Grazia: #unanuovanormalità

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APRILE 2021 14/4/2021 SETTIMANALE N.18-19 € 2,00

UNA NUOVA NORMALITÀ direttore ospite Piero Lissoni CON INTERVENTI DI

VALERIA SOLARINO 42 ANNI ATTRICE

Mario Bellini / Eleonora Carisi / Francesco Dal Co Anne Hidalgo / Stefania Lazzaroni Antonio Manzini / Giovanna Melandri / Giorgio Metta Davide Oldani / Maria Porro / Ferruccio Resta Ugo Rondinone / Giuseppe Sala Andrée Ruth Shammah / Valeria Solarino Philippe Starck / teamLab / Sergio Ubbiali


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G R A Z I A SOMMARIO

24 LA POSTA di GRAZIA

AT T U A L I TÀ 34 EDITORIALE 36 IL DIRETTORE OSPITE 38 IL TRIBUTO Giovanni Gastel 40 CONTAMINAZIONE Piero

Lissoni: «In ogni oggetto io vedo la vita»

53 IBRIDAZIONE Philippe Starck: «Io creo per il bene di tutti»

59 CONTAMINAZIONE

Mario Bellini: «Le idee nascono quando non hai certezze»

64 MINIMAL Segni di stile 89 PERCEZIONE Andrée Ruth Shammah: «Il teatro guarirà i nostri cuori»

95 CONTAMINAZIONE Anne Hidalgo: «Ritroverete una Parigi ancora più verde»

99 CONTAMINAZIONE Giuseppe Sala: «Una seconda vita per Milano»

104 IBRIDAZIONE Vista sul domani 115 PERCEZIONE Davide Oldani:

«A tavola cambieremo il pianeta»

119 IBRIDAZIONE Giorgio Metta: «Le macchine aiuteranno gli esseri umani a migliorare il mondo»

foto: ANDREA OLIVO@AURAPHOTO

125 CONTAMINAZIONE Ferruccio Resta: «L’università adesso guarderà più avanti»

129 PERCEZIONE Sergio Ubbiali: «La nostra forza è saper stare insieme»

132 PERCEZIONE Valeria Solarino: «Il bisogno di sfiorarsi»

153 CONTAMINAZIONE Giovanna

Melandri: «L’ecologia e il talento femminile faranno rinascere l’arte»

LE FORME DELLO STILE Giacca in lana, anelli in metallo con finitura color oro: Dior Poesy con perlina di vetro e Dior Animals con tigre di resina (tutto Dior), pantaloni (Luisa Spagnoli).

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G R A Z I A SOMMARIO

156 PERCEZIONE teamLab: «La

nostra arte avvicina all’universo»

163 PERCEZIONE Ugo Rondinone:

«I miei giganti di pietra parlano all’anima»

167 CONTAMINAZIONE Stefania Lazzaroni: «I giovani artigiani salveranno il made in Italy»

170 PERCEZIONE Le forme dello stile

191 MINIMAL Maria Porro: «Arredare vuol dire trasformare»

195 PERCEZIONE Eleonora Carisi: «Vi porto nei nostri sogni»

199 CONTAMINAZIONE Francesco Dal Co: «La bellezza abbatte i confini»

203 MINIMAL La forma dei desideri 219 MUST

BELLEZZA 222 Il futuro è ibrido 235 LOVE La cipria trasformista 237 LOVE Il profumo di design a forma di goccia

LIFESTYLE 239 CULTURA Televisione, Rachele Bastreghi, Libri, Mostre

251 VIAGGIO C’è una nuova Italia da scoprire

257 INFINE 260 INDIRIZZI 265 OROSCOPO di Antonio Manzini 266 UN POSTO NEL CUORE di Alessia Marcuzzi

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foto: EMRE GUVEN

VALERIA SOLARINO Per l´attrice Valeria Solarino, giacca e gonna in lana, cintura DiorDouble (tutto Dior). Orecchini Love de Cartier, orologio Panthère de Cartier in oro rosa (tutto Cartier).


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DIRETTRICE RESPONSABILE_SILVIA GRILLI

G R A Z I A 18-19 SOMMARIO

grazia.direttrice@mondadori.it

DIRETTORE OSPITE_PIERO LISSONI

piero.lissoni@lissoniandpartners.com CONCEPT GRAFICA_LISSONI GRAPHX

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PIERO LISSONI, architetto, è il direttore ospite di questo straordinario numero di Grazia.

MARIO BELLINI, architetto, ha firmato edifici e icone del design che oggi sono esposte al museo MoMA di New York.

L'attrice Valeria Solarino indossa una giacca in tweed lurex con colletto e polsi in seta su gonna coordinata, manchette in metallo con perle e sandali in gros grain (tutto Chanel). L'IDEA BELLEZZA: Sul viso, l'effetto luminoso naturale di Les Beiges Eau de Teint Medium, formula idratante con microsfere di pigmenti incapsulati (Chanel). TRUCCO: Silvia Dell'Orto@Etoile Management using Les Beiges de Chanel. PETTINATURE: Maurizio Kulpherk@Etoile Management. STYLING: Selin Bursalioglu. FOTO: Emre Guven.

ELEONORA CARISI, creatrice digitale, è un riferimento nella moda e nel design.

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199 FRANCESCO DAL CO, storico di architettura e direttore di Casabella, crede nel design che abbatte i confini.

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ANNE HIDALGO è la sindaca di Parigi e una voce femminile forte su temi come ecologia e inclusione.

STEFANIA LAZZARONI dirige Altagamma, la Fondazione che riunisce 107 aziende dell'eccellenza italiana.

GIOVANNA MELANDRI è presidente della fondazione del Museo d'arte contemporanea MAXXI di Roma.

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191 UGO RONDINONE, artista, trasforma i paesaggi con le sue gigantesche sculture di pietra.

DAVIDE OLDANI, due stelle Michelin, è lo chef del D'O e un pioniere della cucina sostenibile.

99 GIUSEPPE SALA è stato il manager dell'Expo 2015 ed è il sindaco di Milano.

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ANTONIO MANZINI è scrittore e regista. Dai suoi libri è nato il vicequestore Rocco Schiavone, popolare in tv.

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MARIA PORRO è la presidente di Assoarredo, che riunisce le artigianalità dell'arredamento.

89 ANDRÉE RUTH SHAMMAH è regista e l'anima del Teatro milanese Franco Parenti.

FERRUCCIO RESTA è il rettore del Politecnico di Milano, eccellenza internazionale.

53 PHILIPPE STARCK è architetto e designer e ha firmato oggetti diventati di culto, ma anche interni e hotel.

GIORGIO METTA dirige l´Istituto Italiano di Tecnologia e progetta i robot del nostro futuro.

156 TEAMLAB è un collettivo di creativi e scienziati giapponesi che usa la tecnologia per produrre arte.

129 SERGIO UBBIALI, teologo, è una delle voci religiose più autorevoli d'Italia.



G R A Z I A POSTA

#io leggo Grazia Scrivi alla direttrice di Grazia, Silvia Grilli, all’indirizzo grazia.direttrice@mondadori.it

Email di Paolo Massini Cara Silvia, ho letto la sua risposta alla lettrice Ileana Colombo relativa alla situazione dei vaccini e vorrei tornarci sopra. Lei che è sempre molto attenta, che cosa pensa del vaccino prodotto da AstraZeneca? Non crede che farselo sia una roulette russa? Io ho 62 anni e non voglio vaccinarmi con questo siero. Aspetto il suo parere. «Caro Paolo, avevo scritto la mia risposta a Ileana Colombo prima del nuovo pronunciamento dell’Agenzia Europea per i Medicinali, Ema. Il 7 aprile l’agenzia ha contraddetto le sue precedenti conclusioni e chiarito che i casi di trombosi cerebrale, che hanno portato a decessi in Gran Bretagna e in tutti i Paesi d’Europa compresa l’Italia, devono essere considerati come raro effetto collaterale di Vaxzevria (il vaccino che prima di cambiare nome si chiamava COVID-19 Vaccine AstraZeneca). Infatti, mentre precedentemente era stato escluso ogni nesso, ora l’agenzia fa presente agli operatori sanitari e alle persone che ricevono le dosi che potrebbe esserci la possibilità di rari coaguli di sangue con piastrine basse entro le prime due settimane dalla somministrazione di Vaxzevria. Finora i casi si sono verificati in donne sotto i 60 anni. Dopo queste conclusioni anche l’Italia, come già avevano fatto altri Paesi europei, ha cambiato le fasce d’età a cui destinare il farmaco prodotto da AstraZeneca. Contrariamente a prima, ora ne raccomanda l’utilizzo dai 60 ai 79 anni, ma non pone limiti al richiamo. Dopo casi di trombosi negli Stati Uniti seguiti a somministrazione di vaccino Johnson&Johnson, l’Ema ha avviato una ulteriore indagine anche su questo vaccino. Se lei non appartiene a una delle categorie per le quali è previsto l’obbligo, può decidere di non immunizzarsi in virtù del principio di autodeterminazione in materia sanitaria. L’Ema ricorda, però, che i benefìci di questi vaccini sono superiori ai rischi. Un caro saluto».

Email di Barbara Imbres Cara direttrice, non voglio parlare delle cose brutte

di questo periodo, perché già ce ne sono tante, ma di una piccola riscoperta che mi è stata concessa durante il lockdown e il periodo forzato in casa. Avevo perso di vista il mio giornale preferito, Grazia, che da sempre ha accompagnato la mia infanzia perché a casa la mia mamma ne aveva sempre una copia. Poi anch’io avevo proseguito la bella abitudine di acquistarlo, una volta andata a vivere fuori dalla casa dei miei genitori. Ma ultimamente, per mancanza di tempo o di costanza, avevo perso questa bella consuetudine. Una gradita offerta arrivata via posta mi dà l’occasione di abbonarmi ed ecco che Grazia ritorna a far parte della mia quotidianità. La rivista si è evoluta nell’arco degli anni, ma rimane quella di sempre, con tante belle inchieste e tanta moda, da ammirare e criticare. Per quanto io abbia installato l’app sul telefono per scaricare le copie online, mi ritrovo quasi sempre a non leggerle finché non arriva l’agognato cartaceo via posta. È un rito irrinunciabile che tutta la tecnologia di questo mondo non potrà mai sostituire. Forse sono diversamente anziana, ma tutto questo per me non ha prezzo. Grazie a tutti voi per la vostra professionalità. «Cara Barbara, grazie per questa sua email che ci riempie di soddisfazione e dà un senso al nostro lavoro. Un abbraccio».

PRECISAZIONE Il trench indossato da Simona Ventura sulla copertina di Grazia 17 fa parte della collezione Sportmax primaveraestate 2021.

Scrivi a Grazia: palazzo Mondadori, 20090 Segrate (MI) - EMAIL: lapostadigrazia@mondadori.it SOCIAL: facebook.com/grazia - twitter.com/grazia - instagram.com/grazia_it - WEB: grazia.it

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G R A Z I A POSTA

Email di Annamaria Cannino Gentile direttrice, ho appena letto l’email di Michela Peronino e, ahimè, mi trovo pienamente d’accordo con lei. Ritengo che trattare argomenti seri come il sessismo e le discriminazioni sia molto importante e ben venga che ci siano donne impegnate come lei. Ma farlo tutte le settimane, in ogni singola pagina, sta rendendo pesante il mio, anzi il nostro giornale preferito, e non le nascondo che ultimamente salto qualche articolo, in cerca di nuove emozioni. Le chiedo di fare autocritica e di venire incontro anche a donne come noi che non vivono continuamente in lotta col maschio. «Cara Annamaria, Grazia tratta gli argomenti più disparati, ma se lei ritiene che le manchino nuove emozioni, mi impegno a cercare di dargliele. A dimostrazione che non siamo perennemente in lotta col maschio, la invito alla lettura di questo numero con direttore ospite un uomo: l’architetto Piero Lissoni. Un caro saluto».

Commento di Carmen Castagna A proposito della sedia mancante per Ursula von der Leyen certamente Recep Tayyip Erdogan è un dittatore, ma il presidente del Consiglio europeo Charles Michel poteva anche cedere la poltrona... Sarebbe stato uno smacco non indifferente per il turco. «Cara Carmen, sono d’accordo con lei. Due presidenti hanno visitato la Turchia: la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel. Ma solo a uno dei due, e cioè all’uomo, è stata offerta una sedia. Il video, che ha fatto il giro del mondo, ci è sembrato incredibile, ma pensate a come vengono trattate le donne in Turchia. Il presidente Recep Tayyip Erdogan ha ritirato

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Care lettrici, dalle vostre lettere può nascere l’idea di un’inchiesta o di nuove storie da raccontare. Firmate con nome e cognome: sarà più facile contattarvi. E… scriveteci! Con l’invio del vostro contributo dichiarate di accettare le condizioni del servizio consultabili nelle ultime pagine della rivista. A cura di Lucia Valerio

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Con Grazia c’è Simona Grazia @ graziariverditi starring @simonaventura for @grazia_it by @ivangenasiphotography

Ely @devil_guendalyn Questa borsa evoca atmosfere estive... che chissà se noi vivremo nella loro interezza

Tetella Facciolla @tetella56 Giovedì, zona rossa, freddo, Grazia, stiamo a casa @grazia_it

Simona Ventura Fanpage @simonaventura_supersimo Copertina Grazia in edicola da oggi. Vi piace? #simona

foto: DAGHASHGDVHGASDVH

Email di Alberta Vitali Viola e Edo saranno felici di vedere la loro Wendy sul giornale di mamma e nonna.

il suo Paese dalla Convenzione di Istanbul, un trattato che cerca di proteggere le donne dalla violenza domestica e di genere. E ora, per sfregio, ha lasciato la presidente della Commissione europea senza sedia d’onore durante una visita ufficiale. È stato un gesto di deliberata umiliazione pubblica nei confronti di una donna, visto che in tutti i precedenti incontri con presidenti della Commissione e del Consiglio europei (con Jean-Claude Juncker e Donald Tusk, per esempio) a entrambi il cerimoniale di Erdogan aveva concesso le sedie. Quanto a Michel, a mio parere avrebbe dovuto alzarsi e rimanere in piedi con von der Leyen. Con questi dittatori bisognerebbe essere chiari».









G R A Z I A EDITORIALE La direttrice di Grazia, Silvia Grilli.

LA GUIDA DI PIERO E LO SGUARDO DI GIOVANNI

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uando decisi che sarebbe stato Piero Lissoni il direttore ospite di questo numero di Grazia, non conoscevo l’uomo che ho cercato di decifrare con l’intervista a pagina 40. Conoscevo l’architetto, il designer, l’imprenditore di fama internazionale. Mi piacevano i mobili e gli oggetti iconici che aveva disegnato, gli hotel, i negozi, gli yacht e le barche a vela che ha progettato. Ero affascinata dalla sua versatilità, dall’aver attraversato i confini tra i Paesi e le arti. Ero fermamente convinta che sarebbe stata la personalità ideale per aiutarci a vedere in modo nuovo le nostre case, riscoprire le nostre città, i nostri spazi dopo più di un anno di pandemia, lockdown, incertezza, cambiamenti di stile di vita. Nella mia visione, Lissoni avrebbe dovuto essere la guida ideale alla riappropriazione dei luoghi fisici dopo l’abbuffata di digitale a cui siamo stati costretti con le chiusure delle nostre città, dei nostri Stati, del mondo intero. Quando gli ho offerto la direzione di questo numero, sono stata colpita dall’entusiasmo con cui ha accettato la mia proposta. Il nostro primo incontro è stato via Zoom, io in casa a Milano, lui non so in quale cantiere. Poi ci siamo visti nel suo grande e stupefacente studio in centro a Milano. Da dietro la mascherina mi ascoltava interessato e umilmente mi chiedeva: «Però dirigimi tu». Ecco, non credetegli. Ora che un po’ l’ho conosciuto, sono certa che sotto la mascherina lui ridesse mentre formulava la sua richiesta di aiuto.

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Per questo numero, Piero Lissoni ha deciso ogni personalità che avrebbe dovuto comparire, ogni tema da comunicare, ogni taglio fotografico e grafico. Nel frattempo, uno dei grandi protagonisti che, invitato da Piero, avrebbe dovuto scrivere un pezzo, il fisico Roberto Cingolani, è diventato ministro della Transizione ecologica. Segno che Lissoni ci aveva preso anche questa volta. Vorrei scrivere qui di Giovanni Gastel. Piero aveva voluto i suoi occhi per raccontare visivamente l’anima delle persone che compaiono su questa edizione unica di Grazia. Giovanni ha scattato i ritratti che pubblichiamo qui prima di andarsene, portato via dal Covid-19. Era un grande amico di Piero. Per lui Lissoni aveva disegnato l’allestimento della mostra fotografica retrospettiva a Palazzo della Ragione a Milano prima, al museo MAXXI di Roma ora. Vi invito alla scoperta di queste pagine straordinarie di Grazia, come se vi invitassi a un viaggio emozionante. Ogni personalità è un esempio di dedizione totale al proprio lavoro. Ogni contributo che trovate qui è fatto di cuore e passione. Incontrerete tante persone e un mondo di oggetti. Ma alla fine scoprirete che le cose davvero importanti della vostra vita possono stare tutte in una valigia. Silvia Grilli


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Avio Sistema di divani, Piero Lissoni, 2016 Photo: Gionata Xerra


G R A Z I A IL DIRETTORE OSPITE Piero Lissoni, 64 anni, architetto e designer, è il direttore ospite di questo numero di Grazia. La sua Lissoni & Partners ha uffici a Milano e a New York.

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ome direttore temporaneo, o se preferite ospite, ho voluto raccogliere intorno a me una serie di figure che mi piacciono per quello che fanno, al di là della loro professione. Figure intese come “umanità”, persone che nel corso della vita mi hanno incuriosito. Sono come amici che mi scrivono una lettera e questo numero speciale è la raccolta di questa corrispondenza epistolare. Ho poi scelto tre temi, argomenti su cui discutere con questi amici dal loro punto di vista, il loro occhio che vede attraverso l’arte, la tecnologia, il teatro, il cibo, la letteratura, addirittura la teologia… e ovviamente non potevano mancare l’architettura e il design. Il primo tema è minimal, lontano dal famoso “less is more” racconta quel mondo rispettoso dei luoghi, delle cose e degli oggetti. Minimal come atteggiamento di vita riconducibile a una visione quasi giapponese, dove la tazza del tè si tramanda di generazione in generazione e quando si rompe viene “rammendata”. Rammendare è un termine un po' desueto, non roboante, ma nel mio mondo la sostenibilità sta nella durata delle cose e ricucire ha una portata quasi rivoluzionaria. Il rispetto nell’utilizzo delle cose equivale anche a fare attenzione alla loro naturale lunghezza vitale, senza la smania di accumulare. Non in maniera punitiva, né ideologica, vorrei parlare di un modello quasi intellettuale capace di essere sempre un po’ distaccato. La seconda parola è ibridi e il mondo che ci sta intorno. In fin dei conti siamo tutti schiavi degli smart-phone, ibridi per eccellenza, nati come telefono ma che adesso fanno tutt’altro! Ma ci sono anche gli ibridi intesi come “a cavallo di mondi diversi”, l’arte che entra nel mondo quotidiano, oppure l’ibridazione dei cibi. E poi per fortuna ci sono anche gli esseri umani ibridati, le

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miscele intellettuali o razziali. Infine ho scelto il termine contaminazione che può avere risvolti positivi - sono personalmente molto lontano dall’idea populista della purezza, che sia intellettuale, culturale o religiosa. Ma contaminazione è anche la Terra dei Fuochi o la nube di micro-polveri che soffoca una parte dell’Europa. Allo stesso tempo è la bellezza di camminare per strada e vedere i ragazzini che escono dal liceo e che si vestono, si muovono e parlano in maniera assolutamente nuova. Come architetto e designer tento da sempre la contaminazione, quando disegno edifici o oggetti solitamente li contamino… o li ibrido. In ognuno dei miei progetti troverete un pezzo cinese insieme con qualcosa di giapponese, oppure di scandinavo, magari mischiato a un oggetto avanguardista o a una poltrona iper-contemporanea. Sono sempre questi i temi che guidano il progetto fotografico e di styling dei servizi della rivista. Il set di design è costruito all’insegna del minimalismo, dentro due scatole, una bianca e una nera, mentre la selezione dei pezzi indaga la contaminazione e gli ibridi. Allo stesso modo, per i servizi di moda ho scelto il fascino di modelle multietniche che raccontano il modo di vestirsi tipico delle signore milanesi o parigine, capaci di miscelare con grande maestria vestiti griffati alle magliette comprate al mercato. Qui i luoghi invece parlano della bellezza di Milano e di alcuni dei suoi angoli più affascinanti perché, ecco, forse dobbiamo aggiungere un quarto tema: Milano. A Milano abbiamo infine dedicato un reportage attraverso le contraddizioni e le contaminazioni che la caratterizzano e la rendono una città speciale. Piero Lissoni

foto: VERONICA GAIDO

MINIMAL, IBRIDI E CONTAMINAZIONE: TRE PAROLE PER COMPRENDERE IL NUOVO MONDO



G R A Z I A IL TRIBUTO

Untitled (Angel 22), 2015, di Giovanni Gastel. Nato a Milano il 27 dicembre del 1955, il fotografo si è spento nella sua città il 13 marzo 2021. Con Piero Lissoni aveva iniziato a lavorare a questo numero straordinario di Grazia, prima di ammalarsi.

CON QUESTA IMMAGINE RICORDIAMO IL GRANDE FOTOGRAFO GIOVANNI GASTEL, AUTORE DI MOLTI RITRATTI DI QUESTO NUMERO 38



G R A Z I A CONTAMINAZIONE

In ogni oggetto io vedo la vita Il fratello perso quando era bambino. Il padre che lo mandò a fare il muratore per insegnargli che cos´è il lavoro. La certezza di voler fare l´architetto e gli studi al Politecnico. Piero Lissoni, direttore ospite di questo numero, racconta alla direttrice di Grazia Silvia Grilli la disciplina e l´ossessione che lo hanno fatto diventare un grande del design. Con la consapevolezza che la nostra esistenza è fatta di cose che si potrebbero mettere dentro una valigia di SILVIA GRILLI foto di GIOVANNI GASTEL

Centro di Milano. Interno giorno. Un grande spazio chiaro con vetrate, foto di Mick Jagger, Che Guevara, libri di Camilleri, vinili di Jimi Hendrix, modelli di macchinine, oggetti e targhe di ogni tipo, mobili iconici. Una specie di grande camera delle meraviglie. È lo studio di Piero Lissoni, il direttore ospite di questo numero del nostro settimanale. E qui io, Silvia Grilli, direttrice di Grazia, lo intervisto. Piero, tu sei nato a Seregno, in Brianza. «La mia mamma ha seguito il suo medico, che in quel momento lavorava in quella clinica. Sono milanese-brianzolo». Raccontami di te da piccolo. «Fionde à gogo. Dopo l’uso sistematico nel Medioevo, le fionde più efficienti le ho costruite io. Tiravamo come dei dannati».

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Che lavoro facevano i tuoi genitori? «Restauravano gli imbottiti antichi, partendo da rovescio per non cambiare il tessuto. Facevano divani molto contemporanei all’epoca e allo stesso tempo restauravano altri mondi. Si scambiavano di volta in volta le qualità della mente e del braccio, mentre io facevo danni». Quanti fratelli siete? «Saremmo quattro, viventi tre. Il mio fratellino Marco ha avuto la brillante idea di andarsene quando aveva 8 anni». Che cosa è successo? «Tornava dall’allenamento di calcio in bici e una signora ha passato un incrocio senza rispettare il semaforo». Che cosa ti ricordi di quel giorno? «Avevo 12 anni e mezzo. Tornai da scuola e non trovai


Il designer Piero Lissoni, 64 anni.

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G R A Z I A PIERO LISSONI nessuno a casa. Venne uno dei fratelli di mio nonno a portarmi a mangiare un gelato e trovai tutto stranissimo. Era un sabato pomeriggio che non dimenticherò mai: un 25 maggio freddissimo, nuvolosissimo. L’adulto cercò di spiegarmi che c’era stato un incidente e il mio fratellino forse non sarebbe tornato a casa. Dopo un po’ mi spiegarono esattamente che cosa fosse successo». E la tua mamma? «Hai idea che cosa vuol dire vivere in una famiglia spaccata? La mia mamma e il mio babbo erano completamente, sacrosantamente, impazziti. Massimo non era ancora nato. Eravamo io e Riccardo, che aveva 3 anni. Se non ci fossero stati i miei nonni materni, il collante della mia famiglia sarebbe stato completamente sciolto nell’acido in questa tragedia. Dopo tre anni misteriosamente si ritornò alla luce, perché nasce questo figlio piccolissimo: Massimo. E da lì abbiamo ricominciato a comportarci come una famiglia normale. Prima c’era questa atmosfera plumbea, io provavo la rabbia di non poter giocare, perché non si poteva fare. E mi ricordo il funerale con migliaia di persone, un numero così impressionante non lo avevo mai visto in vita mia». Dov’era il funerale? «Fuori Milano, in questo paese che si chiama Albiate, dove c’è la casa dei miei nonni. Il ricordo più terrificante fu l’urlo di mia madre in chiesa che silenziò il prete che parlava di angeli, paradisi, di questo bimbetto che quel giorno lì se ne stava a svolazzare in cielo con gli altri cherubini». Tu che ragazzino eri? «Già dalle elementari il refrain era “non è male, è sicuramente molto intelligente, ma non si applica, è di-

«A SCUOLA MI DICEVANO: “È MOLTO INTELLIGENTE, MA NON SI APPLICA”»

stratto, potrebbe dare di più”. È stato il leitmotiv della mia vita». A un certo punto sarà finito, no? «A 60 e passa anni suonati me lo ripeto ancora: avresti potuto fare di meglio, essere più attento, studiare di più, viaggiare di più, impiegare il tuo tempo in maniera migliore». Che liceo hai frequentato? «Scientifico. Ero una bestia vera, il primo anno pensavo di andare in vacanza con i miei genitori e i miei fratelli. Saremmo partiti con i nonni, le zie, tutta questa tribù che si muoveva. Ma io ero stato talmente bestia che mio padre mi fece la sorpresa di spedirmi a fare il muratore per capire il senso del lavoro. In quel momento per me lavorare era andare il sabato e la domenica da questo mio amico il cui padre aveva un negozio di jeans. E io andavo lì: sai le ragazzine, la prima metà del cielo che vedevi, le magliette, i Levi’s. Ho cominciato a dire ai miei: “Io non voglio studiare, voglio lavorare”, e mio padre mi ha fatto provare la vera essenza del lavoro». Eri andato così male a scuola? «Rimandato in italiano, matematica, latino, filosofia. Ho passato quattro esami grazie alla generosità di mio padre, che mi ha fatto trovare una serie di insegnanti che la sera mi davano lezioni parallele. Il terrore di finire a fare il muratore per il resto della vita mi ha messo le ali ai piedi». Poi a un certo punto sei diventato bravo a scuola. «Non sono mai stato un’aquila, ho sempre vivacchiato. Gli studenti brillanti sono diversi». Perché hai deciso d’iscriverti al Politecnico di Milano? «Mi sono sempre sentito dentro questo mondo qui, disegnando. Con il mio babbo avevamo costruito modelli di aeroplani che non avrebbero mai volato, perché erano troppo pesanti. Sbagliavamo completamente tecnica di costruzione. Come ogni ragazzino ho provato a costruire la qualsiasi, ma allo stesso tempo mi piaceva molto disegnare. Io volevo fare l’architetto. Punto». Qual è stata la prima casa che hai amato? «Forse quella dei miei nonni paterni. Ricordo una cucina bella, grande, aveva questo grande camino. Forse con gli occhi dei bambini vedevo tutto gigantesco. D’estate, quando il camino non era funzionante, le ante lo chiudevano. Io tutte le sere le aprivo, recuperavo il mio zoo immaginario di cavalli, cammelli, elefanti, rinoceronti, leoni, un po’ Arca di Noè, e descrivevo questa transumanza che passava lì dentro. Poi chiudevo le ante e tutti i miei animali andavano a dormire».

Piero Lissoni a scuola, all'età di 8 anni.

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G R A Z I A PIERO LISSONI delle nuove generazioni come se fossero perdute, vorrei che avessero la delicatezza di girare la manopola del tempo e rivedere che cosa eravamo. A parte vestirsi in maniera ridicola e repellente, con la zampa di elefante». Tu com’eri vestito? «Con i blue jeans, mai comprato un eskimo in vita mia. Mi sono sempre rifiutato di vestirlo, quell’affare. Lì il rischio era che se ti mettevi le Barrows, che erano le scarpe d’eccellenza, quelle con i lacci incrociati, i tuoi compagni ti scambiavano per quelli dall’altra parte e ti menavano. Se per caso mettevi la Lacoste, eri rovinato. A me, però, piaceva non vestirmi da scappato di casa». Che cosa ti piaceva del Politecnico e che cosa no? «M’iscrivo prima a una scuola a cavallo tra l’istituto d’arte e un istituto professionale, per imparare a disegnare. Non volevo fare il Politecnico. Era l’epoca delle lezioni di gruppo, esami con gente che non faceva nulla, metteva lì il libretto e il professore firmava. Poi nel novembre del ’79 m’iscrivo e d’imperio cambiano il rettore. Una parte dei professori considerati negletti rientra e, come per sacrosanta restaurazione, tornano a insegnare. Ricordo che c’era questo professore di matematica che veniva in classe con il casco perché lo pestavano: c’erano sempre questi fenomeni che discettavano della distruzione della conoscenza come effetto parallelo al borghese da abbattere». Erano affascinanti le studentesse del Politecnico? «Quella parte di Milano, Città Studi, è sempre stata frequentata dalle più belle ragazze d’Europa. La facoltà di Architettura era famosa per la bellezza delle sue studentesse, la facoltà di Biologia aveva studentesse ancora più belle, la facoltà di Farmacia ancora più belle di Biologia. Quelle di Medicina ti troncavano. Quando uscivi dalla metropolitana c’era tutto questo mondo meraviglioso». E quindi ti laurei al Politecnico. Con una tesi su? «Su un rifacimento di una delle Manzanas di Barcellona. In quel periodo scopro la possibilità di andare in università non italiane frequentando dei corsi paralleli. Mi capitano Amsterdam, Amburgo, New York, poi Barcellona. Trovo una casa sulla Avinguda Diagonal, che una volta si chiamava Avenida del Generalísimo Francisco Franco. Io arrivo a Barcellona in questa Casa

Piero Lissoni con Roberto Gavazzi, amministratore delegato di Boffi.

