’ultimo anno è stato felice sotto l’aspetto sportivo (la squadra è approdata in A/1), ma triste sul piano dei rapporti. Gianfranco è entrato in rotta di collisione con le sue giocatrici e, col carattere che aveva, naturalmente non è arretrato di un millimetro. Credo che quella vicenda l’abbia profondamente segnato dentro, in un momento in cui altri e più seri problemi lo assillavano. Così penso che un modo per ricordarne questa ulteriore benemerenza nei confronti dello sport bolognese andrebbe trovato. Fermo restando, purtroppo, che la gratitudine non è di questo mondo. Insieme con le fitte presenze in tv e radio (le sue “pillole” erano imperdibili), Gianfranco avviò anche una serie di libri, ufficialmente sul Bologna e sui suoi personaggi, ma in realtà in forte misura autobiografica. Una tradizione: a Natale il nuovo libro del Civ non mancava mai. Come il panettone. So che ha cercato sino all’ultimo di mantenere l’impegno, anche nei giorni del dolore. Mi aspetto che l’ultima opera esca postuma per le prossime feste. Di quei libri, inizialmente editi da un comune amico e collega, Gianni Marchesini, io facevo sempre la prefazione. E l’ultima, lo confesso, uscita per Civ il mio Bologna. Dizionario rossoblù di Gianfranco Civolani, mi ha aiutato a mettere in fila i ricordi, in un momento in cui la commozione faceva aggio sulla lucidità. Al Civ, che era di solito assai parco di elogi, era piaciuta e, quando me lo disse, gli risposi: «Grazie, così mi fermo qui. Ormai mi sono stancato di parlar bene di te». Non immaginavo, non avrei voluto, che ci sarebbe stata un’altra volta. Ciao Gianfranco, e che la terra ti sia lieve.
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CORRIERE DELLO SPORT – STADIO 22 febbraio 1992
I SALVATORI DEI BAMBINI Viaggio fra i missionari della Caritas
Belém – Appuntamento alla Igreja da Mercés, alla chiesa della Mercede, nel pieno del mercatone di Belém e a cento metri da dove nasce il Rio delle Amazzoni. Piove o forse no, qui d’inverno questa specie di pioggina (garola) è un fatto fisiologico e l’umidità pazzesca (il novantacinque per cento) ti infrollisce e ti impiomba. Bene, l’appuntamento con padre Giorgio è qui dai Missionari Saveriani. L’Ordine è stato fondato dal vescovo di Parma don Guido Conforti ed è ufficialmente riconosciuto dal 1912. Padre Giorgio è appunto uno dei 48 Saveriani che stanno qui in Amazzonia. Ma lui in questa chiesa ci viene solo lunedì per ritirare la posta e magari per colloquiare con chi dovrebbe aprirgli porte e portoni. Lui, padre Giorgio, opera a trenta chilometri nell’interno, nella zona di Boa Esperança, una bolgia infernale, capanne, miseria nerissima e case di piacere per i super-ricchi che schiavizzano e brutalizzano i superpoveri. Chi è padre Giorgio Paiusco. Ha cinquantaquattro anni stupendamente portati (magliettina, bragoncini e pedalare), è di Padova e all’età di ventisei anni, lui diplomato, lavorava ancora nell’azienda del padre. Poi nel ’71 la rivelazione, insomma la decisione di farsi sacerdote e di aderire ai Saveriani. E subito via in Indonesia a fare il direttore scolastico nelle isole. «Ci sono stato quindici anni, ma un bel giorno poi mi hanno espulso. Il regime di Suharto evidentemente non poteva più sopportare che in terra islamica un prete cattolico
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fosse diventato così importante e scomodo. Semplicemente non mi hanno rinnovato il visto e allora nell’Ottantotto ho chiesto io di venire qui in Amazzonia. Sono arrivato in questa città, mi sono guardato un attimo intorno e ho scelto la zona di Boa Esperança per portare avanti il mio apostolato.» «Come ho trovato la situazione? Terrificante. Niente scuole, niente acqua, niente luce, diciotto chilometri per diciotto da percorrere e da vivere fra disumane sofferenze. E tanti bambini praticamente abbandonati. Sono stato accolto con grande diffidenza. Non portavo la tonaca, non stavo in chiesa, non ero il prete che gli anziani erano abituati a vedere. Ma poi hanno capito che potevo essere veramente il padre della povera gente e in poco tempo abbiamo realizzato grandi opere. L’acqua è ancora quella del pozzo, la luce non è ancora arrivata, l’alimentazione è una cosa allucinante, farina impastata con un frutto a colazione e quello stesso frutto impastato con farina per cena. Ma intanto ho potuto già far adottare duecentosettantotto bambini, ho incentivato l’artigianato, ho collaborato alla realizzazione di alcuni centri sociali, sono riuscito a mandare a scuola questi miei bambini. Un giorno saremo tutti più importanti, un giorno i giovani in questo Paese saranno molto diversi dai loro padri. Però è anche chiaro che nel frattempo io potrei rimetterci la pelle. Qui imperano tre cose: il carnevale, il calcio e il sesso. Il popolo viene ignobilmente sfruttato e lei crede che il governo e le multinazionali possano consentire che un pover’uomo come me voglia alfabetizzare e magari un giorno sindacalizzare i giovani? Sicuramente è per questo che già due o tre volte qualche camion ha cercato di investirmi. Qui si usa così quando qualcuno dà fastidio. Ti ritrovi con la testa fracassata e nessuno vuole sapere chi sei e chi ti ha conciato per le feste.» Cristo Redentor – Andiamo all’inferno. Vi risparmio i dettagli. Nel villaggio ci guardano come se fossimo di un altro pianeta. Ho assoldato un autista, ma le strade sono sterrate e pare che da queste parti non passi un’auto per mesi e mesi. E
