Foto di copertina:
Crozzon di Brenta (3.135 m)
Gruppo del Brenta (TN) – Luglio 2020 [#vincenzomarino]
Nella difficile arte di stare al mondo si dovrebbe scrivere la vita con leggerezza, scivolare, sorvolare, dimenticare, ripartire ogni mattina da quello che resta. In una parola: fottersene [#maurocorona]
Questa pubblicazione non costituisce testata giornalistica e non ha carattere periodico, essendo aggiornata secondo la disponibilità e la reperibilità dei materiali.
Pertanto non può essere considerata in alcun modo un prodotto editoriale ai sensi della L. n. 62 del 07/03/2001.
3 Sommario Sommario ...................................................................................................3 Contributi...................................................................................................4 Calma.........................................................................................................5 El MirAAAdor..............................................................................................7 Pakistan – Trekking del Baltoro 8 Facoltà oscura 14 Un’escursione in pianura – Da Virgilio a Verdi...........................................30 Pianificare un’escursione...........................................................................36 La Riviera di Ulisse....................................................................................40 Arco dei desideri........................................................................................47 Una cordata a tre......................................................................................56 Io sono Dio ...............................................................................................62 Come si diventa un A.A.A..........................................................................67 L'Altopiano di Asiago o dei Sette Comuni...................................................70 Escursionismo alle Azzorre 73 Montaña do Pico 76 Quando uno è bello, è bello! Il Monte Palabione 79 Il Sentiero dei Contrabbandieri..................................................................81 Assalto al Venerocolo.................................................................................84 Consuntivo 2022.......................................................................................88
Contributi Hanno contribuito alla realizzazione di questo numero con testi, foto, editing e consigli (utilissimi):
Daniele FRESCURATO
Vincenzo MARINO
Patrizia MOSETTI
Paolo SILIGATO
Elisa VENTURINI
La versione web è disponibile alla pagina www.aaalpinisti.it/ldv00
Tutte le foto sono di proprietà o nella disponibilità degli autori degli articoli.
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Calma di Vincenzo Marino 1
Ubi ordo, ibi pax et decor. Ubi pax et decor, ibi laetitia. [#proverbiolatino]
Si chiama calma e mi costò molte tempeste.
Si chiama calma e quando scompare esco di nuovo a cercarla.
Si chiama calma e mi insegna a respirare, pensare e ripensare.
Si chiama calma e quando la follia la tenta si scatenano venti terribili, difficili da dominare.
Si chiama calma e arriva con gli anni quando l’ambizione giovanile, la lingua sciolta e la pancia fredda cedono il posto a più silenzi e più saggezza.
Si chiama calma quando s’impara bene ad amare, quando l’egoismo cede il posto al dare e l’anticonformismo svanisce per aprire il cuore e l’anima, arrendendosi interamente a chi vuole ricevere e dare.
Si chiama calma quando l’amicizia è così sincera che tutte le maschere cadono e tutto può essere raccontato.
Si chiama calma e il mondo la evita, la ignora, inventandosi guerre che nessuno vincerà mai.
Si chiama calma quando si gode il silenzio, quando i rumori non sono solo 1 Personalizzazioni approvate e cortesemente autorizzate
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da Sua Santità Tenzin Gyatsho, XIV Dalai Lama
musica e follia, ma il vento, gli uccelli, il rumore del mare o la buona compagnia.
Si chiama calma e non si paga con niente, non c’è moneta di alcun colore che quando diventa realtà possa coprire il suo valore.
Si chiama calma e mi costò tante tempeste, ma le attraverserei mille volte ancora, pur di tornare a incontrarla.
Si chiama calma, la rispetto, me la godo e farò di tutto per non lasciarla andare.
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El MirAAAdor
di Paolo Siligato, Vincenzo Marino
La vita è un viaggio, nemmeno tanto lungo, ma sufficiente abbastanza, che ti permette di conoscere e relazionare con molte persone che incontrerai sul tuo cammino. Molte di queste si dimostreranno prive di valore, ma alcune, poche, saranno in grado di entrare nella tua vita e lasciare un'impronta indelebile rimanendo nel tuo cuore per sempre.
Tu, Corrado, sei uno di quelli.
Non te ne sei andato, ci cammini accanto ogni giorno, invisibile, inascoltato, ma sempre vicino. Mantieni la luce accesa per favore, così che sapremo dove sei.
Il Progetto "El MirAAAdor": un bel posto panoramico sotto il Sentiero della Salvia nel quale abbiamo posizionato una panchina e la targhetta che si vede in foto. Abbiamo dedicato il Belvedere a uno dei nostri primi AAAssociati, uno dei soci fondatori, presente con noi fin dal primo giorno quel 6 marzo 2018, che ci ha lasciato troppo presto.
Giovedì 2 dicembre 2021 la panchina è stata sistemata in loco dopo aver ripulito la zona e ampliato lo spazio tra la vegetazione.
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Nasciamo soli, viviamo soli, moriamo soli Tutto ciò che c’è in mezzo è un regalo [#yulbrinner]
Pakistan – Trekking del Baltoro di Daniele Frescurato
“Qualcosa è nascosto. Vai a cercarlo. Vai e guarda dietro ai monti. Qualcosa è perso dietro ai monti. È perso e aspetta te. Vai!” [#rudyardkipling]
Dopo due anni di pandemia un viaggio intercontinentale ha un qualcosa di magico. Avevo adocchiato questo trekking nel 2020 e, dopo averlo rimandato a data da destinarsi, quest’anno si è rivelato essere l’anno buono. Questa volta mi sono affidato ad un’agenzia di viaggi italiana, Viaggia con Carlo, che si è appoggiata per le questioni burocratiche a ViaggiGiovani e alla corrispondente agenzia locale Adventure Pakistan.
L'organizzazione del viaggio non ha comportato particolari problemi, anche grazie al supporto e all'esperienza delle agenzie contattate. Alcuni problemi si sono manifestati invece durante lo svolgimento del viaggio, il quale richiede uno spiccato spirito di adattamento.
I mesi prima della partenza sono passati veloci e con l’approssimarsi di agosto è anche salita la tensione per questa avventura fuori dall’ordinario. Io sono partito da Venezia e ho incontrato il resto del gruppo a Istanbul, dove abbiamo fatto scalo per raggiungere la nostra destinazione finale, l’aeroporto di Islamabad.
Al gran completo, una squadra di dieci persone, compreso l’assistente di Viaggia con Carlo. Tutte persone piacevole e con esperienza di viaggi/trekking in giro per il mondo. Un gruppo affiatato e preparato è fondamentale per questo tipo di esperienze.
Dopo una giornata dedicata all’adattamento al fuso orario, l’espletamento di aspetti burocratici come il cambio della moneta e una visita a quel poco che
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Islamabad ha da offrire, siamo ripartiti per Skardu, nel nord del Pakistan, base di partenza di tutti gli itinerari nel nord del Paese. Per il viaggio di andata, il meteo ci ha gentilmente concesso di effettuare un volo interno che ci ha permesso di gustarci una spettacolare vista sul Nanga Parbat.
Nel pomeriggio abbiamo visitato Skardu con le sue viuzze caotiche che ci hanno fatto entrare in contatto con una versione più autentica del Pakistan rispetto a quella che abbiamo conosciuto nella capitale. L'atmosfera è molto più rilassata e gli stranieri possono tranquillamente aggirarsi per i bazar senza essere fermati dai locali per selfie e/o curiosità come ci è capitato ad Islamabad. Il secondo giorno invece l’ho passato a letto come prima vittima del mal di pancia che poi a rotazione ha colpito più o meno tutti i componenti del gruppo. La dieta pakistana l’ho trovata buona e varia, ma chiaramente i batteri e le abitudini alimentari sono diversi. Di conseguenza, i problemi digestivi sono dietro l’angolo e ci hanno reso complicate alcune giornate.
Ancora frastornato dal malessere il giorno successivo ho affrontato il viaggio in jeep verso Askole, punto di partenza del nostro trekking. Si tratta di un viaggio di circa sette/otto ore, da compiersi su strade sterrate poco più larghe dei mezzi, a picco su fiumi in piena (in successione, l'Indo, lo Shigar e il Braldu), ponti sospesi e guadi che non promettevano nulla di buono. In due punti la strada risultava pure interrotta e abbiamo dovuto aggirarli a piedi con conseguenti cambi di jeep già strategicamente posizionate per collegare i diversi punti.
Arrivati ad Askole ci siamo accampati presso una sorta di campeggio in attesa della partenza vera e propria del trekking partenza che abbiamo dovuto rinviare in quanto la data prevista coincideva con una giornata di lutto religioso. Bandiere nere, muezzin operativi a tutte le ore del giorno, reti telefoniche staccate per motivi di sicurezza e portatori che non si sono presentati alla partenza non ci hanno lasciato scelta.
Ci siamo messi il cuore in pace e, armati di pazienza, abbiamo trascorso un giorno di riposo ad Askole, passeggiando in lungo e in largo nel paesino entrando in contatto con la vita quotidiana del Pakistan rurale … Un
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villaggio povero di circa 600 abitanti in cui i servizi sono limitati al minimo essenziale. Un vero e proprio tuffo nel passato!
Finalmente il gran giorno della partenza è arrivato e ormai smaniosi di camminare ci siamo avviati lungo la strada per entrare nel parco nazionale del Karakoram centrale. Il trekking in sé è lungo circa 170 chilometri e prevede la risalita del ghiacciaio del Baltoro fino a Concordia, alla confluenza con ghiacciaio del Godwin-Austen, la visita dei campi base del Broad Peak e del K2 con il rientro a Concordia, la deviazione verso il ghiacciaio del Vigne, il superamento del Gondogoro La (punto cruciale e più alto dell’itinerario) e la discesa nella valle di Hushe, il punto finale. Il tempo di percorrenza è di circa 15 giorni, variabili in base alle condizioni meteo, le quali giocano un ruolo fondamentale, vista la quota piuttosto elevata. Le tappe del nostro itinerario sono riportate nella tabella riepilogativa che segue.
DATA TAPPA
9/8 Giorno 1: Askole (giornata di lutto religioso)
10/8 Giorno 2: Askole - Joula
11/8 Giorno 3: Joula - Paju
12/8 Giorno 4: Paju - Khoburste
13/8 Giorno 5: Khoburste - Goro I
14/8 Giorno 6: Goro I - Concordia
15/8 Giorno 7: Concordia - Campo Base K2
16/8 Giorno 8: Concordia (giornata di pioggia)
17/8 Giorno 9: Concordia (giornata di pioggia)
18/8 Giorno 10: Concordia - Ali Camp
19/8 Giorno 11: Ali Camp
20/8 Giorno 12: Ali Camp - Kushpang
21/8 Giorno 13: Kushpang - Saicho
22/8 Giorno 14: Saicho - Hushe
Le prime tappe sono quelle che hanno maggior sviluppo (fino a 20 chilometri al giorno). Si tratta di un lungo falsopiano su terreno sassoso e morenico con caldo a volte insopportabile in cui l’attraversamento di guadi minacciosi (affrontati a piedi nudi o con mezzi di fortuna come improbabili cesti di legno attivati con sistemi a carrucole) spezza la monotonia.