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foto: LAPRESSE

Quando studiavi al Politecnico, avevi affittato un appartamento tuo? «A 18 anni mi erano state date le chiavi della libertà. A 19 anni e mezzo ho affittato un appartamento con i miei soldi da fotocopista e tiratore di linee. I miei mi avevano insegnato presto che bisogna camminare sulle proprie zampette. Andavo a fare le fotocopie, disegnavo, lavoricchiavo di pomeriggio, di sera, di sabato, di domenica. Quella era una casina con bagno e cucina, grande come la metà di questa stanza. Un monolocale, che per me era una reggia infinita con i corridoi, i giardini. Quel tavolo ovale che è lì l’ho comprato per casa mia…». Com’era arredata? «Aveva una libreria con scaffale metallico che avevo comprato in un negozio di ferramenta, molto high-tech all’epoca, ma io non lo sapevo. Poi c’erano il tavolo di Fritz Hansen e un preamplificatore da 500 Watt. Avrei potuto tenere viva una discoteca. I vicini chiamavano polizia, vigili. Poverini. Quella casa era un via vai infernale». Conservi le cose? «Non conservo né le foto né i disegni, ma i mobili sì. Dopo qualche tempo comprai delle sedie, le Wishbone Chairs. Anche lì mi feci prestare i soldi da mio nonno e sono ancora in casa mia oggi. Hanno più di 40 anni e ne vado molto fiero». Che anni erano? «A cavallo della fine degli Anni 70». Com’era Milano allora? «C’era la lotta armata, io ero schierato politicamente, discretamente, a sinistra. Non che abbia cambiato idea a tutt’oggi. Non sono uno di quelli che hanno fatto il giro della morte». Che cosa ricordi? «Erano gli anni di quella foto drammatica in bianco e nero del tizio con pistola impugnata a due mani, con le gambe larghe, che sta tirando contro la polizia. Erano i periodi delle chiavi inglesi, di gente che ti aspettava sotto casa e ti massacrava. Una Milano molto buia, triste, nel ’78 c’è il rapimento di Aldo Moro e noi diventiamo adulti di colpo. Milano era come coperta da un velo di polvere. Quando sento i miei coetanei parlare



G R A Z I A PIERO LISSONI dello studente. Diciamo che era più una casa di appuntamenti. Tantissimi miei colleghi per guadagnare due soldi affittavano la loro stanza, data dall’università, a signore che facevano di mestiere dell’altro». E te ne vai. «In Diagonal c’era questo appartamento in cui abitavano otto figliole spagnole che studiavano lì e avevano una stanzina da affittare. Queste otto ragazze mi interrogano e mi chiedono che cosa so fare. La casa era un disastro perché erano tutte di eccellentissime famiglie spagnole e totalmente disabituate al minimo senso dell’ordine. Io passo la prima settimana andando in università e riordinando questa casa. Faccio il loro cavalier servente perché ero l’unico che sapesse in qualche maniera cucinare. E la casa diventa un centro di vita straordinario: studiavi, lavoravi, dormivi dalle 9 a mezzanotte, poi uscivi e tornavi alla mattina alle 5. Altro paio d’ore di sonno, doccia, vestito, università». Com’era Barcellona allora?

«NON MI SONO MAI SPOSATO FINO AL 19 DICEMBRE DELL’ANNO SCORSO, QUANDO HO DECISO CHE SAREI DIVENTATO UN ECCELLENTE MARITO»

«In quel momento stava cambiando pelle, si stava preparando a riprogettare se stessa per diventare la città delle Olimpiadi. C’era ancora la Barcellona macilenta, ma percepivi quello che sarebbe diventata. Una città poverissima per alcuni versi, poi salivi verso la parte buona della Diagonal, dove c’erano i grandi alberghi, le grandi case degli Anni 50 e 60. Quartieri coltissimi e bellissimi con ragazze bellissime». Infine ti laurei… «Però nel frattempo, nel 1982, nasce mio figlio Francesco». Chi è la mamma? «Nicoletta Canesi, la mia ex socia, avevamo uno studio insieme». Eravate sposati? «No, non mi sono mai sposato fino al 19 dicembre dell’anno scorso, quando ho deciso scientemente che sarei diventato un eccellente marito». Con la nascita di tuo figlio che cosa cambia? «Che tutto il tuo mondo ha un punto di riferimento completamente diverso. Ammetto di non essere stato un padre meraviglioso, o forse sì, però ero molto impegnato nel finire l’università, nel lanciarmi verso una carriera». La tua socia lavorava? «Faceva la grafica. Fondiamo nel 1986 lo studio che si chiama Lissoni Associati. Per un po’ di tempo abbiamo abitato insieme, però ci siamo accorti che non eravamo la coppia perfetta. Professionalmente la collaborazione è andata avanti fino quasi a oggi. Io non ho fatto il padre benissimo, perché ero anche spronato nel diventare architetto, nel miglior modo possibile». Volevi diventare famoso? «No, volevo diventare bravo». Questo significa una dedizione assoluta? «Impegno assoluto. Vuol dire che davanti a un sabato e una domenica a sciare, a bagordare, nelle discoteche, il sabato e la domenica li passavo a lavorare». Qual è stato l’incontro importante all’inizio della tua carriera? «Paolo Boffi. Io finisco l’università e lui si ricorda di me come assistente di un sacco di architetti. Mi chiama per vedere se me la sento di lavorare con lui. In quel momento la Boffi non era al massimo della forma, ma io non avevo nulla da perdere e quello era comunque il marchio delle cucine di design in Italia e in giro per il mondo. In quel periodo arriva Roberto Gavazzi e compra la Boffi in crisi gravissima. Eravamo due pischelli, io avevo 30 anni secchi, Roberto 32-33. Noi due ra-

Piero Lissoni con la moglie, la fotografa Veronica Gaido.

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Rimadesio

Zen porta.

Design Giuseppe Bavuso


G R A Z I A PIERO LISSONI tutta Manhattan davanti. E alle 5 di pomeriggio del venerdì suonava la sirena che segnalava che da quel momento cominciava lo shabbat». Intanto aumentano le collaborazioni… «Dopo la Living e la Porro, arriva la Lema. Sono amico di Claudio Luti, ma non me la sento di disegnare per la Kartell finché Claudio mi mette con le spalle al muro. Nello stesso periodo, 1995/96, arriva Cassina e io disegno prima un letto, poi un divano che si chiama Met e segna il mio ingresso in quel mondo lì. Nello stesso periodo inizio a lavorare per Piero Gandini, poi arriva Alessi, quindi la Knoll ed eccoci qua». Ti affezioni alle cose? «Per me le cose hanno una vita propria, ma nello stesso tempo comprendo il fatto che si possano rovinare o rompere. Questo non vuol dire che non le tratti con cura, però percepisco il loro modello funzionale. Mio nonno mi ha aiutato a crescere con questa idea che la nostra vita è fatta di cose che si potrebbero mettere dentro una valigia». Faresti un figlio adesso? «Sì, molto volentieri». Saresti un padre diverso rispetto a quando andavi all’università? «Sarei meno competitivo rispetto a quando ho fatto il padre anni fa». Perché pensi di essere arrivato? «No, perché ho cambiato modello di competizione. Prima, hai presente Forrest Gump quando si mette a correre e corre? E quando gli chiedono: “Perché stai correndo?”, lui dice: “Non lo so, sto correndo perché devo correre”. Poi a un certo punto si mette a camminare e tutta la gente intorno domanda: “Ma perché stai camminando?”. “Non ho più voglia di correre. Ho visto quello che dovevo vedere e ho corso quello che dovevo correre”. Diciamo che adesso, se dovessi fare il padre, lo farei continuando a correre, però so scegliere. Prima correvo perché mi sentivo addosso questa specie di fuoco sacro, una via di mezzo tra una disciplina e un’ossessione». © RIPRODUZIONE RISERVATA

Piero Lissoni nello showroom Boffi e De Padova in via Santa Cecilia, a Milano.

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foto: IPA

gazzotti, con l’aiuto del padre dell’azienda, cominciamo a ridisegnare completamente il marchio, i prodotti, la comunicazione, i negozi. Senza di loro non sarei mai diventato Piero Lissoni». Perché? «Da morto di fame mi dicevo: non accettare la qualsiasi, scegli non necessariamente per dimensione, non necessariamente per soldi, ma vedi il progetto nella sua capacità di darti futuro. Così con Paolo Boffi prima, ma soprattutto con Roberto Gavazzi dopo, ci mettiamo lì e ridisegniamo i mondi, lavorando sabato e domenica, estate e inverno. Poi mi arrivano altri clienti perché cominciano a sentirsi in giro dei rumori su questo ragazzotto, che fa queste cose e comincio con Living Divani e Porro». Le tue collaborazioni sono tantissime, come fai a conciliarle? «Ogni azienda è un mondo a sé stante». Vengono a cercare il tuo tratto o vai tu da loro personalizzando? «Non ho mai capito, dagli albori della mia professione a oggi, chi ha fatto chi e che cosa. Io ci ho messo la faccia perché sono bello come il sole, e mi pagano per questo motivo, ma la bravura è stata un team di lavoro». A un certo punto sei andato a New York. «Faccio una summer season alla Columbia University e scopro gli architetti Peter Eisenman, Richard Meier e mi si apre un mondo. I nostri milanesi erano molto interessati ad Aldo Rossi, al Postmodernismo, al Razionalismo italiano. Quando parlavi di Renzo Piano e Norman Foster sembrava di aver bestemmiato in chiesa. Tiravi fuori Lina Bo Bardi e ti sparavano lì sul posto, a momenti». A New York hai aperto uno studio. «Nel 2006/2008 quando saltano tutti i mondi economici, noi decidiamo di avere uno studio a New York. Che coraggio e che incoscienza. Il primo lo apriamo vicino a quella che diventa Williamsburg. Quartiere super ortodosso ebraico, dentro un’ex fabbrica di zucchero con davanti una visione di Manhattan stupefacente. Posto sgrausissimo, avevi il ponte di Brooklyn a sinistra e


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G R A Z I A IBRIDAZIONE

IO CREO PER IL BENE DI TUTTI

SOVVERSIVO, PROVOCATORE, GENIALE. IL DESIGNER PHILIPPE STARCK PARLA A PIERO LISSONI DI UN FUTURO IN CUI LE COSE BELLE NON SARANNO PIÙ PRIVILEGIO DI POCHI a cura di LUCIA VALERIO foto di GIOVANNI GASTEL

foto: GRÉGOIRE GARDETTE

Il designer Philippe Starck, 72 anni. A sinistra, un dettaglio dell’hotel La Réserve Eden au Lac a Zurigo, Svizzera.

Piero Lissoni: «In questi mesi abbiamo scoperto che le case non servono solo per dormirci». Philippe Starck: «Sicuramente, ma credo che non sia stato a causa della pandemia, lo abbiamo capito molto prima, solo che non ne sentivamo l’urgenza. Da 40 anni sappiamo che casa è il luogo migliore per lavorare. L’etimologia della parola francese “travail”, lavoro, significa costrizione, tortura e di conseguenza gli uffici li chiamerei luoghi di tortura, e non si può chiedere a chi viene “torturato” di avere idee e di creare. Gli uffici sono l’involucro del lavoro ma non il lavoro in sé, mentre gli uomini sono gli unici esseri viventi che grazie alla loro intelligenza, potente e veloce, e alla qualità dell’evoluzione, possono creare. Si crea ovunque, non solo nelle professioni "creative", ma in qualsiasi tipo di mestiere, dall’idraulico allo spazzino, perché si può spazzare una strada bene o male o inventare un nuovo modo di spazzare. Ognuno di noi ha il dovere di continuare a creare per il bene della comunità, la nostra stessa ragione di esistere è creare». Piero Lissoni: «È una considerazione bellissima, ma credo sia difficile da comprendere fino in fondo». Philippe Starck: «Stiamo per uscire dai secoli

materialisti, dal 17° al 20°, nei quali tutte le opere di creazione si sono trasformate in produzione. Ma questo tempo è finito, siamo già dentro l’era della dematerializzazione. Questa è la grande differenza tra ieri e oggi. Creare si fa per caso, si fa per strada, a casa, in spiaggia, in salotto. Negli hotel, nei ristoranti, tra pranzo e cena, nei caffè, nei luoghi non pensati per “lavorare”, dove possono seguire il proprio bioritmo, che è diverso per ognuno di noi, le persone si scambiano idee». Piero Lissoni: «Come assecondi il tuo bioritmo?». Philippe Starck: «Mi alzo alle 7, lavoro fino a mezzogiorno, un lavoro creativo fisicamente faticoso che mi fa consumare zuccheri, per cui a mezzogiorno sono stanchissimo. E sai che cosa faccio? Mi spoglio e me ne vado a letto. Dormo al massimo un’ora e mezza, mi alzo, faccio di nuovo la doccia, perché il momento in cui sulla mia testa l’acqua da molto calda passa a molto fredda mi aiuta a chiarirmi le idee, mi rivesto e torno alla mia scrivania. E qui ricomincio una nuova giornata con altre tre ore di straordinaria creatività». Piero Lissoni: «Provo una sana invidia per il tuo approccio sovversivo alle cose e ancor di più per la

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G R A Z I A PHILIPPE STARCK

tua capacità di trovare case in posti incredibili, a Burano, Formentera e ora in Portogallo. Mi piace la tua visione nomade della vita». Philippe Starck: «Quando ero giovane vivevo con mia madre e non avevamo molti soldi. Ogni tre mesi passavamo di casa in casa in affitto, a volte scappavamo senza pagarlo e per questo non possedevamo mobili. Ho avuto il mio primo vero letto a 23 anni. Forse è per questo che cerco sempre di fuggire. Durante la mia giovinezza sono scappato dalla polizia, dal sistema e per molto tempo ho avuto nascondigli ovunque. Credo che la mia ricerca di luoghi sconosciuti in cui rifugiarmi sia nata così. Sono stato uno dei primi stranieri nell’isola di Formentera, ma anche il primo parigino a Cap Ferret e in Portagallo. Amo abitare nel cuore di una foresta o di una montagna perché ciò che mi interessa è stare in mezzo al nulla. Ecco perché chiamo le mie abitazioni una collezione di “middles of nowhere”. Scelgo i luoghi d’istinto, posso guardare su una mappa e trovare il posto giusto. Posso passare in aereo a 12 mila metri di altitudine e dire: "È lì che voglio andare". Lo faccio in modo impulsivo. E per fortuna non compro castelli. Una volta ero a Trouville, in Normandia, a casa del fotografo Jean-Baptiste Mondino, stavamo per pranzare ma mancava il pane, sono uscito per andare in panetteria e dopo 45 minuti sono rientrato: avevo comprato il pane e la casa della fotografa Dominique Issermann». Piero Lissoni: «È una bellissima pazzia la tua. Anche per i tuoi hotel hai sovvertito le regole, penso agli alberghi di New York, ma per me il tuo capolavoro è il Delano di Miami». Philippe Starck: «Avevo 30 anni e non ero mai stato in un grande albergo quando mi hanno chiesto di progettare un hotel. Non avevo alcuna idea precostituita e ho fatto quello che volevo reinventando tutto. Il Delano è stato realizzato in un luogo dove c’erano solo rovine e cadaveri di gabbiani, provando

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un senso di avventura e di libertà totale. Quello che mi piace pensare mentre disegno un hotel è che possa cambiare la vita di chi vi entra proprio come gli hotel stessi cambiano continuamente la vita al loro interno». Piero Lissoni: «Hai detto che il design deve essere democratico, umanistico, etico, ecologico, politico e far divertire. Ma anche che il design non ha futuro». Philippe Starck: «Il design non ha futuro nella misura in cui, molto presto, gran parte della progettazione sarà basata sulla dematerializzazione e sul “bionismo” ispirato al corpo umano per creare tecnologie compatibili con l’uomo. Computer, cuffie e altri device saranno collegati direttamente con i nostri corpi. Il design ha 80 anni e non esisterà per sempre. Tutto nasce, vive e muore, è il ciclo della vita. Il design finirà quando non ci saranno più oggetti da rendere belli. È un’attività un po’ sciocca quella che prova a rendere piacevoli gli oggetti che siamo obbligati a possedere, ma presto non serviranno più. Non ci sarà più bisogno di designer, ma di allenatori e nutrizionisti, di chi dovrà occuparsi della mia forma fisica, di non far invecchiare i miei muscoli, dei connettori da collegare al mio cervello per fare calcoli veloci, di chi cambierà il colore dei miei occhi. La velocità del progresso tecnologico accorcerà l’esistenza del design e dei designer. E sarà molto presto». Piero Lissoni: «Non vedremo più pezzi come la tua serie XO, in cui hai messo insieme forme semplici che non sembravano andare d’accordo?». Philippe Starck: «Gli XO sono stati errori di gioventù, anche se l’idea di mettere tutto sottosopra sopravvive. Soffro un po’ della sindrome di Asperger, so fare poche cose: progettare, pilotare un aereo, una barca, cucinare e basta. Quello che vedo intorno a me non lo comprendo, è per questo che ricreo tutto a modo mio. Per ragioni personali e imperscrutabili sono convinto che tutto sia relativo, che nulla esista e che si possa fare qualsiasi cosa senza avere bisogno di

foto: GIACOMO BRETZEL, SOPHIE DELAPORTE

Da sinistra: Philippe Starck con la moglie Jasmine ritratti da Sophie Delaporte; ancora Starck e la moglie, fotografati da Giacomo Bretzel.


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G R A Z I A PHILIPPE STARCK

ammirazione. Allo stesso tempo sono estremamente esigente, una lezione ricevuta in eredità da mio padre che era un grande ingegnere aeronautico: ho visto come progettava gli aerei, serve un rigore di gran lunga superiore rispetto a fare una sedia». Piero Lissoni: «Sei un sovversivo rigoroso». Philippe Starck: «La cosa più bella dell’uomo è la sua intelligenza ed è necessario usarla con eleganza verso gli altri. Il modo più bello di relazionarsi per me è prendere le cose serie con leggerezza. I miei oggetti sono creazioni un po’ strane che non progetto consapevolmente, perché non ho alcuna forma di intelligenza accademica, tutto quello che faccio arriva senza filtro, ma posso realizzare cose complesse. Ho lavorato per la marina nazionale, AXiom mi ha chiesto idee per le cabine spaziali, disegno tutto a mano, con matita su carta, da solo nella mia stanza, e alla fine della giornata mostro i fogli a mia moglie, le dico che sono cose complicate, che credo di aver commesso degli errori e inizio a riconsiderare tutto. È un modo di lavorare un po’ malato che svolgo in totale solitudine. Non vado al cinema, non guardo la tv, non vado alle mostre e non parlo con nessuno, una vita da monaco malato». Piero Lissoni: «E questo non ti rende triste?». Philippe Starck: «Non sono triste perché non sono interessato alla ricerca della felicità. Non viviamo per questo, ma per far evolvere la nostra specie. Siamo un piccolo pezzetto di una corda attorcigliata, ricevuta dai nostri genitori, che abbiamo il dovere di tessere ancora meglio e di donarla ai nostri figli chiedendo loro di fare come desiderano ma meglio di noi. È necessario partire da questa corda per costruire un mondo migliore. Chi non fa niente è inaccettabile. La pigrizia è inammissibile quando è

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una scelta». Piero Lissoni: «Mi piace il tuo impegno quotidiano a lavorare con istinto, con leggerezza e rigore». Philippe Starck: «Sai perché sono diventato un designer? Perché in gioventù ho sperimentato l’LSD insieme con alcuni amici. Tutti avevano delle fidanzate con le quali hanno fatto sesso mentre io, rimasto solo, ho disegnato per due giorni. Quando l’effetto della droga è svanito mi sono detto che quello che avevo fatto era interessante. Ho scelto così di diventare designer e non architetto, che spesso crede di poter realizzare un mondo migliore, corollario di un mondo unico e totalitario». Piero Lissoni: «Come sarà la società post pandemica?». Philippe Starck: «La domanda vera è se ci sarà un post pandemia. Fermeremo il virus? Gli sopravviveremo? Se la pandemia terminerà avremo compreso cose che sapevamo già, che siamo parte del tutto, che dipendiamo uno dall’altro. La pandemia ha anche dimostrato che un capitalista non può diventare ricco camminando sui cadaveri dei suoi vicini, perché così facendo anche lui morirà. E bisogna smetterla di progettare architetture monumentali o di fare cose solo per pochi eletti e utilizzare tutte le tecnologie che abbiamo a disposizione, come quelle dell’industria delle auto di cui non avremo più bisogno, per realizzare case al prezzo di un automobile, alla portata di tutti. Questa è l’era in cui ogni decisione che prendiamo è vitale per noi e per gli altri, per questo è urgente reinventare un modello politico e sociale nel quale sentirsi consapevoli di dipendere gli uni dagli altri». Piero Lissoni: «Nella prossima vita voglio essere Philippe Starck». © RIPRODUZIONE RISERVATA

foto: COURTESY PHILIPPE STARCK

Da sinistra, una P.A.T.H., Prefabricated Accessible Technological Home; l’hotel La Coorniche, a Pyla-sur-Mer, Francia; Starck e la moglie al lavoro.



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G R A Z I A CONTAMINAZIONE

LE IDEE NASCONO QUANDO NON HAI CERTEZZE MARIO BELLINI È TRA I PIÙ CELEBRI ARCHITETTI DEL MONDO. «NON MI ACCONTENTO MAI», DICE, «FINO ALL'ULTIMO MOMENTO POSSO CAMBIARE TUTTO» di LUCIA VALERIO foto di GIOVANNI GASTEL

foto: COURTESY HUMBOLDT BOOKS

In alto a sinistra, un ritratto dell’architetto Mario Bellini, 86 anni. Qui sopra e a sinistra, due foto realizzate da Bellini nella casa dell’editore di Playboy Hugh Hefner, tratte dal suo libro USA 1972, pubblicato da Humboldt Books.

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G R A Z I A MARIO BELLINI

È

uno dei più grandi architetti italiani nel mondo. Ha ricevuto otto volte il Compasso d’oro, premio dell’Associazione per il disegno industriale, 25 tra le sue opere di design sono presenti nella collezione permanente del MoMA, a New York, che gli ha dedicato una retrospettiva nel 1987, ed è stato direttore della rivista d’architettura Domus. Mario Bellini ha progettato famosissimi edifici tra cui La Fiera del Portello a Milano, il Centro congressi di Villa Erba a Cernobbio (Como), il Tokyo Design Centre in Giappone, la National Gallery of Victoria a Melbourne, in Australia, solo per citarne alcuni. Instancabile pensatore e creatore, ha disegnato macchine da scrivere, calcolatrici e tastiere per Olivetti, trovando ispirazione per le forme nella pittura rinascimentale. Ha girato il mondo in lungo e in largo, ma Milano non la cambierebbe con nessun altro luogo perché «è una città che quasi indosso, ogni volta che l’attraverso», mi dice al telefono. «Non voglio più fare interviste però», mi ripete più volte. «Ne ho rilasciate centinaia e credo di avere detto tutto quello che ho da dire su di me, la città, l’architettura e il futuro. È arrivato il momento del silenzio e di sapere che, a un certo punto, tacere nella vita è fondamentale. Anche perché a 86 anni ho risposto a tutte le domande possibili». Bellini al telefono è un po’ perentorio, ma subito dopo sento che sorride, e capisco che non ha intenzione di riattaccare. Gli rispondo che voglio solo fare una chiacchierata e subito gli chiedo dei suoi viaggi più amati negli Stati

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Uniti, anche se so che il Giappone è la sua passione perché c’è stato 130 volte. Architetto e viaggiatore, o forse prima viaggiatore e poi architetto, il mondo lo ha conosciuto veramente tutto, studiato sui libri a lungo prima di ogni partenza. «Ciò che intendo per viaggio è partire senza nessuna certezza, spostarsi evitando percorsi ingessati, essere aperti a tutte le possibilità, modificare anche all’ultimo la rotta. Lo stesso mi capita quando progetto una sedia o un edificio, e sono ancora fermamente convinto che sia più difficile fare una bella sedia che un grattacielo». Famosa la sua sedia Cab (prodotta da Cassina nel 1977), ispirata al modo in cui la pelle del corpo umano aderisce allo scheletro. Il viaggio che non dimenticherà, come un’esperienza di formazione, risale al giugno del 1972. Bellini era arrivato a New York per partecipare a Italy, the New Domestic Landscape, la mostra del MoMA, nella quale aveva presentato Kar-a-sutra, la prima monovolume, un progetto rivoluzionario di spazio mobile. «Kar-a-sutra era ispirata al Kama Sutra, che non è soltanto un libro sulle posizione del sesso, è un libro sulla vita, così come Kar-a-sutra non è semplicemente un’auto ma uno spazio mobile, da vivere», spiega Bellini. Quel viaggio negli Stati Uniti lo ha raccontato in un libro dal titolo Usa 1972, edito da Humboldt Books, che raccoglie le foto realizzate esplorando con altri due amici il modo di abitare degli americani. «I viaggi sono l’approfondimento di

foto: COURTESY HUMBOLDT BOOKS

Da sinistra, tre foto di Mario Bellini: la baia di San Francisco; la statua di Sir Walter Scott a Central Park, New York; il ponte Golden Gate a San Francisco.


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G R A Z I A MARIO BELLINI se stessi. E che bella la pellicola che riporta in vita ciò che è impossibile dimenticare. Era un viaggio inchiesta in presa diretta che raccontava la magnifica “ossessione dell’abitare”. Ci muovevamo come in un’improvvisazione jazz, l’unica regola che ci eravamo dati. L’America è il rovescio dell’Europa, un condensato di esperienze in contraddizione l’una con l’altra. Arte, tecnologia, scienze, sperimentazioni sociali: erano tutte forme di un grande laboratorio del nuovo che credevo di poter trovare entrando nelle case della gente». Un’ossessione dell’abitare che sentiamo in tutta la sua drammaticità in questi lunghi mesi di pandemia. «Non me lo chieda, però, come sarà la vita adesso, come sarà vivere e abitare nel futuro prossimo. Sono convinto che ai tempi di Pompei vivevano esattamente come noi: avevano sedie, tavoli, finestre, attrezzi da cucina, cani da compagnia. Il modo di vivere non evolve come le scoperte scientifiche, resta identico per secoli. So però che gli edifici riguardano le persone ed è questa considerazione che deve plasmare l’architettura e il design negli anni a venire». La musica, il teatro e la pittura sono le sue altre grandi passioni. Bellini è uno dei più grandi collezionisti di Realismo Magico, con dipinti di Mario Broglio, di Cagnaccio di San Pietro, di Antonio Donghi, di Mario Sironi. Sono opere che portano a stare dentro la realtà per poterne uscire e che forse servono a nutrire il nostro quotidiano in un mondo che diventa troppo virtuale. «Amo

l’arte e mi piace moltissimo allestire mostre». Come Giotto, l’Italia, allestita a Palazzo Reale a Milano nel 2016. Forse per questo il suo progetto preferito è il Dipartimento delle Arti dell’Islam al Museo del Louvre, a Parigi, inaugurato nel 2012. L’età, la logica, la saggezza, le passioni: sta tutto insieme nel Bellini di oggi. Come velocità e lentezza. «Sono un compulsivo della fotografia, ho raccontato il viaggio da Tokyo a Osaka sul super treno a 250 chilometri orari fotografando a quella velocità, mentre adesso scatto con uno smartphone nuovissimo e in modo maniacale raddrizzo tutte le linee storte che mi fanno letteralmente impazzire». Mi racconta che trascorre molto tempo riordinando i suoi scritti e che vorrebbe realizzare un libro “totale”. «Sempre, se avrò energie, ecco perché non voglio dissiparle. Vorrei concentrarmi sui lavori del mio studio, che è come un luogo dilatato nella mia mente, fatto di migliaia di persone venute a Milano da molti Paesi, che si sono alternate intorno a me. Lavoriamo in “modalità aperta” e piramidale allo stesso tempo. Tutti possono esprimere e sostenere la propria posizione, ma alla fine decido io. Funziona decidere in prima persona, ma guai se non c’è l’apporto di tutti». Mi saluta dicendo che mi ha già raccontato troppo e che molte cose non potrò scriverle. Glielo prometto. «Un segreto posso confidarglielo, però», mi dice prima di lasciarmi. «Le donne sono molto più in gamba degli uomini». © RIPRODUZIONE RISERVATA

«UN GRATTACIELO È PIÙ FACILE DA PROGETTARE DI UNA SEDIA»

foto: courtesy HUMBOLDT BOOKS

Da sinistra: musicisti per strada a San Francisco; lo studio di Andy Warhol a New York; l’artista Davide Mosconi, compagno di viaggio di Mario Bellini.