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fra le capannacce ogni tanto c’è il Buon Sorriso o il Bel Ristoro o l’Amore Mio, ma non sono luoghi ameni per convittori, sono bordelli di prima classe nei quali il turista (ahinoi, particolarmente il turista italiano) convoca bimbi e bimbe per compiere stragi di cuori e di anime e di cervelli e di corpi. E se i fanciulli e le fanciulle non ci stanno e si mettono a frignare, i casi sono due: soppressione violenta di chi frigna o nella migliore delle ipotesi due calcioni nel posteriore e il bimbo che alza le mani al cielo perché gli è andata bene. Arriviamo davanti al Centro del Cristo Redentor. Aule (si fa per dire) per tremiladuecento bambini divisi ovviamente per turni, diciassettemila famiglie assistite. Vivaddio, ognuno qui impara a scrivere il proprio nome, ognuno almeno una volta al giorno mangia da cristiano, ognuno può servirsi di un minilaboratorio di analisi e di una infermeria-astanteria. Estella Elena Bacellar Cruz è la direttrice di questo centro. È una vedova che ha deciso di dedicare tutta la sua giornata a questa povera umanità. Qui chiaramente c’è bisogno di tutto, l’infermeria è una cosa agghiacciante, il laboratorio analisi offre le garanzie che offre. Ma ci sono tanti bambini che tentano di imparare l’abicì e dalla cucina sale un profumetto non malvagio e nello spiazzo dietro le aule c’è il terreno per edificare ancora qualche muretto. «Guai – mi dice padre Giorgio – se io non fossi il grande rompipalle che sono. Il mio ruolo è questo e meno male che i rapporti con il vescovo di Belém sono molto cordiali. Probabilmente questi rapporti si deterioreranno nel momento in cui riuscirò a organizzare qualche sfilata di protesta del villaggio. Be’, mi si lascia fare finché non minacciamo di toccare un certo livello di guardia, lei capisce. Ma intanto con i pochi mezzi che raccogliamo abbiamo potenziato le due scuole che c’erano e abbiamo costruito due cappelle e un altro centro sociale. Io praticamente non ho un minuto libero. Finanzio questo tipo di educazione alternativa perché nelle
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scuole pubbliche i professori fanno sempre gli interessi delle classi dominanti. E poi aiutiamo i bambini a studiare perché le scuole costano. E alle famiglie distribuiamo ogni mese dieci chili di riso, sei di fagioli, mezzo chilo di caffè e due litri di olio oltre a farina, quaderni, libri. Di quanto ho bisogno per poter tener botta? Mi bastano centosessanta milioni l’anno perché per adottare ognuno di questi ragazzini è sufficiente inviare cinquanta al mese, dopo venga a leggere le mie schede. Mediamente il capofamiglia qui guadagna appunto cinquantamila mensili. Ma è tutta gente che vive di espedienti e che non ha un lavoro sicuro e insomma con un biglietto da cinquantamila io riesco ad aiutare per un mese un’intera famiglia e fare studiare minimo un paio di bambini tra i tanti che ogni famiglia ha messo al mondo.» Ci congediamo dal Cristo Redentor. La signora Estella vive qui con la vecchia mamma e con un amico giardiniere che dà una mano. Per rallegrare madama Estella in giardino ci stanno una scimmietta, un roditore, un pappagallo e un paio di galli cedroni. «Io mi riempio di gioia guardando i bambini acquistare coscienza» mi dice la direttrice. «Se non ci fosse gente così – fa padre Giorgio – qui morirebbero tutti di fame e il Governo sarebbe anche contento perché per il Governo questa gente non deve esistere, come cancellata dall’anagrafe.» Le schede – Andiamo un attimo a casa di padre Giorgio. Vive in questo inferno e buon per lui che una casettina (indebitamente occupata a lire zero, mi informa) è sufficientemente confortevole, insomma c’è il bagnetto e c’è un lettino a dimensione d’essere umano. «Lei osserverà che vivo appena un po’ meglio dei miei – chiamiamoli così – parrocchiani. Loro non hanno nemmeno riparo dalla pioggia perché lei avrà visto che qui piove spesso e l’acqua piovana entra nelle case e si mescola all’acqua del pozzo che a sua volta si mescola con i liquami di queste persone perché il cosiddetto gabinetto è un buco lì dove ci sta il pozzo.»