La svolta arriva dopo qualche giorno con l’approssimarsi al campo di Urdukas, che ripaga ampiamente l’attesa con una vista meravigliosa sulle Torri di Trango, le Cattedrali del Baltoro e il Paju Peak. Da qui in poi si risale (sempre in falsopiano) il ghiacciaio del Baltoro, anche se il passaggio vero e proprio avviene sul terreno detritico che lo ricopre. La massa del ghiacciaio è molto frastagliata, ricca di corrugamenti, con crepacci, laghi e torrenti superficiali, le cui condizioni cambiano di giorno in giorno.
La vista sulle montagne che lo circondano diventa idilliaca. Ci godiamo infatti la vista delle cime del Masherbrum e del Mustagh Tower, mentre sullo sfondo di fronte a noi si fa sempre più imponente la figura del Gasherbrum IV, quello di Bonatti e Mauri per intenderci.
In una giornata di sole splendida arriviamo finalmente a Concordia, dove si apre un panorama a 360° sulle vette del Karakorum: a destra abbiamo il Chogolisa e il Mitre Peak, mentre di fronte abbiamo il gruppo dei
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Gasherbrum (con il Gasherbrum IV in primo piano). Più a sinistra vediamo il Broad Peak e scorgiamo sua maestà, il K2. La vista è semplicemente meravigliosa e ci lascia senza fiato. Alcune delle montagne più alte del mondo e teatro di imprese alpinistiche che normalmente si leggono sui libri sono lì davanti a noi. La sera all’improvviso la nostra guida locale ci convoca nella loro tenda: con mio grande piacere ho la fortuna di poter conoscere Sajid Ali Sadpara, giovane alpinista pakistano (figlio di Muhammad Ali Sadpara), appena rientrato da un concatenamento tra Gasherbrum I e II senza ossigeno.
In vista di un cambio del meteo nei giorni successivi, senza esitazioni il mattino successivo ci dirigiamo verso il campo base del K2. Lasciato il ghiacciaio del Baltoro si percorre per un tratto il GodwinAusten e, superato il campo base del Broad Peak, raggiungiamo quello del K2 e visitiamo il memorial. Un luogo mistico con cumuli di pietre, incisioni, targhe metalliche e piatti di latta, ciascuno dei quali riporta il nome di uno o più alpinisti morti sulla montagna. Lasciato il campo base del K2, con una lunga ed estenuante marcia facciamo ritorno al campo allestito a Concordia, arrivando al tramonto sotto una leggera pioggia.
Il tempo si è effettivamente guastato e ci costringe a rimanere fermi a Concordia per i due giorni successivi sotto una pioggia incessante. Qui ci vengono in soccorso carte, dadi e libri che ci siamo portati dall’Italia per ammazzare il tempo.
Al terzo giorno, la situazione meteo migliora leggermente e, aggirato il Mitre Peak, risaliamo il ghiacciaio del Vigne fino a raggiungere l’Ali Camp. Qui recuperiamo (per quanto possibile) le forze e la sera del giorno successivo partiamo alle dieci con le lampade frontali per affrontare il Gondogoro La, scortati da due guide del Rescue Team che guidano il gruppo. Dopo aver superato un tratto di morena, attraversiamo il ghiacciaio e arriviamo alla base del passo. Iniziamo a distinguere i caratteristici seracchi e le corde fisse che proteggono la salita. A parte la quota, la salita si rivela essere relativamente facile da un punto di vista tecnico e arriviamo al passo verso le
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quattro del mattino. La parte più insidiosa però è la discesa. Il primo tratto è ripido, franoso e in parte pure ghiacciato. Fortunatamente anche questo tratto è stato attrezzato con corde fisse che agevolano il passaggio. Cerchiamo quindi di affrettare il passo e metterci al riparo dalle scariche. Dopo la prima parte il percorso diventa più facile e finalmente dopo circa dodici ore di cammino siamo al campo di Kushpang.
Negli ultimi giorni attraversiamo la valle di Hushe, con splendidi scorci sul Laila Peak e sul Masherbrum nella parte alta, tra infinite morene, fino alle incredibili fioriture multicolori, gli immancabili cespugli di rosa canina e gli ampi pascoli coltivati che preannunciano il ritorno nella civiltà nei pressi del villaggio di Hushe. Qui ci aspettano un meritato ristoro e le jeep che nel pomeriggio ci riportano a Skardu.
Dopo un preziosissimo giorno di riposo a Skardu, ci avviamo verso il rientro ad Islamabad, questa volta via terra. La prima notte facciamo tappa a Chilas, un anonimo villaggio nei pressi del Nanga Parbat. Anziché proseguire direttamente verso Islamabad, il giorno successivo però si decide di procedere verso Naran, una cittadina che dovrebbe essere di interesse turistico. La scelta non è purtroppo delle migliori in quanto lungo il percorso ci imbattiamo nel monsone che porta con sé piogge incessanti e conseguenti frane. Pochi chilometri prima di Naran di fatto rimaniamo bloccati e passiamo la notte in pullmino anziché in albergo in attesa che alcune ruspe liberino la strada dall’ennesima frana. All’alba per fortuna la strada viene liberata e possiamo procedere con nostro respiro di sollievo. Dopo la notte insonne, dribbliamo altre frane e finalmente ci lasciamo alle spalle le montagne, facciamo un minimo di colazione e arriviamo sani e salvi ad Islamabad a metà pomeriggio. Ci riposiamo alcune ore, usciamo a cena in un ristorante alla moda sulle colline che circondano la città e ci avviamo verso l’aeroporto per rientrare in Italia.
Questo trekking è sicuramente di grande soddisfazione per chi lo affronta, soprattutto per la possibilità di vedere con i propri occhi montagne leggendarie che hanno segnato la storia dell’alpinismo. Meno interessante è
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invece il percorso in sé. La prima parte è abbastanza monotona e condizionata dal caldo. Occorre armarsi di tanta pazienza e di spirito di adattamento. Le differenze culturali possono risultare talvolta snervanti. Usi e costumi sono diversi. I ritmi sono lenti, c’è una mentalità fatalista e in Pakistan è prassi dare una mancia per qualunque cosa. Bisogna pertanto informarsi con l'organizzazione locale sulle entità delle mance per evitare incomprensioni. A livello fisico, il trekking è impegnativo. Non tanto per le difficoltà tecniche, ma piuttosto per la necessità dell’organismo di adattarsi. Oltre alle difficoltà legate alla quota, vanno infatti tenuti in considerazione i potenziali malanni fisici, tra i quali i problemi digestivi e il clima secco che può essere causa di raffreddore e mal di gola. Serve quindi una buona preparazione fisica e va presa in considerazione la possibilità di aggiungere giorni di riposo al fine di migliorare l'acclimatamento ed avere eventuali giorni di recupero.
Rimane però un’avventura indimenticabile che vale la pena di essere vissuta!
Dunque … allenatevi e rispolverate i passaporti!
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Facoltà oscura di Vincenzo Marino
Racconto vincitore 2022 della selezione nazionale della collana Corali, IVVI Editore, distribuita da Messaggerie Libri S.p.A.
Vi sono momentini minuscolini di felicità e sono quelli durante i quali si dimenticano le cose brutte. La felicità è fatta di attimi di dimenticanza. [#antoniodecurtis]
La voce che sentite non è quella con cui parlo ma quella con cui penso. Io non parlo da quando avevo dieci anni.
Nessuno è mai riuscito a sapere perché, nemmeno io.
I medici pensavano si trattasse di una malattia localizzata alle corde vocali, mio padre invece era convinto si trattasse di una facoltà oscura, e che quello in cui mi sarei messo in testa di non respirare più sarebbe stato il mio ultimo giorno.
Mi chiamo Jonas, sono nato a Verrès, un piccolo paesino ai piedi del monte Rosa nelle Alpi Pennine, figlio unico di genitori borghesi. Essere figli unici agli inizi del XX secolo era piuttosto raro ma fu proprio questo a salvarmi la vita nei tormentati primi cinquanta anni del secolo; non solo, mi permise di poter studiare e assecondare la mia vera passione: la montagna.
Quel sabato 6 luglio 1935 fu una giornata speciale. Oltre ad essere stato il mio trentesimo compleanno fu anche la data del mio primo contratto come guida alpina.
Una guida alpina muta?
Perché no?
È stata proprio questa mia facoltà oscura ad avvicinarmi ai silenzi delle vette. Loro non hanno mai avuto bisogno di ascoltare la mia voce, ma solo i miei pensieri e io, stanco di ascoltare sempre le altrui voci e mai la mia, decisi di dedicarmi all'arte di ascoltare il silenzio e di farne parte per il resto della mia vita.
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Certo qualche difficoltà ci fu, dovetti imparare il linguaggio dei segni, non solo nella mia lingua ma anche in francese e tedesco poiché non esiste una lingua dei segni universale.
L'alpinismo lo è, e in questo sono stato facilitato. Chi va per monti, dalla Cina all'America, usa sempre lo stesso linguaggio.
Ho deciso di raccontarvi una storia, anzi di scriverla. Ciascuno di noi, quando pensa, pensa con la propria voce, la conosce, la riconosce. Io no. Non so che voce io abbia, ma è l’unico modo che conosco per parlare e per ascoltare le mie stesse mute parole.
Il Grande e il Piccolo Pianoro
Appena dentro la grande vallata, là dove i suoi fianchi montuosi
incominciano a superare i 2.000 metri di quota, si trova, sulla sinistra, una valle secondaria, poco conosciuta, poco frequentata. Vi si accede attraverso un sentiero di montagna, stretto, ripido e con molti tornanti. Il sentiero supera un salto di parecchie centinaia di metri e si snoda in una fitta abetaia tormentata da rocce affioranti. Superato questo tratto iniziale aspro e selvaggio, si approda a un Grande Pianoro.
Al suo inizio sorge l'unico paesino della valle. Le tipiche case, una ventina in tutto, in sasso e legno, sono raggruppate le une vicine alle altre, quasi a difesa dalle insidie della montagna. Il pianoro è solcato da un torrente dalle acque limpide che, dopo aver lambito il paese, precipita a valle impetuoso e spumeggiante. Al termine del Grande Pianoro un salto, dà accesso al Piccolo Pianoro. Su questo sorge un modesto rifugio, ma con tanto d'ingresso invernale sempre aperto. Il rifugio è un'ottima base di partenza per le numerose cime che fanno corona al Piccolo Pianoro. Ed è qui che il 6 luglio 1935, presi contatto con Yvonne e suo marito Aloïs, una coppia di alpinisti francesi, in vacanza in Italia, in cerca di emozioni.