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Segni di stile Omaggio al design senza tempo. Una selezione di pezzi iconici, manifesto di un’estetica oltre le mode di FRANCESCA SANTAMBROGIO foto di SANTI CALECA ha collaborato MARIA REDAELLI

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G R A Z I A MINIMAL Da sinistra a destra: Poltrona Catilina in acciaio verniciato grigio antracite lucido e cuscino in mohair verdone, design Luigi Caccia Dominioni, 1958 (AZUCENA).

Poltroncina Postsparkasse in faggio laccato nero, con dettagli in alluminio, design Otto Wagner, 1906 (GTV Gebrüder Thonet Vienna).

Sedia CH24 Soft Wishbone Chair in faggio laccato soft black e seduta in corda di carta, Hans J. Wegner, 1949 (CARL HANSEN & SON).

Poltroncina Louis Ghost in policarbonato nero lucido, design Philippe Starck, 2002 (KARTELL).

Sedia Bertoia 420C in tondino d’acciaio colore nero, design Harry Bertoia, 1952 (KNOLL).

Sedia sala da ballo Lutrario di Torino in resinflex con struttura in metallo e maniglie originali in legno, design Carlo Mollino, produzione Doro di Cuneo, 1959 (NILUFAR).

Sedia T&O T1 Chair in rovere con dettaglio in acciaio colore verde, design Jasper Morrison, 2016, da Èurema Interni (MARUNI).

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In questa pagina: Sofa Crescent Moon con struttura laccata nero e rivestimento in cotone e seta, design Andrée Putman, 2003 (ECART INTERNATIONAL). Contenitori Componibili Classic in ABS colorato nero, design Anna Castelli Ferrieri, 1969 (KARTELL). Nella pagina accanto: Poltrona Egg in pelle Aura colore nero, design Arne Jacobsen, 1958 (FRITZ HANSEN).

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Tavolini Saarinen Tulip con top in marmo rosso rubino, calacatta e laminato bianco, design Eero Saarinen, 1957 (KNOLL).

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Lampada da terra Tolomeo disponibile finitura bianco e alluminio, design Michele De Lucchi e Giancarlo Fassina, 1987 (ARTEMIDE).


Cucina monoblocco Minikitchen in Corian, design Joe Colombo, 1963 (BOFFI).

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In questa pagina: Sedia 699 Superleggera in frassino tinto nero e seduta in pelle nera, design Gio Ponti, 1957 (CASSINA). Lampada da terra o per mobili bassi Anima in ABS, fibra di carbonio e metallo design Davide Groppi e Giorgio Rava, 2021 (DAVIDE GROPPI). Nella pagina accanto, da sinistra: Poltrona A.B.C. in pelle pieno fiore color cuoio e struttura in metallo finitura brunita, design Antonio Citterio, 1996 (FLEXFORM). Poltrona Sofa with Arms black edition 2019 in velluto verde e struttura in metallo antracite, design Shiro Kuramata, 1982 (CAPPELLINI).

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Sedie Family Chair in tondino d’acciaio, design Junya Ishigami, 2010 (LIVING DIVANI). Lampada da terra Toio limited edition matte black 2018, design Achille e Pier Giacomo Castiglioni, 1962, Courtesy Fondazione Achille Castiglioni (FLOS).

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Contenitore PC/6 SIDE 2 in frassino tinto nero e cassetti laccati opaco bianco, design Shiro Kuramata, 1970 (CAPPELLINI). Nella pagina accanto: Poltrona LC3 in pelle color avorio, imbottitura in piuma e struttura cromata, design Le Corbusier, Pierre Jeanneret e Charlotte Perriand, 1928 (CASSINA).

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Orologio Turbine Clock in ottone e alluminio, design George Nelson, 1948-1960 (VITRA).

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Sedia Curial limited edition in natural plywood, design Rick Owens, 2006 (RICK OWENS FURNITURE).


Tavolo Quaderna 2600 in legno tamburato placcato in laminato Print, design Superstudio, 1970 (ZANOTTA).

Sedia Fenis CM in acero naturale, design Carlo Mollino, 1959 (ZANOTTA).

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Lampada da terra Counterbalance in acciaio verniciato e testa in alluminio, design Daniel Rybakken, 2015 (LUCEPLAN). Sedia Wiggle Side Chair in cartone ondulato, design Frank Gehry, 1972 (VITRA). Nella pagina accanto: Mobile divisorio Carlton in laminato plastico, design Ettore Sottsass, 1981 – Courtesy Memphis srl (COLLEZIONE MEMPHIS-MILANO).

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Poltrona Parigi, design Aldo Rossi, fine Anni 80 (UNIFOR).

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Libreria 606 Universal Shelving System in alluminio anodizzato nero, design De Padova, 1984 (DE PADOVA).

Divano Camaleonda in tessuto Enia arancio curry, design Mario Bellini, 2020 (B&B ITALIA).

Lampada da terra Coordinates Floor, design Michael Anastassiades, 2020 (FLOS).

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Poltrona Le Club in pelle Silk color crema, design Jean-Marie Massaud, 2021 (POLIFORM).

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Poltrona Knotted Chair in fibra di carbonio, design Marcel Wanders, 1996 (CAPPELLINI).


Poltrona Fumoir in pelle Century color tabacco, design Renzo Frau, 1929 (POLTRONA FRAU).

Settimanale Maggio in legno di olmo, rovere e acacia, design Alessandro Mendini, 2014 (PORRO).

Poltrona D.154.2, design Gio Ponti, disegnata nel 1953-57, rieditata nel 2015 (MOLTENI&C).

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Tavolino Waves con struttura in alluminio verniciato sand e peltro, piano in vetro grigio fumé, design Nendo, 2018 (MINOTTI).

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Poltrona Suitcase Line con struttura rivestita in pelle stampata coccodrillo e cuscino in pelle nabuk color carbone, design Rodolfo Dordoni, 2019 (MINOTTI).


Divano Bastiano Sofa in pelle nera con struttura laccata coffee e telaio in frassino tinto castagno, design Tobia Scarpa, 1962 (KNOLL).

Poltrona Panna Chair in tessuto elastico 3D colore grigio, design Tokujin Yoshioka, 2008 (MOROSO).

Lampada da parete Infinito in acciaio inossidabile dalla lunghezza sezionabile, design Davide Groppi, 2016 (DAVIDE GROPPI).

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Lampada da parete Infinito in acciaio inossidabile dalla lunghezza sezionabile, design Davide Groppi, 2016 (DAVIDE GROPPI).

Sedia Aluminium Chairs EA 105 con struttura cromata e seduta in rete colore nero, design Charles & Ray Eames, 1958 (VITRA).

Da sinistra a destra: Sedia Selene in resina rinforzata colore nero, design Vico Magistretti, 1960 (ARTEMIDE).

Sedia Ant versione monochrome con gambe verniciate a polvere colore bianco, design Arne Jacobsen, 1952 (FRITZ HANSEN).

Sedia.03 in tubolare d’acciaio e seduta in poliuretano nero, design Maarten Van Severen, 1998 (VITRA).

Divano Diesis con struttura in cuoio Saffiano nero e cuscini in pelle Kos nero, design Antonio Citterio e Paolo Nava, 1979 (B&B ITALIA).


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G R A Z I A PERCEZIONE

IL TEATRO GUARIRÀ I NOSTRI CUORI PER LA REGISTA ANDRÉE RUTH SHAMMAH DEVE TORNARE LA VITA SUI PALCOSCENICI. PERCHÉ UNO SPETTACOLO CHE CI FACCIA SOGNARE È LA MEDICINA DI CUI ABBIAMO BISOGNO di STELLA PENDE foto di GIOVANNI GASTEL

foto: NOEMI ARDESI

È

In alto la regista Andrée Ruth Shammah, 72 anni. Sopra, Stasera si può entrare, fuori 2, uno degli spettacoli prodotti dal Teatro Franco Parenti di Milano la scorsa estate.

una grande malinconia quella che corre negli occhi di Andrée Ruth Shammah, regista, musa e fondatrice di quel Teatro Franco Parenti che oggi a Milano e in Italia resta la vera essenza del fare spettacolo. Quella tristezza arriva dalla perdita di Giovanni Gastel, di quell’ultimo signore della fotografia scomparso da poco: «La fotografia che illustra quest’intervista è forse l’ultima che lui ha scattato», racconta. «Avevamo parlato di una serata al Parenti per le sue poesie, della pacata tristezza che arriva dentro l’età». È difficile rompere quel ricordo. Una parola sola ci riesce: Teatro. Che cosa succederà adesso? Si sperava in un’apertura Andrée e invece? «Ormai non si tratta più di aprire o chiudere. La verità è che il dibattito sull’eventuale apertura di teatri e cinema è già una vittoria contro l’invisibilità». Ha ragione. Fino a un anno fa al Parenti succedeva di tutto sul palcoscenico: il talento forsennato di Filippo Timi, ma anche Goldoni, Il Malato Immaginario di Molière con Gioele Dix e, nella sala accanto, il capolavoro di Giovanni Testori I promessi sposi alla prova e tanto altro. Nelle quattro sale del Parenti c’erano furie di dibattiti, presentazioni di libri e monologhi di qualsivoglia mago dell’arte e della politica. Per questo non stupisce che durante il penoso lockdown Andrée sia diventata la più infrangibile combattente nella battaglia per la rinascita dei teatri. Andrée, c’è finalmente la luce in fondo al palcoscenico? «Forse per la prima volta ne vedo un barlume. La nostra in quest’ultimo tempo è stata soprattutto una guerra per riconquistare l’esistenza. Si è parlato di tutti e di tutto, ma il teatro e il cinema sono stati cancellati e dimenticati. Come un bisogno effimero ed eccessivo . Quasi amorale. La verità è che...».

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G R A Z I A ANDRÉE RUTH SHAMMAH

Una scena dello spettacolo Stasera si può entrare, fuori 2, che si è tenuto l’estate scorsa ai Bagni Misteriosi del Teatro Franco Parenti di Milano.

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«NASCERÀ UN FESTIVAL DELLA COMICITÀ PER ACCOMPAGNARE IL SORRISO SULLA BOCCA DELLA GENTE»

foto: NOEMI ARDESI

La verità è che? «Be’, qualcuno dirà che recito sempre la stessa preghiera. Ma voglio ricordarla ancora. Troppi studi e statistiche hanno dimostrato che il teatro e il cinema dopo palestre, ristoranti e bar sono esattamente gli ultimi nella lista dei luoghi pericolosi. Nei teatri, non togliendo mai la mascherina e rispettando le dovute distanze, il virus non si presenta quasi mai. E poi una domanda: come è possibile che quell’ormai fatale comitato scientifico non abbia mai ospitato uno psichiatra o uno psicologo?». Che cosa c’entrano gli psichiatri nel comitato scientifico, scusa? «C’entrano eccome. Quei signori hanno fatto sempre gli stessi confronti: volete la salute degli italiani o un’economia che funzioni? Scegliete la vita di fabbriche, negozi e ristoranti o la morte dei poverini negli ospedali? Perché nessuno ha mai pensato alla salute dell’anima? Perché non si è mai capito che il Covid, cancellando ogni forma di spettacolo, ha permesso che migliaia di italiani affondassero dentro depressione e solitudine? È forse una novità che la musica sia capace di cullare i cuori malati, che ridere davanti a una bella commedia o a un bel film possa allungare la vita? No, per favore, il teatro e il cinema devono rimanere i luoghi aperti all’incanto». In questo tempo di buio però il tuo teatro non è mai stato orfano di magia. «Certo! Con la complicità dell’estate abbiamo fatto spettacoli all’aperto e spesso intorno alla piscina dei Bagni Misteriosi: sirene che danzavano sopra le acque con trampoli di paillettes, monologhi di attori, musiche e canti... E i milanesi arrivavano felici di sentirsi anche loro protagonisti di quella rinascita. Poi il freddo e la seconda ondata hanno di nuovo chiuso le nostre porte». Qualcuno dice che nemmeno la seconda epidemia ti ha mai fermata. «Sì, avevo detto che non mi sarei mai arresa ai video degli spettacoli. Per me era tradire l’atmosfera, la commozione, la vera fusione tra spettatori e palcoscenico. Poi ho pensato a una frase che mi ripeteva sempre mio padre: chi non cambia mai idea nella vita è un vero cretino. E allora ho provato a non essere una vera cretina. Con il mio gruppo di ragazzi e con l’aiuto di mio figlio Raphael Tobia Vogel, che crede nel teatro, ma anche nei benefìci della tecnologia, mi sono arresa alla camera. Il video può raccontare meglio certi dettagli, può avvicinare certi sguardi, regalare un’altra emozione».


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G R A Z I A ANDRÉE RUTH SHAMMAH

Quali saranno i progetti di Andrée Shammah se i teatri apriranno? «Da quello che sappiamo potremmo avere soltanto un quarto della sala. Con 120 posti nessuna grande compagnia accetterà di fare spettacoli. Inoltre il teatro è fatto di tournée, dunque è impossibile pensare di trasformare gli attori in acrobati e cioè recitare quattro sere in un teatro nella zona gialla e poi saltare la serata nella zona rossa. E di nuovo, senza rete, tornare alla città in arancione. È per questo che offriremo serate a giovani attori, creativi e sorprendenti. Alcune compagnie sono prodotte da noi come i Gordi e i Brandi Vogel, ma apriremo le porte del teatro anche a un gruppo come Domesticalchimia che vuole fotografare un periodo storico, ma anche una società, attraverso la lente del sogno. La banca dei sogni, il loro spettacolo, indaga sui sogni delle persone che vivono in un certo territorio per comprendere i tarli del nostro tempo. Ma penso soprattutto a due sorprese». Quali? «La prima si chiama Radio Parenti e sarà la nuova emittente del teatro. Lavoriamo con piattaforme, aggregazioni e frequenze. Lanceremo nuovi attori radiofonici, rubriche di persone note e ignote. L’altra idea è quella di una sala da ballo. Credo che dopo questo periodo di assenza e di solitudine molti proveranno fame di bellezza e io gliela sazierò facendoli ballare. All’entrata regalerò agli aspiranti ballerini molti e divini profumi. Voglio offrire al pubblico un’avventura fisica. Di più, carnale, capisci?». Capisco. Qualcosa mi dice che pensi anche a un festival della comicità. «Vero. Voglio lanciare un festival della comicità per riaccompagnare il sorriso sulla bocca della gente. È una missione impossibile? Quelli che non ce la faranno a lasciarsi andare avranno lezioni su misura dai miei giovani attori. Vogliamo mettere alla prova i nostri spettatori». Una rinascita che costerà grande lavoro e fatica. «Mi aiuteranno gli spiritelli che popolano questo teatro e che lo proteggono da sempre: Eduardo De Filippo, Franco Parenti, Paolo Grassi... Sbagliano di grosso quelli che pensano che questa fabbrica di sogni potrà mai fermarsi». © RIPRODUZIONE RISERVATA

«INVITERÒ IL PUBBLICO A BALLARE SUL PALCOSCENICO. VOGLIO OFFRIRE UN´AVVENTURA FISICA»

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foto: NOEMI ARDESI

Alcuni momenti di spettacolo nella piscina dei Bagni Misteriosi del Teatro Franco Parenti.




G R A Z I A CONTAMINAZIONE

RITROVERETE UNA PARIGI ANCORA PIÙ VERDE LA FRANCIA STA AFFRONTANDO IL TERZO LOCKDOWN. E LA SINDACA ANNE HIDALGO APPROFITTA DI QUESTO PERIODO PER RENDERE LA METROPOLI PIÙ ECOLOGICA E PRONTA ALLA NUOVA NORMALITÀ conversazione di PIERO LISSONI con ANNE HIDALGO a cura di EVA MORLETTO foto di OMAR TORRES artwork di GIOVANNI GASTEL

foto: AP/LA PRESSE/GETTY IMAGES

«L

a città del futuro? È una scommessa quotidiana, un lavoro di squadra che implica coraggio e audacia in ogni decisione. Non è sempre facile, spesso ci si scontra con visioni più tradizionali, più caute, ogni progetto ben finalizzato è spesso il risultato di una battaglia di idee». Anne Hidalgo, sindaca di Parigi, è sicuramente tra le figure più innovative a capo di una grande capitale europea. Sensibile ai temi ecologici, Hidalgo, di origine spagnola, vuole una città che si riveli un incrocio di culture e influenze, che massimizzi il suo potenziale culturale, e soprattutto, che ritrovi le caratteristiche di una città a dimensione d’uomo. «Una metropoli dal volto umano, respirabile, più verde, dove i più privilegiati non penalizzino i più deboli, deve essere una città di prossimità. Stiamo attuando, grazie anche ai preziosi consigli dell’autore di questo progetto, il ricercatore franco-colombiano Carlos Moreno, le misure necessarie perché Parigi diventi una "città del quarto d’ora", ossia un centro in cui, ovunque ci si trovi, si possano avere accessibili le sei funzioni sociali vitali per i cittadini: abitare, lavorare, accedere a cure mediche, fare la spesa, imparare, divertirsi. Il Covid ci ha insegnato a ritrovare l’essenziale, ha rimesso a nudo le nostre reali e più autentiche esigenze e la città deve ora saper riflettere questa nuova e ritrovata attitudine. La città del quarto d’ora permetterà ai parigini di impegnarsi ulteriormente in associazioni e azioni solidali. La forza più bella è collettiva». Anne Hidalgo è conscia che, talvolta, il ritorno all’essenziale possa voler dire ridurre, e non aumentare. «Si moltiplicano le energie, si riducono i materiali: mezzi di trasporto più leggeri e meno inquinanti, l’obiettivo di raggiungere lo zero per cento di plastica monouso entro il 2024, promuovere

Anne Hidalgo, 61 anni, sindaca di Parigi. Sopra, la metropolitana della città. Sotto, protesta di donne islamiche di Parigi: il cartello dice "La libertà guida tutte le persone".

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G R A Z I A ANNE HIDALGO

un turismo positivo per l’ambiente, come i trekking urbani, per esempio, che attraversino le zone verdi ed esplorino parti talvolta dimenticate della città. Puntare all’ecologia significa puntare a una migliore qualità di vita per tutti. Entro il 2030, la totalità dei veicoli che circoleranno in città sarà non inquinante. La metà dei parcheggi sarà trasformata in spazi verdi o piste ciclabili e aumenteremo le zone pedonali». Una città può trasformarsi in un esempio per l’intero pianeta? «Ne ha il dovere. Pensiamo alla plastica, per esempio. Se continuiamo di questo passo, nel 2050 avremo nei mari più rifiuti di plastica che fauna ittica. Agire su piccola scala può essere più facile e può servire da modello per gli altri. Ci stiamo organizzando con i commercianti e gli industriali per rendere possibile l’uscita dal circolo vizioso della plastica usa e getta e stiamo sviluppando insieme delle alternative. Anche le scuole sono coinvolte. Io credo non solo nella città del futuro, ma anche nei cittadini del futuro. E questi cittadini, ho intenzione di proteggerli. Stiamo perfezionando un’etichetta di “garanzia ambientale” per le scuole, per assicurarci che ogni edificio scolastico non subisca gli effetti dell’inquinamento atmosferico e non contenga nei materiali impiegati per la costruzione dei perturbatori del nostro sistema endocrino. Le auto non potranno circolare nei pressi delle scuole nelle ore di entrata e uscita degli allievi. E non dimentichiamo il dispositivo Pollutrack, i sensori mobili installati un po’ ovunque in città per misurare la presenza di polveri sottili pericolose per la salute». I detrattori di questa sindaca, dalla tempra fuori dal comune, la accusano di inseguire ideali utopici. «Ha ragione a parlare di sogno. Essere sindaco, significa rispondere ai bisogni della vita quotidiana di ogni cittadino e sapersi proiettare nel futuro. Come dirigere una città come Parigi, senza una componente di utopia insita in noi? Sogno una città che non resti immobile, che continui all’infinito a cambiare e a

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La sindaca di Parigi Anne Hidalgo con una bici elettrica Velib Metropole: l’obiettivo è fare avvenire sulle due ruote il 15 per cento degli spostamenti in città.

trasformarsi. Abbiamo una decina d’anni davanti a noi per evitare il peggio, per costruire un modello cittadino in armonia con la natura e con il benessere di tutta la comunità. Ci siamo ritrovati con ondate di calore estive sempre più lunghe e torride. Ma non è solo il cambiamento climatico a rappresentare una minaccia. I prezzi immobiliari altissimi e la gentrificazione della città, ovvero l’espulsione della classe media verso la periferia, sono pericoli altrettanto gravi. Sogno una città che sia al centro di una battaglia per una giustizia ambientale e al tempo stesso sociale». Lei punta molto a una città inclusiva, con le periferie in relazione con il centro storico. «Il cosiddetto “périphérique”, la tangenziale che circonda la capitale, è oggi una barriera più che un legame con la periferia. È diventato poi una fonte di problemi: inquinamento atmosferico e acustico, traffico e ingorghi continui. Il mio scopo è abbattere questa barriera, perché il progetto della Grande Parigi diventi una realtà: stiamo trasformando le porte di accesso alla città in piazze alberate e vogliamo continuare a unire la periferia al centro con passerelle, prolungamenti delle linee di metro e di tram, potenziamento delle piste ciclabili. Oggi abbiamo già diverse piste che costeggiano i canali parigini, come quello dell’Ourcq. Il suo prolungamento permette di raggiungere centri periferici. La Coulée Verte, antica linea di treno cittadina trasformata in passeggiata bucolica, arriverà fino al Parco di Sceaux. Questo permetterà anche ai turisti di raggiungere posti meravigliosi da visitare. Abbiamo anche organizzato gli “Atelier della periferia” che riuniscono tutti gli attori in grado di formulare proposte interessanti. La mescolanza sociale sarà al centro della metropoli che sogniamo, e questa passa dal riequilibrio dello sviluppo territoriale. Parigi ha davanti a sé un bell’avvenire. Basta inventarlo insieme». © RIPRODUZIONE RISERVATA

foto: GETTY IMAGES

«ENTRO IL 2030 LA TOTALITÀ DEI VEICOLI IN CITTÀ SARÀ NON INQUINANTE E LA METÀ DEI PARCHEGGI SARÀ TRASFORMATA IN GIARDINI»




G R A Z I A CONTAMINAZIONE

UNA SECONDA VITA PER MILANO

QUARTIERI COME CITTÀ, SPAZI RIPENSATI PER LO SMART WORKING, ALBERI CHE CRESCONO AL POSTO DEGLI SPAZI VUOTI. IL SINDACO DEL CAPOLUOGO LOMBARDO GIUSEPPE SALA PARLA ALL'ARCHITETTO PIERO LISSONI DELLE SUE IDEE PER RIGENERARE LA METROPOLI

foto: MATTIA BALSAMINI/CONTRASTO ARTWORK GIOVANNI GASTEL

a cura di LUCIA VALERIO foto di MATTIA BALSAMINI

Giuseppe Sala, sindaco di Milano, 62 anni.

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G R A Z I A GIUSEPPE SALA

La Galleria Vittorio Emanuele II, a Milano.

«LA CULTURA NON DOVRÀ PIÙ ESSERE FATTA SOLO NEI LUOGHI CANONICI» 100

foto: AGF

P

iero Lissoni: «Milano ha perso molti turisti, che dall’Expo 2015 in poi erano diventati una risorsa. In questi mesi la città è stata restituita a chi ci vive, ma i turisti a me sono mancati, perché camminare per strada e sentire parlare lingue diverse è bellissimo». Giuseppe Sala: «È vero, ma bisogna accettare l’ineluttabile. Oggi è così. Alcuni studi sul traffico aereo dicono che si tornerà ai livelli del 2019 solo a fine 2023 e non riusciremo a recuperare i turisti in un paio d’anni. Milano oggi ha 1 milione e 400 mila abitanti, nel 2019 c’erano 1 milione e 600 mila persone in più tra pendolari e turisti. Questi ultimi sono scomparsi mentre i pendolari sono in gran parte diminuiti a causa dello smart working. A vaccinazioni completate, e quando potremo mettere fine alla pandemia, non ripartirà tutto immediatamente. È molto probabile che ci vorranno due anni». Piero Lissoni: «Proviamo a immaginare Milano allora, a ripensarla alla luce di quanto è accaduto in questi mesi. Dovremo progettare adesso una nuova contemporaneità, pensare Milano come una città campus». Giuseppe Sala: «Dovremo recuperare occupazione e per questo conto molto sul Recovery Plan, che possa finanziare le infrastrutture di cui la città ha bisogno. Milano ha sempre dimostrato di saper fare buon uso delle risorse, ma è necessario pensarla in modo diverso da come abbiamo fatto finora, sopra a ogni altra cosa dovremo mettere la questione ambientale. A Parigi e a Barcellona si discute molto della città a 15 minuti, un modello al quale anche io guardo con interesse. Ma bisogna passare da un’idea di città policentrica a una città fatta di quartieri, con scuole, ambulatori, consultori, parchi, centri sportivi raggiungibili in 15 minuti, a piedi o in bicicletta. L’essenziale lo devi avere a portata di mano». Piero Lissoni: «È una grande sfida. Come lo è ridisegnare le nuove aree urbane, penso allo scalo Farini, all’area Garibaldi e alle periferie. Immagino un utilizzo differente delle superfici e degli spazi, penso al significato di "rammendare" in architettura, suggerito tempo fa da Renzo Piano, un verbo che riporta a una funzione edificante: riparare una cosa per farla tornare come nuova. Qui per me c’è il senso della sostenibilità». Giuseppe Sala: «È una buona stagione per mettere in pratica l’idea di rammendo suggerita da Piano. Tuttavia vorrei cercare di andare oltre il concetto di periferia, laddove io vedo solo quartieri. Via Padova, per esempio, viene pensata come il “Far West”, ma in realtà è una delle aree che in anni recenti è migliorata di più. Altri cambiamenti sono avvenuti in modo inaspettato, penso alla nascita di NoLo (abbreviazione di “a Nord di piazzale Loreto” ) durante il Salone del mobile di qualche anno fa, un evento internazionale


S A LVAT O R I _ O F F I C I A L


Una ragazza seduta sul sagrato del Duomo di Milano.

«MILANO È STATA INTELLIGENTE PERCHÉ PER CRESCERE HA IMPARATO DA TUTTI QUELLI CHE HA ACCOLTO» 102

che ha contribuito a innescare una trasformazione profonda di quel quartiere. Rifiuto l’idea che Milano sia fatta di un centro piccolo e di un’enorme periferia». Piero Lissoni: «Ho fiducia in quei progetti e infrastrutture che contribuiranno ad accorciare le distanze tra i quartieri. E non solo tra di loro. I difficili mesi di restrizioni hanno reso ancora più importante il nostro bisogno di relazioni insieme con la necessità di consumare cultura». Giuseppe Sala: «La cultura può avere un ruolo fondamentale e questa crisi ha dimostrato quanta ne serva per nutrire il senso di appartenenza delle comunità. A patto però che non venga fatta solo nei luoghi canonici, ma anche in nuovi punti di attracco. Resta il fatto che il senso di appartenenza si costruisce sull’idea di città, che per me è quella aperta, multietnica e orientata al nuovo, per questo più faticosa da gestire. Milano ha 26 secoli di storia alle spalle e una grande apertura al nuovo, questa unicità viene continuamente valorizzata solo se crediamo nel contributo di tanti e la città ha dimostrato di essere furba perché per crescere ha preso da tutti quelli che ha accolto». Piero Lissoni: «Una città si rinnova continuamente solo se è aperta al mondo, dovrebbe essere normale. Mentre, come un paradosso, si fa strada il paradigma di una “nuova normalità”, dalla quale mi auguro scompaia l’effetto “wow” che ci sta abbagliando. Come il sovradimensionamento degli edifici, le altissime torri ufficio che davanti a un evento imprevisto come la pandemia si sono svuotate, poiché il 25 per cento della forza lavoro è riuscita a connettersi da casa. Adesso è una sfida pensare al loro riutilizzo». Giuseppe Sala: «Quando saremo usciti dall’emergenza non saranno le torri a svuotarsi, ma altri spazi, poiché le grandi banche ai palazzi del centro storico preferiranno edifici più efficienti». Piero Lissoni: «A chi sostiene che bisognerebbe piantare alberi ovunque in città, vegetazione sui tetti e sulle facciate di ogni casa, e non soltanto nei luoghi canonici come i parchi, i viali i giardini e le aiuole che cosa rispondi? Non credi che gli alberi siano creature che non sempre possono vivere nei viali delle nostre città? La trasformazione di strade e viali in boschi urbani con piste ciclabili in mezzo la trovo assurda». Giuseppe Sala: «È necessario piantare più alberi ma nei posti giusti. Perché non cercare di rinverdire anche gli spazi privati chiedendo ai cittadini di fare la propria parte? Abbiamo ridotto la tassa sui rifiuti a bar e ristoranti che non buttano le eccedenze di cibo ma le consegnano a un hub che le ridistribuisce a chi ne ha bisogno, premiando questa collaborazione virtuosa che vorremmo continuare a praticare. Ognuno faccia la propria parte e dia un contributo, che è nel Dna di questa città. Solo così le cose cambieranno in meglio». © RIPRODUZIONE RISERVATA

foto: IPA

G R A Z I A GIUSEPPE SALA


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G R A Z I A IBRIDAZIONE

VISTA SUL Tra grattacieli e nuove generazioni che s'incontrano, Milano è la città italiana che vive in anticipo le tendenze globali. Qui le raccontiamo con un reportage d'autore del fotografo Mattia Zoppellaro

FOTO CONTRASTO

di ENRICA BROCARDO foto di MATTIA ZOPPELLARO

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DOMANI

Yuniser Cruz e Elisa Mazzarese nel quartiere Porta Nuova. Nella pagina accanto, l'area residenziale e commerciale City Life, al quartiere Portello.