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In casa padre Giorgio è aiutato da un segretario, un bambino che è cresciuto con un minimo di alfabeto e di consapevolezza. Guardiamo insieme le varie adozioni. Se ci si rivolge alla Caritas di Parma e si inviano le cinquantamila mensili, poi la Caritas provvede a inviare il denaro alla cassetta postale della chiesa della Mercede. Prendo in mano qualcuna di queste schede. Per ogni bambino c’è una piccola foto e poi l’età, le condizioni del capofamiglia e naturalmente il nome di chi adotta. Sei bambini sono stati adottati da Claudio e Andrea Taffarel (il numero uno del Parma e la sua donna), sei bambini o forse anche qualcuno di più. Ma le schede recitano che i coniugi Taffarel hanno finora adottato Anderson (9 anni), Antonia (12), Endelma (12), Fabio e Roniuldo (12 pure loro) e Louis (quattordici). Anderson è il terzo di quattro figli, suo padre guadagna quarantamila al mese, ma quando li guadagna veramente. Ma c’è anche Ana Cristina Miranda Da Souza di anni sei, quarta di otto figli, padre manovale stagionale, indirizzo in Passagem Fé Em Deus, Spirito Santo. La bimba non ha ancora una grande capacità di concentrazione per via che la sottoalimentazione ti toglie una certa continuità nel pensiero. Ma intanto la bimba ha già cominciato a scrivere il suo nome perché la bimba è stata adottata da una famiglia italiana e i soldini arrivano puntualmente e magari questa bimba non finirà in un postribolo, ma riuscirà un giorno a trovare un posto da cameriera all’hotel Hilton in città, chissà mai. Anarosa – Rifuggo dalle scene strazianti, non voglio stringermi ai bimbi più di tanto, non voglio lanciare biscotti e formaggini come se fossi lo zio Sam. Cerco di mantenere il mio distacco, ma non è facile. Chiamiamo i bimbi a raccolta per la foto e meno male che padre Giorgio non racconta niente e insomma non dice che qui c’è un giornalista che semplicemente vuole offrire una testimonianza toccante e che quel giornalista lavora per un giornale che ha preso a cuore
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questa nobile causa. Sì, sono i nostri bambini, i bambini che abbiamo adottato e che adotteremo e che altra brava gente – vero? – adotterà. «Ormai la mia vita è qui – fa padre Giorgio accompagnandomi in città – e ogni tanto farò anche un salto in Italia perché a Padova ho ancora i genitori, ma l’Italia si è troppo materializzata, l’Italia è per antonomasia il Paese del grande capitale e io non mi ci ritrovo più. Io voglio vivere qui tutta la mia vita, io la sera mi mangio il tempo organizzando i corsi, assistendo i professori, galvanizzando l’ambiente. Se Dio mi dà altri vent’anni e se gli uomini non mi ammazzeranno prima, questi bambini diventeranno dei giovani con una coscienza e sarà una goccia nell’oceano, ma proprio con queste nuove classi qui forse qualcosa potrà cambiare.» Sì, ma Anarosa? Ecco, facciamo conto che una di queste bimbe che ancora muoiono di fame e non sono state adottate da nessuno si chiami Anarosa. Già, Anarosa ha un cervellino perché non mangia, Anarosa non sa né leggere né scrivere, Anarosa ha dieci anni, il suo papà è una specie di bruto senza scrupoli, la sua mamma ha altri dieci figli da non mandare in malora. Anarosa un giorno o l’altro finisce sul bel sofà del Divino Amore, là dove un garimpeiro o un fazendeiro o un italianuzzo che ricicla denaro sporco la stuprerà insieme ad altre piccole anime mentre la megera cercherà di addolcire la cosa con una schifosissima caramella di limao e con una spremutina del frutto della passione, che passione. Ma se ci spicciamo, almeno Anarosa la salviamo. Anarosa ci aspetta, vi aspetta.
Nella pagina accanto: una visita alla scuola fondata da padre Giorgio dei Missionari Saveriniani in Amazzonia che toccò profondamente il cuore del Civ.
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CORRIERE DELLO SPORT – STADIO 14 novembre 1993
ADDIO CAMPIONE
Andiamo tutti a vedere che forse passa il Rex. Sì, laggiù al mare c’è anche un po’ di foschia, ma forse il Rex come d’incanto apparirà in questo piccolo porto delle nebbie, chi lo sa. E intanto qui in Piazza Grande migliaia di riminesi portano l’ultimo saluto-omaggio al loro dilettissimo concittadino, al ragazzo che in un’alba del Trentanove prese il trenino e salutò la sua impagabile compagnia. Nella sala delle Colonne in piazza Cavour c’è la bara con un grande fascio di rose rosse (“la tua Giulietta”) e accanto al feretro c’è una donna che piange in solitudine. È Valentina Cortese che non è Gelsomina e che non è Cabiria e che non è nemmeno Giulietta degli Spiriti, ma che fu sempre così felliniana nei suoi comportamenti e nelle sue espressioni più vitali. Nel mentre sfilano tutti e sono mille, cinquemila, diecimila, ma che importanza può avere fare numeri a casaccio quando ci sono tanti giovani che ai tempi dei Vitelloni non erano nemmeno nati, tanti giovani e giovanissimi che evidentemente hanno il culto delle memorie storiche? Poi arrivano anche i politici, ma sì, il signor sindaco, il presidente della Regione, il riminesissimo Renato Zangheri, il patròn del Grand Hotel Pietro Arpesella e quant’altri e la partecipazione è così compita e composta com’è nelle abitudini di gente che sa sempre come e cosa fare. Si sfila – dicevamo – e si lasciano messaggi. Ognuno ci tiene a vergare di suo pugno un semplice pensiero, un ghiribizzo di penna, una riverenza in forma di prosa. E al momento