Mi chiesero di condurli sulla Quota 4.106, una cima posta lungo il confine italo - elvetico e al disopra della testata settentrionale dell'alta val d'Ayas. E’ il più orientale dei due slanciati corni rocciosi che compongono i Breithorn
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Orientali o Breithornzwillinge. Si trova a un paio di km in linea d'aria dal Breithorn Occidentale e a soli 450 metri dalla vetta della vicina Roccia Nera da dove parte la traversata dei Breithorn che permette di toccare in mezza giornata cinque cime sopra i 4.000 metri, con tratti non difficili di misto con passaggi di III.
Aloïs, quaranta anni, medico affermato a Chassieu - vicino a Lione. Fisico imponente, di estrazione contadina, buono d'animo, di una pignoleria maniacale. La moglie Yvonne, conosciuta fin dalla giovanissima età, l’ha sempre accompagnato nelle sue scorribande sulle Alpi, ma non per dovere coniugale, bensì per genuina passione. Una coppia affiatata nella vita e nel tempo libero.
Rimanemmo in rifugio tutta la mattinata per discutere i termini del contratto e stabilire una data per la salita. Avremmo trovato condizioni glaciali, viste le quote, per cui decidemmo, di comune accordo, di tentare la scalata la prima settimana di agosto, alla fine delle loro vacanze, per essere certi di incontrare le migliori condizioni meteo della stagione. Così, sabato 3 agosto, ci ritrovammo al Rifugio del Pianoro per gli ultimi preparativi e per coordinarci in vista della salita da portare a termine il giorno seguente, domenica 4.
Dolcevita di lana azzurra e giacca grigia con pantaloni alla zuava di panno pesante, per lui; dolcevita rosso, giacca nera tipo Spencer e gonna lunga nera con risvolti nero lucido per Yvonne. Io, il solito maglione rattoppato con classici pantaloni alla zuava. Ma con il denaro del contratto sarei finalmente riuscito a comprare uno di quei nuovi fiammanti maglioni inglesi che tanto andavano di moda quegli anni sulle Alpi.
Lasciammo il rifugio e risalimmo la soprastante rampa crepacciata verso la parete occidentale del Castore, fino ai piedi della cresta meridionale del Polluce, a circa 3.800 metri di quota. Risalimmo uno scivolo sdrucciolevole, arrivando a un tratto di roccette; pochi metri più sopra, oltre un terrazzino
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Yvonne e Aloïs
naturale di roccia liscia e neve, inizia la vasta rampa nevosa che culmina sulla cresta sommitale della Roccia Nera o Schwarzrüken. Inizialmente meno ripida, essa acquista subito maggior pendenza, toccando e mantenendo per circa 200 metri di dislivello una pendenza notevole che a tratti sfiora i 45°.
Dalla Roccia Nera, la salita alla Quota 4 106 fu veloce e relativamente semplice, e ci richiese meno di un'ora. Percorremmo la cresta nevosa alle spalle della Roccia Nera, restando lontani dal dorso superiore delle eleganti ed esposte cornici sommitali, verso nord-nordovest, puntando le evidenti rocce rossastre della Quota 4.106. Qui la traccia sembra puntare a una diretta risalita delle rocce, scendendo invece repentinamente al disotto di un liscio sperone, che nasconde un ristretto canalino nevoso, dove è molto facile incontrare del ghiaccio vivo. Il canalino, seppur bordato a destra e sinistra da ampie rocce scure, salde e ricche di appigli per le mani, è relativamente ripido e soprattutto molto esposto sul lato destro di chi sale, verso meridione. Superato il canalino, al cui culmine si trova una roccetta piana utile per assicurare la corda durante la discesa, voltammo a sinistra mettendo piede sulle rocce della Quota.
Entusiasmante il panorama offerto in ogni direzione dalla Quota 4 106, sia verso la concatenazione di neve e roccia dei Gemelli e del Breithorn Centrale che verso sud, ove si apre l'intera val d’Ayas, e verso nord, sullo Schwärzegletscher e sul Gornergletscher, mentre più ad oriente si ammirano dapprima le cornici sommitali della Roccia Nera e quindi il Monte Polluce, il Castore, il massiccio del Monte Rosa.
La salita andò bene e sulla via del ritorno ci fermammo per la notte al Rifugio del Piccolo Pianoro. Aloïs era sfinito, si sentiva molto stanco. Appena ci sistemammo all’interno, cadde profondamente addormentato, mentre Yvonne ed io rimanemmo ancora un po’ svegli a “chiacchierare”. Le insegnai alcune frasi del linguaggio dei segni e sembrava molto divertita del fatto che si potesse comunicare restando in silenzio. Ma soprattutto era sorpresa dal fatto che per comunicare in questo modo, bisognava guardarsi negli occhi e concentrarsi su quanto l'altro aveva da dire, cosa che non sempre accade tra persone dotate di parola.
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L'unico rumore era il crepitio dei ciocchi di legno nel caminetto e le folate di vento che spazzavano il ghiacciaio.
La mattina dopo, però, quando ci risvegliammo, non trovammo Aloïs che, quando era troppo stanco o cambiava il tempo soffriva di sonnambulismo.
La notte aveva nevicato e Yvonne era profondamente preoccupata per il marito, così uscimmo insieme per cercarlo. Girammo per ore tutto intorno al rifugio, ma la neve fresca aveva cancellato tutte le tracce, non riuscivamo a capire da che parte si fosse diretto. Il giovane medico alpinista francese era scomparso. Yvonne volle continuare a cercarlo per un'intera settimana, ma poi dovette darsi per vinta e tornò in patria promettendo che l’estate successiva sarebbe ritornata. Voleva ritrovarne almeno il corpo, ma l’estate del 1936 però, trascorse senza alcun successo. Continuammo invano per altre due estati a cercare il corpo di Aloïs, presi poi da altri pensieri, problemi, la guerra, un po’ alla volta dimenticai la promessa fatta a Yvonne né lei si fece più vedere a Verrès.
Nonostante le vicende belliche, che risparmiarono le nostre vallate, la mia attività di guida continuò con successo, spaziando su quasi tutto il settore svizzero dell'arco alpino nord-occidentale e riuscivo anche a mantenere economicamente la mia famiglia, dispiaciuta e preoccupata nel non vedermi per intere settimane ma ben felice della valuta pregiata che entrava regolarmente a casa.
L'inverno del 1945/46 fu molto rigido e cadde tanta di quella neve da rendere impraticabili vie e tracce fino a primavera inoltrata.
Domenica 25 maggio 1946 eravamo, tutte le guide alpine della val d'Ayas, al capezzale del Rifugio del Pianoro, nostro storico punto d'appoggio e d'incontro. Una valanga lo aveva spazzato via come fosse di carta, lasciando in piedi solo un inservibile perimetro di grigie pietre spoglie.
Iniziammo lentamente a rimuovere le travi abbattute, a recuperare gli oggetti che nel corso di tanti anni avevamo portato su, o almeno di quelli ancora
riconoscibili: piatti, posate, un crocefisso, foto della Guerra, un busto del
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Duce. Piano piano riuscimmo a sgomberare l'ambiente principale del rifugio, ma più ci lavoravamo su, più ci rendevamo conto dell'inutilità del lavoro. Il rifugio del Piccolo Pianoro non esisteva più.
Mi guardai intorno, cercando di incrociare lo sguardo della montagna che aveva fatto tutto questo, per chiederle: perché? Anche tu ti ci metti a distruggere?
Un centinaio di metri più a ovest della mia posizione vidi una sagoma accovacciata, immobile nella neve. Presi il binocolo e riconobbi Yvonne. Cominciai a sbracciarmi cercando di attirare la sua attenzione, quanto avrei voluto avere ora una "voce", una voce qualsiasi!
Cosa ci faceva là?
Lei si accorse della mia presenza, si alzò a fatica, mi riconobbe, mi salutò, mi sorrise e, muovendo ritmicamente il braccio sinistro, m’indicò un crepaccio molto più a monte. Corremmo in quel punto, io e le altre guide, ma non avendo a disposizione alcuna corda per calarci cercammo di richiamare l'attenzione di Yvonne
Yvonne non c’era più. Scomparsa.
Convinto di dover fare qualcosa, il giorno dopo, il 26 maggio, tornai con altre persone e mi feci calare nel crepaccio, dove trovai quel che rimaneva del corpo senza vita di Aloïs.
Scrissi immediatamente al parroco di Chassieu, spiegando l'accaduto e pregandolo di mettersi in contatto con Yvonne, la moglie di Aloïs, per avvisarla del ritrovamento e per chiedere spiegazioni, ma ebbi una risposta sbalorditiva, Yvonne era morta per leucemia. Era deceduta il 4 maggio, dopo una lunga malattia, tre settimane prima che io e le altre guide la vedessimo nei pressi del crepaccio ad indicarci il luogo dove il suo compagno aveva perso la vita nell'estate di undici anni prima.
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Anni ‘80
La vita ti disillude perché tu smetta di vivere di illusioni e veda la realtà. La vita ti distrugge tutto ciò che è superfluo, fino a che rimanga solo ciò che è importante. La vita non ti lascia in pace, affinché tu smetta di combatterla e accetti ciò che è. La vita ti toglie ciò che hai, fino a che non smetti di lamentarti e inizi a ringraziare. La vita ti manda persone conflittuali affinché tu guarisca e smetta di proiettare fuori ciò che hai dentro.
La vita lascia che tu cada una e un'altra volta fino a che ti decidi ad imparare la lezione. La vita ti porta fuori strada e ti presenta incroci fino a che non smetti di volerla controllare e fluisci come un fiume. La vita ti pone nemici sul cammino fino a che non smetti di "reagire". La vita ti spaventa tutte le volte necessarie a perdere la paura e riacquistare la fede.
La vita ti toglie il vero amore, non te lo concede né te lo permette, fino a che non smetti di volerlo comprare con fronzoli.
La vita ti allontana dalle persone che ami fino a che non comprendi che non siamo questo corpo ma l'anima che lo contiene. La vita ride di te molte volte, fino a che non smetti di prenderti tanto sul serio e impari a ridere di te stesso. La vita ti frantuma in tanti pezzi quanti sono necessari affinché da lì penetri la luce.
La vita non ti da ciò che vuoi, ma ciò di cui hai bisogno per evolvere. La vita ti fa male, ti ferisce, ti tormenta, fino a quando non lasci andare i tuoi capricci e godi del respirare. La vita ti chiede, ti toglie, ti taglia, ti spezza, ti delude, ti rompe fino a che in te rimanga solo amore.
Pensieri, dialoghi silenziosi e parole mute che io solo posso ascoltare. Essere muti ti facilita il rapporto con te stesso, alla fine nessuno ha torto e nessuno ha ragione.