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G R A Z I A IBRIDAZIONE

RINASCITA

Meskerem Menassi in piazza Gae Aulenti. Pagina accanto, la Fondazione Museo della Memoria della Shoa, accanto alla Stazione Centrale.

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Foto CONTRASTO

URBANA

G R A Z I A IBRIDAZIONE

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ARTE E

Foto CONTRASTO

G R A Z I A IBRIDAZIONE

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NATURA

Nicolò Di Vincenzo e Isabel Cruz Ferreira a City Life. Nella pagina accanto, dall'alto: l'opera La Sequenza di Fausto Meloni allo spazio espositivo HangarBicocca; un cartello pubblicitario vicino alla Fondazione Prada.

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G R A Z I A IBRIDAZIONE

Dall'alto, in senso orario: un negozio di abbigliamento in via Paolo Sarpi nel quartiere Chinatown, che ospita la più antica comunità cinese in Italia; il bar Addis Abeba in via Lecco, quartiere multietnico amato dalla comunità arcobaleno; Murkarin Phutsorn e Shrnilyn Medalla fotografate nel Parco Biblioteca degli Alberi, area verde tra piazza Gae Aulenti e il quartiere Isola, in piena trasformazione; il ristorante cinese Kung Fu Bao nel quartiere in espansione di NoLo, acronimo che significa “a nord di piazzale Loreto”.

«M

ilano è la città che meglio rappresenta il volto internazionale dell’Italia». La definizione è di Zaha Hadid, Arata Isozaki e Daniel Libeskind, i tre architetti di City Life, uno dei progetti che hanno cambiato il volto e lo skyline della città. Una vocazione internazionale, quella di Milano, che si sviluppa dal secondo dopoguerra, ma che ha subito una forte accelerazione negli ultimi vent’anni, fino a trasformare la grigia metropoli lombarda in “the place to be”, il luogo dove essere per merito, prima di tutto, di un’apertura al mondo, di una profonda capacità di integrare persone e culture diverse. Come ha scritto Florencia Andreola, architetta argentina che ha studiato al Politecnico di Milano e coautrice del libro Milan Architecture Guide 19452015: «È la città italiana più capace di assorbire gli stranieri, la diversità. È ibrida non solo dal punto di vista architettonico ma, più in generale, per la disponibilità ad aprire le porte ad altre culture. Milano ha accolto tutti senza limitarne la possibilità di integrazione». Per respirarne l’atmosfera multiculturale, basta una passeggiata alla Biblioteca degli Alberi, in zona Porta Nuova, uno dei parchi più innovativi al mondo, progettato dai designer paesaggistici olandesi Petra Blaisse e Piet Oudolf (lo

stesso che ha disegnato i giardini della High Line di New York). «È il luogo dove, con il bel tempo, la gente converge da tutta Milano, uno degli spazi più internazionali e inclusivi insieme con Porta Venezia, quartiere storico dove la Milano bene convive con gli artisti e la comunità africana», dice il fotografo Mattia Zoppellaro, autore del reportage in queste pagine. A Milano, Zoppellaro ha studiato ed è tornato a vivere dopo un periodo a Londra, «che mi sembrava il cuore dell’Europa e che, invece, la capitale lombarda ha superato in termini di vitalità e di offerta culturale». Nell’area metropolitana, i cittadini stranieri sono circa 460 mila. Tra i primi ad arrivare, già negli Anni 20 del secolo scorso, i cinesi, che fondarono il loro quartier generale in zona Paolo Sarpi e che, con la crescita della comunità, si sono espansi verso NoLo, area popolare a nord di piazzale Loreto dove convivono gallerie d’arte, botteghe etniche e locali: un mix di sudamericani, africani e, appunto, cinesi. Ma a rendere Milano contemporanea e internazionale è stata anche la profonda trasformazione urbanistica, avvenuta grazie al recupero di aree ex industriali e di scali ferroviari dismessi. Grandi opere di riqualificazione come il progetto Porta Nuova, che include il Bosco Verticale di Stefano Boeri, piazza Gae Aulenti, la Torre Unicredit,

MIX DI CULTURE


Inclusività. Oggi per domani. Come Sascha e Neele.


G R A Z I A IBRIDAZIONE e altri edifici che hanno ridisegnato il quartiere Isola. O la creazione di City Life, citata all’inizio, nell’area ex Fiera nel quartiere Portello. E, ancora, il Museo d’arte Contemporanea della Fondazione Prada, dell’architetto olandese Rem Koolhaas. Un progetto importante perché ha indicato una strada per coniugare innovazione e tradizione. L’istituzione culturale, sorta al posto di una vecchia distilleria, è un insieme di costruzioni nuove e di edifici preesistenti. Come la Haunted House, inalterata nei volumi originali, ma rivestita interamente di foglie d’oro. Talmente iconica da imprimere un’accelerazione a tutto il quartiere, ribattezzato SuPra, o South of Prada. «Forse il progetto più bello degli ultimi decenni», secondo Zoppellaro, che cita tra le altre zone capaci di coniugare vocazione globale e radici storiche la Bovisa. I poli universitari hanno giocano un ruolo centrale nell’apertura al mondo di Milano. Ma se il quartiere Bicocca ha quasi completato la propria

trasformazione, con l’apertura del campus, lo spazio espositivo HangarBicocca e il teatro Arcimboldi, Bovisa è in pieno divenire grazie al progetto Bovisa Goccia, che prevede l’ampliamento del Politecnico, il recupero di due ex gasometri e la realizzazione di un’enorme zona verde. Mentre nell’area Expo, da cui è partita la rinascita, sorgerà un altro progetto dal respiro internazionale: il centro per la ricerca scientifica Campus Human Technopole. Milano, soprannominata la città che cambia, si muove verso i Giochi olimpici invernali del 2026 con tantissimi progetti. Ambiziosi ma anche piccolissimi, come quelli della Scuola dei quartieri, un’iniziativa del Comune per finanziare mini proposte in grado di migliorare le periferie. L’obiettivo, però, è uno solo: rimanere quella che lo scrittore Ernest Hemingway, un secolo fa, descrisse come «la città più moderna e vivace d’Europa». © RIPRODUZIONE RISERVATA

Da sinistra in alto, in senso orario: una foto tra i grattacieli di piazza Gae Aulenti; Monica Gong Ping nella piazza; l'insegna di un spazio di moda nell'ex quartiere operaio di Bovisa, oggi sede universitaria con molti locali di tendenza; Greta Guglielmetti e Alessandro Mastroagio nel quartiere Porta Nuova, che è anche il cantiere più grande d'Europa; il cortile della Fondazione Prada, dove si organizzano esposizioni d'arte.

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G R A Z I A PERCEZIONE

A TAVOLA CAMBIEREMO IL MONDO

LO CHEF DAVIDE OLDANI SPIEGA PERCHÉ I PIATTI DEL FUTURO DOVRANNO RACCONTARE IL RITROVATO RISPETTO PER LA TERRA

Lo chef Davide Oldani, 53 anni.

di MARINA SPEICH foto di GIOVANNI GASTEL

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uando glielo dici abbassa lo sguardo, poi risponde: «Se lo dice lei», con quel mix di umiltà e consapevolezza tipico dei grandi. Ma è un dato di fatto che Davide Oldani, chef del suo ristorante D’O a San Pietro all’Olmo di Cornaredo, in provincia di Milano, sia stato un precursore, iniziando 18 anni fa a parlare di cibi del territorio e di stagionalità, quando nessuno poteva immaginare quello che avrebbe significato per tutti noi, tempo dopo, un menù a chilometro zero. Ha parlato di sostenibilità in cucina diversi anni prima che quella del pianeta diventasse l’emergenza ambientale più discussa. Forse è anche per questo che la guida Michelin gli ha conferito non solo le due stelle, ambito traguardo dell’alta cucina, ma anche la stella verde, nuovo riconoscimento della celebre guida che premia sostenibilità e rispetto per l’ambiente. Risultato: Davide Oldani è un’ispirazione per tutti, esempio di economia applicata e sostenibile. La sua

filosofia lui la riassume così: «La mia cucina POP è nata dal desiderio di amalgamare l’essenziale con il ben fatto, il buono con l’accessibile, l’innovazione con la tradizione». Attenzione a sostenibilità e materie prime: che cosa c’è davvero dietro la sua stella verde Michelin? «Inconsciamente siamo sempre stati verdi: se fai una ristorazione con le tue risorse, come è capitato a me, o ti adegui al territorio o diventi un ennesimo caso di cucina legato alla finanza. Ho seguito il modello che ho ricevuto dall’educazione di mia madre. E questa mia filosofia è diventata “case history” per l’Università di Harvard. Ma forse la sostenibilità umana è per me più importante di quella del piatto». La sostenibilità umana? «Sì, per me il rispetto del prossimo e di chi lavora con me è fondamentale. Al ristorante imposto anche i turni in modo sostenibile. Facciamo un lavoro duro, ma è importante avere una buona qualità di vita».

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Il ristorante D'O di Davide Oldani a San Pietro All'Olmo di Cornaredo. Sotto, il piatto Mischiare le carte.

«LA CUCINA HA BISOGNO DI TEMPI LUNGHI PERCHÉ FA RISCOPRIRE LA LENTEZZA» 116

La lezione “green” più preziosa che le ha trasmesso la sua mamma in cucina? «Non tanto capire come si fa un buon risotto, ma sapere che per ogni stagione c’è il suo prodotto e per ogni prodotto c’è un’economia sostenibile». È difficile seguirla, per chi vive in modo frenetico e trova ogni prodotto al supermercato. «Per questo, in una delle pillole della mia cucina POP (i capisaldi della filosofia di Oldani, ndr) spiego che programmare la spesa significa andare a farla sempre a stomaco pieno. Altrimenti si comprano cose inutili. E poi in cucina è meglio pesare le dosi. È più noioso, ma si evita di buttare. Dietro a questo atteggiamento c’è qualcosa di più profondo». In che senso? «Quando sprechiamo l’acqua, per esempio, non pensiamo mai a chi non ce l’ha davvero. Certo, ognuno di noi non può salvare da solo il pianeta, ma può rendere più sano il piccolo universo in cui vive. E per riuscirci ci vuole una buona dose di umiltà». Una filosofia di vita che ha applicato anche durante la pandemia? «Sì, da un anno non frequento nessuno, non mi sono concesso nessuna cena o aperitivo con gli amici o in giro. Il rispetto per gli altri è la chiave per uscire dall’emergenza sanitaria e per vivere meglio». Sostenibilità vuol dire anche rispettare i tempi della maturazione di frutta e verdura? «Sì, ma anche della vita, soprattutto in una società in cui sei abituato ad avere tutto e subito. Oggi l’unico momento in cui siamo costretti a rispettare ritmi naturali è quando mangiamo e cuciniamo. Tempi lenti rispetto, per esempio, a quelli frenetici dei social, che non ti fanno mai sentire sazio, felice di ciò che ti accade intorno. All’inizio anch’io ne ero dipendente». Come prepara la ripartenza del Ristorante D’O? «Ora siamo chiusi, ma tutti i miei ragazzi stanno lavorando e pensando a nuove idee sul servizio, sui piatti. Alla riapertura troverete una nuova faccia del D’O. La mia idea non è di recuperare quello che abbiamo perso, il passato è passato, ma di riaprire dal meglio che avevamo prima». Quanto conta per lei trasmettere il sapere ai ragazzi? «Moltissimo. Il progetto dell’Istituto alberghiero statale Olmo di Cornaredo, di cui sono mentore, è fondamentale per me. Molte aziende con cui collaboro, da Kenwood a Lavazza, da Carpigiani a Imperia, hanno offerto alla scuola i loro prodotti all’avanguardia. L’impegno concreto in favore delle nuove generazioni di chef dà un senso alla vita». © RIPRODUZIONE RISERVATA

foto: ANDREA RINALDI, MAURO CRESPI

G R A Z I A DAVIDE OLDANI



ph Raffaele Marone

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G R A Z I A IBRIDAZIONE

LE MACCHINE AIUTERANNO GLI ESSERI UMANI A MIGLIORARE IL MONDO.

È QUESTO IL FUTURO CHE AUSPICA GIORGIO METTA, DIRETTORE DELL´ISTITUTO ITALIANO DI TECNOLOGIA di GIORGIO METTA foto di DUILIO FARINA artwork GIOVANNI GASTEL

foto: COURTESY DOLCE&GABBANA, IIT

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a sostenibilità del nostro modello di sviluppo, sia quella ambientale, sia dal punto di vista sociale, è una questione da affrontare urgentemente. E la ricerca scientifica è l’unica possibilità per garantire un benessere il più possibile diffuso a beneficio di una grossa fetta della popolazione mondiale. Del resto, è stata proprio l’innovazione tecnologica che, nei secoli, ci ha permesso di migliorare la nostra qualità della vita. Tornare indietro non è un'ipotesi percorribile, cambiare certamente sì. Vediamo, in concreto, alcuni campi di ricerca e le possibili applicazioni. La robotica per l’agricoltura di precisione, per esempio, è un settore sul quale si sta lavorando e che ha grosse potenzialità: oggi i sistemi di coltivazione tradizionali avvengono su ampie aree in maniera uniforme con un utilizzo di grandi quantità di prodotti chimici che inquinano, con un impatto negativo sulla salute delle persone e con un riflesso anche sul costo del prodotto finale. Grazie all’utilizzo di robot guidati da sistemi di intelligenza artificiale e alimentati a energia solare, si potrebbe facilmente intervenire per soddisfare i bisogni di ogni pianta, rilasciando minori quantità di anticrittogamici e fertilizzanti nell'ambiente, raccogliendo in maniera differenziata e solo al momento della maturazione. Un altro fronte su cui si è progredito rapidissimamente è quello dei nuovi materiali, i cui campi di applicazione sono tantissimi. Per fare un esempio, si lavora alla ricerca di soluzioni alternative alla plastica. Quelle già sperimentate in alcuni casi utilizzano polimeri realizzati con gli scarti dell’agricoltura, quindi di origine vegetale, compostabili, biodegradabili e prodotti in modo sostenibile. Si sono realizzati in questo modo contenitori di ortaggi come i carciofi o i pomodori

Dall´alto: Giorgio Metta, 51 anni, direttore scientifico dell´Istituto Italiano di Tecnologia; dalla sfilata Dolce & Gabbana Donna autunno-inverno 2021/22, le modelle con il robot androide iCub.

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G R A Z I A GIORGIO METTA

direttamente prodotti dagli scarti dello stesso vegetale. In teoria si potrebbe anche immaginare che gli stessi robot per l’agricoltura potrebbero essere costruiti con materiali biodegradabili: il risultato sarebbe un impatto complessivo prossimo allo zero. L’ambizione, in questo campo, sarebbe arrivare all’eliminazione della plastica anche per i tutti i dispositivi tecnologici, cellulari, computer e non solo. La ricerca procede anche nell’ambito della creazione di materiali in grado di ridurre l’inquinamento dell’aria, assorbendo l'anidride carbonica, e dell’acqua, filtrando e rimuovendo i metalli pesanti o i residui oleosi. Anche in questo caso, alcune applicazioni sono già disponibili: grazie alle nanotecnologie, all’Istituto Italiano di Tecnologia abbiamo realizzato spugne che trattengono solo le sostanze oleose, come il petrolio. L'innovazione, però, deve essere anche economicamente sostenibile. Questo significa, in alcuni casi, ripensare il modello di business delle aziende per favorire processi e prodotti che siano virtuosi sul fronte dell’ambiente, pur rimanendo competitivi. Il lato economico, poi, è cruciale quando si parla di sostenibilità sociale, ovvero di metodi innovativi per ridurre i costi e rendere le tecnologie più “democratiche”. Un esempio sono i dispositivi per effettuare test diagnostici fuori dalle strutture sanitarie e che raggiungono entrambi gli obiettivi: minore spesa per la sanità e maggiore accessibilità in termini di

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popolazione, con l’inclusione di Paesi che, oggi, non sono in grado di far fronte a sistemi più dispendiosi. La stessa robotica ha innumerevoli applicazioni in campo sanitario. Un esempio: lo sviluppo di macchine che siano di aiuto ai lavoratori per abbattere il rischio di malattie professionali, come quelle legate alla movimentazione di pesi, che spesso portano alla patologia o all’infortunio. L'Istituto Italiano di Tecnologia sta collaborando con Inail proprio su questo fronte. I robot possono affiancare l’uomo sia per evitare l’incidente, eliminando gli sforzi pericolosi, sia per curare l’essere umano nel caso l’incidente sia purtroppo avvenuto. Pensiamo quindi a protesi, esoscheletri, e più in generale, alle macchine per la riabilitazione post-traumatica. Tornando al tema della sostenibilità, l’intelligenza artificiale può esserci d’aiuto. In questo caso, dobbiamo pensare a quella che io chiamo “l’ottimizzazione globale”. Dobbiamo affrontare i problemi da tanti punti di vista cercando sempre di coniugare la sostenibilità con le migliori soluzioni disponibili, utilizzando tecnologie sviluppate anche in ambiti diversi, come la robotica, i nuovi materiali o le scienze della vita. Tra gli altri campi in cui l'intelligenza artificiale si rivela indispensabile c'è l'analisi incrociata di dati legati all’ambiente e alla salute: la distribuzione sul territorio di certe patologie e di certe forme tumorali collegate alla presenza di agenti inquinanti

foto: COURTESY DOLCE&GABBANA, IIT

Dalla sfilata di Dolce & Gabbana Donna autunnoinverno 2021/22, le modelle con i robot R1 Your personal humanoid.



G R A Z I A GIORGIO METTA

«AMBIENTE E SALUTE SARANNO RIVOLUZIONATI DALL'USO DELLE INTELLIGENZE ARTIFICIALI»

potrebbe fornire indicazioni utili a determinare quali coltivazioni andrebbero spostate o dove invece coltivare porta a benefìci per la salute perché il prodotto acquisisce un contenuto di sostanze chimiche e una composizione complessiva ottimale. Analisi così complesse e sofisticate, legando fattori ambientali, epidemiologia e genetica sono possibili solo grazie all’intelligenza artificiale. Si tratta di analizzare quantità enormi di dati: operazioni che le macchine fanno meglio e più velocemente. Un ulteriore esempio di applicazione molto importante è quella della simulazione molecolare. È già possibile oggi, nella progettazione dei farmaci, impiegare l’intelligenza artificiale per simulare l’interazione fra le molecole “potenziali farmaci” e la struttura cellulare. Il chimico e il biologo virtuali lavorano meglio dei loro colleghi umani, cercando tra le quantità vastissime di possibili farmaci quelli che possono essere meglio reattivi nel risolvere un certo problema: per esempio, una proteina difettosa. Successivamente è anche immaginabile di migliorare il funzionamento del farmaco stesso per ridurne gli effetti collaterali. Per fortuna c’è ancora un ruolo importantissimo per lo scienziato “umano”: quello di dire all’intelligenza artificiale cosa cercare. Come potete intuire, l’innovazione tecnologica al

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servizio della sostenibilità è un mondo complesso che richiede un approccio fondato sulla contaminazione delle competenze. Un robot funziona grazie all’intelligenza artificiale, la biologia e la farmacologia hanno bisogno di metodi computazionali, i nuovi materiali si progettano grazie anche al “chimico” virtuale, la medicina usa la robotica sia per rendere la chirurgia più accurata, sia per assicurare un migliore recupero a chi ha subito un incidente. L’Istituto Italiano di Tecnologia, che ho l’onore di dirigere, ha scommesso su questo fronte fin dal suo inizio, abbattendo le barriere fra le diverse discipline. Per affrontare un problema, l’esperto di automazione lavora con il medico che ha conoscenza diretta delle patologie, con il biologo che può analizzare la questione a livello cellulare, e così via. È un metodo che consente di arrivare a soluzioni più innovative, più rapidamente. Come sappiamo, non è rimasto molto tempo. Sul fronte della sostenibilità ambientale e sul suo impatto sulla società, dobbiamo muoverci subito e mettere in campo tutte le risorse possibili. Per evitare di dover pagare, in futuro, un prezzo molto più alto per le conseguenze sull’ambiente e sulla salute (Testo raccolto da Enrica Brocardo). © RIPRODUZIONE RISERVATA

foto: COURTESY IIT

Sopra, l´umanoide iCub. A destra, Coral Reef: una sezione di cellule nervose al microscopio ottico esaminate dalla squadra di ricerca Brain Development and Disease dell´IIT.




G R A Z I A CONTAMINAZIONE

L’UNIVERSITÀ ADESSO GUARDERÀ PIÙ AVANTI LE LEZIONI IN DIGITALE HANNO RAGGIUNTO GLI STUDENTI OVUNQUE SI TROVASSERO. MA LA NUOVA MISSIONE DEGLI ATENEI, DICE IL RETTORE DEL POLITECNICO DI MILANO, È DARE LORO NUOVE ESPERIENZE DI VITA di FERRUCCIO RESTA foto di GIOVANNI GASTEL

foto: MONDADORI PORTFOLIO

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Dall'alto: Ferruccio Resta, 52 anni, rettore del Politecnico di Milano; la facoltà di Ingegneria Industriale, sede di Milano Bovisa.

ontaminazione, ibridazione, interdisciplinarietà, mobilità sono termini che, negli ultimi anni, hanno dipinto la città di Milano, porta d’accesso all’Europa, luogo di scambio e di confronto. Una città vivace, che ha attratto talenti da tutto il mondo; che è stata capace di svestire abiti fuori moda e di rifarsi il look. Che ha ridato vita alle periferie, anche grazie agli interventi edilizi legati all’università e alla ricerca: da Bocconi alla IULM, dalla Bicocca a MIND, dal Politecnico in Bovisa al recupero degli scali ferroviari per la nuova Accademia di Brera. Milano ha messo a segno grandi interventi di riqualificazione che hanno coinvolto l’architettura, le arti e il design, e che hanno guardato alla tradizione in modo innovativo. Improvvisamente nel vocabolario di questa città iperattiva e dinamica, e del mondo intero purtroppo, da qualche mese a questa parte tra i lemmi più consultati troviamo: limitazioni, emergenza, distanza. La pandemia ci ha colpiti come un uragano, in modo violento. Qualcuno ha resistito. Altri non si sono rialzati. L’università fortunatamente ha retto. Il Politecnico è rimasto in piedi e, nonostante la difficoltà, continua a guardare avanti, convinto che il Covid-19 sia una grande occasione per accelerare i cambiamenti in atto. Sarebbe drammatico se così non fosse. Se non riuscissimo a rispondere a questo terribile nemico con termini che hanno un’accezione positiva e che guardano al futuro. Non possiamo infatti pensare che, una volta superata questa prova, tutto magicamente tornerà come prima. Possiamo però fare in modo che la città ritorni a essere viva e pulsante. Che i giovani riempiano di nuovo le aule e affollino le piazze. Ma perché questo accada l’università deve cambiare modello e Milano con lei. Per riuscirci dobbiamo poter rimettere la persona al centro e dare un nuovo valore al concetto stesso di presenza. Là dove tutto, o quasi, può essere portato a distanza, dobbiamo creare una nuova consapevolezza dell’“esserci”, dell’esperienza del vivere. Mettiamoci così nei panni di uno studente, internazionale o italiano che sia, che fino a ieri era disposto a venire a Milano per conseguire la laurea. Che aveva come unica alternativa l’università

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G R A Z I A FERRUCCIO RESTA

sotto casa o quella telematica. Ma al quale ora le grandi università di tutto il mondo, dagli Stati Uniti all’Inghilterra, offrono in risposta al Covid percorsi interamente a distanza e magari a prezzo ridotto. Se foste in lui o in lei che cosa fareste? Scegliereste il Politecnico di Milano, per quanto il primo ateneo tecnico in Italia, o l’università di Cambridge online? Io non avrei dubbi. Ai più prestigiosi atenei all’estero, che grazie a offerte formative a distanza diventano accessibili e si trasformano in super competitor, non dobbiamo pensare di rispondere con le medesime armi. Al digitale dobbiamo aggiungere qualcosa in più. Non basterà quindi accogliere a braccia aperte nuovi studenti, ma dovremo offrire loro un’esperienza di vita unica se vogliamo che scelgano Milano. Un’esperienza che si misurerà in modo tangibile all’interno del campus universitario e intangibile attraverso i valori che saremo in grado di trasmettere. Così sapremo uscire dalla pandemia. Con spazi universitari che diventeranno sempre di più luoghi di confronto, di scambio e di ibridazione, non solo di erudizione, ma di crescita personale. Momenti indispensabili per capire e affrontare la complessità delle future sfide globali. Momenti in cui il lavoro di gruppo e la relazione saranno più importanti di qualsiasi nozione si possa apprendere attraverso un computer. Il digitale è un utilissimo strumento che non abbandoneremo, anzi che rafforzeremo, che ci permetterà di innovare la

didattica. Tuttavia, non sarà questa la soluzione. Se non ripensiamo profondamente al valore della frequentazione dell’università, con le sue esperienze curricolari e non curricolari (dall’associazionismo, allo sport, al tempo libero), rischiamo di perdere studenti di talento in un contesto che presto riprenderà la sua corsa a livello mondiale e di non dotare i nostri studenti e le nostre studentesse degli strumenti necessari ad affrontare il futuro. Privarsi del valore del capitale umano non sarà a quel punto solo un problema del Politecnico di Milano, ma della nostra città, del nostro territorio, delle nostre imprese. Servono quindi programmi attenti alla qualità del vivere e del lavorare. La posta in gioco è alta e merita tutta la nostra attenzione. Quello che è certo, è che non intendiamo portare indietro le lancette dell’orologio. Possiamo però sfruttare questo momento di sospensione per ridurre le distanze. Mi piace paragonare la situazione globale a quella di un Gran Premio automobilistico bloccato da un incidente. La pandemia è esattamente come un imprevisto all’interno di una competizione. La nostra auto non era tra quelle in testa nella gara, anzi perdeva posizioni su molti fronti. Ma quando la safety car è entrata in pista, improvvisamente ha rallentato tutte le altre e annullato i ritardi. La pausa ai box è diventata fondamentale per mettere a punto una nuova strategia. Facciamoci trovare pronti per quando la safety car lascerà il circuito. © RIPRODUZIONE RISERVATA

«GLI SPAZI UNIVERSITARI DIVENTERANNO SEMPRE DI PIÙ LUOGHI DI CONFRONTO, DI SCAMBIO E DI IBRIDAZIONE» 126

foto: MONDADORI PORTFOLIO, IPA

A sinistra, la biblioteca del Politecnico di Milano. Sotto, l'insegna dell'ateneo.


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G R A Z I A PERCEZIONE

LA NOSTRA FORZA È SAPER STARE INSIEME

PER CAPIRE NOI STESSI DOBBIAMO IMPARARE A VIVERE CON GLI ALTRI. È QUESTA LA LEZIONE DELLA PANDEMIA SECONDO IL TEOLOGO SERGIO UBBIALI di SERGIO UBBIALI foto di MATTIA ZOPPELLARO artwork di GIOVANNI GASTEL

Qui sopra, Monsignor Sergio Ubbiali, teologo. A sinistra, l'abbraccio tra due amiche.

foto: CONTRASTO

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a pandemia che viviamo da un anno ci ha portati a riflettere su alcuni temi cruciali. Sull’individualismo come modello di vita, per esempio. In questi mesi, infatti, molte persone, abituate a vivere in un mondo frammentato e pensando solo a favorire se stesse e i propri progetti, hanno sperimentato una sorta di chiamata al bene comune: nuove regole atte a non nuocere ai più deboli, comportamenti dei singoli volti ad aiutare chi nel lockdown è rimasto isolato e senza aiuto. Si è come riscoperta l’esperienza comune del mondo. L’individuo occidentale era abituato a vedere la vita come il passare di un momento dopo l’altro, ad alimentare una consapevolezza per frammenti e solitaria. Invece la pandemia ha generato una sorta di sospensione dell’individualismo, mettendo sotto gli occhi di tutti il grande interrogativo: “Che cosa sono io senza gli altri?”. Una domanda che dovrebbe essere rilanciata come enorme, trasparente problema culturale. Se si vive con l’idea di “vivere con”, l’oggi assume un significato molto particolare e significativo: non è più l’ora in cui ci si lascia vivere trovando soluzioni temporanee ed emergenziali al problema del momento, ma vi entrano in campo scelte sistemiche.