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della cerimonia solenne, nella piazzola si accalcano in mille o duemila, anche qui vietato fare la conta esatta. Il vescovo di Rimini Mariano De Nicolò benedice la salma e accanto a Sergio Zavoli (riminese illustre che ha avuto l’onore di fare l’orazione funebre) ci sono il poeta Tonino Guerra, l’amico inseparabile di sempre Titta Benzi e c’è pure Maddalena Fellini con tutte le autorità togate (basta, nessuna citazione) e ovviamente non c’è Giulietta carissima perché lei il suo Fellini l’ha già salutato a Roma con quel gesto straziante che dovrebbe metterci un’angoscia infinita perché Fellini aveva una donna che l’ha salutato così e chissà quanti di noi non hanno e non avranno nessuno. Il sindaco Giuseppe Chicchi ricorda e si indirizza anche a un’Italia deteriore che fa stridente contrasto con il suo Genio Migliore. E parimenti il signor sindaco dà notizia di tutto ciò che sarà fatto in onor suo di lui Fellini. Una piazza, una clinica riabilitativa e una fondazione sul cinema intitolate al Maestro. Nei prossimi giorni si deciderà in sede di Giunta Comunale di chiamare piazza Federico Fellini la piazza già Indipendenza, quella che racchiude il Grand Hotel e il porto. E siccome poi Fellini voleva regalare alla sua città un centro specializzato di fisiatria, si procederà anche in questa prospettiva. E infine poteva Rimini città dell’immaginario felliniano non dar corpo a una Fondazione Fellini, luogo di ricerca e di studio dell’Opera di lui? Il museo sarà ricavato dentro palazzo Valloni, un’antica struttura nel centro storico che ospita ancora il cinema Fulgor, laddove la mitica Gradisca andava a godersi i film con Clark Gable e occhieggiava e si faceva occhieggiare, perché no. E quindi Zavoli, davvero l’uomo giusto per questo tipo di Grandi Orazioni. Zavoli non va per il sottile quando denuncia il bigottismo e il settarismo che inquinarono i rapporti di certa cultura (o culturame?) che prendeva le distanze dal miglior Fellini (per esempio quello de La dolce vita) in nome
Un grande trio! Il Civ con due miti: Nereo Rocco e Federico Fellini.
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di un’arte retrograda e passatista che non voleva arrendersi al nuovo. Fu così anche con Picasso e con Stravinskij – dice Zavoli – e troppi non vollero accorgersi che anche questi artisti ci proponevano un mondo nuovo e migliore. Zavoli punta l’indice pure sui vecchi sepolcri imbiancati che in questi giorni hanno avuto l’impudenza di riciclarsi per esaltare chi avevano sbertucciato in modo così codino e manicheo. Ma poi Zavoli tocca altri versanti, ricorda che dopotutto Fellini fu ed è il sogno di un sogno e le parole di Zavoli planano su una platea che sottolinea con applausi molto misurati e sorvegliati i passi più incisivi e le scansioni più struggenti nell’evocare e nel magnificare senza una virgola di caduta. E dopo Zavoli c’è Tonino Guerra, grandissimo poeta, che racconta del suo amico Fellini e della necessità per tutti noi comuni mortali di vivere una vita “verticale” perché Fellini amava scalare le vette della poesia e solo vivendo una vita verticale noi tutti potremmo un giorno incontrare il maestro. «L’altra sera sono venuto qui in visita per dare a Federico la buona notte – conclude Guerra – e stamattina sono tornato per dargli il buongiorno. Io mi ricordo che una volta gli ho chiesto: “Ciao Federico, ma a te la morte non fa paura?”. E lui mi ha risposto: “Ma guarda che forse è il godimento di un lungo viaggio”». La partecipazione si fa più massiccia, anche il mondo dello sport (il Rimini calcio e le squadre di basket e di pallavolo) offre la sua testimonianza e proprio per ricordare il versante “sportivo” di Fellini porto un mio personalissimo ricordo. Eravamo al ristorante Pappagallo di Bologna, Fellini aveva invitato Nereo Rocco perché voleva dargli un ruolo da protagonista in Amarcord. Noi attendevamo fuori dalla porta, lui ci chiamò per un pezzo di torta. Rocco scuoteva il testolone e Fellini ci disse: «Bei ragazzuoli, non c’è proprio un cazzo, nel senso che io di calcio non so un cazzo e per ora il vostro Rocco non mi ha risposto un beneamato cazzo».
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Io non sono felliniano, diceva sempre Federico agli intimi e in questo senso e magari senza nemmeno saperlo ricalcava Marx che a un interrogante parigino aveva detto: «Monsieur, mais je suis pas marxiste». Fellini era l’uomo del Borgo di San Giuliano e dopo l’orazione funebre si passa tutti per piazza Tiberio e io non so se Don Valosa, Ovo Galvanina, Mario Plita e Gradisca ci sono o no, ma sì, mi pare che comunque ci siano e che ci siano anche tutti quelli dei Vitelloni, Francone e Franchino, la Leonora, Albertone, Riccardo, Leopoldo, il vecchio Achillaccio e Franco-Moraldo che poi partì per la tangente. Rimini si è cosparsa di manifesti (il Maestro in atteggiamento di meditazione) e di locandine con Fellini che ha la ciliegia sul naso. La salma viene tumulata attorno alle cinque della sera nella cappella di famiglia e la gente di Rimini torna a lavorare in silenzio. Echeggiano ancora nella piazza le note immortali di Nino Rota, un tutt’unico con le immagini di Cabiria o di Gelsomina o di Casanova o di Ginger & Fred o della Nave che va e della Luna che ha quelle Voci. Quando Fellini stava male ed era ricoverato a Rimini, disse a Dorina (a proposito: l’adorata-infermiera è qui anche lei): «Io non capisco come mai tutti mi vogliono tanto bene. Devo aver fatto qualcosa per la mia città, ma non mi ricordo proprio cosa». Andiamo, ragazzi, andiamo giù al mare a vedere passare il Rex. Mercoledì sera hanno proiettato per noi tutti I Vitelloni. Moraldo-Federico alla fine lascia il borghetto e parte per Roma. Ma adesso Moraldo-Federico è tornato. In via Chiavica e in via Padella, nel cuore del Borgo, la gente si toglie il cappello. E al Bar Auto per cinque minuti la smettono di parlare di Baggio e di quel patacca di Sacchi. Andiamo e spicciamoci sennò il Rex non lo vediamo mai più.