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"Nonno Jonas, è incredibile come riuscivate a salire con quest'attrezzatura!".
È mio nipote Lukas che parla... approfittando del fatto che io non posso rispondere a tono. È venuto in vacanza a Verrès con un amico di Aosta, Sergio, anche lui alpinista o, come amano definirsi, free climbers secondo questa nuova moda americana. Amanti della fisicità, della forza, dell'allenamento in palestra ma meno propensi alla ricerca dell'anima di una via d'arrampicata.
"Sergio, guarda questo manuale d’alpinismo, stampato nell’ottobre del 1944, e messo in vendita dopo la guerra”.
"Ci voleva del coraggio per occuparsi di un manuale negli ultimi anni di guerra."
"Ci voleva del coraggio per affrontare una salita in queste condizioni".
Il manuale, redatto dai migliori alpinisti dell’epoca, tratta la tecnica alpinistica in uso a partire, approssimativamente, dal 1930, tecnica che è rimasta valida fino al 1960. Un arco quindi di trent'anni nel corso dei qualifaccio notare ai miei interlocutori - sono stati risolti i più importanti problemi delle Alpi.
"Guarda qua Lukas, con che razza di tecniche e con che mezzi, hanno arrampicato nel passato."
"Fa paura pensare a tutti quelli che in quegli anni hanno affidato la loro vita a mezzi che offrono una sicurezza del tutto aleatoria, più morale che effettiva. Ma quello che fa veramente impressione è il riscontrare che con quei mezzi, gli alpinisti di allora, hanno affrontato salite che ancora adesso sono considerate di difficoltà estrema."
Ai nostri occhi - spiego a gesti - quegli alpinisti appaiono come dei temerari o addirittura degli irresponsabili. Ma non è così: erano solo degli arrampicatori che ambivano a conquistare determinate mete e che usavano il migliore materiale a disposizione in quel periodo. Attrezzi più avanzati, più perfezionati in quel momento, non erano neanche ipotizzabili.
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"Aspe’ aspe’, fammi leggere: il manuale consiglia la corda di canapa italiana a filamento lungo con trefoli ritorti, diametro 12 mm. La raccomandazione, prima di usare la corda, è di avviarla su salite facili, oppure di bagnarla in acqua tiepida con l’aggiunta di sapone e di farla quindi asciugare all’ombra. In questo modo si aumenta la flessibilità della corda che da nuova ha la tendenza a formare anelli e ad attorcigliarsi. La corda di canapa è molto rigida e come tale si spacca a seguito di un violento strappo."
"Erano corde statiche, le corde elastiche erano considerate molto pericolose perché l’elasticità diminuisce il loro diametro e quindi la loro resistenza, concetto completamento rivisto e ribaltato oggi."
"Un altro difetto della corda di canapa è di diventare rigida, al punto da non essere più servibile, quando, nelle salite miste, a contatto con la neve assorbe acqua. In questo tipo di salite è consigliata la corda di Manila da 14 mm che si mantiene flessibile anche se bagnata."
"Ma dai! Guarda qua come si legavano!"
"Spaventoso! Il nodo semplice delle guide, o al massimo il nodo doppio. Il bolina con bretella è meglio, ma io non so nemmeno come si fa. L’imbraco, anche quello costruito con i cordini, è del tutto sconosciuto. Una semplice mandata di corda che gira attorno alla vita è l’unico legame dell’alpinista alla corda stessa. In quelle condizioni uno strappo di una certa portata deve avere conseguenze terribili sul corpo dell’alpinista."
"I principi fondamentali dell’arrampicata però sono gli stessi. L’impostazione del corpo, la scelta degli appigli, la salita alla Dülfer, la salita in camino, sono gli stessi di adesso."
"Si, la tecnica è la stessa, ma la sicurezza lascia molto a desiderare. Guarda questi disegni per la prevenzione delle cadute: sicurezze a spalla, sulla coscia, o con la corda che sfila semplicemente nel moschettone, agganciato a un chiodo, tenuta a mano dall’alpinista. In queste condizioni non si riesce proprio a capire come sia possibile trattenere l’eventuale volo del compagno di cordata."
"Già, così la corda invece di essere uno strumento di sicurezza diventa uno strumento di morte."
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"La tecnica dell’arrampicata su ghiaccio, l’uso della piccozza, il gradinamento, l’uso dei ramponi è sostanzialmente eguale a quella praticata attualmente."
Lasciai Lukas e Sergio a divertirsi nel leggere quel vecchio manuale d'alpinismo e andai a prendere i miei vecchi scarponi d'alpinismo per mostrarglieli. Un paio di originali chiodati...
Il manuale inneggia all’introduzione della suola con chiodi di gomma (Vibram) che risolve il problema del tipo unico di calzatura adatto a tutti i tipi di terreno. Infatti, prima della Vibram abili fabbri fucinano a mano i chiodi che calzolai, altrettanto abili, fissano alla suola di cuoio degli scarponi. Ma i chiodi di ferro non tengono su roccia. Da qui la necessità per gli arrampicatori di sostituire gli scarponi con le pedule, più adatte all’arrampicata, e di portarsi il pesante fardello degli scarponi stessi nel sacco da montagna per tutta la salita. Il vecchio scarpone chiodato passa quindi, come dice il manuale, dai favori universali agli onori del museo.
Adesso invece succede la stessa cosa. L’unica differenza è che lo scarpone Vibram si salva dagli “onori del museo” perché è ancora utilizzato sulle salite miste e in escursionismo. Nelle arrampicate di pura roccia è ormai generalizzato l’uso della scarpetta d’arrampicata: leggera, flessibile, consente con la sua aderenza di sfruttare anche le più piccole asperità. Passaggi che con lo scarpone sono impegnativi diventano, come per incanto, più agevoli con la scarpetta.
"Nonno, domani partiremo per il rifugio Mezzalama, vogliamo tentare una nuova salita sul Breithorn."
Bene, mi piacerebbe accompagnarvi ma ... a ottant'anni è meglio se rimango a valle - spiegai loro a gesti.
"Potresti venire con noi in auto fino a St. Jacques, hai ancora molti amici da quelle parti" - Si entusiasmò Lukas.
"Nonno Jonas" - intervenne Sergio - "la sua presenza ci darebbe forza".
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Breithorn, parete nord
Insomma, accettai la gita a St. Jacques.
A dir la verità mi arresi subito senza lottare perché in cuor mio speravo me lo chiedessero e questa che segue è la trascrizione del racconto fattomi dai ragazzi al loro rientro.
Il tempo è brutto. Il cielo è uniformemente coperto da nuvole grigie: pioviggina. Le vette sono imbiancate. Non ci sono armenti sui pascoli. I due giovani alpinisti lasciano St. Jacques e prendono a salire in direzione dei pascoli alti. Sono curvi sotto il peso dei loro sacchi. Camminano col passo lento e cadenzato di chi ha pratica di montagna. Incuranti della pioggia, vanno su per il largo sentiero coperto da foglie ingiallite, madide d'acqua. Approdano ai pascoli alti.
Qui si fermano.
Improvvisamente davanti a loro appare la meta che si prefiggono di salire: una parete di roccia quasi verticale, tutta lastronata, di cinquecento metri di dislivello. Solo pochi dei più forti alpinisti della valle riuscirebbero a superarla. E' impressionante da vedere. Adesso è in condizioni impossibili: la neve intasa le fessure, i lisci lastroni sono ricoperti da vetrato. Non solo l'istinto del montanaro, ma anche il comune buon senso, consiglierebbe di desistere dal tentativo di salirla.
I due giovani alpinisti riprendono il sentiero.
Alla fine, là dove iniziano le prime morene e terminano i ghiacciai, raggiungono una baita abbandonata per passarvi la notte. E' buio ormai. Nell'interno della baita, alla luce incerta di una candela posta al centro di un tavolaccio, i due alpinisti consumano un pasto frugale. Sono in silenzio. Ognuno è immerso nei propri pensieri. I due sono assillati dal pensiero del difficile domani. Cinquecento metri di lastroni coperti da neve e da vetrato sono duri da superare: le incognite della salita sono gravi e pesanti. Nel fondo dell'animo qualche cosa dice di cercare una scusa accettabile, di fronte alla propria dignità, per rinunciare alla salita. Incertezze e dubbi si alternano col desiderio di riuscire in una grossa impresa, si accavallano con i problemi
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della vita in pianura. Entrambi sono diplomati da alcuni anni ma non trovano lavoro. Nessun tipo di lavoro. La società nella quale vivono e alla quale hanno il diritto di appartenere, li rifiuta sistematicamente: si sentono emarginati. I loro animi sono carichi di rabbia e di umiliazione. Per loro fare quella parete nelle attuali proibitive condizioni, significa finire sui giornali locali. Significa affermare la propria presenza, trovare una remora alle proprie frustrazioni.
Queste ultime considerazioni finiscono col prevalere, creando una forte volontà di riuscita.
Alle prime luci del nuovo giorno lasciano la baita che li ospita per la notte e prendono a salire la morena. Alla base della parete si fermano. Si legano in cordata, si sistemano i chiodi, i moschettoni, il martello a portata di mano.
Iniziano ad arrampicare.
I primi tiri di corda sono durissimi. Superato lo zoccolo iniziale, le cose vanno meglio, ma la salita è sempre molto difficile. La neve, il freddo e il vetrato rendono ogni manovra più onerosa. Piantare chiodi è incredibilmente faticoso, la loro tenuta è sempre aleatoria. La condizione di equilibrio è precaria, basata a volte più sulla fortuna che sull'abilità. Il dispendio di energia fisica è enorme. Nonostante questo i due giovani alpinisti, lastrone dopo lastrone, si innalzano fino alla parte terminale della parete. Qui fanno una breve sosta. Sulla loro sinistra i lastroni sono meno inclinati e più articolati: la via per la vetta, ormai vicina, è più agevole. Si spostano tutto a sinistra in piena esposizione. Provano la meravigliosa sensazione di avercela fatta, si sentono euforici. Vogliono sfogare la loro forza di dominatori fino all'ultimo, fino alla cima. Così tirano su diritto. Ma qui il difficile è fare i conti con le proprie energie residue. Lukas sente le dita, intirizzite dal contatto con la neve, allentarsi sugli appigli. Nel tentativo di mantenersi in equilibrio inarca il corpo per esercitare una maggiore pressione con i piedi. Le dita si rilassano e mollano l'appiglio.
Cade nel vuoto.
La corda schiocca in una tremenda frustata, i chiodi della sosta cedono di schianto e anche Sergio è trascinato nella caduta. Il vento del volo nel vuoto
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sibila nelle orecchie, mozza il fiato in gola. Sacco da montagna, berretto, giacca a vento, scarponi, vengono strappati violentemente da dosso dal vento della caduta. La sensazione della tragedia ineluttabile attanaglia l'animo: un urlo disperato lacera il silenzio. Poi, dopo un centinaio di metri di caduta libera, il tonfo violento su un cumulo di neve fortemente inclinato.