In questi mesi abbiamo toccato con mano non solo la differenza tra l’individualismo e il suo contrario, ma anche la nostra essenza di creature finite. Siamo abituati a ignorare il nostro limite e a vivere la vita come un continuo progresso, un balzo in avanti, un perpetuo miglioramento. E invece siamo esseri finiti e pertanto unici, abbiamo una storia e un tempo delimitati e tutti nostri. L’uomo d’oggi è abituato a pensare: “Quello che non faccio oggi, lo faccio domani”. E invece dovrebbe, a mio parere, interrogarsi con uno stile diverso: “Che cosa mi caratterizza, chi voglio essere?”. La malattia ha attirato l’attenzione generale sul fatto che il tempo del corpo finisce, e che quest'ultimo ha possibilità limitate. Ma ha un po’ oscurato l’altra domanda, su che cosa l’essere umano può fare di sé nei limiti che il suo proprio e unico tempo gli concede. Continuo a parlare di domande: perché ce ne facciamo troppo poche. Abbiamo perso l’abitudine di interrogarci, siamo troppo presi dal fare, organizzare, pianificare. Interrogarsi vuol dire prendersi del tempo. E accogliere la chiamata al senso delle cose che facciamo accadere. Ecco, le facoltà basate sulle materie scientifico-tecnologiche, pure così utili per preparare i giovani alle sfide professionali del domani, in questo latitano. Non

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G R A Z I A SERGIO UBBIALI A sinistra, manifestazione di solidarietà per i migranti a Milano. Sotto: due amiche con la mascherina all'aeroporto di Monaco.

ci abituano a porci quelle domande su cui si sono interrogati gli uomini fin dall’antichità. Al contrario, le scienze umanistiche sono nutrite dal richiamo, ancora più utile, alla nostra mortalità. Non hanno, di fronte alla morte, quel cinismo che vedo un po’ ovunque. Ci interrogano in continuazione sul senso della vita, mettendo così anche la morte in un’altra prospettiva. Perché la morte assume significati diversi a seconda del senso che dai alla vita. Un esempio: la pandemia ci ha lasciati orfani di tante persone che non ce l’hanno fatta. Allora, se guardi alla vita di una persona cara che hai perso come a un incremento di azioni, successi personali e professionali, allora la sua morte è solo la fine di queste potenzialità. Il termine di una “vita da soli”. Se invece guardi alla vita di un essere umano pensando all’eredità delle tracce di senso che ha lasciato, senza le quali tu che l’hai frequentato non saresti quello che sei, allora capisci cosa vuol dire vivere, cioè vivere “insieme con gli altri”. Bisogna convertire se stessi a questa apertura, attuare una conversione a 360 gradi, morale, intellettuale, personale, a questo nuovo umanesimo. Si vive insieme con gli altri, perché grazie agli altri si costruisce se stessi. Il “pubblico” non è la somma degli individui, ma una comunità in cui ognuno prende dall’altro ciò che gli è indispensabile in quanto lo illumina su chi egli sia o debba essere. Questo nuovo umanesimo su cui ricostruire il futuro ci porta come nuova parola d’ordine “apertura”. È qualcosa di più di “inclusione”, perché porta a considerare l’altro come fondamentale non solo per quello che con l’altro si dice e si fa, ma per diventare quello che si è. Il tema dell’essere umano non è riconducibile alla somma delle cose che ciascuno riesce a fare nel corso

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della vita. Quest’apertura può essere messa in atto, per esempio, nei confronti della battaglia delle donne per avere uguali diritti rispetto agli uomini. Ciascuno di noi, nella vita di tutti i giorni, a partire dalla propria famiglia e dal posto di lavoro, deve fare la parte che gli compete, cosicché tutti gli esseri umani, donne o uomini che siano, abbiano le stesse opportunità. E questo dev’essere anche un compito delle scuole e delle università. Tra i miei dottorandi ci sono ragazze e ragazzi che hanno la stessa libertà di esprimere il loro potenziale umano e creativo. Nella società futura le donne non devono più essere comprimarie. E per questo sarà importante monitorare la barbarie del linguaggio che veicola questa comprimarietà. Ma io sono fiducioso: abbiamo delle possibilità di cui non ci rendiamo ancora partecipi e disponibili. Ci sono ancora storia e tempo, perché Dio ama gli uomini, e questo deve alimentare la nostra fiducia. Se Dio ama gli uomini, possiamo imitarlo e amarli anche noi. Il mondo è sempre più frammentato, le grandi religioni propongono invece una visione unitaria della vita. Sono dunque destinate a scomparire? No, vedo un grande futuro per loro, avranno ancora tanto da dire e da fare. Avranno il compito di riaprire continuamente i discorsi e le opere comuni. E questo non lo sostengo solo io, o altri credenti come il pensatore francese Jean-Luc Marion, ma anche filosofi non credenti come Jean-Luc Nancy o altri filosofi questa volta credenti come Jörg Splett. Gli uni e gli altri vedono nella religione una forza che raccoglie, una spinta che costruisce in quanto non lascia indietro nessuno, come fa Dio d’altronde. (Testo raccolto da Monica Bogliardi) © RIPRODUZIONE RISERVATA

foto: CONTRASTO/IPA

«NELLA SOCIETÀ DI DOMANI LE DONNE NON DEVONO PIÙ ESSERE CONSIDERATE DELLE COMPRIMARIE»



G R A Z I A PERCEZIONE

* Per l'attrice Valeria Solarino giacca in lana su gonna, cintura DiorDouble in vitello intrecciato (tutto Dior). Orecchini e anello Love de Cartier, orologio Panthère in oro rosa (tutto Cartier).

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G R A Z I A MODA

IL BISOGNO DI SFIORARSI Con i cinema e i teatri chiusi a causa della pandemia, l’attrice Valeria Solarino si è rimessa a studiare filosofia. E qui racconta a Grazia i suoi desideri più forti in questa nuova fase della vita: riabbracciare i genitori lontani e camminare in strada senza doversi preoccupare di mantenere le distanze di Monica Bogliardi - Foto di Emre Guven - Styling di Selin Bursalioglu

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Abito in nappa con dettagli metallici e sabot in pelle con suola in legno di faggio (tutto Hermès).


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Giacca corta e squadrata in lino e lana su pantaloni ampi a vita alta (tutto Louis Vuitton). Mocassini (Celine by Hedi Slimane).


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Giacca in tweed con filo di lurex, colletto e polsi in seta bianca su gonna coordinata; bracciale e sandali in gros grain (tutto Chanel). L'idea bellezza: sul viso, Les Beiges Teint Belle Mine Naturelle, fondotinta illuminante e idratante a lunga tenuta (Chanel)



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Giacca lunga in tessuto jacquard su miniabito in maglia e pantaloni dritti (tutto Balmain). Orecchini Love de Cartier in oro giallo (Cartier). Décolletées (Christian Louboutin).


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Giacca in maglia su gilet e pantaloni, décolletées (tutto Fendi). Orecchini e anello Love de Cartier, girocollo Juste un Clou con diamanti (tutto Cartier).


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Abito longuette argentato (N°21 by Alessandro Dell’Acqua). Orecchini e anello Love de Cartier (Cartier); décolletées (Christian Louboutin). L'idea bellezza: per scolpire i lineamenti con riflessi di luce, lo stick Baume Essentiel Transparent (Chanel).



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Abito in pelle intrecciata con balze di seta (Loewe). Orecchini e anello Love de Cartier in oro giallo (tutto Cartier); décolletées (Miu Miu).


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Trench in gabardine antigoccia (Max Mara). Orecchini, girocollo e anello Love de Cartier in oro giallo (tutto Cartier); stivali Bumpr (Lanvin).


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Tuta (Gabriela Hearst). Orecchini Juste un Clou e anello Love de Cartier (tutto Cartier); décolletées a punta sfilata (Max Mara). L'idea bellezza: per intensificare lo sguardo, Le Crayon Khôl n. 61, all'interno dell'occhio. All'esterno, Stylo Yeux Waterproof n. 88. Sulle ciglia, il mascara volumizzante e allungante Le Volume Stretch (tutto Chanel). Il servizio è stato realizzato alla Triennale di Milano.



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Giacca e pantaloni coordinati, top (tutto Stella McCartney). Trucco: Silvia Dell'Orto@Etoile Management using Les Beiges de Chanel.


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Blazer (Les Copains) su camicia (Tod's) e pantaloni (Tory Burch). Scarpe (Celine by Hedi Slimane). Pettinature: Maurizio Kulpherk@Etoile Management.


G R A Z I A VALERIA SOLARINO

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aleria Solarino è un’attrice schiva, una torinese riservata, ma anche un’esploratrice di bei ruoli. Se fa teatro, è Antonietta, la storica parte di Sophia Loren in Una giornata particolare. Se sceglie la tv, è una grande donna come Anita Garibaldi, o Sandra Buccellato, reporter preparata e determinata, come abbiamo visto negli episodi della quarta stagione della serie Rocco Schiavone. Nata in Venezuela, cresciuta a Torino, romana d’adozione, è il volto perfetto per questo numero di Grazia, anche per via delle sue ultime scelte di vita: è stata studentessa alla facoltà di Filosofia e alla Scuola del Teatro Stabile di Torino, poi attrice. Oggi è studentessa e attrice, perché durante il lockdown ha ripreso dopo anni i suoi studi universitari. Al telefono non c’è traccia della sua riservatezza. Si è presentata con un «Eccomi», e davvero ha raccontato tutta la sua vita e le sue emozioni di questo periodo sospeso. Partiamo dalla riscoperta della gioia di studiare. Com’è successo? «Poco a poco. E poi con un’accelerata l’anno scorso, in piena pandemia. Vent’anni fa ho interrotto Filosofia a cinque esami dalla fine, avevo iniziato a recitare. Già prima del lockdown avevo ripreso in mano i libri, ma poi, l’anno scorso, ho seguito il corso online di Estetica, e quando è comparsa la data dell’appello, 4 febbraio 2021, ho detto: mi butto. Non è stato facile ritrovare il metodo, sono abituata a imparare a memoria le parti, e non a rielaborare dei concetti. All’esame ero agitata, articolavo male le parole e a un certo punto ho perfino chiesto al professore di ricominciare da capo. Ma sapevo tutto: è arrivato il 30. Ora sono sui testi di Filosofia politica». Preparando l’esame di Estetica, si è interrogata su come stia cambiando il concetto di bellezza? «Per me la bellezza è, come diceva Aristotele, armonia di materia e forma. Io non mi innamoro dell’aspetto esteriore di una persona, ma del talento che emana, inteso come corrispondenza della sua forma interna e di quella esterna. C’è una bellezza “facile”, che riguarda solo ciò che appare di una persona, misurata secondo canoni rigidi, e che variano da cultura a cultura. Oggettiva e immobile, è ancora vincente nella nostra società. E i social network

da una parte ne propongono modelli irraggiungibili, dall’altra espongono ogni adolescente, in un’età delicata, al giudizio di migliaia di persone. Quando ero ragazza i social non esistevano, ma mi preoccupavo lo stesso». A quale modello di bellezza aspirava? «Giocavo a basket, caviglie e polpacci sottili non mi garantivano forza nel salto: invidiavo le compagne più formose. Ma vedo che proprio sui social c’è aria di cambiamento: penso a chi oggi mostra i propri cosiddetti “difetti fisici”. È una cosa preziosa, che insegni agli adolescenti a pensare che la bellezza è ricchezza e diversità. Sono contenta perché ho sette nipoti, che beneficeranno di questa nuova libertà del bello». Ci pensa a quando qualcuno le dirà che non è più abbastanza bella o giovane per un ruolo? «Non mi arrabbierò se un regista sceglierà, al posto mio, un’attrice dalla bellezza “facilmente misurabile”. È libero di farlo. Ma credo che non esista una bellezza legata alla giovinezza e questo sarà sempre più riconosciuto: di un uomo, per esempio, non si pensa mai che con l’età diventi meno bello». Come sta vivendo questo momento di crisi del Paese? «Con rabbia. Per tutti gli errori che ho visto fare: il sottovalutare la pandemia prima, il parlare troppo, in tv e ovunque, dopo. E poi l’estate vissuta senza pensare alla seconda ondata, assistendo certe categorie di cittadini più di altre». In questa nuova normalità nata dall'esperienza della pandemia si cambia velocemente, ci si reinventa, ci si adatta. Lei che cosa ha imparato? «Che ho bisogno di poco e che posso sprecare meno. Quando è arrivato il lockdown io e il mio compagno (il regista Giovanni Veronesi, ndr) eravamo nella casa al mare, in Toscana. Noi due, il cane Paco, due o tre magliette estive, un paio di pantaloni e due maglioni. Io che amo fare shopping e comprare scarpe ero stupita che, per tutte le settimane che siamo stati lì, non mi servisse altro. Poi ho cominciato a guardare le scadenze dei cibi, non l’avevo mai fatto. Ma viviamo in un sistema così: se smettiamo di comprare, salta tutto. Però è un sistema che andrebbe rivisto».

«SUI SOCIAL OGGI TANTE RAGAZZE MOSTRANO I PROPRI “DIFETTI“ E INSEGNANO AGLI ADOLESCENTI CHE LA BELLEZZA È RICCHEZZA E DIVERSITÀ» 148


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G R A Z I A VALERIA SOLARINO E come? «Nella quantità degli acquisti. E nella qualità. Cerco di mangiare carne la cui lavorazione non preveda tanta violenza per l’animale e tanti veleni per noi. Quell’hamburger costa di più? Allora lo mangio una volta di meno». In questi mesi di scarsa socialità “per legge”, lei, così riservata, è diventata più solitaria? «No, ho sentito il bisogno di contatti fisici. Mi fa male questa nuova diffidenza: sei portato a sospettare che l’altro ti possa contagiare e l’altro sospetta lo stesso di te. Comunque, altro che solitaria: con distanziamento e mascherine sono andata spesso a camminare con un’amica o due in giro per Roma, o al parco di Villa Pamphili. Veri contatti in presenza, a norma di legge». Su Instagram ha contatti con una community virtuale che segue i consigli della guida letteraria che ha creato. «È nata per caso: in dicembre volevo postare le foto più significative dell’anno. E allora mi sono chiesta: che cosa ha reso meno buio il mio 2020? I libri che ho letto. E sono andata a recuperarne uno per ogni mese del 2020. Il saggio Spillover di David Quammen, su che cosa siano realmente le pandemie, di questi tempi lo dovrebbero leggere tutti. Come Memorie di una ragazza perbene di Simone de Beauvoir, che andrebbe dato a tutte le ragazze e ai ragazzi prima dei 18 anni, tipo manuale della patente. E poi ho chiesto ai follower di consigliarmi dei titoli. Così è nato uno scambio proprio bello con chi mi segue». Ancora non si possono frequentare cinema e teatri. Che idea ha lei in merito? «Li abbiamo chiusi in autunno, quando venivano attuate precauzioni ferree, e li si riaprirà con le stesse misure di sicurezza di prima. E allora che cosa è cambiato? Si poteva non chiudere o non far spendere soldi ai proprietari di sale e teatri per poi serrare tutto». C’è chi dice che le sale italiane debbano essere ripensa-

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te, svecchiate, diventare luoghi in cui vivere esperienze speciali. È d’accordo? «Sì. E sa come vorrei che diventassero i cinema? Luoghi di aggregazione, non posti freddi in cui compri il biglietto e ti trovi sballottato tra venti sale in mezzo all’odore dei popcorn: per me un luogo così è freddo. Il mio cinema ideale è dove vai con le amiche a vedere un film, anche di pomeriggio, a bere un calice di vino buono al bar e a comprare qualcosa in libreria. Un posto dove magari il lunedì vedi gratuitamente un vecchio film di Federico Fellini, se mostri di aver acquistato un biglietto la settimana prima». In futuro immagina più attrici con ruoli da protagonista? «Sì, sono ottimista. Anche se, lo so bene, oggi si scrivono meno personaggi femminili. Io sono stata fortunata, non ho fatto tanta fatica a trovare belle parti ma non c’è ancora, nel cinema, parità di ruoli tra attori e attrici. Su 100 copioni, 80-90 hanno come protagonista un maschio: a parità di anni di lavoro, un’attrice impiegherà di più a emergere. È un discorso di parità di opportunità di partenza, che non ci sono nel cinema come in molti altri ambiti della società. Per invertire la tendenza serve un lavoro culturale. La cultura riflette la società, ma può anche cambiarla. Qualcosa, però, si sta muovendo: nelle serie tv si vedono sempre più donne protagoniste». Immagino lei e il suo compagno, il regista Giovanni Veronesi, che guardate una serie tv. Chi trova più difetti? «Lui! Su quelli tecnici siamo quasi sempre sulla stessa linea. Ma Giovanni ha l’occhio da regista ed è esigente». La prima cosa che farà dopo la pandemia? «Andare in Sicilia da mio padre e in Piemonte da mia madre: abbracciarli e baciarli come l’estate scorsa non ho potuto fare. E poi camminare per strada senza scostarmi quando vedo qualcuno che si avvicina troppo. Voglio di nuovo sfiorare le persone». © RIPRODUZIONE RISERVATA

A PALAZZO DELL’ARTE BERNOCCHI, SEDE DELLA TRIENNALE DI MILANO

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Qui, tre momenti della realizzazione del servizio con Valeria Solarino, a Milano, a Palazzo dell'Arte Bernocchi, sede della Triennale.

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G R A Z I A CONTAMINAZIONE

L’ECOLOGIA E IL TALENTO FEMMINILE FARANNO RINASCERE L’ARTE

GIOVANNA MELANDRI, PRESIDENTE DEL MUSEO D'ARTE CONTEMPORANEA MAXXI DI ROMA, SPIEGA QUI COME CAMBIERANNO I LUOGHI DOVE SI FA CULTURA di GIOVANNA MELANDRI foto di GIOVANNI GASTEL

foto MUSACCHIO IANNIELLO E PASQUALINI

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a relazione tra visitatori e musei è inevitabilmente e profondamente cambiata durante la pandemia, accelerando alcune tendenze in atto già prima. Se da un lato lo shock relazionale ha fatto ingenti danni al sistema culturale, dall’altro ha costretto i musei a interrogarsi sulla propria funzione e sulla modalità di costruzione della propria offerta. Pur con le dovute differenze, tutti hanno dovuto esplorare la propria espansione digitale. È stato un grande apprendistato e questa, sono sicura, sarà una delle direttrici del sistema museale futuro. Pensiamo al MAXXI: durante l’ultimo anno è stato a lungo chiuso, ma mai spento. Abbiamo ideato e realizzato una vasta offerta di contenuti online, ben oltre la visita virtuale, che è stata possibile grazie allo sforzo collettivo di architetti, artisti, designer con cui collaboriamo. La nostra vocazione di “officina di ricerca”, già presente prima del Covid e da me fortemente sollecitata, è oggi un pilastro imprescindibile. Non ci siamo fermati mai: durante il primo lockdown, con il palinsesto #iorestoacasaconilmaxxi; durante i mesi di chiusura da novembre a febbraio, con #nonfermiamoleidee; ultimamente con #unastoriaperilfuturo. Siamo sempre stati un museo “social”, ma non ci aspettavamo quasi 15 milioni di visualizzazioni. Non ci siamo fermati neanche adesso, con quest’ultima chiusura arrivata pochi giorni dopo aver aperto al pubblico due mostre attesissime: Una storia per il futuro. Dieci anni di MAXXI, un importante dispositivo di ricerca frutto di anni di lavoro, e la grande monografica dedicata ad Aldo Rossi, il poeta dell’architettura italiana. Continuiamo a trasmettere contenuti dagli spazi del museo portando il MAXXI nelle case delle persone, per guardare il mondo nuovo che ci aspetta attraverso il bagliore e le intuizioni degli artisti.

Dall'alto: la presidente della Fondazione Maxxi, Giovanna Melandri, 59 anni; due opere di Mario Schifano per l'esposizione del Museo Maxxi di Roma: Senzamargine. Passaggi nell’arte italiana a cavallo del millennio, aperta fino a ottobre; la mostra Una storia per il futuro. 10 anni di MAXXI, fino al 29 agosto 2021.

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G R A Z I A GIOVANNA MELANDRI

«DOBBIAMO TRASFORMARE I MUSEI IN LABORATORI DI RICERCA E DI VISIONE DEL DOMANI»

Adesso per la riapertura si pongono due grandi sfide. La prima è, ancora una volta, far tornare i visitatori al museo, convincerli che è un luogo sicuro in cui si può fare esperienza di una socialità responsabile e regolata. La seconda è non disperdere questo patrimonio di contatti online. La migliore strada da percorrere, credo, è far diventare i musei officine di talenti e competenze, luoghi di contaminazione, laboratori di ricerca e di visione del domani. Pezzi di quel Bauhaus europeo evocato dalla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. Non si torna più indietro: non potranno più essere istituzioni quasi avulse dal contesto sociale e urbano, senza ruolo nella costruzione del futuro dell’Italia e dell’Europa. Ogni mostra dovrà essere non solo un racconto ma una rilettura profonda del presente che tracci le linee guida per un progetto di ricostruzione umana. Gli artisti ci inchiodano al presente, alle sue dimensioni più nascoste ma anche alle grandi battaglie per la difesa del pianeta, della nostra specie, del senso di appartenenza e di giustizia. Faccio tre esempi, che riguardano la programmazione del MAXXI nei prossimi mesi. Il tema ambientale sarà protagonista, in ottobre, della mostra Sebastião Salgado. Amazônia. Salgado ha fotografato la foresta e soprattutto le comunità indigene dell’Amazzonia brasiliana, per chiedere attenzione e consapevolezza sulla tutela dell'ecosistema e delle popolazioni che lo abitano, a rischio di estinzione. La battaglia per la parità di genere anima la mostra Buone Nuove, da novembre, che racconta l’evoluzione al femminile della professione di architetto. Da pioniere come Eileen Grey ad archistar come Zaha Hadid e Cini Boeri, per finire con Francesca Torzo e Lucy Styles, vincitrici della prima edizione del Premio Italiano di Architettura indetto da MAXXI e Triennale Milano. Infine, attenzione ai giovani con MAXXI BVLGARI Prize, il progetto per il sostegno dei giovani talenti, alla seconda edizione. Fino al 3 maggio esponiamo le opere dei finalisti e quella del vincitore entrerà nella Collezione MAXXI. Ma il museo non dovrà solo dialogare con il mondo

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di oggi e raccoglierne le sfide. Deve puntare più in alto, trasformarsi in un crocevia tra identità e innovazione. Al MAXXI non ci stanchiamo di essere un laboratorio di pensiero critico, un luogo di dialogo senza steccati tra culture, tradizioni, discipline diverse. Per avere questa ambizione non bisogna aver paura di cambiare. A partire dagli orari: quando la pandemia non imporrà più schemi rigidi, saremo aperti con maggiore flessibilità. Ma il nostro impegno principale dovrà guardare al sostegno della domanda di consumi culturali. La mia proposta è di defiscalizzare i costi per la cultura, i biglietti di teatri, cinema, musei. Non un bonus ogni tanto, ma una costante detrazione di quel tipo di spese, entro un congruo limite, come ognuno di noi già fa per le spese sanitarie. Del resto la stessa Oms ha sancito che l’accesso alla cultura è parte dell’idea di salute. Sarebbe un’innovativa idea di welfare. E poi sarebbe un modo per riconoscere alla cultura il suo ruolo di strumento di lotta contro la povertà educativa e sociale, oltre che di diplomazia. Ci sono mostre, infatti, che agiscono da motori di inclusione e di contaminazione, come quella che dedicheremo ai fermenti artistici nei territori dell'ex Jugoslavia. Il MAXXI ha un respiro internazionale, ma non perde di vista la sua funzione sociale, la vocazione di museo vicino alla comunità. Dopo il primo lockdown, per esempio, il primo spazio a riaprire è stata la biblioteca, per offrire ai ragazzi un posto sicuro e tranquillo in cui studiare. I nostri 27 mila metri quadrati ora possono diventare un luogo per l’apprendimento e la didattica a distanza, così come altre strutture sono adatte come hub vaccinali. Insomma, c’è tanto da fare. Non ultimo far nascere un nuovo museo. La pandemia ci ha costretti a rinviare l’attesissima apertura del MAXXI L’Aquila, ma tutto è pronto, la mostra inaugurale è allestita e non appena possibile vogliamo aprire. Come tutti gli italiani sentiamo il forte desiderio di ripartire dalla bellezza per rigenerare la mente e lo spirito. E la cultura è una medicina dell’anima. (Testo raccolto da Monica Bogliardi) © RIPRODUZIONE RISERVATA

foto: MUSACCHIO, IANNIELLO & PASQUALINI

Nella foto, scorcio della Biblioteca del Maxxi di Roma, luogo per la didattica in sicurezza.


LA NUOVA


G R A Z I A PERCEZIONE

La nostra arte avvicina all’universo I TeamLab sono un collettivo di autori e scienziati che propone opere da esplorare con tutti i sensi. Perché il loro obiettivo, dicono, è dare nuove emozioni alle persone di LUCIA VALERIO

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Foto courtesy TEAMLAB

L'installazione interattiva Array and Spiral of Resonating Lamps - One Stroke dei TeamLab del 2021.

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G R A Z I A TEAMLAB

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foto courtesy TEAMLAB

Sotto, in senso orario, quattro istallazioni dei TeamLab: Levitation; Flowers and People, Cannot be Controlled but Live Together; Massless Clouds Between Sculpture and Life; Crystal Universe.

eamLab è un collettivo di artisti, architetti, matematici, ingegneri e programmatori che crea arte con la tecnologia digitale, nato nel 2001 a Tokyo, in Giappone. Amatissimi dai più giovani, sono stati ignorati a lungo dal mondo dell’arte giapponese fino a quando, nel 2011, hanno esposto alla Kaikai Kiki Gallery di Taipei, grazie all’artista Takashi Murakami. Hanno partecipato alla Biennale di Singapore nel 2013 e, nel 2014, la PACE Gallery di New York ha iniziato a promuovere le loro opere. E nel 2015 è arrivata la prima mostra a Tokyo. Oggi la casa del collettivo è il Mori Building Digital Art Museum Teamlab Borderless, uno spazio di oltre 10mila metri quadrati sull’isola artificiale di Odaiba, nella baia di Tokyo, che accoglie le loro installazioni immersive ispirate ai fenomeni naturali: oltre a generare una profonda meraviglia nei visitatori di ogni età, insegnano a pensare con il corpo. Come ci siete riusciti? «Le nostre opere sono create in maniera partecipativa da un team di esperti, attraverso un processo continuo di concezione e creazione. Sebbene le idee generali vengano sempre definite fin dall’inizio, l’obiettivo del progetto tende a rimanere piuttosto vago, quindi serve che tutta la squadra vada avanti continuando a elaborarlo e concretizzarlo». Che cos'è per voi l'arte digitale? «Durante gran parte della storia dell’uomo, la creatività è stata espressa attraverso strumenti statici, spesso oggetti fisici quali tele e colori. L’avvento della tecnologia digitale ha permesso di liberarsi da questi vincoli, facendo in modo che le opere si espandessero fisicamente. Poiché l’arte digitale può facilmente ampliarsi, ci offre un maggior livello di autonomia nello spazio. Ora siamo infatti in grado di controllare e utilizzare spazi molto più ampi e i visitatori possono dare il via a un continuo cambiamento dell’opera, entrando a farne parte». Esplorate l'antica relazione tra uomo e natura utilizzando i mezzi tecnologici più avanzati, sfidando le convenzioni del mondo fisico. Sembra un paradosso, quasi una missione impossibile. «Scegliamo e sviluppiamo la tecnologia più adatta al tema e all’idea dell’opera. In questo senso, non ci concentriamo tanto sulla tecnologia in sé, quanto piuttosto sul concetto di “digitale”

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G R A Z I A TEAMLAB

e sull’esplorazione di come questo fenomeno possa espandere l’arte e portarla a un altro livello. Possiamo indirettamente modificare le relazioni delle persone all'interno dello spazio. Se la presenza degli altri può spingere lo spazio a modificarsi, loro stessi diventano parte dell’opera. E se questo mutamento appare bello, allora la presenza degli altri può diventare anch’essa qualcosa di bello». Quindi l'arte digitale contribuisce a creare nuove relazioni tra le persone? «Ne siamo convinti. Le nostre opere Flowers and People, Cannot be Controlled but Live Together e Crystal Universe sono un esempio di come, allargando uno spazio attraverso l’arte digitale, si influenzi il modo in cui le persone interagiscono le une con le altre all’interno di quello spazio. Considerando il tipo di arte visiva che abbiamo conosciuto finora, si potrebbe dire che, dal punto di vista del visitatore, la presenza degli altri era un elemento di disturbo. Nelle nostre mostre, invece, la presenza degli altri può essere positiva». La genesi delle vostre installazioni risiede in epoche passate in cui il rapporto degli uomini con la natura era istintivo. Abbiamo smarrito quella capacità? «Per conoscere il mondo, abbiamo bisogno di separare le cose. Per esempio, l’universo e la Terra sono collegati, ma per riconoscere la Terra la separiamo dall’universo.

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Per capire la foresta, l’uomo la scompone in alberi. Per capire l’albero, l’uomo lo seziona in cellule; per capire le cellule, le divide in molecole e per capire le molecole, le divide in atomi, e così via. Questa è la scienza. Tuttavia, per quanto l'essere umano scomponga le cose in parti, non riesce a comprendere la loro interezza. Tutto esiste in una lunga, fragile ma miracolosa continuità. La continuità della vita e della morte si ripete da oltre 4 miliardi di anni, eppure ci sembra qualcosa di irreale anche solo pensare a 100 anni fa. A noi interessa capire perché le persone hanno questa percezione. Attraverso l’arte, vogliamo superare le frontiere di ciò che noi stessi riconosciamo». Pensando con il corpo e in modo tridimensionale? «Le storie nascono dalle esperienze coltivate mentre esploriamo il mondo con i nostri corpi. Gli esseri umani comprendono il mondo con i loro corpi e pensano con i loro corpi». La vostra arte è edificante. «Il nostro obiettivo è sempre stato quello di cambiare i valori della gente e di contribuire al progresso sociale. E vorremmo continuare a farlo». E sarete presto a Torino. «Sì, alle OGR, le Officine Grandi Riparazioni, porteremo il Future Park. Ma fateci sapere se altri in Italia sono interessati ad accogliere le nostre installazioni». © RIPRODUZIONE RISERVATA

foto courtesy TEAMLAB

Una sala della mostra Universe of Water Particles In The Tank dei TeamLab a Shanghai, in Cina.