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QUOTIDIANO LA GIUSTIZIA PANORAMA SPORTIVO FELSINEO 14 maggio 1957
SCIVOLONE DEL BOLOGNA RITORNO SUL RING DI MAZZINGHI
Un insolito passivo per un Bologna sempre più declinante. L’angosciosa necessità di vittoria del Genoa non giustifica il pesante fardello di reti accusato dai felsinei. Nel corso di un torneo peraltro men che modesto, i rossoblù petroniani erano stati sconfitti più volte, ma lo scarto effettivo, a fine gara, non era mai stato gravoso. A Marassi se l’attacco bolognese non ha demeritato, il sestetto difensivo non ha retto minimamente alle disperate folate degli inguaiati liguri. La cattiva giornata di un Giorcelli solitamente attento e le annose lacune della terza linea hanno per tempo risolto l’incontro. Pochi uomini, al momento attuale, giostrano decentemente nel Bologna. La difesa arranca, è avara di uomini di classe, si sfalda ai primi accenni di lotta, non tiene, e non da oggi, il campo con sufficiente autorità. La mediana, solitamente cerniera invalicabile per i pacchetti offensivi altrui, ora pecca terribilmente di condizione: Bonifaci pensa alle ridenti spiagge della Costa Azzurra, ove, a torneo ultimato, purtroppo farà ritorno e Pilmark non si ritrova. L’attacco procede a strappi: è composto da uomini discretamente attrezzati, ma, come reparto, il nulla o quasi. Un quadro sconsolante, una copia assai lontana dal glorioso originale d’anteguerra. Una situazione disarmante che, Dall’Ara imperando, resterà forse insolubile. Campatelli, il perplesso nocchiero dell’avariato galeone rossoblù, avverte che il terreno gli sfugge. Forse lo rimpiazzerà Benčić, uno jugoslavo giunto tra noi sulle piste di Marjanović.
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Ma dell’assetto della squadra per il prossimo torneo che ne sarà? Occorrerebbero soluzioni radicali, decisioni coraggiose e a suo tempo torneremo su questo scottante problema. Ora Dall’Ara, come al solito, ha promesso mari; gli oppositori garantiscono… monti. I mari di Dall’Ara si prosciugheranno al momento giusto, come di consueto e i… monti degli oppositori, considerata l’apatia della tifoseria petroniana, ci sembrano perlomeno anacronistici. Gli appassionati felsinei si sono alquanto disamorati nei confronti della squadra del cuore, dieci anni di trepida e vana attesa ne hanno fiaccato le velleità; ora sono pronti al peggio, commentano con sarcasmo, i ventilati acquisti dei vari Vukas, Grillo e Sivori. Non hanno più, per farla breve, l’animus clamandi. E onestamente non possiamo dar loro torto. Torna sul quadrato bolognese il campione italiano dei “medi” Mazzinghi. Il pontederese, questa volta sotto l’egida di Torri, incrocerà i guanti lunedì prossimo con l’algerino Boulgroune, un mediomassimo dotato e provveduto. Nel corso della riunione il romano Panunzi affronterà il tedesco Streleki, recente vincitore del nostro Brunetti, e il lucano Mazzola se la vedrà con Don Ellis, l’attempato e smaliziato nero, già avversario di Burchi, Calzavara e D’Ottavio. Completeranno la serata il massimo Scarabellin e il piuma locale Nobile opposti rispettivamente al modesto Drabes e al rientrante Colajanni. Un cartellone complessivamente attraente, una serie di incontri di sicuro richiamo.
Nella pagina accanto: il Civ giovanissimo e sempre serio con, in mano, il giornale “arrotolato”. Chissà se pensava che un giorno ci avrebbe scritto sopra e per così tanti anni.