La caduta è attutita, ma i due ragazzi, sotto shock, iniziano una velocissima discesa fuori controllo lungo lo scivolo di neve fresca e si fermano solo grazie all'azzeramento della pendenza. Una discesa di centinaia di metri velocissima. I corpi dei due giovani alpinisti giacciono sul nevaio sottostante. Svenuti, senza zaini né giacche, ancora legati da una corda che ha retto l'urto ma non è servita a frenare una caduta i cui effetti finali hanno del miracoloso.
Passano ore. È pomeriggio inoltrato. Sergio è il primo a riprendere conoscenza. Ancora sotto shock chiama Lucas. Entrambi sono un po' ammaccati ma vivi.
Il tempo è brutto: il cielo è coperto, banchi di nebbie ristagnano sui fianchi della montagna. Sergio va avanti a battere una pista nella neve, abbastanza rapidamente si portano verso la fine di un vasto pianoro. E' in questo punto che incontrano due sciatori: sono fermi sugli sci uno a fianco dell'altro, sono francesi, ma parlano discretamente l'italiano, dicono di essere marito e moglie e di venire da un rifugio non molto lontano. S’informano sulle loro condizioni fisiche, dopodiché consigliano loro di dirigersi verso quel ricovero, il rifugio del Piccolo Pianoro, un centinaio di metri più a monte: l'illuminazione è a gas, il riscaldamento è a stufa con abbondante riserva di legna, esiste anche una discreta scorta di viveri in scatola. Raccomandano loro di passare dal custode del rifugio, che abita giù nel paese, a pagare quanto avrebbero consumato. Indicano poi a Sergio e a Lukas la via da seguire: "Al termine del Grande Pianoro scendete nel torrente. Attraversatelo su un ponte di pietra. Rimontate una rampata di neve e rocce fino ad approdare al Piccolo Pianoro. A questo punto il rifugio è visibile, basta andare nella sua direzione per raggiungerlo. Inoltre, per non avere problemi, vi è sufficiente seguire le tracce degli sci che abbiamo lasciato."
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Sergio e Lukas ringraziano per la loro cortesia, e si salutano reciprocamente augurandosi una buona continuazione della gita. Quindi seguono le indicazioni della coppietta francese, scendono nel torrente, trovano il ponte in muratura, ma non vedono nessuna traccia di sci. Attraversano il torrente e rimontano la rampa dalla parte opposta, ma anche qui non ci sono tracce di sci. Il tempo sta peggiorando: una densa nebbia cala sulla montagna fino ad avvolgerla completamente.
La nebbia fitta uniformandosi col candore della neve riduce la visibilità a pochi metri. Hanno ormai l'impressione di essere immersi in un mondo senza dimensioni. Si accorgono di essere sul Piccolo Pianoro perché stanno viaggiando in piano.
Consultano la cartina, altimetro alla mano, riprendono la marcia.
L'incipiente oscurità riduce ancora di più la visibilità. Continuano a procedere, ma hanno ormai perso il senso del tempo e della direzione. Non trovano le piste dei francesi: questo fa sorgere loro il dubbio di aver commesso un grossolano errore di orientamento. Dalla consultazione della carta si accorgono di aver superato la posizione del rifugio.
Ritornano indietro.
Quando raggiungono la zona, Lukas, quasi scomparso nel buio e nella nebbia, chiama Sergio. Davanti a loro una massa scura. Sicuramente è il rifugio: infine lo trovano. Come si avvicinano si accorgono, con profonda delusione, che è un grosso masso erratico. Alla sua base osservano i resti di un muretto semi nascosto dalla neve. Sul suo lato destro un ingresso: è un tipico riparo costruito dai pastori. Varcano l'ingresso: trovano una nicchia asciutta e accogliente, ideale per un bivacco.
Per trovare il rifugio, iniziano una battuta attorno tenendosi in contatto alla voce. Le loro ricerche non hanno esito: è buio fatto, la nebbia è fitta, la visibilità è ridottissima. Decidono di passare la notte in quel riparo poiché scendere fino a St. Jacques in quelle condizioni, è quanto mai arduo. Nella rovinosa caduta hanno perso tutto l'equipaggiamento da bivacco ma riescono ad arrangiarsi con delle vecchie coperte che trovano nel riparo dei pastori.
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La mattina seguente il tempo non è cambiato: nebbia fitta. I due ragazzi s’incamminano all'alba e in poche ore mi raggiungono in paese, dove mi raccontano tutta la loro avventura così come io ora l'ho descritta.
Facoltà oscura
Seduto su una comoda poltrona, ascoltai le loro parole immedesimandomi nella loro terribile esperienza.
"Nonno, tu sai dov'è il rifugio dei francesi? Lo abbiamo cercato dappertutto lassù!"
Gesticolai di sì, aggiungendo che non esisteva più perché abbattuto da una valanga nell’inverno del ‘45/’46 e mai più ricostruito. Mentre una profonda agitazione iniziava a prendermi facendomi affiorare lontani ricordi di passate esperienze, chiesi loro di descrivermi i due francesi.
“Eravamo sotto shock, nonno Jonas, chissà cosa abbiamo capito!” - disse Sergio.
“Erano strani” – aggiunse Lukas – “Ho pensato che fossero appena usciti da una festa in maschera. Lei ha detto di chiamarsi … non mi ricordo …”
Mi alzai di scatto dalla poltrona e dalla mia bocca esplose violentemente dopo tanti anni una sola parola: “YVONNE” - dissi tutto di un fiato.
“Si! Yvonne” – disse Lukas – “E lui si chiamava Aloïs, adesso ricordo. E tu come lo sai?”.
“Ma nonno Jonas! Hai parlato!”.
Già, ho parlato – pensai – del resto … è una mia facoltà oscura. In silenzio mi avvicinai alla finestra, le nuvole basse e grigie stavano finalmente lasciando il passo ad ampi sprazzi di azzurro. Il sole illuminava le creste bianche degli ultimi cumuli che ancora adornavano le cime.
Ho sempre creduto a chi si pone domande, poche, tante, confuse, lineari, mirate, non importa. Ciò che conta e che se le facciano.
Farsi domande significa farsi degli scrupoli, avere dei crucci, tenere in considerazione qualcosa o qualcuno; domandarsi quanto si pecca di torto o di ragione. Farsi domande permette di tornare indietro, di darsi tempo per riprendere fiato, per ascoltarsi.
Perché chi si fa domande, ascolta.
Chi si fa domande, ci fa caso, bada, osserva, soppesa. Chi si fa domande cerca, inevitabilmente risposte, brutte o belle che siano.
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Le risposte portano sempre un cambiamento. Credo a chi non teme i cambiamenti, a chi non si rassegna, a chi non si accontenta, a chi crede nel lecito chiedere perché i silenzi, a lungo andare, spengono ogni cosa, anche le persone.
Guardai verso l’alto, come per cercare qualcuno, ma non c’era nessuno da cercare, non più 1
1 NdA - Questo racconto è una parziale opera di fantasia. I personaggi principali sono inventati, reale è invece la leggenda della coppia di coniugi francesi che nell'alta Val d'Ayas, continua da più di un secolo, a divertirsi sciando per i crinali e le vallate della zona. La leggenda mi è stata raccontata da diversi valligiani della Val d'Ayas, con alcune impercettibili differenze che non ne intaccano però il forte senso poetico.
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Un’escursione in pianura – Da Virgilio a Verdi di Vincenzo Marino
“Lo scender ne l’Averno è cosa agevole ché notte e dì ne sta l’entrata aperta; ma tornar poscia a riveder le stelle, qui la fatica e qui l’opra consiste.”
[Publio Virgilio Marone]
Perché Mantova è unica
Mantova vanta alcune unicità ed è stata scenario di storie che la rendono straordinaria e differente da tutte le altre città d’arte. Storie e unicità relative all’arte, al paesaggio, al buon mangiare e ai personaggi che vi sono nati o che a Mantova hanno realizzato opere memorabili.
Dai Laghi di Mezzo, Inferiore e Superiore che il fiume Mincio crea in prossimità della città, basta seguire il richiamo delle cupole di Palazzo Ducale per entrare in città.
E' un mondo fuori dal tempo. A disegnarlo sono stati i Gonzaga, insieme ai più grandi artisti del tempo. Palazzo Te, appena fuori porta, è la villa di svago firmata dal grande architetto Giulio Romano. Al pittore Andrea Mantegna, Ludovico II affidò, invece, nel grandioso complesso
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di Palazzo Ducale, un affresco che doveva celebrare la sua dinastia. La Camera degli Sposi venne svelata dopo nove anni di lavoro. Da solo, questo capolavoro rinascimentale varrebbe il viaggio a Mantova.
Avrebbe dovuto essere una trasferta da programmare per il Festivaletteratura di settembre, con centinaia di reading in cartellone tra piazze, teatri e palazzi, ma la voglia di visitare la "città perfetta" è stata troppo forte. Così alla prima occasione mi sono regalato questa perla rinascimentale.
Il viaggio può essere ulteriormente arricchito effettuandolo in bicicletta. Si può arrivare dalla ciclabile Peschiera – Mantova, una delle prime in Italia, un evergreen che piace sempre. La pista scorre sulle anse sinuose del Mincio, tra colline moreniche, boschi, borghi incantati e zone umide, in un paesaggio che ispira serenità.
Il poco tempo a disposizione ci ha suggerito però di utilizzare la cara vecchia automobile. Chissà, in un prossimo viaggio mantova2.0, ci starebbe bene anche una super escursione in mtb.
Diamo un po’ di numeri
1. Mantova è la città delle “Quattro Stagioni” di Vivaldi! Proprio così, Vivaldi scrisse le Quattro Stagioni a Mantova, ispirato dai paesaggi mantovani.
2. La città in cui è custodito il Sangue di Cristo/Santo Graal.
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La reliquia più importante della Cristianità, il sangue di Gesù Cristo raccolto ai piedi della Croce da San Longino, martirizzato e sepolto qui a Mantova, è conservato nei cosiddetti “Sacri Vasi”, custoditi nella cripta di S. Andrea.
3. La città in cui il Romeo di Shakespeare visse il suo esilio e acquistò il veleno. "Quel barlume laggiù non è ancora la luce del mattino. Io la conosco bene: è una meteora che il sole irradia e rende luminosa perché ti sia torciere questa notte a illuminarti la strada per Mantova… " [Giulietta]
4. La città in cui è stata ambientata l’opera “Rigoletto” di Giuseppe Verdi. Camminare per la città, visitare la Casa del Rigoletto e il Palazzo Ducale, vedere la Rocca di Sparafucile significa diventare un po’ protagonisti dell’opera verdiana.