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COLLEZIONE SS2021 – FALIS 2014



G R A Z I A PERCEZIONE

I MIEI GIGANTI DI PIETRA PARLANO ALL'ANIMA L'ARTE DI UGO RONDINONE È UNA STORIA DI SOLITUDINE, DI CORAGGIO E DI GRANDE AMORE PER LE FRAGILITÀ DI DONNE E UOMINI di ANGELA VITALIANO da NEW YORK Sopra, Seven Magic Mountains, l'installazione realizzata da Ugo Rondinone in Nevada nel luglio 2020. Sotto, l'artista, 57 anni, con una sua opera a Liverpool nel 2018.

foto: GETTY IMAGES

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uando era studente d’arte in Austria, Ugo Rondinone ricevette in regalo dal padre un oggetto che, all’epoca, trattò con tutto l’infastidito distacco dei 20 anni: era un sasso con un buco nel mezzo, da tenere appeso al collo con una semplice striscia di pelle. Da quando, anni prima, in visita a Matera aveva visto per la prima volta la specie di “caverna” nella quale era stato bambino suo padre Benito, l’artista non aveva più voluto parlare con nessuno delle sue origini, di cui si vergognava. E non aveva più pensato a quel sasso che anche suo nonno Federico aveva portato al collo, prima di suo padre, come segno di appartenenza alla famiglia di “signori” per la quale avevano lavorato, in una condizione molto simile alla schiavitù. Solo due decadi dopo, Rondinone si ricorda improvvisamente di quella pietra, che ritrova fra vecchie scatole e che, da allora, spesso con orgoglio porta al collo, a riprova che quel passato è saldamente legato al suo presente. È impossibile, infatti, non percepire nelle sue opere l’ispirazione derivante dal legame con Matera e i suoi Sassi, con la città che fu di suo padre, poi emigrato in Svizzera, ma anche della famiglia di suo marito, il poeta John Giorno, scomparso due anni fa, con il quale ogni anno ritornava in Italia per ricomporre i pezzi del suo passato e della sua storia. In quelle pietre secolari e scarne, un tempo simbolo assoluto di povertà e desolazione, trova forza e corpo il linguaggio dell’opera magnifica dell’artista, il quale racconta tutto senza mai rimandarci al non detto, sempre mostrandoci, in maniera inesorabile ma poetica, la desolante realtà del nostro malinconico esistere. Nato nel 1963 a Brunne, in Svizzera, Ugo Rondinone debutta nel modo dell’arte internazionale

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«L'ARTE È IL MIO MODO DI RAGGIUNGERE PIÙ PERSONE E DI STRINGERLE IN UN GRANDE ABBRACCIO» Qui sotto, un'opera dalla mostra NUNS+MONKS che si è tenuta nell'ex Chiesa di Sant'Andrea de Scaphis, a Roma nel 2020. In basso l'installazione Vocabulary of Solitude. In alto, la mostra Giorni d'Oro + Notti d'Argento.

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nel 1990, con una serie di disegni e di installazioni in cui è già possibile ritrovare il filo conduttore della sua creatività, sempre oscillante fra naturale e artificiale, fra isolamento e congiunzione con l’universo. Nel 1998 si trasferisce a New York, la città dove la sua ispirazione si materializza in installazioni che utilizzano la scultura, la pittura, i video, il suono e la fotografia, diventando sempre più il suo esercizio meditativo. «Questo è il mio modo di escludermi dalla società e per creare i miei riti», spiega l’artista. «L’energia dell’arte deriva dal fatto che essa ti consente di passare tempo con te stesso». In questi anni incontra il suo futuro marito, con il quale realizza, nel 2001, Lowland Lullaby, l’installazione presentata allo Swiss Institute di New York che coinvolge gli spettatori in un’esperienza visuale (grazie anche ai disegni di Urs Fisher) e sonora, con 40 altoparlanti che diffondono i versi di Giorno. A volte, tuttavia, l’essenza del reale, nelle sue opere, viene percepita attraverso il silenzio e il buio; come quello delle notti newyorchesi, durante le quali le gigantesche forme di pietra di Human Nature vengono allestite al Rockefeller Centre. Sono forme che si rivelano al passante come una sorta di gigante buono, guardiano di quel legame indistruttibile fra noi e la natura, la cui potenza è sottolineata proprio dal contrasto con la modernità del luogo. «Una scultura pubblica», sottolinea Rondinone, «è una sfida perché deve riuscire a raggiungere il pubblico più vasto possibile, o alienando le persone o abbracciandole. Io preferisco abbracciarle». Lo stesso abbraccio che avvolge chi guarda Vocabulary of solitude, con i suoi 45 pagliacci, tutti in posizioni diverse, che rappresentano, insieme, le attività della vita di ogni giorno e l’angoscia della solitudine umana: essere, respirare, dormire, amare. E poi la solitudine si trasforma in pura energia poetica e vitale, attraverso i colori vibranti delle Seven Magic Mountains, le sette torri allestite in Nevada che, ancora una volta, come spiega l’artista, «costituiscono la via di mezzo fra naturale e artificiale», laddove il naturale è espresso dalle montagne, dal deserto, dal lago e dal gioco di colori che la luce e il buio regalano a questi luoghi; l’artificiale è rappresentato dall’autostrada e dal continuo flusso di automobili a poca distanza. Rondinone racconta di aver provato personalmente il peso della solitudine quando, nel 2017, gli è stato diagnosticato un tumore alla vescica: «Ho cercato dei gruppi di sostegno, ma non ce n’erano. Quello ha reso senz’altro la situazione più spaventosa perché gli effetti collaterali della terapia erano crudeli». Per questa ragione, da allora, pur avendo fortunatamente superato la malattia, l’artista è molto schivo e dedica parte del suo tempo a raccogliere fondi per la ricerca. © RIPRODUZIONE RISERVATA

foto: DANIELE MOLAJOLI, COURTESY OF SANT'ANDREA DE SCAPHIS, GETTY IMAGES

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G R A Z I A CONTAMINAZIONE

I GIOVANI ARTIGIANI SALVERANNO IL MADE IN ITALY COLLOQUIO CON STEFANIA LAZZARONI, LA MANAGER CHE PROTEGGE LE ECCELLENZE ITALIANE

foto GETTY IMAGES

di LAURA INCARDONA foto di GIOVANNI GASTEL

In alto, Stefania Lazzaroni, direttrice generale della Fondazione Altagamma. A destra, due atelier di moda. La Fondazione riunisce 107 aziende di sette settori.

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he cosa possono avere in comune un abito di alta moda, una tazzina di caffè, una camera di hotel, un divano e un'automobile? Il fatto di rappresentare la creatività e la qualità italiana ai loro massimi livelli, quelle che ci hanno resi famosi nel mondo e di cui dovremmo essere orgogliosi. Dal 1992 la Fondazione Altagamma riunisce le imprese del lusso, riconosciute come ambasciatrici dello stile del nostro Paese nel mondo, per contribuire alla loro crescita e al loro sviluppo. Sono 107 aziende tra le più importanti tra moda, design, ospitalità, alimentare, gioielleria, nautica, auto e wellness: tra le altre, ci sono Valentino, Max Mara e Alfa Romeo, Bulgari e i vini di Ca' del Bosco, illycaffè e l'Hotel Bauer di Venezia. Stefania Lazzaroni è la direttrice generale della Fondazione e ci racconta presente e futuro, luci e ombre di questi settori fondamentali per l'economia e l'immagine dell'Italia. La pandemia ha fatto da detonatore a una crisi molto grave. «Il comparto alto di gamma riunisce industrie creative e culturali eccellenti del made in Italy. Di Altagamma fanno parte 107 soci di sette settori, che vanno dalla moda al design all'alimentare, dall'ospitalità ai gioielli dagli yacht alle auto. Il 2020 è stato un anno completamente inedito: con il Covid, dopo 30 anni di crescita stabile con un export solido, c'è stata una decrescita in media del 22 per cento, anche se i numeri sono molto vari a seconda dei

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«IL BELLO, BUONO E BEN FATTO OGGI HA UN NUOVO SIGNIFICATO: IL CONSUMATORE CERCA UN MODELLO DI VITA DIVERSO»

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settori. Quello dell'ospitalità ha registrato un calo del 70 per cento. Il Covid ha anche accelerato alcune tendenze: c'è stato un raddoppio delle vendite online, dal 12 per cento al 23 per cento di media. Le aziende che già stavano trasformando il loro business hanno fatto un salto enorme verso il futuro». L'accelerazione del digitale è il cambiamento più evidente di questo ultimo anno. «Sì, ma ce n'è stato anche un altro: il profilo dei nostri consumatori. Solo otto anni fa erano tendenzialmente anglosassoni: oggi quasi il 50 per cento si divide tra Cina e Stati Uniti e sono molto giovani. La cosa interessante è che hanno una diversa scala di valori: per loro il possesso è meno importante dell'esperienza, l'ambiente e la sostenibilità sono profondamente sentiti, come la diversity e l'inclusione. È in atto una rivoluzione dei valori, che il Covid ha accelerato. Tutto ciò sta trasformando il nostro comparto». A volte però non siamo così bravi a comunicare la nostra eccellenza. «I francesi usano la parola lusso senza nessuna remora e per loro è motivo di orgoglio. Forse dovremmo farlo anche noi, ma senza smettere di essere innovativi. Nelle aziende sono impiegati macchinari di ultima generazione, i controlli sono digitali, quindi c'è bisogno di persone altamente specializzate. In un'Italia in cui la disoccupazione giovanile tocca il 30 per cento, stimiamo che nelle sette aree riunite da Altagamma tra due o tre anni mancheranno 236mila profili tecnico-professionali. Ben 30 su 107 dei nostri soci hanno creato internamente scuole dove completare percorsi formativi, molti altri hanno rapporti privilegiati con istituti tecnici, ma il Governo dovrebbe impegnarsi nella tutela di questi settori, che rappresentano il 7 per cento del PIL. È vero che l'Italia ha il minor numero di laureati rispetto agli altri Paesi europei, ma in Germania i diplomati delle scuole tecnico-professionali sono ogni anno 800 mila, in Italia 80 mila. Da noi c'è un pregiudizio verso la preparazione tecnica. Le famiglie e i ragazzi andrebbero aiutati a comprendere che queste professioni sono creative e possono dare grandi soddisfazioni». Non c'è il rischio della scomparsa di alcune eccellenze artigianali? «Sì, anche se sono tantissime le aziende che si stanno impegnando per preservarle. Il bello, buono e ben fatto oggi ha un nuovo significato, perché il consumatore cerca un modello di vita più sobrio, più rispettoso dell'ambiente, della diversità e dell'inclusione. Dietro ai grandi marchi ci sono migliaia di piccole aziende che lavorano e che in questo periodo sono in grande sofferenza. L'Italia ha nel turismo e nella creatività manifatturiera i suoi punti di forza economici: sono ambiti che devono essere tutelati, anche dal Governo». Il turismo e il settore dell'ospitalità hanno forse ricevuto il colpo più duro. «Va sottolineato che il 60 per cento degli acquisti di beni di alta gamma erano effettuati dai turisti stranieri. Noi dobbiamo attrarre tutto il turismo, ma soprattutto quello con alta capacità di spesa, perché può innescare un circolo virtuoso per l'economia italiana. Su questo tema la Fondazione Altagamma sta preparando un libro bianco che verrà presentato al Governo in maggio. Sostenibilità, contemporaneità, e cioè la capacità di rinnovarsi per guardare al futuro, e il turismo di alta gamma: sono i nostri tre obiettivi strategici». Che futuro attende le giovani imprese? «Dobbiamo diventare loro mentori, aiutarle a crescere e a svilupparsi, perché è nell'interesse del Paese che i marchi italiani siano sempre più numerosi e forti. Da sette anni abbiamo creato un premio dedicato alle giovani imprese, una per ogni settore che rappresentiamo, per farle entrare nella nostra comunità e valorizzarle: le candidature per l’edizione di quest’anno chiudono il 28 maggio e invitiamo queste aziende emergenti a farsi avanti». Quindi è ottimista per il futuro e in modo particolare per il suo comparto? «Voglio essere ottimista. Auspichiamo che già nella seconda parte di quest'anno e nel 2022 ci sarà una ripresa dei viaggi, che rimetterà in moto tutto. L'umanità supererà questa prova e torneremo alla nostra vita, con maggiore consapevolezza e attenzione a valori che non passeranno e che si stanno imponendo, grazie anche ai giovani». © RIPRODUZIONE RISERVATA

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G R A Z I A MINIMAL

ARREDARE VUOL DIRE TRASFORMARE LO SMART WORKING CI HA FATTO DESIDERARE UNA CASA DAGLI SPAZI FLESSIBILI. MARIA PORRO, CHE LAVORA CON LE MIGLIORI AZIENDE DEL MOBILE D’ITALIA, RACCONTA QUESTA E ALTRE RIVOLUZIONI di MARIA PORRO foto di GIOVANNI GASTEL

Qui sopra, Maria Porro, presidente di Assarredo. A destra, nel disegno dei creativi di sfelab.it, bambini che giocano in una casa.

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opo la laurea in Scenografia all’Accademia delle Belle Arti di Brera, a Milano, ho lavorato nel mondo del teatro, dell’arte e dei grandi eventi come progettista, coordinatrice e curatrice all’Auditorium Parco della musica di Roma, all’Arena di Verona e al teatro dei Rinnovati di Siena; all’estero per l’Amazonas Opera Festival in Brasile, l’His Majesty’s Theatre in Australia e l’Opéra National du Rhin, in Francia, e negli enormi stadi delle cerimonie olimpiche di Londra e Sochi, in Russia. Dai 21 ai 29 anni il teatro è stato il luogo in cui mi sono formata. È qui che ho imparato il lavoro di squadra e come sia fondamentale mettere insieme competenze molto diverse per uno sforzo collettivo in cui la sensibilità di ognuno è fondamentale: tanto la voce della soprano quanto la precisione di un macchinista o la cura del dettaglio di una sarta di scena. Ho portato con me questo bagaglio nel mondo del design, in Porro, l’azienda di arredamento fondata dal mio bisnonno Giulio quasi cento anni fa e oggi ne sono direttrice marketing e comunicazione. Cerco di mettere queste conoscenze a servizio anche di Assarredo, associazione di cui sono presidente e che fa parte di FederlegnoArredo, che rappresenta nel suo complesso 73mila aziende della filiera legno-arredo. Siamo un sistema di aziende diverse per prodotti, storia e dimensioni ma insieme rappresentiamo il Made in Italy del design, un’industria creativa e manifatturiera costituita per il solo arredamento da oltre 20mila imprese per quasi 100mila addetti. In un tempo in cui l’incontro tra differenti discipline e culture è il nuovo paradigma (pensiamo alle professioni del futuro che non hanno ancora nemmeno un nome) abbiamo bisogno di nuova linfa e di contaminazioni. In ciò che è ibrido idee, forme e linguaggi si mescolano per generare qualcosa di diverso. In teatro, nell’istante esatto in cui il sipario si apre, i contributi di tutti magicamente convergono. Questa stessa magia si ripete per me durante il Salone del mobile di Milano: nei mesi precedenti i migliori designer si confrontano con i laboratori di ricerca e di sviluppo delle aziende, tecnici, artigiani e produttori studiano nuovi materiali e soluzioni costruttive, allestitori, fotografi e stylist curano ogni dettaglio. La filiera dell’arredo italiano è un sistema che nasce in luoghi geograficamente raccolti, veri e propri distretti di eccellenza. Pur preservando nel tempo la

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G R A Z I A MARIA PORRO

propria specificità ha saputo innovare e ibridarsi. E questa è la sua forza. Siamo sempre stati capaci di aprirci al mondo, contaminandoci con influenze provenienti da luoghi lontani, pensiamo ai grandi maestri scandinavi che nel Dopoguerra venivano in Italia per trasformare i loro disegni in prodotti. Gli sconfinamenti sono l’essenza della creatività, rappresentano l’intreccio sempre più complesso tra il design e gli innumerevoli mestieri d’arte che a Milano, una metropoli che è anche un eccellente laboratorio di innovazione, trova il suo palcoscenico migliore. Parlando di sconfinamenti, in questi mesi di pandemia, abbiamo tutti sperimentato una ridefinizione degli spazi della nostra quotidianità, a cominciare da quelli domestici. Le nostre case sono diventate degli ibridi, svolgendo funzioni che prima non erano contemplate: abbiamo visto convergere nelle abitazioni la didattica a distanza dei ragazzi, il telelavoro dei genitori, le riunioni su Zoom e ogni forma di intrattenimento individuale o condiviso. La casa ha acquistato centralità come mai prima, ha portato le famiglie a considerarla l’unico porto sicuro e a rivedere l’impaginazione dei suoi spazi per abitarla meglio, cercando di far andare d’accordo estetica e funzioni. L’inclusione è anch’essa un paradigma culturale del futuro prossimo, anche se appartiene da tempo al nostro design che esporta più del 50 per cento dei suoi prodotti e che ha permesso alle aziende di allenarsi alla diversità, alla comprensione delle esigenze altrui, di capire che i modi di abitare sono tanti e differenti. Nell’“italian way”, la strada italiana, c’è questa capacità di accoglienza e di ibridazione continua, una dote che forse arriva dalla nostra posizione geografica, dall’essere al centro del Mediterraneo e dell’Europa.

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Un mobile è un ibrido complesso, a partire dalla sua progettazione fino alla sua realizzazione che oggi unisce l’artigianalità della lavorazione del legno, che è una materia viva, con processi produttivi automatizzati, con la robotica, l’utilizzo di stampi complessi, di materiali plastici, di metalli, senza dimenticare la ricerca tessile. Ibridazione vuol dire anche abbattere le barriere, che con la rivoluzione tecnologica sono quelle tra reale e virtuale, tra materiale e immateriale, tra biologico e artificiale. Oltre alla transizione digitale, che ha fatto un balzo in avanti, ora c’è bisogno di affrontare con grande responsabilità la transizione ecologica. FederlegnoArredo, la federazione di cui come Assarredo facciamo parte, è l’unica in Europa a rappresentare l’intera filiera del legno; inoltre le aziende dell’arredo Made in Italy sono state tra le prime a mettere la sostenibilità in cima alle priorità. Ma il nostro lavoro non è certo finito: ci spetta il compito di costruire una sensibilità sempre più condivisa, mappando le aziende virtuose e spiegando nel modo più efficace le tante cose che stiamo già facendo. Sostenibilità nel mondo del design significa gesti minimi e duraturi. Oggi il settore dell’arredo italiano esprime con i propri prodotti grande qualità, rispetto e durevolezza. Un tempo, nelle famiglie dei falegnami, quando nasceva una figlia femmina si piantava un albero di noce. E quella era la dote della bambina, perché con quel legno si sarebbe costruita la camera da letto matrimoniale. Un concetto che ricorda la tazza da tè giapponese che passa di generazione in generazione e che quando si rompe viene “ricucita” con il kintsugi, l’antica tecnica di riparazione della ceramica con l’oro, rendendo il pezzo riparato ancora più prezioso. (testo raccolto da Lucia Valerio) © RIPRODUZIONE RISERVATA

illustrazioni: SFELAB.IT

Da sinistra, nei disegni dei creativi di sfelab.it: un bambino si sente Superman, nell'appartamento nel nuovo condominio progettato da Zaha Hadid Architects, vicino al parco High Line di New York; gli ambienti della casa vengono disegnati intorno alle esigenze di una donna, ai suoi interessi, al suo relax, ai suoi pensieri, ai suoi sogni.



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G R A Z I A PERCEZIONE La creatrice digitale Eleonora Carisi.

Vi porto nei nostri sogni

Il desiderio di vivere in case più belle si è riacceso durante l’emergenza, dice la creatrice digitale Eleonora Carisi. E sarà lei sul suo profilo Instagram e su quello di Grazia la protagonista di un viaggio dietro le quinte dei capolavori dell’arredo di LUCIA VALERIO foto di GIOVANNI GASTEL

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G R A Z I A PERCEZIONE

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mmersa in un’atmosfera di estrema eleganza tra pezzi storici del design, dagli Anni 30 del secolo scorso ai giorni nostri, Eleonora Carisi, creative director e producer, racconta dal set di Grazia come il nostro magazine abbia intercettato una sensibilità molto diffusa in questo momento: la passione per il design. «Per il servizio di queste pagine ho trascorso un giorno tra capolavori come la poltrona LC3 degli architetti Le Corbusier, Pierre Jeanneret e Charlotte Perriand, la Egg Chair di Arne Jacobsen, il mobile divisorio Carlton di Ettore Sottsass, il divano Camaleonda di Mario Bellini, la Wiggle Side Chair in cartone ondulato di Frank Gehry e molti altri pezzi straordinari del design internazionale. Cammino in un ambiente che oscilla tra rigore e poesia e penso che in questi mesi abbiamo riscoperto la casa», dice Eleonora. Una risposta che si unisce all’invito a sognare case più belle dell’architetto star Piero Lissoni. Il design da circa 80 anni medita su come vivere meglio nelle nostre abitazioni e ora abbiamo capito il valore di questa riflessione. «Stare a casa ha acceso nuove passioni. Io ho fatto lunghe ricerche, sentito amici esperti, consultato siti specializzati, appassionandomi ogni giorno sempre più al design», spiega Carisi. «Essere sul set mi ha emozionata. È stato interessante, per me che mi occupo di comunicazione, vedere come viene percepito un oggetto all’interno di un contesto. Un numero speciale di Grazia sul design significa

Il set del servizio con Eleonora Carisi. A sinistra, il ritratto di Carisi e uno del fotografo Gastel. Sotto, Carisi sul set con il fotografo Santi Caleca. Eleonora sul suo Instagram @ eleonoracarisi e quello di Grazia farà un viaggio nel design. avere lungimiranza in un momento in cui ci hanno tolto persino il Salone del Mobile di Milano. È un modo per unire due universi, moda e design, aprendo nuove opportunità di scoperta ai lettori». Questi due mondi continuano a parlarsi e a influenzarsi. «Moda e design sono collegati. Gli oggetti Anni 60, per esempio, sono in perfetta sintonia con gli abiti dello stesso periodo», continua Eleonora. «Nel mio Instagram mi occupo anche di design perché noi creativi digitali possiamo farlo conoscere alle nuove generazioni». Come il divano Camaleonda che Mario Bellini ha disegnato nel 1970, ispirato alla trasgressione, che esprimeva il desiderio di una convivialità libera. «È un divano senza età che ho acquistato usato, altrimenti è irraggiungibile». I pezzi che Eleonora pubblica su Instagram le assomigliano, sono rigorosi, eleganti e sensuali. Raccontano della passione per i dettagli e per l’armonia delle proporzioni. «Ho scoperto il potere del design ma anche della luce, a cui non si presta mai abbastanza attenzione. Può cambiare tutto: il modo in cui ti immerge nello spazio influenza l’umore e nella mia lista dei desideri ci sono molte lampade. La mia casa di Milano è diventata il mio nuovo viaggio, un paradosso per me che per anni ho vissuto con la valigia in mano, sempre in movimento. Ma in questi mesi ho iniziato a trattarla bene, a renderla accogliente e funzionale. È stata la mia scoperta». © RIPRODUZIONE RISERVATA

«HO VISSUTO PER ANNI CON LA VALIGIA IN MANO, ORA HO RISCOPERTO LA MIA ABITAZIONE» 196


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G R A Z I A CONTAMINAZIONE

LA BELLEZZA ABBATTE I CONFINI COME PUÒ UNA SEDIA DALLE LINEE ESSENZIALI DIVENTARE UN’ICONA GLOBALE? LO SPIEGA QUI L’ESPERTO DI ARCHITETTURA FRANCESCO DAL CO di FRANCESCO DAL CO*

Qui, prototipo e seggiola B5 di Marcel Breuer. Sopra, Afrikanischer Stuhl di Marcel Breuer e Gunta Stölzl. In alto, lo studio di ginnastica di Hilde Levi a Berlino, arredato da Marcel Breuer e Gustav Hassenpflug (1930): in fondo, a destra, si vede la poltrona B3. * STORICO DELL'ARCHITETTURA E DIRETTORE DELLA RIVISTA CASABELLA.

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G R A Z I A FRANCESCO DAL CO

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aro Piero Lissoni, mi hai detto che gli argomenti a partire dai quali vorresti trovare qualche spunto per chiacchierare sono: ibrido, contaminazione, minimalismo. Ho preso qualche appunto mentre mi parlavi al telefono e mi sono fatto l’idea che tu ti riferisca soprattutto ai modi nei quali simili espressioni possono spiegare i caratteri degli ambienti in cui viviamo e come gli architetti e i progettisti nel campo delle arti applicate sono stati e sono portati a concepirli, ad avvalersene o a utilizzarli consapevolmente e non di rado astutamente. Sono innumerevoli gli esempi che si potrebbero citare parlando di “ibrido” e “contaminazione” nel campo dell’architettura. Essendo troppi, ho pensato di sceglierne uno soltanto per dirti, prima di tutto, che ritengo “ibrido” e “contaminazione” due concetti non facilmente distinguibili. Sono parole dai significati diversi, ma a differenza di quanto accade quando, per esempio, si parla di arte, nel nostro campo individuare la prevalenza di un termine sull’altro nel connotare scelte progettuali penso sia complicato. Per rendere più facile la nostra conversazione a distanza, ho pensato opportuno mandarti qualche immagine. Sono riferite a un oggetto in particolare, una poltrona costruita in tubolare d’acciaio, strisce di stoffa o di pelle, che riconoscerai immediatamente La poltrona di Marcel Breuer B3, la Wassily, è talmente nota che ti potrà sembrare persino banale parlarne. Ma l’ho scelta proprio per questa ragione: anche per il gusto corrente e per i modi nei quali il gusto viene alimentato o blandito, la ritengo un riferimento all’origine di numerose “contaminazioni” e “ibridazioni” come tu diresti, ormai una icona della modernità. Ma in che senso, mi chiederai, la B3 è un esempio di “ibridazione”? Penso basti osservare la un po’ meno famosa Seggiola africana che lo stesso Breuer e quella signora geniale che si chiamava Gunta Stölzl costruirono nel 1921, meno di cinque anni prima della B3, per capire come “contaminazione” sia un termine appropriato per spiegare, se ci si libera da qualche luogo comune, come tra la seduta africana e la poltrona vi siano rapporti stretti. Basta osservare il rilievo che in un caso e nell’altro ha la distinzione tra la struttura portante e

la stoffa utilizzata per la seduta, non per nulla sfruttata come una campitura decorativa. Non a caso questa distinzione tra “struttura” e “rivestimento” - scusa la banalizzazione, ma può aiutarci a capirci - è all’origine del successo di tanti arredi disegnati da Breuer, sempre a partire da questo medesimo principio, chiaramente espresso dall’evoluzione di un’altra delle seggiole da lui progettate, la B5 - siamo sempre intorno al 1926. Ma che c’entra “ibridazione”, mi chiederai. Be’, questo lo aveva capito bene Karl Hubbuch, un pittore non così lontano da George Grosz, quando dipinse Hilde con un asciugacapelli, una bicicletta e la poltrona di Breuer nel 1928. Non appare come una “ibridazione” dei tubi della bicicletta, dei modi nei quali questi vengono assemblati e piegati, la poltrona sulla quale Hilde è seduta mentre si asciuga i capelli? Scusami: dovrei essere più circostanziato, ma questo comporterebbe andare ben al di là dei limiti di una lettera. Spero, però, di averti dato una indicazione per farti una idea di come penso sia possibile considerare quanto fa parte degli “archetipi”, oh sì anche quelli di oggi lo sono, dei nostri gusti o delle nostre mode, derivati quasi sempre attraverso ibridazioni e contaminazioni. A quelle delle sedute aggiungo un’ultima fotografia. È stata scattata nel 1930 e ritrae lo studio di Hilde Levi a Berlino, arredato da Marcel Breuer e Gustav Hassenpflug. No, non è un esempio di “minimalismo”, il tuo terzo tema. Questa fotografia mi colpisce perché rispetto allo spazio radicalmente funzionale che ritrae, un vuoto che i corpi della ginnaste sono sul punto di riempire con i loro movimenti al ritmo dettato dall’unica presenza irrinunciabile, il grammofono, i complementi di arredo disegnati da Breuer appaiono come se fossero esposti nella vetrina di un grande magazzino. Ma non è questo lo spazio più proprio per loro? Sono anche loro, quelle famose sedute, oggetti da usare, non così banali ma destinati a trovare la loro funzione in quanto merce. Questo è un mondo diverso da quello dove affondano le radici del “minimalismo”, una espressione, caro Piero, che non mi soddisfa affatto. Per questo, scusami, di “minimalismo” non vorrei proprio parlare. Un caro saluto, Francesco. © RIPRODUZIONE RISERVATA

«CARO PIERO LISSONI», INIZIA COSÌ QUESTO DIALOGO A DISTANZA TRA DUE ARCHITETTI 200


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3. 1. Roly Poly è la poltroncina disegnata da Faye Toogood, dalla seduta arrotondata (Driade, 490 euro). 2. Si chiama Sciangai l’appendiabiti in rovere (Zanotta, 680 euro). 3. Nero, arancione, bianco, verde, turchese e lilla per Lampadina, nata nel 1972 da Achille Castiglioni (Flos, 110 euro).