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QUOTIDIANO LA GIUSTIZIA 5 settembre 1958
FISIONOMIA DEL BOLOGNA NEL CAMPIONATO ’58-59
Il rinsaldato Bologna ha superato di slancio il “muretto” delle partite amichevoli con alcune rappresentative straniere. Un collaudo non troppo impegnativo, se si pensa che il First Vienna pratica ancora temi di gioco anacronistici che raramente consentono ai viennesi di mettere a frutto il fitto e sapiente dialogare di centrocampo e che quindi vietano in partenza ai vessilliferi austriaci di rinnovare i fasti del gran gala calcistico mitteleuropeo d’altri tempi. Si aggiunga poi che i brasiliani del Bela Vista, ingaggiati allo scopo di conferire al confronto coi felsinei il pigmento di un eccitante funambolismo, hanno in gran parte tradito l’attesa, giostrando abilmente soltanto nella prima mezz’ora di gioco ed appannandosi poi, forse per effetto della stanchezza derivante dalle lunghe sgroppate in ogni angolo d’Europa, sino a divenire facile bersaglio di avversari più freschi e più grintosi. Pertanto i successi a catena di quello che si vuol far passare per il “nuovo” Bologna sono serviti soltanto ad edulcorare l’amaro palato della tifoseria locale, già scettica sulle possibilità future del complesso affidato a Foni. Sarebbe d’altro canto ingiusto non ammettere che questi primi confronti precampionato abbiano puntualizzato alcune deficienze organiche, come dire l’inquadratura, della squadra bolognese sicché lo stesso Foni si è messo di buzzo buono a smussare le residue angolosità dell’assetto sino a dare al complesso affidatogli sembianze più confortevoli. Infatti, eliminati alcuni prevedibili squilibri, è venuta a galla quel-
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la che con ogni probabilità sarà la fisionomia del Bologna nel campionato che batte alle porte. La retroguardia, forte di Santarelli, Rota e Pavinato, è già sufficientemente registrata (e peraltro non si può pretendere che questi tre uomini, non certo dotati di gran classe, non siano soggetti a qualche scompenso di natura transitoria). Note assai liete nella linea mediana. Mialich e Fogli sono carburati a dovere e Pilmark non soffre l’usura del tempo. L’attacco è già delineato per quattro quinti: a destra giocherà Perani, che alla sua prima apparizione ufficiale non ha fatto grandi cose ma pure ha palesato buone qualità, commiste a un palleggio molto sbrigativo. Maschio, Pivatelli e Pascutti occuperanno gli altri ruoli dell’attacco, mentre ancora nulla è deciso per quanto riguarda la maglia numero dieci: Vukas non offre garanzie di continuità e quindi crediamo che, specie in occasione degli incontri esterni, toccherà a Bodi di fungere da uomo di raccordo (sempre che non si voglia preferire in ultima analisi, e forse sarebbe la soluzione migliore, il ritorno dell’immancabile Randon). Il giorno 6 di questo mese gli uomini di Foni se la vedranno col Milan nelle eliminatorie della Coppa Italia e questo confronto potrà lumeggiare vieppiù sulle “chances” future del Bologna. Chances che, occorre dirlo, non dovrebbero andare oltre la previsione di un piazzamento immediatamente alle spalle dei complessi più attrezzati. Un ultimo rilievo, quindi, per quel che riguarda la tifoseria petroniana. È acclarato che il pubblico, sinora, si è alquanto disinteressato delle sorti della squadra del cuore, sino a disertare o quasi queste prime prove che preludono al campionato a venire. Sia questo dovuto a rilassamento, ad unanime resipiscenza o a corale dispetto per l’equivoca campagna acquisti operata dai maggiorenti petroniani, il fatto preoccupa. E le risultanze del cimento sul campo del Bari, primo baluardo ufficiale sul cammino del Bologna, metteranno alla prova l’antica fede dei sostenitori felsinei.
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L’UNITÀ 6 ottobre 1958
GLI “ASSOLUTI” DI TENNIS PIETRANGELI E LEA PERICOLI SI SONO LAUREATI CAMPIONI
Due campioni di nuovo conio, seppure dal ruolino esemplare, sono stati laureati agli assoluti di tennis. Nicola Pietrangeli e Lea Pericoli, infatti, non erano ancora riusciti a cingersi dell’alloro nazionale, nonostante più volte fossero giunti a un palmo (soprattutto per quel che riguarda Pietrangeli) dal titolo. Contro Sirola, favoritissimo della vigilia, Pietrangeli ha sfatato il pronostico avverso, riportando un successo contrastato fino alla fine, ma ineccepibile nella sostanza. La gara del “Pariolino” è stata un gioiello di tattica: Nicola, in effetti, ha saputo imporre in ogni fase della contesa un palleggio lungo e teso, mettendo più volte in difficoltà un Sirola che per parte sua poteva contare soltanto sul consueto, proverbiale, implacabile servizio. Già il primo set, vinto da Pietrangeli per 7 a 5, aveva registrato la superiorità tattica del romano e più pronto negli scambi e incredibilmente esente dalle abituali fallosità. Nella seconda partita, lunga alternativa di vantaggi con un Pietrangeli sempre in ottima vena ed un Sirola piuttosto legato e sempre in grado di rimontare soltanto in virtù del servizio di cui si è detto. Il fiumano giungeva a condurre per 5-4, poi la maggior concentrazione di Pietrangeli (quasi un paradosso, se si pensa che si è sempre rimproverato al romano l’impegno approssimativo e l’assoluta carenza di autocontrollo) portava lo stesso a incamerare il set per 9-7. Anche il terzo set vedeva i contendenti alternativamente alla ribalta, ma il giudizioso Pietrangeli convergeva sui colpi sul manchevole rovescio di Sirola, finché quest’ultimo,