5. La città in cui è nata l’Opera Lirica: l’Orfeo di Monteverdi, considerata la prima vera opera lirica. L’opera lirica, il “recitar cantando” è nata a Mantova… L’Orfeo di Monteverdi, composto e rappresentato a corte dei Gonzaga nel 1607, è infatti considerata da molti studiosi la prima vera opera lirica.
6. La città in cui hanno studiato canto Luciano Pavarotti e tutti i più grandi cantanti d’opera del novecento. Pavarotti, Tebaldi, Freni, Raimondi e molti altri hanno perfezionato la loro tecnica a Mantova, presso lo studio del Maestro Ettore Campogalliani, il più grande maestro di canto lirico del secolo scorso.
7. Mozart suonò al Teatro Bibiena e in quell’occasione il padre lo definì “Il più bello del mondo”. Mantova è una delle poche città italiane che può vantare la presenza di
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W. A. Mozart in uno dei suoi teatri. Il genio salisburghese inaugurò, quattordicenne, il Teatro Bibiena di Mantova.
8. Mantova è Patrimonio mondiale dell’Unesco, insieme a Sabbioneta. Gli artisti che hanno concorso alla realizzazione delle due città hanno prodotto capolavori che hanno portato a compimento gli ideali del primo Rinascimento, contribuendo in maniere determinante alla diffusione internazionale di un movimento destinato ad influenzare e plasmare l’intera Europa.
9. Il Palazzo Ducale è il palazzo più grande d’Europa. Una città nella città! Il palazzo con più stanze in Europa: 535!
10. La Camera degli Sposi, capolavoro di Andrea
Mantegna: il primo esempio di prospettiva verticale al mondo. “La più bella camera del mondo”. Così veniva definita dai contemporanei la Camera degli Sposi o Camera Picta. Il capolavoro assoluto di Andrea Mantegna, realizzata tra il 1465 e il 1474. L’oculo dipinto al centro del soffitto, rappresenta il primo esempio di prospettiva verticale della storia dell’arte.
11. Palazzo Te, capolavoro di Giulio Romano, con il primo esempio di dipinto in 3D della storia dell’arte. Il palazzo dello svago e del piacere, capolavoro del Rinascimento progettato da Giulio Romano, con straordinari affreschi di Mantegna.
12. I Gonzaga, la dinastia che regnò più a lungo in Europa, più di quattro secoli. Nessun’altra dinastia ha regnato più dei Gonzaga in Europa.
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Quattro secoli e mezzo, dal 1308 al 1728, durante i quali hanno creato una delle corti più prestigiose del Rinascimento italiano.
13. Gli Amanti di Mantova, un reperto unico al mondo, un abbraccio di 6.000 anni. Un reperto unico e commovente. Due giovani sepolti 6.000 anni fa e ritrovati abbracciati alcuni anni fa alle porte di Mantova.
14. La città in cui è nato Virgilio, il più grande poeta classico. “Mantua me genuit” (Mantova mi generò), così cantava Virgilio, il più grande poeta dell’età classica, autore di capolavori come l’Eneide, le Bucoliche e le Georgiche.
E poi …
15. La città in cui è nata la maschera di Arlecchino, creata dal mantovano Tristano Martinelli.
16. La città di Tazio Nuvolari, il più grande pilota della storia dell’automobilismo, con tanto di museo per gli appassionati d'auto.
17. La più ampia collezione di armature medievali d’Italia.
18. La più grande raccolta al mondo di testi sulla cabala ebraica, presso la Biblioteca Teresiana.
19. La più grande raccolta in Italia di reperti Sumeri.
20. Il quotidiano più antico del mondo: la Gazzetta di Mantova.
21. I laghi di Mantova (3) e la distesa di Fior di Loto più grande del mondo occidentale.
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22. La provincia italiana con il più alto numero di stelle Michelin per abitante.
23. L’unica provincia in cui si producono sia Grana Padano sia Parmigiano Reggiano.
Il tutto in una città di 50.000 abitanti… visitabile a piedi in poche ore. Se ho dimenticato di visitare/vedere/assaporare qualcosa, ditemelo, ci ritorno volentieri.
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Pianificare un’escursione di Vincenzo Marino
Ognuno vede quel che tu pari. Pochi sentono quel che tu sei. [#nicolomachiavelli]
L’ambiente montano non è il nostro habitat naturale, quindi, come tale, può riservare molte “sorprese”. Dedicare parte delle proprie risorse alla pianificazione dell’escursione ci permetterà di limitare gli imprevisti spiacevoli e di godere appieno del meraviglioso contesto in cui ci troveremo.
Il tragitto
Pianificare il TRAGITTO non significa solo studiare la carta: per informarsi a 360° bisogna cercare notizie sui luoghi, ad es. attraverso il web o leggendo una guida, telefonando ai rifugi nella zona, parlando con chi ha percorso di recente lo stesso giro o parte di esso, facendo un sopralluogo. La montagna è viva e quindi alcuni suoi aspetti cambiano più rapidamente di quanto ci si possa aspettare: i sentieri spesso vengono chiusi o modificano il tracciato, le condizioni meteo influiscono sulle difficoltà, persino gli “ospiti” animali potrebbero non essere sempre gli stessi (così come la frequentazione), ecco perché è importante studiare accuratamente il percorso analizzando dati attuali: accantonate le cartine topografiche e le guide di vent’anni fa, non basate la vostra avventura su ricordi del passato, ma preferite
esperienze e feedback recenti.
Ognuno dovrà avere le conoscenze di topografia di base: sapersi orientare con bussola e cartina!
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In particolare:
• calcolare dislivelli giornalieri del percorso (un gruppo non allenato difficilmente effettua 800 m di dislivello);
• calcolare tempi di percorrenza (meglio non più di 4-5 ore al giorno con zaino di 10/13 kg);
• individuare tratti difficili (non fare i sentieri attrezzati se non si è addestrati e con imbragatura, caschetto, kit da ferrata, ecc) e le possibili vie di fuga;
• assicurarsi sulla presenza di acqua lungo il percorso.
L’equipaggiamento
Il tempo a disposizione condiziona il tragitto e questo a sua volta incide sulla scelta dell’EQUIPAGGIAMENTO; tuttavia ci sono dei “must” a cui non si può rinunciare: stilate una lista degli oggetti indispensabili che faranno parte del vostro corredo di base. Aggiungete a questa prima lista, l’attrezzatura specifica per il contesto che avete valutato e scelto (ad es. il caschetto se prevedete di percorrere dei canaloni o tracciati sotto-parete).
Le calzature: la scelta delle pedule è molto importante e può fare la differenza in caso di difficoltà. Una calzatura inadatta può mettere in crisi anche il camminatore più allenato! La scarpa dev’essere sufficientemente alta da proteggere l’articolazione della caviglia, robusta, non eccessivamente pesante (valutare in base al peso corporeo); deve garantire una buona ammortizzazione e la suola dev’essere resistente ed antiscivolo (Vibram). Ci sono scarponi realizzati con materiali idrorepellenti (Goretex) che garantiscono anche un buon livello di traspirazione; ma la cosa più importante è la “calzata”: dev’essere tanto perfetta da non consentire pericolosi strofinamenti interni del piede con la tomaia (vesciche) e nello stesso tempo deve risultare comoda e indolore nell’utilizzo prolungato.
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Zaino: dev’essere adeguato (evitare che una persona di 50 Kg porti in spalla un “armadio carico” da 80-90L), regolabile e di forma lineare. Attenzione al bilanciamento: gli oggetti più pesanti vanno messi nel fondo dello zaino.
Il gruppo
Il gruppo è una variabile fondamentale: più sarà impegnativo il percorso e tanto più metterete il team alla prova. Non provate ad affrontare la montagna senza prima aver conosciuto la dinamica del gruppo sul sentiero, senza conoscere i limiti della singola persona partecipante e aver disegnato su di essi le scelte del percorso. Si può rimediare ad una carenza di coesione, così come ad una carenza tecnica, ma solo se la si scopre e la si affronta per tempo. Il passo del gruppo è il passo del più lento.
Dosare bene sforzo ed energia
L’escursione solitamente inizia con una salita (spesso faticosa), ma è sconveniente affrontare all’inizio la montagna senza “acclimatamento” alle quote e agli sforzi; meglio iniziare con un tratto sali-scendi per stemperare la fatica il più possibile magari prevedendo anche un adeguato numero di soste: si tratterà di riuscire a mantenere lungo il cammino quella lucidità che può essere compromessa se si è sfiancati. È vero che al principio si è belli freschi, ma ricordate che la sensazione di freschezza durerà pochissimo se non doserete correttamente lo sforzo e le energie. Valutate la possibilità di un rifornimento a metà percorso.
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Gli imprevisti
I ripensamenti sono all’ordine del giorno, ma un cambio di programma può aprire la porta a molti imprevisti: se non siete sicuri di una scelta, fatevi consigliare da chi è sul posto e se nei dintorni non c’è anima viva, beh allora verrà utile la vostra agenda di contatti che avrete preparato prima di partire e il cellulare ancora carico. Un cambio di programma può rendersi necessario anche per il peggiorare delle condizioni meteo, o della stanchezza del gruppo.
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La Riviera di Ulisse di
Vincenzo Marino
Come perla su promontorio di bianco accechi rondini impazzite. Girotondi nel cielo planate a pelo d’acqua. Nei ricordi sarai sorriso fino al prossimo appuntamento. Sabbia e onde tra gli scogli e con gli occhi chiusi respiro il tuo mare. [“A Sperlonga” di Patrizia Portoghese 1]
Parafrasando Enrico IV di Navarra2, possiamo tranquillamente dire senza timore di smentite che Sperlonga val bene una poesia… Anzi, molte di più di una. Ogni passo tra le case eburnee, lungo i vicoletti apparentemente deserti, è un verso di una poesia che non ha mai termine.
È l’ora del pranzo per gli abitanti dell’antico borgo di pescatori. Le barche sono in darsena; la domenica difficilmente escono in mare. L'aria è permeata dai profumi del pesce che da ogni casa percorrono i vicoli in un variopinto carosello di fragranze.
Ogni tanto il silenzio viene rotto dal suono metallico di una forchetta che si appoggia al piatto, dalla melodia di due calici di vino che si uniscono in un brindisi, dalle stridule grida di due bambini che giocano. Da una delle case ascoltiamo l’uggiolio di un cucciolo che vuol essere coccolato dal padrone.
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1 Su cortese autorizzazione dell’autrice
2 “Paris vaut bien une messe”
Alziamo lo sguardo sulle piccole finestre sul vicolo che stiamo percorrendo. Un gatto ci osserva scendere verso il mare. Ci accompagna, curioso, con lo sguardo fino all’angolo della casa. Svoltiamo e ci troviamo immersi in un altro vicolo, bianco, silenzioso, magico. L’unica differenza: il profumo del mare ancora più intenso. Siamo di fronte alla Torre Truglia. Adagiata sulla punta del promontorio roccioso su cui sorge Sperlonga, questa torre di avvistamento ha origini romane. Fu riedificata attorno al 1530, distrutta e più volte ricostruita. Per un centinaio di anni è stata la sede della Guardia di Finanza. In seguito è stata sede del “Centro educazione dell’ambiente marino” del Parco naturale della Regione Lazio “Riviera di Ulisse”.