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G R A Z I A MINIMAL

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8. 4. Wallace è la poltrona scultura disegnata da Jean-Marie Massaud (Poliform). 5. Wassily è stata disegnata da Marcel

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9. Breuer nel 1925 in onore del pittore Vasilij Kandinskij (Knoll). 6. Geometrie e richiami vintage per Romby, disegnata da GamFratesi

(Porro). 7. Kyoto di Gianfranco Frattini si ispira al Giappone (Poltrona Frau). 8. Acciaio e imbottiture soft per Ombra di

Charlotte Perriand (collezione I Maestri di Cassina). 9. La lampada Base Ghisa è di Luigi Caccia Dominioni (Azucena, 998 euro).



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13. 10. Disegnata da Nendo, la poltrona Torii Nest ha lo schienale a intreccio (Minotti). 11. Elegante pavimento

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14. lucido intarsiato in Nero Marquinia, Bianco Carrara, Bardiglio Imperiale (Margraf). 12. Il tavolo outdoor Dix,

design Archirivolto, è in metallo con piano in ceramica (Connubia, da 871 euro). 13. Cantinetta personalizzata

Dom Pérignon con 18 bottiglie incluse (Frigo2000). 14. Pelle o tessuto a scelta per il divano Max (Flexform).


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19. 15. Linea leggera e cuoio per lo sgabello Apelle (Midj, 473 euro). 16. La chaise longue PK24™ firmata da Poul Kjærholm è disponibile in

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20. pelle o in midollino (Fritz Hansen). 17. Francis è il tavolo disegnato da Giuseppe Bavuso nella versione rettangolare, rotonda e quadrata

(Rimadesio). 18. Anta in vetro trasparente fumé per la madia Aurora (Febal Casa). 19. Si ispira al mondo del fumetto la poltrona

Alessandra (Moroso). 20. Rito, di Matteo Thun e Antonio Rodriguez, dalla struttura leggera con imbottitura generosa (Désirée).



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21. Disegnata nel 1969 da Gaetano Pesce, la serie Up è caratterizzata dalle forme generose (B&B

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Italia). 22. Il tavolo Flower è in acciaio verniciato (Vitra, da 609 euro). 23. Appartiene alla linea Fancy Home questo

portalenzuola (Tescoma, 9,40 euro). 24. La carta da parati Berlin fa parte della collezione The Daydreamer di Giopagani

(Londonart, 120 euro al metro quadrato). 25. È firmata da Draga & Aurel la poltrona Greta Special Edition (Baxter).


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26. Moon, design Mist-o: sono complementi in legno che si aprono a scrigno (Living Divani). 27. La poltrona Atina Fur Edition si veste

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in pelliccia ecologica (Adrenalina). 28. Il tessuto Giotto ricrea l’effetto di uno schizzo fatto a mano (Rubelli, 153 euro al

metro). 29. Flessibile, per ogni spazio della casa, il sistema di contenimento Freedhome® (Caccaro). 30. Spazio 130,

di Francesco Lucchese, è una cappa silenziosa ed efficiente (Falmec). 31. Parure copripiumino della collezione Couture (Fazzini, 298 euro).


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Manifestazione urbana dedicata al progetto. INTERNI mette in rete eventi, prodotti e opinioni dei protagonisti del design italiano e internazionale. 12 giorni di presentazioni e talk virtuali. Audience profilata con invio di sms e dem a professionisti del settore. MEETING POINT via Cerva 24, Milano

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G R A Z I A MINIMAL

DIECI PEZZI PER TRASFORMARE IL BAGNO IN UNA SPA DA SOGNO di MARINA JONNA

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4. 1. Il lavabo Monolite Allegro qui è nel colore Vulcano (Arblu). 2. Cotone vellutato per la capsule collection di spugne e accappatoi

5. Black&White by Carrara (Mirabello Carrara). 3. Il vaso Shade è in vetro riciclato e verniciato con una doppia sfumatura di

colore (Calligaris, 35 euro). 4. La bacinella da appoggio All Saints è realizzata in ceramica finissima con smaltatura nera e specchio

(Kartell by Laufen; foto di Oliver Helbig). 5. Around è la vasca bicolore da installare a centro stanza (Ideal Standard).

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G R A Z I A MINIMAL

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6. Scaletta, design Elisa Giovannoni, è uno scaldasalviette elettrico in diversi colori (Tubes). 7. Effetti speciali con le piastrelle della serie

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Grande Marble Look (Marazzi, da 105 euro al mq). 8. Nice è la collezione di rubinetti disegnata da Thun & Rodriguez, proposti in

diversi colori (Fantini, foto di Santi Caleca). 9. Geometrie e contrasti per Intarsi, una gamma di quadri in pietra naturale (Salvatori).

10. La piscina Playa Living, personalizzabile, è perfetta in terrazza, in giardino, ma anche in salotto o in camera (Piscine Laghetto).




G R A Z I A MODA

MUST di Elsa Bonfiglio

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4. 1. Sensuale L’abito senza maniche ha il corpetto con scollo a cuore e la gonna lunga al polpaccio (Genny, € 780). 2. Essenziali Le scarpe D’Orsay a punta in pelle

5. color sabbia e dettagli in PVC hanno i lacci alla caviglia staccabili in gros grain (Giorgio Armani, € 690). 3. Rétro La borsa Point è in macramé con la lavorazione Intrecciato

e manico a triangolo (Bottega Veneta). 4. Senza tempo Gli occhiali da sole dalla montatura ampia hanno il dettaglio Web in metallo color oro sulla

montatura (Gucci). 5. Rock La giacca stile motociclista in nappa dall’effetto vintage è chiusa da una zip asimmetrica (Max&Co., € 389).

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G R A Z I A MODA

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9. 6. Avvolgenti Gli stivali in camoscio sono alti al ginocchio (L’Autre Chose, € 470). 7. Raffinata La giacca bomber dalla linea

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10. sportiva, con bordi in maglia a coste, è in seta (Salvatore Ferragamo, € 790). 8. Essenziali Gli occhiali da sole hanno la montatura dalla forma

geometrica con frontale in colori sfumati o in color block (Emilio Pucci Eyewear, € 170). 9. Primaverili I bermuda al ginocchio hanno

una stampa floreale (Marciano Guess, € 129). 10. Dorata La borsa Dior Caro è ricamata con il motivo Cannage beige con effetto paglia (Dior).



G R A Z I A BELLEZZA

IL FUTURO È IBRIDO Una crema idratante che è anche detergente e maschera. Oppure un solare in polvere che fa anche da terra abbronzante. Grazia ti fa scoprire i nuovi indispensabili del beauty case: sono incroci hi-tech che rendono la routine di bellezza più semplice, ecologica e anti-spreco di VALENTINA DEBERNARDI foto di LAURENCE LABORIE

La nuova tendenza cosmetica è all’insegna della versatilità La bellezza non è più solo edonismo, ma un concetto che include le parole “equilibrio”, “protezione”, e soprattutto “cura”. Anche verso l’ambiente. «Siamo in un periodo in cui responsabilità sociale e comportamento ecologico s’incontrano anche nella scelta di un cosmetico», spiega Kenza Keller, Beauty consultant per Carlin International, agenzia di tendenze parigina. «Se un prodotto è versatile, la beauty routine è più semplice, si risparmiano tempo e denaro, e si producono meno scarti. Per esempio una crema può essere maschera, de-

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tergente e idratante quotidiano: avere più prodotti in uno è una scelta ecologica oltre che pratica. Oppure una fragranza può contenere principi attivi antistress, e una crema può essere uno scudo contro i raggi solari o l’inquinamento. Insomma, l’industria beauty si è adattata al tipo di mondo in cui viviamo».

Formule e consistenze miste tra trucco e trattamento, tra liquido e solido Nei laboratori si lavora da oltre 30 anni per ottenere il massimo della tecnologia ibrida: «Il primo esempio risale agli anni Novanta con i cosmeceutici, prodotti con proprietà sia cosmetiche che farmaceutiche», spiega Romualdo Priore, make up artist e direttore marketing della società di packaging Lumson. «Ora ci sono nuove formule “tissotropiche” capaci di cambiare forma e sostanza, di passare da polvere a liquido o da liquido a solido, sempre per raddoppiare i benefici d’uso. Così si sono moltiplicati i cosmetici “make-care”, un po’ make up e un po’ skincare», che tradotto significa fondotinta, primer e illuminanti con l’aggiunta di principi attivi detox, antietà o idratanti. «Attenzione, non vuole dire che si sostituiscono ai prodotti per la cura della pelle: sono un supporto, un ulteriore aiuto», conclude Priore. Che cosa possiamo trovare quindi sul mercato? Primer che sono cocktail di vitamine o di pigmenti resistenti 24 ore, protezioni solari in polvere colorata, struccanti detox in gel che si trasformano in schiuma. Un ibrido ci aiuta a codificare il futuro della bellezza: un viaggio senza confini. Proprio come un’auto ecologica. © RIPRODUZIONE RISERVATA

foto: TRUNK ARCHIVE

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n botanica gli ibridi sono meraviglie della Natura di cui non potremmo più fare a meno. Secondo studi genetici, sono ibridi il pompelmo, figlio di un arancio dolce e di un pomelo, l’arancio, nato dall’incontro tra un pomelo e un mandarino, e sono ibride anche le rose Grandiflora, nipoti dell’antica rosa Tea. Ma quello che ci interessa di più è la nascita dei cosmetici ibridi, evoluzione tecnologica di prodotti che semplificano la vita perché soddisfano più desideri in uno. «Oggi, essendo la nostra attenzione rivolta soprattutto alla salute e al benessere, preferiamo avere una pelle sana piuttosto che perfetta», dice Lucille Gauthier-Braud, Beauty director dell’agenzia di tendenze Pecler Paris. «Quindi, soprattutto per i fondotinta che indossiamo sul viso tutto il giorno, non basta più proporre diversi colori, ma occorrono formule miste che siano anche trattamento. Questo concetto sta toccando tutti i segmenti cosmetici, è il futuro», conclude.


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G R A Z I A BELLEZZA

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L’OLIO VISO, CORPO E CAPELLI, MA ANCHE L’IDRATANTE CHE DIVENTA BALSAMO E SCHIUMA DA BARBA 1. Sette oli vegetali nati per nutrire viso e corpo, ma usati poi come scudo anti-inquinamento e per profumare la pelle e i capelli con delicate note floreali: Huile Prodigieuse Florale di Nuxe (€ 33,10, in famacia). 2. Concepita come idratante corpo, il suo mix di attivi botanici tra cui salvia sclarea, trifoglio rosso, astaxantina e centella asiatica rende Mineral Body Lotion di Susanne Kaufmann anche un ottimo rimineralizzante per la pelle da utilizzare prima e dopo l’attività fisica (€ 118).

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3. Trattamento contorno occhi non solo levigante e distensivo contro le rughe, ma con un effetto "strobing" illuminante visibile, e per questo utilizzabile anche su zigomi e arco di Cupido delle labbra: Oxygen-Glow Eyes di Filorga (€ 30, in farmacia). 4. Una formula multifunzionale con il 98 per cento di principi naturali: nata come idratante viso e corpo, è stata perfezionata per nutrire i capelli, struccare ed essere un’alternativa alla schiuma da barba: Authentic Balsamo Idratante di Davines (€ 19,80).

5. Bagno d’Idratazione Notte di Klorane cambia con o senza massaggio: nel primo caso è una crema notturna che decongestiona il viso e migliora il microcircolo, altrimenti una maschera idratante al fiordaliso bio (€ 28,90, in farmacia). 6. L’autoabbronzante che non solo scalda il colorito con un effetto abbronzatura modulabile per raggiungere l'intensità desiderata, ma che anche lascia la pelle a lungo idratata: Gocce Magiche Viso di Collistar (€ 34,50).



G R A Z I A BELLEZZA

DAL SOLARE ALL'OMBRETTO, TRIPLO EFFETTO CURA-COLORE-LUCE 1. Capostipite tra gli ibridi, se ne vende una ogni 90 secondi: è la nuova CC Water di Erborian, consistenza acqua-gel infusa di pigmenti microincapsulati e acido ialuronico idratante (€ 39,90 su sephora.it). 2. Versione colorata di Anthelios Age Correct Spf 50+, solare anti-macchia e anti-rughe di La Roche-Posay: formula filtrante ad ampio spettro con vitamine B3 ed E, attivi detox e acqua termale ricca di selenio lenitivo (€ 29,90, in farmacia). 3. Base perfezionatrice e idratante per il trucco usata nei backstage di mezzo mondo: con burro di karité, vitamine ed estratto di geranio, Vitamin Enriched Face Base di Bobbi Brown (€ 52). 4. Biodegradabile al 99 per cento,

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ha una texture in oleo-gel che si trasforma in schiuma a contatto con la pelle: Pure Algue Gelée Marine 3 in 1 di Yves Rocher deterge, strucca e ha il doppio effetto ossigenate e detox (€ 9,95). 5. Future Skin Cushion Skincare di Chantecaille è un fondotinta anti-età e anti-inquinamento, che sostiene un progetto a tutela degli elefanti rimasti orfani (€ 136, su saccani.com). 6. Protegge dai raggi Uv-A e Uv-B e dalla luce blu: Fotoprotector Mineral Brush 50+ di Isdin è una polvere invisibile uniformante che fuoriesce da un pennelloapplicatore (26,90, in farmacia). 7. Primer, illuminante e ombretto dorato dalla consistenza in crema modulabile: Pro Longwear Paint Pot di Mac (€ 26).

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pelle distesa e rimpolpata in 7 giorni LIFT & PLUMP

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G R A Z I A BELLEZZA

«Lo indossi e, come il migliore degli abiti, la pelle si trasforma in un fascio di luce», dice Silvia Dell’Orto, Make-up artist Chanel, parlando del nuovo fondotinta in siero Sublimage L’Essence de Teint. Una formula unica nel suo genere, arricchita con acqua florale e olio estratti dalla Vanilla Planifolia del

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Madagascar dalla potente azione antiossidante ed emolliente. Un ibrido per eccellenza perché coniuga la capacità coprente e modulabile della base con il potere illuminante delle polveri e quello trattante del siero antietà. Dell'Orto aggiunge: «È l’ideale per chi cerca l’effetto pelle naturale pur essendo

truccata, inoltre riempie le piccole rughe e da lì emana luce. Essendo curativo, man mano che lo usi acquisisci benefici». In più, ha in dotazione un pennello a forma conica che arriva nelle zone del viso più difficili e che trasforma l'applicazione in un piacevole massaggio. (Chanel, euro 140).

foto: ENZO TRUOCCOLO

OLTRE IL FONDOTINTA


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G R A Z I A PER SHISEIDO

La fragranza dai superpoteri Con le sue note a sorpresa, Ginza di Shiseido è un invito per ogni donna a esplorare ed esprimere la propria personalità. Nelle sue infinite sfaccettature

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al nostro lato di mondo, il profumo rappresenta da sempre un’arma di seduzione infallibile. Nel paese del Sol Levante, invece, la fragranza viene vista come un mezzo per intensificare la propria forza vitale, quella che i giapponesi definiscono “ki”. Si pone questo ambizioso obiettivo la nuova fragranza Ginza by Shiseido: rivolta alle donne, enfatizza la variopinta personalità femminile, esaltandone ogni sfumatura. MELOGRANO, ORCHIDEA GIAPPONESE E LEGNO DI HINOKI: LA SENSUALITÀ SCOPRE IL TOCCO ZEN La verità è che essere donna significa convivere ogni singolo giorno con istinti ed emozioni spesso in opposizione, ma il bello, lo sappiamo, sta proprio qui. Una varietà affascinante e mai prevedibile che si ritrova in tutto e per tutto nella miscela olfattiva di Ginza, capace di mettere in perfetto equilibrio i contrasti che rendono unica ogni donna: femminilità e forza, sensibilità e determinazione, dolcezza e carattere, saggezza e passione. Così, l’Eau de Parfum firmata Shiseido accosta sensuali note floreali a meditative note legnose. Il debutto è luminoso con fresco melograno e pungenti bacche rosa, per poi tuffarsi in un sublime bouquet di gelsomino, petali di magnolia e fresia, più misteriosa

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orchidea giapponese. Ma la vera sorpresa arriva con le spirituali note di fondo: legno di Hinoki dal tocco zen leggermente canforato, profondo legno di sandalo e intenso patchouli. Un abbraccio femminile lussuoso, intenso e avvolgente. DAL NASO ALLA DESIGNER, UNA CREAZIONE TUTTA AL FEMMINILE A concepire la nuova Eau de Parfum Ginza e a garantire una perfetta traduzione dell’animo femminile, un team artistico di sole donne. Poteva essere altrimenti per una fragranza che celebra il superpotere femminile? I nasi Karine Dubreuil e Maïa Lernout hanno immaginato la composizione olfattiva di Ginza, mentre la designer francese Constance Guisset ha disegnato il flacone come un oggetto d’arte: un blocco di vetro dalle curve sinuose, sigillato da un tappo nero che affonda nella fragranza. Una sfida dal punto tecnico, ma non solo: il nero che si immerge nel liquido profumato di un radioso tono di rosa simboleggia la forza vitale di ogni donna, che dalla testa affonda nella profondità più spirituale e nascosta. Volto della fragranza, la carismatica top model canadese Elizabeth Davison, sullo sfondo di un Giappone ai confini tra sogno e realtà. (m.n.)


Ginza Eau de Parfum celebra il potere nascosto in ogni donna: è in vendita nelle versioni 30, 50 e 90 ml.

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LOVE

G R A Z I A BELLEZZA

di Paola Spezi - foto di Enzo Truoccolo

Con un'inedita base-gel associata a pigmenti correttivi e madreperle, Dior Backstage Face & Body Powderno-Powder è una cipria perfezionatrice e, nelle versioni più scure, può essere usata anche come terra abbronzante. Adatta anche a lui (Dior, € 40,14, in dieci tonalità; pennello n. 18 € 45).

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LOVE

G R A Z I A BELLEZZA

di Paola Spezi - foto di Enzo Truoccolo

Il flacone, opera del designer americano Todd Bracher, reinterpreta una goccia d'acqua trasformandola in una lente d'ingrandimento: per guardare la natura con occhi diversi. Il bouquet è poesia liquida: un invito al sogno e alle emozioni positive, con il fiore di lillà protagonista. È il nuovo A Drop d’Issey, realizzato in toto nel rispetto dell'ambiente (Issey Miyake, da € 63,33).

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CULTURA

IN UN MONDO DI BAMBINI

ARRIVA IN TV LA SERIE ANNA, CHE IMMAGINA LA TERRA ALLE PRESE CON UNA PANDEMIA CHE HA ELIMINATO GLI ADULTI di ELISABETTA COLANGELO

Sopra, una scena della serie televisiva Anna, in arrivo su Sky Atlantic.

GRAZIA

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na ragazza coraggiosa e il suo fratellino provano a sopravvivere dopo che il mondo che conosciamo è stato spazzato via da una pandemia globale, durante la quale sono morti tutti gli adulti. Anna è la nuova serie Sky in arrivo il 23 aprile tratta dal romanzo di Niccolò Ammaniti uscito nel 2015, che lo stesso scrittore ha sceneggiato e diretto. Una storia distopica che vede protagonisti quasi esclusivamente bambini ed è ambientata in Sicilia, con una coincidenza che oggi fa rabbrividire: si svolge nel 2020, l’anno maledetto del Covid, arrivato in Italia a pochi mesi dall’inizio delle riprese. La protagonista, Anna, interpretata dall’esordiente Giulia Dragotto, 13 anni, è una ragazzina alle soglie della pubertà a cui la madre prima di morire ha lasciato un quaderno zeppo di istruzioni e il compito di prendersi cura del fratello piccolo. Sa che la malattia non le permetterà di sopravvivere all’adolescenza, ma tutti i giorni va a procurarsi il cibo in quel che resta della sua terra, dove la natura selvaggia ha ripreso il sopravvento e bande di ragazzini allo sbaraglio imperversano tra i cumuli di immondizia. Quando uno di quei gruppi si porta via il fratello, trova un nuovo scopo nell’andarselo a riprendere. Ammaniti ha raccontato di essere stato per anni ossessionato dall’idea di una società priva di adulti, ma che un mondo governato da bambini a cui non è stato insegnato nulla poteva immaginarlo regolato soltanto dai loro bisogni primari, e quindi primitivo e feroce. Perché la chiave della sopravvivenza, spiega, si trova nella principale raccomandazione del quaderno di Anna: imparare a leggere, costruire e conservare la memoria, la vera salvezza. Anna su Sky e Now dal 23 aprile. © RIPRODUZIONE RISERVATA

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G R A Z I A CULTURA

INNAMORATEVI DI QUESTO PIANETA

IL 22 APRILE È LA GIORNATA DELLA TERRA. E IN TV VA DI SCENA LA NATURA di ELISABETTA COLANGELO

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l canto delle balene negli oceani, mentre il Pianeta bloccato dalla pandemia restava in silenzio. Le distese dei ghiacci perenni e i deserti, le avventure degli animali più piccoli e dei predatori, gli sforzi di chi si dedica alla salvaguardia dell’ambiente. Per celebrare la Giornata Mondiale della Terra del 22 aprile, il cui tema quest’anno è Restore Our Earth, guarire il pianeta, i nuovi documentari in tv promettono grandi emozioni. Si parte il 16 aprile su Apple Tv+ con The Year Earth Changed, il docufilm narrato dal celebre divulgatore David Attenborough che racconta come durante il lockdown globale la Natura sia stata capace di riconquistare i propri spazi. E insieme ci saranno le nuove stagioni di Tiny World, dedicata alle creature minuscole, e del Mondo notturno a colori. Sempre il 16, Disney+ propone Nat Geo: paradisi inesplorati, per immergersi tra foreste pluviali, deserti e isole tropicali. Il 22 arriva I segreti delle balene, la docuserie prodotta da James Cameron e narrata da Sigourney Weaver che svela la vita di orche, megattere, beluga e capodogli. E ancora, su Nat Geo (Sky 403), Eroi degli oceani, in cui, tra squali e barriere coralline, l'oceanografa Sylvia Earle racconta gli scienziati che si dedicano alla conservazione marina. Per i più “attivisti”, infine, sempre su Nat Geo il 19 aprile c’è il docureality Bear Grylls: Celebrity Edition 6 in cui l’esperto di sopravvivenza Grylls accompagna le star di Hollywood alla scoperta della natura. La partenza è sulle Dolomiti con l’attore Anthony Mackie. © RIPRODUZIONE RISERVATA

LE API AIUTANO MILANO Il magazine Donna Moderna lancia una sfida nel nome della sostenibilità e della biodiversità chiedendo alle lettrici di aiutare il risparmio di anidride carbonica. Punto di riferimento sarà l’app AWorld, selezionata dall’ONU per educare a comportamenti ecocompatibili. ll 22 aprile, in occasione dell’Earth Day, il magazine Mondadori darà vita anche a un progetto di apicoltura urbana installando 17 arnie presso Cascina Merlata e nel giardino di San Faustino a Milano. (F.C)

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In alto da sinistra, in senso orario: due immagini dai documentari Tiny World e I segreti delle balene; Il mondo notturno a colori e Paradisi inesplorati.



G R A Z I A CULTURA

SONO USCITA DAL CORO

RACHELE BASTREGHI, LA VOCE DEI BAUSTELLE, RACCONTA LA SUA NUOVA PROVA COME SOLISTA

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achele Bastreghi è uscita dal gruppo. Non per sempre. Ma la cantante e bassista dei Baustelle ha realizzato il suo primo album solista, si intitola Psychodonna, è disponibile dal 30 aprile. Già sei anni fa aveva fatto capolino fuori dalla band di cui fa parte da metà Anni 90, con un mini-album e un tour da “single”. Insomma, la voglia di mettersi in proprio c’è da tempo. Non ci sarà divorzio, nei Baustelle tornerà, ma aveva bisogno di farsi un viaggio da sola, coinvolgere altre donne (nel disco, ci sono collaborazioni con la cantautrice Meg e con due attrici, Chiara Mastroianni e Silvia Calderoni) per diventare finalmente protagonista.

La cantante Rachele Bastreghi, 43 anni.

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Rachele, perché ha aspettato così tanto? «Credo che abbia fatto comodo anche a me stare tanti anni nell’angolo, per timidezza e insicurezza. Al punto che, a volte io stessa mi sono chiesta: "Ma perché fai questo lavoro se ti piace stare nascosta?”». E adesso? «Le rispondo con il titolo di uno dei pezzi dell’album: Poi mi tiro su. Nel senso che, per quanto uno abbia tormenti e incertezze, a un certo punto trova la forza di stupirsi, di avere speranza, di superarsi». L’industria discografica ama le donne, ma solo se sono giovani. «Sì, si preferiscono le ragazze. Una donna a 45 anni è da buttare, gli uomini, invece, a 60 diventano interessanti. Sono pregiudizi arcaici che resistono anche nella musica, che pure sembrerebbe un luogo creativo e aperto. Credo di essere entrata nei Baustelle perché ai tempi davvero pochi avevano una donna bassista, era una particolarità molto “cool”. Ma non ho mai invidiato gli uomini, a parte la possibilità di farsi crescere la barba». Perché? «Perché con quella coprono le rughe (ride, ndr)». Una delle canzoni di Psychodonna parla di Penelope. Che cosa rappresenta per lei l'eroina greca dell’Odissea? «È una donna astuta, io la vedo come una punk visionaria che ha bisogno di un sogno. Aspetta Ulisse che forse non tornerà mai. Anch’io, come lei, amo dipingermi un mondo immaginario, creare i miei stratagemmi per liberarmi da trappole mentali». Chi sono le donne che l’hanno ispirata di più? «Dolores O’Riordan, anche perché con la sua canzone Zombies passai il provino per entrare nei Baustelle. E poi Nico dei Velvet Underground, Edda Dell’Orso (la voce di molte colonne sonore di Ennio Morricone, ndr) e tante altre. Nella vita, ci sono mia madre e mia sorella, la mia prima maestra di pianoforte e la mia analista che, negli ultimi anni, mi ha aiutato a fare un grande lavoro su di me». Lei ha una formazione classica, i testi delle sue canzoni hanno un lessico elegante. Che effetto le fa il successo di generi come la trap? «Qualcuno mi piace, Salmo per esempio. Altre cose no. Mio nipote Leonardo, 21 anni, figlio di mio fratello, fa trap. Lo aiuto, gli dico sempre di studiare, di ascoltare anche altra musica, non solo quella». © RIPRODUZIONE RISERVATA

foto: ELISABETTA CLAUDIO

di PAOLA JACOBBI



G R A Z I A CULTURA Da sinistra, un allestimento della mostra Seta e il museo Salvatore Ferragamo a Palazzo Spini Feroni di Firenze. Sotto, alcuni foulard storici in twill di seta della maison Salvatore Ferragamo. Da sinistra: Linfa, Keope, Pesci e Alcea.

LA MODA È UN FILO DI SETA

A FIRENZE UNA MOSTRA ENTRA NEL MITO DI SALVATORE FERRAGAMO E CELEBRA I SUOI FOULARD

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nello stile della maison. Nell’allestimento, infatti, si succedono i foulard con soggetti floreali, come Linfa, e gli altri con animali esotici, compresa una pantera nera. Dialogano con i disegni preparatori e con diverse fonti di ispirazione, per esempio i fiori di cera settecenteschi conservati al Museo di Storia Naturale. Una sezione raccoglie gli stampati in seta che riproducono i modelli storici di scarpe: uno sguardo alle origini della maison, quando Salvatore Ferragamo, emigrato negli Stati Uniti ai primi del Novecento, diventò il “calzolaio delle stelle” di Hollywood. L’esposizione si apre con uno spazio dedicato a Sun Yuan e Peng Yu, duo di artisti concettuali con base a Pechino. A loro il compito di raccontare la via della seta come luogo di incontro di culture. Lo fanno attraverso un’installazione e un foulard creato per l’occasione. (Franco Capacchione)

Seta, Museo Salvatore Ferragamo, a Firenze, fino al 18 aprile 2022 (ferragamo.com). © RIPRODUZIONE RISERVATA

foto: COURTESY MUSEO SALVATORE FERRAGAMO

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er millenni la seta ha fatto da ponte tra Oriente e Occidente e l’Italia ha avuto un ruolo centrale nella sua lavorazione. Per la maison Salvatore Ferragamo il foulard realizzato con il prezioso tessuto è un “marchio di fabbrica”. Ora l’azienda nata a Firenze apre i suoi archivi e svela una storia d’impresa che unisce creatività e alto artigianato industriale. Palazzo Spini Feroni di Firenze, sede del Museo Salvatore Ferragamo, ospita fino al 18 aprile 2022 la mostra Seta, visibile anche in un virtual tour sul sito del museo ferragamo.com. L’esposizione è anche un omaggio a Fulvia, una dei sei figli del fondatore: nei primi Anni 70, fu lei ad avviare una più intensa produzione di accessori in seta, dando nuovo slancio a un’intuizione paterna. Una passione nata da un’esperienza personale. Fulvia frequentò il collegio femminile di Villa del Poggio Imperiale a Firenze dove alcune sale costituivano il cosiddetto “appartamento cinese”: le pareti erano decorate con uccelli e paesaggi dipinti su carta e acquerelli che rappresentavano la Cina nella sua quotidianità. Un’iconografia che Fulvia introdusse



G R A Z I A CULTURA Il letto nato dalla collaborazione tra il marchio Birkenstock e lo studio di design Toogood. A sinistra, un modello di Birkenstock.