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palesemente sfiduciato, perdeva il servizio al dodicesimo gioco, consentendo in questo modo al rivale di fregiarsi dell’ambito alloro. Varrà ripetere che Pietrangeli ha compiuto il predetto capolavoro tattico, logorando Sirola con pallonetti, passanti e palleggio teso secondo le circostanze. Di contro Sirola è apparso piuttosto a disagio contro l’inattesa regolarità del rivale. La Pericoli ha dovuto far ricorso ad una svariata gamma di energie di riserva per piegare una Riedl sempre più micidiale nel perpetuare all’infinito il palleggio da fondo campo. Se a questo si aggiunge che la Riedl, in quest’occasione, ha abbassato non poco la traiettoria delle sue palle, sfoggiando un “drive” funzionale e sovente risolutore, si spiega facilmente come la vittoria della Pericoli sia maturata in più di due ore di gioco, al limite dei tre set. Vinta alla maniera spiccia la prima partita per 6 a 1, la Pericoli doveva cedere la seconda al nono gioco. Il terzo set era combattuto alla morte. Dapprima la Riedl si portava avanti per 5 a 3, poi il suo gioco cominciava a denunciare preoccupanti smagliature e la Pericoli riportava la gara, non senza fatica, al quattordicesimo gioco. Si può bene affermare che la Pericoli abbia meritato il titolo poiché ha palesato una dovizia di colpi veramente rimarchevole. La Riedl è giunta alla finalissima, agevolata non poco dai turni che erano stati riservati alla Lazzarino. Battuta la quale, la Riedl l’ha surrogata, giovandosi delle previste compiacenze di un cartellone del tutto benevolo verso la testa di serie n. 1. Questo nulla toglie alla pertinacia e al lodevole agonismo della Riedl, un elemento non troppo dotato tecnicamente, ma pure progredito in misura tale da mancare la conquista del titolo per un soffio. In questo modo i pronostici della vigilia, per quel che riguarda i singolari, sono stati ampiamente smentiti. Pietrangeli l’ha fatta in barba a chi lo aveva predestinato quale collaudatore di Merlo o di Sirola, piegandoli entrambi in maniera del tutto perentoria.
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CALCIO E CICLISMO ILLUSTRATO N. 44 – 3 novembre 1963
TRA SPAL E BOLOGNA UN DERBY ALLA PAESANA
Un derby piccolo piccolo, il derby insomma che ci si poteva tranquillamente immaginare. Un Bologna decimato nei ranghi e per di più gravemente handicappato dopo sette minuti di gioco da un incidente occorso ad Haller e infine una Spal che regge tuttora il fanale di coda e che – tanto per parlarci chiaro – palesa una condizione corale che purtroppo avvalora la sua modestissima classifica. Non restava quindi che sperare nell’estro di tizio o di caio perché l’incontro – altrimenti ancorato a limiti di assoluta pochezza – potesse improvvisamente accendersi. E in effetti qualcosa è successo, poco troppo poco per poter fare approdare l’ennesimo derby al porto di un certo decoro estetico, troppo poco in altre parole per poter cancellare d’incanto la sgradevole impressione d’approssimazione tecnica offerta dai due complessi nei novanta minuti. Eppure – dicevamo – qualcosa è successo. Vedi ad esempio una palla-gol mancata da Nielsen a metà ripresa. Riva era già fuori causa, non restava che Bruschini sul cammino di Nielsen. Ma Harald spesso si mette in tasca il senno e agisce d’istinto. Sberla alla palla ad occhi chiusi e gran ribattuta di Bruschini, questo il risultato. Poi la rete annullata alla Spal. Da un tiro errato di Crippa ne consegue che De Bernardi sbuca alle spalle di tutti e mette dentro; chiaro che al momento di far gol l’estrema spallina è in offside, ma resta da vedere dove era il De Bernardi al momento del tiro di Grippa. Jonni dice che in quel momento De Bernardi era già ben oltre
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l’ultimo difensore. Noi francamente propendiamo per la tesi arbitrale, dunque ci rimettiamo al giudizio di Jonni. E infine alla palla-gol anche per i locali e proprio a pochi secondi dal termine. E Micheli che al volo indirizza nell’angolo. Negri vola e para da campione. Al di là peraltro delle cosette che potevano essere e che non sono state resta il fatto di un derby giocato alla paesana. Da una parte una squadra che grossi mezzi non ha almeno per ora. Dall’altra un complesso che sa il fatto suo ma evidentemente deve adattarsi alle circostanze quando il suo uomo-luce Bulgarelli non scende in campo, quando gente come Tumburus, Pascutti e Capra deve restarsene appiedata e infine quando Haller dà forfait per infortunio dopo pochi attimi di gara. Un discorso sugli attuali limiti della Spal porterebbe lontano. Limitiamoci pertanto a rilevare le assai egregie prestazioni di Bozzao, Cervato, Riva, Bruschini e Crippa e al tempo stesso segnaliamo a chi di dovere il problema del centrocampo estense. Micheli è tecnicamente troppo modesto, Muccini ha scarso peso. Dicono che manca Massei. Ma basterà il posapiano Oscar…? Furlanis, Franzini e Negri, vi facciamo questi tre nomi fra i rossoblù. Ma prendete nota che anche Janich e Fogli hanno ben meritato. Ultime considerazioni telegrafiche: Jonni è apparso un po’ giù (ha sorvolato su un fallo di Cervato in piena area…). De Bernardis ha esordito un po’ troppo in sordina. Bui è stato assolutamente bloccato da Furlanis e Nielsen ha avuto la scalogna di imbattersi nei migliori Riva e Cervato della stagione. Comunque è stato giusto così. Il Bologna appare un po’ in disarmo. Ma non drammatizziamo: a Ferrara aveva mezza squadra in infermeria e presentava due terzini d’ala in precarie condizioni di forma. Bernardini ha assoluta necessità che i suoi tirino un po’ il fiato. Ecco, qualche boccata d’ossigeno, poi fra venti giorni sarà il turno della Roma. Ne riparleremo.