Sperlonga si trova sullo sperone di roccia che rappresenta l’ultima propaggine del sistema montuoso dei Monti Aurunci che si tuffa nel Mar Tirreno. I suoi dintorni sono quasi interamente pianeggianti. Bellissima è la spiaggia di sabbia bianca e dorata, interrotta da alcune formazioni rocciose a picco sul mare che formano piccole cale di difficile accesso (spesso l’unica via è il mare).
Secondo una mitica tradizione, presso Sperlonga sorgeva la città di Amyclae (in greco Αμύκλαι), fondata dagli Spartani. In età romana sorsero nel territorio, inquadrato nella giurisdizione del municipio di Fundi, numerose ville, la più celebre delle quali è quella dell'imperatore Tiberio, comprendente una grotta naturale modificata e decorata con sculture del ciclo di Ulisse. Le ville fungevano anche da centri di produzione per l'industria
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della pesca (vasche per l'allevamento).
Nel VI secolo i ruderi della villa imperiale furono adoperati come rifugio, ma il paese si sviluppò sul vicino promontorio di San Magno (65 m s.l.m.), uno sperone dei monti Aurunci, a difesa dalle incursioni via mare dei saraceni. Il nome deriva probabilmente dalla grande grotta (spelunca) inglobata nella villa di Tiberio. Il Castrum Speloncae viene menzionato in un documento del X secolo: comprendeva una piccola chiesa dedicata a san Pietro, patrono dei pescatori. Il paese si sviluppò intorno al castello progressivamente, per cerchi concentrici. Nell'XI secolo l'abitato fu cinto da mura, di cui restano due porte: la "Portella" o "Porta Carrese" e la "Porta Marina"; entrambe portano lo stemma della famiglia Caetani.
Sperlonga restò un piccolo paese di pescatori, continuamente minacciato dalle incursioni dei pirati, i quali, come ricordano vari murales, arrivarono a rapire gli abitanti per ridurli in schiavitù. Malgrado la costruzione di una serie di torri di avvistamento con la funzione di difesa costiera, la cittadina venne assalita e saccheggiata una prima volta nel 1534 dall'ammiraglio ottomano
Khair Ad-Dìn, detto il Barbarossa; nel 1623 una flotta di corsari barbareschi vi fece un'altra incursione, di cui resta memoria nel poema "Il sacco e rovina di Sperlonga" nel 1623 del chirurgo e poeta Curzio Mattei di Lenola.
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Ricostruita fra i secoli XVII e il XIX, assunse la forma attuale, detta "a testuggine", e vi vennero erette chiese e palazzi signorili. Appartenente da secoli al Regno di Napoli e poi al Regno delle Due Sicilie, Sperlonga era compresa nell'antica provincia di Terra di Lavoro, in particolare nel distretto di Gaeta. Anche dopo la sconfitta militare di Francesco II di Borbone ad opera di Garibaldi e la successiva annessione del Regno delle Due Sicilie al Regno di Sardegna (poi dal 1861 Regno d'Italia), Sperlonga continuò a far parte della sopraddetta provincia. Nel 1927, volendo il regime fascista ridimensionare la provincia di Terra di Lavoro, il territorio del comune di Sperlonga fu annesso al Lazio (provincia di Frosinone, poi alla Provincia di Roma) togliendolo alla Campania, dove in quello stesso periodo veniva fondata la provincia di Caserta. Dal 1934 la cittadina fu incorporata nella neocostituita provincia di Latina (all'epoca Littoria).
Arrampichiamo?
La zona che va da Sperlonga alla Piana di Sant’Agostino ed oltre, fino al Grottone della Spiaggia dei 300 gradini, è un paradiso per gli arrampicatori. In inverno infatti le pareti sono soleggiate e si sta bene anche nei mesi più freddi. Si arrampica con vista mare ed in estate, quando fa caldo, c’è il refrigerio delle vie d’arrampicata del Grottone, fresche e ombreggiate.
Chiariamo che con la denominazione Sperlonga, si
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identificano le pareti meridionali e in parte sud-occidentali del Monte Vannelamare situate 4 km a ESE del paese di Sperlonga. Per la qualità assolutamente eccezionale della roccia, la comodità d’accesso e la straordinaria bellezza delle arrampicate, Sperlonga è senza dubbio una zona di grande interesse oggettivo. Su queste pareti è praticamente nata l’arrampicata sportiva romana.
Date le caratteristiche della roccia, placche compatte e verticali butterate da goccette d’acqua, l’arrampicata è abbastanza tecnica e piuttosto atletica e seppur stupenda presenta una certa qual monotonia di movimenti, a causa della complessiva uniformità di strutture.
Per gli appassionati delle vie lunghe, se le si desidera sportive, è consigliata Gaeta; per le vie lunghe classiche è meglio rimanere a Sperlonga.
Le falesie di Sperlonga più frequentate e meglio attrezzate sono:
Il Castello Invisibile è il settore migliore per le vie facili con una ventina di itinerari lunghi 20 m. È in ombra e frequentabile anche in estate. Spesso affollato dai partecipanti ai corsi di arrampicata.
Il Paretone del Chiromante è il cuore dell’arrampicata a Sperlonga: un’enorme parete di calcare di ottima qualità facilmente raggiungibile da qualsiasi sentiero.
Il Monte Moneta con ben 174 vie è perfetto in inverno, è più interno e per nulla ventilato, però soleggiato e tranquillo.
La palestra del Pueblo, con 103 vie, dà la possibilità di arrampicare anche nelle giornate di pioggia… indovinate perché?
Sulla Spiaggia dell’Aeronauta, oltre la Piana di Sant’Agostino, ci sono l’Approdo dei Proci e la Grotta dell’Aeronauta (o dei 300 gradini), perfette per gli amanti degli strapiombi. Chiunque si avvicini al luna park dell’arrampicata in questa zona del litorale, non può fare a meno di incrociare e fermarsi a gustare i piatti tipici del luogo nel punto di ritrovo degli arrampicatori del basso Lazio: il Ristoro da Guido (conosciuto dai locali come Bruno er Mozzarellaro) sulla via Flacca dopo la galleria con gli archi che porta alla Piana di Sant’Agostino. Qui sono in vendita le guide alle vie d’arrampicata di Sperlonga e Gaeta dove trovare tutte le informazioni utili e la descrizione delle vie. Sono in vendita anche le mozzarelle di bufala, che male non fanno dopo una giornata passata tra un tiro in parete e un tuffo nelle calde acque tirreniche.
Attività suggerita
Sperlonga, Spiaggia di S. Agostino, Castello Invisibile
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AIF - 6 monotiri, max 5c, Δ50 m
Sperlonga, Spiaggia di S. Agostino, Parete del Chiromante
AIF - 8 monotiri, max 5c, Δ50 m
Sperlonga, Monte Vannelamare
AVL - Uomini Inutili, AR/PD/5a/R1, 6L, Δ120 m. Via di stampo tradizionale su roccia di buona qualità, spesso ottima, soste a spit e pochi chiodi in via.
Sperlonga, Spiaggia di S. Agostino, Castello Invisibile
AIF - 4 monotiri, max 6a, Δ50 m
La Montagna Spaccata è sicuramente uno dei luoghi più suggestivi di Gaeta, frequentato ogni anno da turisti che vengono colti dalla magia delle tre fenditure del promontorio. E’ un luogo che racchiude in sé un vero e proprio itinerario. Il Santuario della SS.
Trinità, costruito nell’XI secolo, è rinomato nella storia perché qui vi pregarono numerosi pontefici, tra cui Pio IX, sovrani, vescovi e santi, tra cui Bernardino da Siena, Ignazio di Loyola, Leonardo da Porto Maurizio e San Filippo Neri.
La leggenda vuole che San Filippo Neri avesse vissuto all'interno della Montagna Spaccata dove esiste un giaciglio in pietra nota ancora oggi come "Il letto di San Filippo Neri".
La Montagna Spaccata a Gaeta è una falesia probabilmente unica nel suo genere. In effetti chiamarla falesia è un po’ riduttivo. Le vie sono lunghe (da 5 a 7 lunghezze), non tutte sono attrezzate con i moderni fix o spit, e una volta cominciata la via si deve comunque uscire dalla parete a meno che non si abbia a disposizione una barca, ma se hai a disposizione una barca
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chi te lo fa fare a salire con tutto quel bendidio di mare? Prima di arrivare all’attacco bisogna calarsi per 125-130 m in doppia o lungo i sentieri (lunghi, tortuosi e non facili).
Avrei voluto provare a farmi Beatrice ... mmhhh ... detta così suona male, avrei voluto provare a salire la via Beatrice, ma la salita lungo le vie della Montagna Spaccata è consentita solo nel periodo dal 1° agosto al 20 febbraio. La carenza di informazioni nella fase logistica, purtroppo, ha causato i rimpianti (Beatrice dovrà attendere).
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Arco dei desideri di Vincenzo Marino
Il miglior modo di vendicarsi d’una ingiuria è il non rassomigliare a chi l’ha fatta. [#marcoaurelio]
Arco è un comune italiano di 17.690 abitanti della provincia autonoma di Trento, quarto per popolazione dopo Trento, Rovereto e Pergine Valsugana. Fa parte della Comunità Alto Garda e Ledro. Arco si trova a nord della piana dell'Altogarda, la parte finale della valle del fiume Sarca che sfocia, da qui, nel Lago di Garda, a 6 km a nord-nord-est di Riva del Garda. La posizione protetta dalle montagne e la vicinanza del lago di Garda permettono a questa zona di mantenere un clima particolarmente mite che fa di questa città una stazione di soggiorno nota da secoli.
No dai... !
Non si può presentare così un tempio dell'escursionismo e dell'arrampicata, non siamo mica a una lezione di geografia. E poi che c'entra Wikipedia?
Chissenefrega della storia e della geografia di Arco. Un po’ di sana ignoranza ogni tanto non fa male!
Arco, per noi, è montagna.
Arco, per noi, è divertimento.
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Arco è tutto quello che non viene spiegato sui libri e sulle guide, Arco è uno stato mentale, è tutto quello che avremmo voluto essere, ma che per un motivo o per un altro non abbiamo potuto o non siamo riusciti a essere.
Arco è un desiderio da non esaudire mai completamente in una volta sola. È un grappolo di ricordi gradevoli che ti lacerano l’animo, ma che hanno il potere di scaldarti il corpo dall’interno.
Arco è un desiderio.