A GRANDI PASSI NELLA CREATIVITÀ I CLASSICI SANDALI BIRKENSTOCK HANNO ISPIRATO ANCHE UN LETTO SCULTURA di CLELIA TORELLI

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NOI NON RESTIAMO IN SILENZIO UNA MOSTRA E UN LIBRO FOTOGRAFICO DANNO VOCE A CHI SUBISCE ABUSI E VIOLENZE

L'attrice Maria Grazia Cucinotta è tra i protagonisti di I muri del silenzio.

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Da Lorella Cuccarini ad Alberto Matano e tanti altri ancora, insieme per dire basta all’omertà e agli abusi. Si chiama I muri del silenzio l’installazione fotografica sostenuta da Disabili No Limits Onlus e allestita all’ingresso degli edifici di Palazzo Lombardia e del grattacielo Pirelli, a Milano, fino al 16 aprile. L’esposizione è parte di un progetto a sostegno delle donne vittime di violenza, ideato dalla fotografa Mjriam Bon e dall’atleta paralimpica e parlamentare Giusy Versace. Un progetto nato nel 2019 con una mostra allestita presso la Camera dei Deputati poi diventata un libro fotografico in edizione limitata, con 75 volti di personaggi, da cui è partita una raccolta fondi per aiutare chi ha subito abusi. Giusy Versace dice: «Mi piacerebbe presentare il libro anche nelle scuole, per educare i giovani al rispetto e alla non violenza». (F.D.S).

foto: TOM JOHNSON, ROY VAN MILLINGEN COURTESY BIRKENSTOCK.

amminare e dormire sono gesti quotidiani semplici, ma molto importanti. E sono stati d'ispirazione al marchio di calzature Birkenstock che unisce moda e arredamento con una collaborazione con Toogood, lo studio di design fondato a Londra nel 2008 da Faye Toogood. Nasce così la prima collezione primavera-estate in cui funzionalità e design scultoreo, i punti di forza condivisi dai due marchi, vengono applicati a tutti gli aspetti della vita. Il progetto #BirkenstockToogood comprende infatti anche un letto ispirato allo storico plantare che il marchio di calzature utilizza dalla fine del Settecento. Con base in sughero, rivestimento in pelle e tessuto, ora c'è un materasso naturale Birkenstock e una rete a stecche (su richiesta esclusivamente su 1774.com). Intanto i classici sandali Birkenstock sono stati ridefiniti in materiali selezionati quali tela, feltro e pelle scamosciata dallo studio Toogood, nei tre modelli Forager, Mudlark e Beachcomber. C'è anche un collezione di workwear e accessori complementare alla capsule Birkenstock x Toogood. Tutti i prodotti saranno acquistabili su t-o-o-g-o-o-d.com e su matchesfashion.com.


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G R A Z I A CULTURA

IL BELLO DELL’ARTE, DEL FEMMINISMO E DELLA LETTERATURA IN CINQUE LIBRI CHE FANNO SOGNARE A OCCHI APERTI di VALERIA PARRELLA

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Her Dior: Maria Grazia Chiuri’s new voice raccoglie le immagini scattate da 33 fotografe, con frasi emblematiche di artiste che hanno collaborato con la maison tra cui Sarah Moon, Bettina Rheims, Lean Lui, Maya Goded, Julia Hetta e Janette Beckman. L’immagine di copertina, realizzata da Brigitte Niedermair, riprende la celebre T-shirt disegnata da Maria Grazia Chiuri con la scritta “We should be all feminists”, dovremmo essere tutti femministi. Tutto bello: le modelle, gli abiti, i luoghi, gli sguardi. ••• Her Dior, Maria Grazia Chiuri’s new voice, Rizzoli, pag. 240, € 78

Nella collana Grandi Opere di Einaudi arriva un volume ambizioso: una summa dell’arte astratta a partire da un’innovativa ricostruzione delle origini e dell’intera sua evoluzione fatta dal critico d’arte del quotidiano statunitense The New York Times. Da Vasilij Kandinskij e Piet Mondrian a Ibrahim El-Salahi, da Francis Picabia e Paul Klee a Norman Lewis, da Carlos Cruz-Diez a Bridget Riley, in 248 illustrazioni lo storico dell’arte ci dimostra come l’arte astratta abbia origine dal mondo concreto: il nostro. •••• Pepe Karmel, L’arte astratta, Einaudi, pag. 360, € 75

Sono i disegni preparatori della prima cantica della Divina Commedia di Dante Alighieri, nell’anno delle celebrazioni dantesche. Con un testo del regista Jonny Constantino che ne racconta la genesi, le tavole di Mattotti raccontano l'ingresso nella “selva oscura”, l’incontro con Virgilio, Caronte “con occhi di bragia”, l'amore tragico di Paolo e Francesca, il monito di Ulisse a “seguir virtute e canoscenza”. È possibile acquistare anche l’edizione rilegata, in cofanetto, con una tavola originale. •••• Lorenzo Mattotti, Guardando l’Inferno, Nuages, pag. 116, € 28

Napoli non è solo una delle città più complesse e rappresentate al mondo: è un vero e proprio generatore di storie. Così, sulla traccia dei grandi fotografi della scuola partenopea, tra tutti Mimmo Jodice da cui mutua l’uso del movimento e del bianco e nero, Cristina Ferraiuolo si cala tra le ragazze e le donne della metropoli: interpreta i loro sguardi, il loro dolore, la loro alterigia, la capacità di essere tutt’uno con ciò che le circonda, divenendo in qualche modo loro stesse il corpo di Napoli. •••• Cristina Ferraiuolo, Stone butterfly, Gösta Flemming, pag. 108, 58 foto in bianco e nero, € 40

La bella mostra ospitata a Palazzo Altemps a Roma offre l’occasione per il lancio di una piccola enciclopedia delle opere di Alberto Savinio. Dalla A alla Z un catalogo che ospita saggi d’autore e magnifiche riproduzioni delle opere più famose dell’artista. E in qualche modo reinterpreta quell’idea di gioco che è manifestata dal suo essere totalmente artista, cioè dal saltellare tra la scrittura drammaturgica e la vocazione da romanziere, essere pittore, musicista e far anche scenografia e costumi. ••• Autori Vari, Savinio dalla A alla Z, Electa, pag. 360, € 34

• trascurabile •• passabile ••• amabile •••• formidabile ••••• irrinunciabile


Si ringrazia Loretta Goggi per la sua testimonianza

Foto: Gianmarco Chieregato

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G R A Z I A VIAGGIO

foto: GETTY IMAGES

C’È UNA NUOVA ITALIA DA SCOPRIRE Alberghi remoti, mimetizzati in borghi antichi o nascosti nella natura. La voglia di vacanza e di cambiare orizzonte è tanta. Questa è una mappa per ritrovare il nostro Paese fuori dai luoghi comuni di SILVIA UGOLOTTI artwork di LISSONI GRAPHX

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G R A Z I A VIAGGI

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MOUNTAIN LODGE TAMERSC San Vigilio di Marebbe (Bz) Silenzio totale in uno chalet immerso nei boschi.

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ALBERGO BRIOL Barbiano (Bz) L’incanto di un castello in stile Bauhaus tra le montagne.

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CHALET NEL DOCH Canal San Bovo, Trento Rilassarsi in un maso di legno arredato con pezzi di design.

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SUNNY VALLEY KELO Parco dello Stelvio Undici suite di legno e un bar igloo nel bosco.

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IL BORRO Località Borro, Arezzo Vino e uliveti nella tenuta della famiglia Ferragamo.

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SANTO STEFANO DI SESSANIO Gran Sasso Tutti i sapori dell’Abruzzo in un albergo diffuso.

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scire dai percorsi, approdare in un punto quasi invisibile sulla carta geografica: la premessa al viaggio è a poche ore da casa, in luoghi remoti e affascinanti dove il distanziamento è una condizione naturale. Oppure si può scegliere un modello di ospitalità diffusa, nata per rivitalizzare i borghi italiani e valorizzarne le attività, come raccontano Debbie Pappyn e David De Vleeschauwer (che girano il mondo testando hotel) nel loro libro Atlante degli alberghi remoti (Rizzoli). La pandemia ha cambiato l’ordine e le priorità del viaggiatore, disegnando mappe alternative a quelle turistiche: defilate e sostenibili. È una casa di caccia trasformata in chalet di lusso il Tamersc (mountainlodge-tamersc.com), immerso in un bosco delle Dolomiti. A 1.400 metri nel parco naturale Fanes-Sennes-Braies a San Vigilio di Marebbe (Bolzano) è perfetto per svegliarsi nel silenzio. Proprio come il Briol (briol. it) di Barbiano in Alto Adige. In questa casa dall’architettura Bauhaus quasi sospesa sulla Valle Isarco si arriva solo a piedi. Il traffico resta a valle, qui ci sono solo natura e profumo di boschi che si respira anche nelle lenzuola stese ad asciugare: sventolano bianche nei prati come un benvenuto a chi arriva. A Canal San Bovo, a pochi chilometri dalle Pale di San Martino, in Trentino, c’è un maso diffuso: una baita centrale e due più piccole in larice, arredate con stufe di maiolica e pezzi di design. Si chiama Chalet nel Doch (chaletneldoch.com) e unisce dettagli moderni a un’architettura tradizionale. Design ad alta quota anche nel Parco dello Stelvio, dove è stato costruito il Sunny Valley Kelo (sunnyvalley.it) con vetro, pietra e legno. Per realizzare la sua idea “senza cemento” a 2.700 metri, il proprietario Beppe Bonseri ha chiamato a raccolta una squadra di sami lapponi. Ci sono 11 suite, la sauna nel bosco e un bar igloo. Scendendo verso il cuore della Toscana, il Borro (ilborro.it) è un relais diffuso all’interno di un borgo medievale, in provincia di Arezzo. Perfetto per chi ama eleganza e buon vino: la tenuta con l’azienda vitivinicola della famiglia Ferragamo è circondata da vigne e uliveti. Un’esperienza da non perdere è anche l’ospitalità a cinque stelle degli alberghi diffusi di Daniele Kihlgren firmati Sextantio (Sextantio.it). Il primo, Santo Stefano di Sessanio, è sul Gran Sasso, in provincia dell'Aquila. Si passeggia su vecchi ciottoli e si mangiano piatti creati con le antiche ricette del luogo, circondati dai monti abruzzesi. A Matera, invece, rivivono i Sassi grazie a Le Grotte della Civita, sempre del gruppo Sextantio. Anche Le Silve di Armenzano (lesilve.it) in Umbria, vicino a Perugia, è perfetto per vivere i benefici del verde e della cucina a chilometro zero dello chef Antonio Falcone. Sempre in Umbria immerso nella fitta vegetazione all’interno del parco regionale del Monte Subasio, c’è l’Eremito (eremito.com), perfetto equilibrio di pietre antiche

illustrazioni: LISSONI GRAPHX

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G R A Z I A VIAGGIO

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LE SILVE DI ARMENZANO Assisi, Perugia Sapori a chilometro zero nella campagna umbra.

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EREMITO Monte Subasio, Terni Un monastero per leggere e fare yoga sconnessi da tutto.

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GROTTE DELLA CIVITA Matera Il fascino di un albergo scavato nei sassi antichi della Basilicata.

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MANNOIS Orosei, Nuoro Un gioiello nascosto nel centro storico della città.

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SU GOLOGONE Nuoro La Barbagia amata dalle celeb.

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CAPO SPARTIVENTO Sud Sardegna Un faro affacciato sulle spiagge di una riserva naturale.

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CONVENTO DI SANTA MARIA DI COSTANTINOPOLI Marittima, Lecce Un’oasi nel Barocco pugliese.

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CAPOFARO Malfa, Messina Nelle Eolie più selvagge tra mare e vigneti di Malvasia.

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SUSAFA Polizzi Generosa, Palermo Il piacere di un tuffo nella piscina del palmeto.

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e architettura sostenibile. Obiettivo: riformattare la mente. L’inquinamento acustico ed elettromagnetico non esistono, come il wifi, e il cellulare va tenuto in modalità silenziosa. La giornata inizia con una lezione di yoga, poi passeggiate nella riserva naturale, raccolta delle verdure nell’orto e letture in giardino. Al riparo da tutto è anche il Convento di Santa Maria di Costantinopoli (ilconventopuglia.com) appena fuori dal villaggio di Marittimavicino a Lecce. È di proprietà di Athena McAlpine, moglie di un lord inglese, che ne ha fatto un ritiro esotico. Dedicato a tutti i viaggiatori appassionati, ogni stanza racconta le culture del mondo attraverso gli oggetti raccolti a ogni partenza. Il mare è sicuramente l’elemento che domina i paesaggi delle isole e il modo migliore per apprezzarlo è guardandolo da un faro. Capo Spartivento (farocapospartivento.com), sulla costa sud-occidentale della Sardegna, è all’interno di una riserva naturale che affaccia su alcune delle spiagge più incantevoli dell’isola, da Torre di Chia a Su Giudeu, fino a Tueredda: sabbia candida e acque turchesi. L’antica lanterna di Capo Spartivento, del 1864, è una guest house di lusso restaurata nel pieno rispetto dell’ambiente. L’ospitalità è su misura: si sceglie l’ora della colazione e si concorda il menu con lo chef a pranzo come a cena. Per chi ama le atmosfere del passato, il tempo sembra aver smesso di correre nel centro storico di Orosei. A poca distanza l’una dall’altra, distribuite su tre edifici, ci sono le stanze dell’albergo diffuso Mannois (mannois.it). Vicino, l’affascinante villaggio di Tiscali, nascosto tra le montagne, è raggiungibile da un percorso trekking che parte non lontano dall’albergo. In Barbagia, invece, nel cuore aspro e imponente del Supramonte, c’è l’esclusivo boutique hotel Su Gologone (sugologone.it), lusso discreto riparato da bianche pareti carsiche che ha fatto innamorare di sé anche Madonna e Richard Gere. Una piscina d’acqua sorgiva si affianca alla spa e a un ristorante con ingredienti locali. Nelle vecchie scuderie sono allestite le botteghe artigianali che raccolgono la produzione di artisti locali. Per un tuffo, Cala Cartoe (set del remake di Travolti da un insolito destino diretto da Guy Ritchie) è a pochi minuti d’auto. D’isola in isola, in Sicilia il piacere di rallentare è un’esperienza raffinata a Susafa (susafa.com), una casa colonica vicino al Parco delle Madonie che custodisce la memoria della cultura rurale grazie alla famiglia Saeli-Rizzuto, oggi alla quinta generazione di imprenditori agricoli. Ci sono l’orto, il frutteto e l’oliveto biologico, un palmeto e la piscina. Luce che abbaglia e vigneti a picco sul mare a Salina dove si trova Capofaro (capofaro.it), un boutique hotel all’interno di una tenuta di sei ettari coltivata a Malvasia. Appartiene alla famiglia Tasca d’Almerita che da otto generazioni produce vino. Segni particolari? Vista sulle isole gemelle, stanze bianche e luminose affacciate sul mare, silenzio e buon vino. Ampliando il raggio, c’è l’isola intera da scoprire. Al resort organizzano trekking sui vulcani, immersioni, navigazione al tramonto. In poche parole, pura poesia. © RIPRODUZIONE RISERVATA

illustrazioni: LISSONI GRAPHX

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INFINE

CHARLOTTE CASIRAGHI

IL PRIMO LIBRO DI KATE MIDDLETON Il debutto in libreria di Kate Middleton, 39 anni, era molto atteso. La duchessa di Cambridge ha curato il progetto fotografico di Hold Still, "tieni ancora duro". È una raccolta di 100 immagini scelte tra le 31 mila ricevute nei mesi scorsi, che raccontano la quotidianità rivoluzionata dalla pandemia. La prima copia è già stata consegnata a Kensington Palace e dal 7 maggio sarà in vendita: i proventi finanzieranno la National Portrait Gallery di Londra e l’associazione Mind, che si occupa della tutela della salute mentale.

foto: GETTY IMAGES, ALIX MARNANT/COURTESY CHANEL, INSTAGRAM

KATE MIDDLETON

LA FELICITÀ DI PAOLA «Non arrendetevi, siete forti!», dice Paola Turani, 33 anni, incinta al quarto mese, alle ragazze che, come lei, hanno avuto una diagnosi di infertilità. In un video di 11 minuti sul suo profilo Instagram la modella e influencer racconta la sua storia, fino all’inattesa gravidanza: «Una felicità che è impossibile spiegare».

PAOLA TURANI

UNA CONVERSAZIONE CON CHARLOTTE Elegante, colta e indipendente. Charlotte Casiraghi, 34 anni, è la nuova ambasciatrice e testimonial di Chanel e ha debuttato nella campagna per la collezione della primavera-estate 2021, realizzata a Monaco, in cui indossa anche abiti in chiffon e la famosa giacca in tweed. Ma il legame con il marchio va oltre la moda: la principessa collabora con la maison anche per il progetto letterario Rendez-vous littéraires rue Cambon, un salotto in cui scrittrici e attrici discutono di letteratura e storia.

IL CUORE VERDE DELLE NUOVE STAR

IRELAND BALDWIN

L’attenzione all’ambiente è un imperativo anche per le modelle più richieste del momento. Ireland Baldwin, 25 anni, si è schierata con gli animalisti dell’organizzazione Peta contro l’utilizzo pellicce. Chiara Scelsi, 23, appoggia progetti legati all’ecologia e alla difesa degli animali. Debutto green anche per Stella del Carmen Banderas, 25. La figlia degli attori Antonio Banderas, 60, e Melanie Griffith, 63, ha esordito come modella di 101%, marchio che utilizza tessuti rigenerati e prepara il lancio del suo primo profumo, realizzato con ingredienti bio. Tra le top model c’è poi Cameron Russell, 33: ha creato un collettivo che si batte per la moda sostenibile e contro il cambiamento climatico.

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G R A Z I A INFINE EMMA TORNA A CANTARE ALL’ARENA DI VERONA Il 6, 7 e 8 giugno Emma Marrone tornerà a cantare dal vivo. «Potevo annullare o rimettere in discussione tutto, le idee, i progetti, me stessa. Ho scelto la seconda opzione», ha scritto la cantante, 36 anni, annunciando a sorpresa le prime tre date. Dopo aver dovuto rimandare la grande festa per i suoi dieci anni di carriera, la cantante riparte nella massima sicurezza dall’Arena di Verona, nel pieno rispetto delle misure anti Covid. EMMA MARRONE

LADY GAGA

LADY GAGA SI SPOSA (SUL SET) Lady Gaga, 35 anni, si è sposata. Ma solo per copione. Dal set romano del film House of Gucci sono trapelate le immagini scattate durante la scena che rievoca il matrimonio tra Patrizia Reggiani e Maurizio Gucci, impersonati da Gaga e da Adam Driver, 37, celebrato a Milano nel 1972. La cantante per queste finte nozze sfoggia un abito bianco con pizzi e velo lunghissimo e un’acconciatura cotonata e teatrale che ricorda molto quella originale di Reggiani.

PILAR FOGLIATI

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Che momento d’oro sta vivendo Pilar Fogliati, 28 anni. Oltre a essere tra le protagoniste della serie di Rai Uno Un passo dal cielo, l’attrice ha sbancato le classifiche di streaming con il podcast Sbagliata. Racconta le trentenni di oggi, precarie nel lavoro e nei sentimenti: tra le guest star ci sono il cantante Aiello, 35, e la comica Michela Giraud, 33. Ma non è tutto: a quattro mani con lo sceneggiatore Giovanni Veronesi, 58, sta scrivendo la sceneggiatura del film con cui debutterà alla regia.

Su e Giù RACHEL BROSNAHAN

Rachel Brosnahan, 30 anni, raddoppia. Dopo due anni di attesa, l’attrice ha cominciato le riprese della serie Amazon La fantastica signora Maisel 4 e pochi giorni fa ha annunciato che ci sarà anche una quinta stagione.

REGÉJEAN PAGE

Regé-Jean Page, 31 anni, esce dal cast di Bridgerton 2. I fan sono in rivolta, ma il duca di Hastings non ci sarà per via del mancato accordo economico: l’attore avrebbe chiesto più di 50 mila euro a puntata ma Netflix ha detto no.

foto: GETTY IMAGES, INSTAGRAM

IL TALENTO DI PILAR





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G R A Z I A OROSCOPO DAL 18 APRILE AL 3 MAGGIO Antonio Manzini, 56 anni, è in libreria con Gli ultimi giorni di quiete. I suoi libri sono pubblicati da Sellerio.

L’AUTORE DEI ROMANZI DI ROCCO SCHIAVONE, ANTONIO MANZINI, HA ACCETTATO LA SFIDA DI SCRIVERE UN OROSCOPO IRONICO E RICCO DI CONSIGLI LETTERARI

ARIETE Per i nati sotto il segno dell’Ariete per questa

BILANCIA Gli astri lo sanno, vi piace circondarvi di

TORO Gli amici del Toro dovrebbero seguire la genero-

SCORPIONE Vi evitano, vero? Le stelle lo sanno, es-

GEMELLI

SAGITTARIO Le stelle conoscono la vostra genero-

settimana il consiglio è di abbandonare la vostra triste abitudine di rompere le scatole al prossimo. Non fatelo: avete Marte in trigono e la Luna in dodicesima casa. Non so che cosa significhi, ma vi prego, seguite il suggerimento, gli altri 11 segni vi ringrazieranno. Libro suggerito: L’analista di John Katzenbach. sità che li contraddistingue e prestare i soldi agli amici. Non ve li ridaranno, ma siete del Toro e vi tocca. Soprattutto non crediate di avere questo magnetismo sensuale, ve lo fanno credere. Questa settimana il consiglio è stare a casa, tanto dove dovete andare? Libro suggerito: Oblomov di Ivan Aleksandrovi Gon arov. Siete curiosi, indagate, ficcate il naso, spiate. Evitatelo, non solo nella settimana in questione, prendetelo come un consiglio astrale duraturo. Fate vostro l’antico adagio che recita: chi si fa i fatti propri tende a campare più a lungo. E soprattutto evitate di andare a controllare il cellulare dei/lle vostri/e partner. Libro suggerito: Misery di Stephen King.

CANCRO

Ho amici e parenti del Cancro, sembrano tutti drogati. Non so se è un fatto zodiacale o se frequento brutta gente, ma fra loro c’è mia madre e allora tendo a pensare sia una caratteristica astrale. Reagiscono male ai consigli, quindi per loro le stelle non hanno consigli, meglio: ne avrebbero ma preferiscono tacerli. Libro suggerito: L’isola di Aldous Huxley.

LEONE

foto: KIKKA TOMMASI

Per gli amici nati sotto questo bellissimo segno zodiacale gli astri vi ricordano l’innegabile superiorità sugli altri, rammentandovi altresì la vostra intelligenza e la vostra bellezza. Fate quello che vi pare tanto riesce bene e, quando potete, aiutate gli altri donando loro un po’ della vostra luce. Libro suggerito: Bel-Ami di Guy de Maupassant

VERGINE Che noia! vi urla Mercurio dall’Imum Coeli,

il Fondo del Cielo, come lo chiamava Tolomeo. Il consiglio è di non star sempre lì a spaccare il capello in quattro o a cercare il pelo nell’uovo. Tutti odiano i primini della classe e, quando cadono, si fa festa. Rilassatevi. Tanto dobbiamo morire tutti. Libro suggerito: Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque.

oggetti preziosi (Saturno commenta: «E grazie!»). Le stelle questa settimana vi sconsigliano una rapina, nel caso foste privi degli oggetti su elencati, è illegale. Un avvertimento dalla Luna: amiche della Bilancia, un uomo non muore di fame se non gli fate la spesa. Libro suggerito: Americanah di Chimamanda Ngozi Adichie. sere possessivi, gelosi, vendicativi non è un bel biglietto da visita. Gli astri consigliano, doveste trovare una festa, di andarci senza mettervi in controluce ad aspettare che vi si noti. Gli altri 11 segni hanno altro a cui pensare. Libro suggerito: Trilogia sporca dell’Avana di Pedro Juan Gutiérrez. sità, comprensione e fedeltà. Basta. Per questa settimana mandate un po’ di gente a quel paese, bucate le gomme alla macchina del vicino, smagnetizzate il bancomat e mettete le corna al/alla partner. Poi dal 26 tornate in voi. “Semel in anno licet insanire”, una volta all’anno è lecito impazzire. Libro suggerito: Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde di Robert Louis Stevenson.

CAPRICORNO Fatevene una ragione: esistono altre razze canine oltre ai corgi della regina e alle brioches il popolo preferisce il pane. Il consiglio delle stelle è andare ad Ariccia, vicino Roma, a farvi un panino con la porchetta, vino e gazzosa poi una gara di eruttazioni post-prandiali con un camionista di Afragola. Libro suggerito: Il popolo degli abissi di Jack London.

ACQUARIO Emotivamente instabili, da sempre rica-

dete nel solito errore fidandovi degli amici. Errore! Allora le stelle consigliano 15 gocce di ansiolitico ogni mattina e tenetene sempre in tasca una boccetta. Anche gli astri non vi amano, vi consigliano i viaggi, pensa te… Libro suggerito: Qualcuno volò sul nido del cuculo di Ken Kesey.

PESCI Continuate a imbottire la gente di bugie e ormai

non distinguete più la realtà dal racconto. Ottimo, se fate gli scrittori o gli assessori, meno se siete dei medici. Il consiglio è: impegnatevi a dire solo la verità. Se vi toglieranno il saluto, benvenuti nel mondo reale. Libro suggerito: Madame Bovary di Gustave Flaubert.

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G R A Z I A UN POSTO NEL CUORE

TUA MADRE DEVE CAPIRE CHE NON SEI SOLO SUA FIGLIA, MA ANCHE UNA DONNA di ALESSIA MARCUZZI

Carola

Cara Alessia, ho 17 anni e vorrei prendere la pillola anticoncezionale. Solo che con mia madre non riesco a parlare e non so nemmeno come potrei affrontare la questione. Ne ho discusso con un’amica, che la prende da due mesi: prima forse dovrei andare da un medico, ma come faccio senza dirlo a mia madre? Sto anche pensando di scappare di casa. Ciao Carola, alcune mamme proprio non ce la fanno ad accettare che le figlie siano cresciute e che abbiano bisogno di essere sostenute anche negli aspetti legati alla loro sessualità. Pensa, quando ero giovanissima una ragazza che conoscevo prendeva la pillola che le procurava una zia che di nascosto l’aveva accompagnata qualche mese prima dalla ginecologa. Più tardi decise di rivolgersi all’Aied (aied.it), l’Associazione Italiana per l’Educazione Demografica, che ha sedi in tutta Italia e offre assistenza sanitaria alle donne e ai giovani che scelgono di vivere in maniera libera e consapevole la propria sessualità. Carola, ti prego di considerare che molte ragazze si trovano nella tua stessa situazione e, senza estremizzare (scappare da casa), trovano soluzioni costruttive e opportune. Mi raccomando, non vergognarti mai di esistere come donna. La tua mamma, anche lei, avrebbe il diritto di crescere e, sicuramente Persona speciale, di affermarsi come madre di una figlia sessuata. Baci e auguri, il meglio per te e per i tuoi pensieri.

CHE COSA È LA VERA FELICITÀ Giovanna Bellasio

Gentile signora Marcuzzi, ho letto con interesse il Suo annuncio sul numero 15 di Grazia. Ho ricavato

l’impressione che lei sia, al di là dell’immagine fascinosa e sexy, anche una donna intelligente, consapevole e matura. Perciò sono rimasta un po’ sorpresa da tutta la sua enfasi sulla felicità. Se per “felicità” si intendessero serenità, generosità, responsabilità, consapevolezza, allora bisognerebbe utilizzare questi termini perché la tanto propagandata felicità in realtà per molti significa sballo, droga, tabacco, alcol e sesso facile con le conseguenze che si possono constatare tutti i giorni. Buongiorno signora, mi prendo con gratitudine la sua “bacchettata” perché mi consente di raccontare qualcosa di me che magari ha il diritto di sfuggire ai più. Vengo da un’educazione piuttosto rigida e ho cominciato presto a lavorare con tutto l’impegno e la responsabilità possibili. Non viziata, molto amata, abituata a fare tutto in casa, non venerata a tutti i costi, allenata nel “sentire” i moti della coscienza. Sono stata seguita con amore, ma anche con molta fermezza. Ugualmente ho fatto e faccio con i miei figli. Non ho mai considerato le giornate e la mia vita come un andirivieni di emozioni da vivere a ogni costo o di felicità da raggiungere in ogni dove. Sono madre ed educatrice dei miei figli, me ne occupo personalmente e, anche se privilegiata e quindi aiutata in casa, affronto tutte le loro difficoltà quotidiane. Non sapendo tutto questo, lei si è sentita giustamente in diritto di fare il punto sulla “felicità” dandone una definizione che non posso che condividere. Quando nella vita e nel lavoro mi riconosco entusiasmo, curiosità, pace, benvolere, saggezza, allora sì, sono felice. E le devo dire, cara signora, che farei i salti di gioia alti fino a prendere le stelle, per regalarle a tutti quelli che soffrono. © RIPRODUZIONE RISERVATA

SCRIVI A upostonelcuore@mondadori.it oppure ad Alessia Marcuzzi - grazia - via Mondadori,1 - 20090 Segrate (mi)

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foto: DANIELE SCHIAVELLO

NON PARLO DI SESSO IN CASA




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