Balanzone con la pancia piena festeggia il famoso risultato dei rossoblĂš con i “canariniâ€? del Modena.
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STASERA SPORT 15 ottobre 1962
BOLOGNA-MODENA 7-1 PASCUTTI E NIELSEN PIOGGIA DI GOL
RETI: p.t. al 2’ Pascutti, al 42’ Nielsen; s.t. al 5’ Pascutti, al 12’ Nielsen, al 15’ Goldoni, al 22’ Bulgarelli, al 38’ Pascutti, al 40’ Nielsen. BOLOGNA: Santarelli; Capra, Pavinato, Tumburus, Janich, Fogli; Renna, Bulgarelli, Nielsen, Haller, Pascutti. MODENA: Balzarini; Barucco, Garzena; Ottani, Aguzzoli, Goldoni; Gallo, Merighi, Pagliari, Tinazzi, Bruells. ARBITRO: De Marchi. Un Pascutti gigantesco, inarrivabile, lunare. E con lui un Bulgarelli tutto d’oro zecchino, un Nielsen implacabile, un Haller dalle ispirazioni imprevedibili, un Renna estroso, brillante comprimario. Una folgore, insomma, questo Bologna cui l’impagabile Fulvio Bernardini ha conferito i panni di una équipe vera e propria, corposa, duttile, francamente tesa allo scudetto e parimenti dotata di tutti gli attributi del caso per una aspirazione del genere. Che dunque poteva fare l’artigianale Modena se non restare folgorato, travolto, sepolto sotto la dirompente valanga rossoblù? L’improvvisa esplosione rossoblù dopo appena 120 secondi di gara mandò a rotoli ogni piano. E mentre Goldoni teneva il ruolo con disciplina e con profitto soccorrendo sovente l’incerto Aguzzoli, per parte sua Ottani non toccava una palla a contatto con lo spumeggiante Haller.
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Fortuna che Merighi nel primo quarto d’ora mettesse più volte in difficoltà il disorientato Fogli e che Tinazzi, dopo tutto, desse un’occhiata di quando in quando a Bulgarelli. Per questo fino alla mezz’ora il Modena tenne il campo con pieno merito. Poi il Bologna cominciò a vincere qualche contrasto a centrocampo, Merighi disparve dal campo e Fogli ne profittò all’istante, Tinazzi si spinse più avanti col bel risultato di trascurare completamente Giacomino Bulgarelli, e la musica cambiò. Fu ancora il Bologna a far centro e si capì subito che il Modena poteva chiudere bottega. Alla ripresa del gioco Malagoli ne tentò un’altra. Riportò Ottani a fianco di Aguzzoli e spinse avanti Goldoni. Costui si prodigò da par suo ma Ottani faceva acqua paurosamente. Aguzzoli non era da meno e gli interni non arretravano più. Merighi era assente, Tinazzi ammirava da lontano le ripetute prodezze di Bulgarelli. Il Bologna cominciò a dilagare, il Modena si fece vivo con Goldoni (sempre lui…) e ancora il Bologna fece centro. Finì con il trionfo dei rossoblù e la catastrofe di Malagoli e soci. Una catastrofe che d’altra parte non deve deprimere oltre il lecito. D’accordo che il mezzo sistema è una follia quando non si ha l’interno che marchi la mezz’ala avversaria. D’accordo che Merighi gioca soltanto una piccola fetta di partita. D’accordo che Ottani è un calciatore da serie minore ma poi il Bologna dove lo mettiamo? Un Bologna così è possibile arrestarlo? E quanti, di grazia, riusciranno a frenarne gli slanci? Conclusione: un Modena modesto (Goldoni e Pagliari generosissimi, Barucco, Ottani e gli interni al di sotto di un limite accettabile) e peraltro vittima di un incontenibile Bologna. Un Bologna registratissimo in difesa (Pavinato sugli altri) e addirittura esplosivo all’attacco con il grandissimo Pascutti di cui si è detto.
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Le otto reti. 2’: Corner corto di Renna ad Haller, gran fendente dalla linea di fondo. Balzarini devia. Pascutti irrompe, uncina di sinistro e mette dentro. 43’: Bulgarelli semina Aguzzoli e scodella sulla linea di porta una palla che Nielsen spinge in rete. Ripresa: 5’: Renna su punizione pesca Pascutti lanciato oltre i difensori. Merighi è immobile, non contrasta i rossoblù. E tre. 9’: Renna verso Balzarini. Questi esce, poi ci ripensa e rientra. Troppo tardi. Nielsen inzucca dentro il cross. 13’: Nielsen centra, Capra respinge corto, Goldoni scaglia al volo un proietto a filo d’erba. L’onore è salvo. Ma cos’è l’onore quando gli altri lo schiaffeggiano a più riprese? 20’: Pascutti a Bulgarelli. Pennellate che va a segno. 37’: Bulgarelli e Haller triangolano. Aguzzoli non ce la fa, “Giacomino” allunga sul centro. Arriva il ciclone Pascutti e fanno sei. Diventano sette al 39’ quando il povero Aguzzoli è saltato da Renna. Balzarini arresta la palla, non la trattiene. Nielsen raccoglie e fa centro. E finisce qui perché non c’è più tempo per farne altri.