Desiderio. L’origine della parola “desiderare” vuol dire “stare sotto le stelle in attesa di qualcosa”, dal latino “de-sideribus”. I “desiderantes” erano i soldati che aspettavano i compagni che non erano ancora tornati all’accampamento dopo il combattimento. Aspettare un compagno che non arriva significa attesa, desiderio di rivederlo e di riabbracciarlo ed esprime anche una certa apprensione per la mancanza. Ecco, teniamo presente tre parole: mancanza, attesa e tensione. Insomma, movimento verso qualcuno o qualcosa che stiamo aspettando.
Desiderare quindi sta ad indicare che noi aspettiamo qualcosa che vogliamo che arrivi, che ci manca. E metterci quindi in un atteggiamento d’attesa che ci apre spazi infiniti. Desiderare è accorciare la distanza tra noi e l’evento, a volte, enorme; quindi metaforicamente ogni desiderio presuppone una strada, un percorso. Noi adulti l’abbiamo rimpicciolita troppo questa “strada”, questo spazio, questo tempo e
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abbiamo reso i desideri bisogni puntuali, concreti, immediati da soddisfare subito. E’ come se avessimo accorciato quello spazio e quel tempo fatto di cammino, di speranze, di “sentire”; è come se avessimo soppressa l’attesa che comporta emozioni e quell’avvicinarsi con entusiasmo all’indefinibile.
Il desiderio è amico dell’essere, mentre il bisogno lo è dell’avere. Questo ci suggerisce come legare la parola “desiderio” alla crescita, all’identità o alla personalità. Il desiderio, infatti, va progettato, pensato, calato nel tempo per trovare soluzioni. Altrimenti ci ritroveremo dipendenti dal bisogno di qualcosa: soldi, successi, potere, fama, piaceri. L’oggetto del bisogno lo possiamo consumare subito, ci soddisfa immediatamente.
Il desiderio coltivato dura nel tempo. Tempo futuro.
Il bisogno si consuma nel presente, per sbiadirsi poi nel passato.
Ora, mettendo da parte la morale epicurea, verso cui sta inopportunamente scivolando il discorso, potrei concludere questa disquisizione filosofica inserendo l’esperienza ad Arco come un
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“desiderio naturale necessario al benessere (atarassia1) e alla tranquillità”
Note tecniche turistiche
Non solo roccia, non solo escursionismo o arrampicata, una visita ad Arco non può escludere una buona dose di turismo consapevole, viaggiare cioè in modo coinvolgente così da offrirsi un’esperienza globalmente appagante tramite un contatto reale con la gente del posto, scoprendone cultura e tradizioni e contribuendo all’economia locale e al rispetto dell’ambiente.
1 - Il Castello di Arco
Quel che rimane del castello di Arco non dà l’idea della sua antica magnificenza. Nonostante questo, si rimane comunque colpiti da ciò che è rimasto, del suo grande parco intorno e sicuramente il panorama sul Lago di Garda e della Valle dei Laghi.
2 - Il Parco di Arboreto
L’arciduca Alberto d’Asburgo, cugino dell’imperatore d’Austria
Francesco Giuseppe, decise di stabilirsi ad Arco dal 1872, costruendo per sé la Villa Arciducale. L’Arboretum faceva
1 Imperturbabilità: termine usato dagli epicurei e dagli scettici per indicare quello stato di perfetta tranquillità e serenità d'animo, raggiunto dal saggio una volta libero dalle passioni nocive
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parte del Parco Arciducale annesso alla villa.
3 - La contrada Scanfora di Arco
Una zona di Arco dove cerco sempre di andare è sicuramente la contrada Scanfora: vecchie case in pietra, portici che ricordano un po’ i vòlti dei vicini borghi di Rango e Canale di Tenno, i vicoli stretti e affreschi sui muri che sbucano qua e là. E una fontana recentemente restaurata nel largo più spazioso.
4 - Nei dintorni di Arco, assolutamente da non perdere:
Riva del Garda con la sua Rocca, il centro storico e il MAG Museo dell’Alto Garda
Il Parco Grotta Cascata del Varone a Tenno
Tra i borghi più belli d’Italia ci sono Rango e Canale di Tenno
Le sorprendenti palafitte della Val di Ledro
Note tecniche escursionismo
Poche, ma soddisfacenti, visto il gran caldo, abbiamo optato per escursioni brevi in modo da modulare i tempi evitando le ore più calde. Queste le abbiamo dedicate alle piacevoli e fresche acque dal Garda, oltre che alle ormai immancabili saune e idromassaggi.
Riva del Garda –Ponalestraße
Il Sentiero del Ponale (Ponalestraße) collega Riva del Garda alla valle di Ledro.
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La strada, scavata nella roccia nella seconda metà del 1800, è stata dismessa circa vent'anni fa, dopo la realizzazione della galleria. Dal 2004 è stata trasformata in sentiero, dove è permesso transitare anche con le biciclette. Per le sue caratteristiche ambientali e storiche è uno tra più belli e conosciuti sentieri europei.
Consigliabile lasciare l’auto al parcheggio Monteoro, per evitare fastidiose contravvenzioni. Qui il tariffario.
Punto di partenza: Riva del Garda (centro storico)
Tempo di percorrenza: 06:00 h A/R
Lunghezza: 10,3 km
Dislivello+: 616 m
Difficoltà: EE
Segnaletica: D01, Via del Ponale, Ledro
Punta Larici da Pregasina è una classica escursione, trekking, da fare sul lago di Garda. Punto particolarmente panoramico, si può osservare tutto il lago fino a Sirmione.
Punto di partenza: Pregasina
Tempo di percorrenza: 05:30 h A/R
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Pregasina – Punta Larici (907 m)
Lunghezza: 10,0 km
Dislivello+: 539 m
Difficoltà: EE
Segnaletica: CAI 422B
Lago di Ledro - Itinerario ad anello
Semplice passeggiata lungo le rive dello splendido lago di Ledro. Circondati dalle montagne si percorre il sentiero da Molina a Pieve di Ledro, costeggiando il lago. Il percorso ad anello consente di ritornare all'inizio dell'itinerario seguendo la sponda opposta. Passeggiata piacevole da fare nelle belle giornate di sole, da non perdere il Museo con le Palafitte risalenti all'Età del Bronzo presso Molina di Ledro.
Punto di partenza: Molina di Ledro
Tempo di percorrenza: 03:30 h A/R
Lunghezza: 10 km
Dislivello+: 150 m
Difficoltà: E
Segnaletica: NA
Monte Baldo – Cima delle Pozzette (2132 m)
L'intera escursione è accompagnata da una fantastica vista sul Lago di Garda - senz'altro un valido motivo fotografico. Il cammino verso la vetta è praticamente infallibile, conduce solo una via verso l'obiettivo, inoltre la marcatura rosso-bianco-rosso è sempre in vista. La salita diventa un po' più ripida verso la fine, dopo che detriti e rocce hanno sostituito lo stretto sentiero in mezzo alla pineta di montagna.
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Punto di partenza: Malcesine
Tempo di percorrenza: 06:45 h A/R
Lunghezza: 13,0 km
Dislivello+: 683 m
Difficoltà: EE
Segnaletica: NA
Parco Grotta Cascata del Varone e Lago di Tenno
La cascata del Varone è una delle attrazioni naturalistiche più apprezzate di tutto l’Alto Garda; l’accesso al pubblico fu consentito fin dall’inaugurazione avvenuta il 20 giugno 1874 al cospetto del Re di Sassonia Giovanni e del Principe Nicola del Montenegro. Da allora il Parco Grotta Cascata Varone è divenuto una delle mete preferite del turismo. La cascata è alimentata dalle perdite sotterranee del bellissimo lago di Tenno che formano il torrente Magnone il quale va a cadere fragorosamente nella forra con un balzo di quasi 100 metri. Questo raro spettacolo naturale è apprezzabile in tutta la sua imponente bellezza grazie ai camminamenti che consentono di ammirare il salto d’acqua da due punti differenti: uno inferiore e uno superiore.
Punto di partenza: Tenno
Tempo di percorrenza: 5:45 h
Lunghezza: 11 km
Dislivello+: 590 m
Difficoltà: T/E
Segnaletica: CAI 613 (Lago di Tenno)
Ferrata Signora delle Acque
E' una via indubbiamente di grande suggestione visto l'ambiente nel quale si sviluppa. Tecnicamente non offre molto interesse e varietà di passaggi se non un certo grado di adrenalina per il vuoto e l'esposizione costante. E' molto frequentata, per cui la tempistica di
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percorrenza può aumentare parecchio. Valutate attentamente la percorribilità in questa situazione visto il rischio concreto di trovarsi in attesa appesi in tratti sconvenienti.
Punto di partenza: Ballino
Tempo di percorrenza: 3:00 h A/R
Lunghezza: 5 km
Dislivello+: 390 m
Difficoltà: EEA/AD
Segnaletica: CAI 420
Ferrata Colodrì 2.0
Percorso facile, di riscaldamento, adatto ai principianti alle prime armi, divertente e defatigante. Ideale anche per chiudere una giornata in relax, al tramonto.
Punto di partenza: Arco di Trento, loc. Prabi
Tempo di percorrenza: 2:30 h A/R
Lunghezza: 4,3 km
Dislivello+: 280 m
Difficoltà: EEA/PD
Segnaletica: CAI 431B
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Una cordata a tre di Vincenzo Marino
“Caro Enzo, che in quella salita fosse accaduto qualcosa di magico l’avevo percepito anche io nella mia spensierata inconsapevolezza da secondo di cordata! Leggerne l’accuratissimo resoconto rinnova i ricordi mai dimenticati e le emozioni mai sopite. Mi sono sempre chiesto come mai, di tante salite che hai fatto, anche più spettacolari e impegnative di questa, anche con scalatori più abili e affidabili di me, tu conservassi il ricordo di questa allo stesso modo in cui lo conservo io che ne ho fatte poche altre. Ora lo so.
Sono ricordi intensi e unici che devo interamente a te: farne un racconto non può che arricchirli e tu lo hai fatto mirabilmente, mi affido alle tue scelte esattamente come ho fatto sotto il Camino Glanvell, sicuro che adesso come allora... non c’è problema!
Splendida giornata che stavamo vivendo; c’era lo stupore di percepire distintamente i cattivi pensieri che via via sgombravano la mente. Non è un caso che io ricordi perfettamente i pensieri della marcia di avvicinamento, mentre dell’arrampicata ricordo solo i movimenti e le sensazioni istantanee di uno stato di estatica concentrazione. Il morale è salito con la stessa successione delle linee altimetriche. Il tuo racconto è il mezzo migliore per rivivere tutte le sensazioni di una giornata che resta fra le più indimenticabili della mia vita.
Grazie!
Michele”
Classe: Hexapoda
Ordine: Lepidoptera
Famiglia: Nymphalidae Satyrinae
Genere: Lasiommata
Specie: Lasiommata maera
Normalmente chiamata farfalla delle rocce o farfalla di montagna, questa bella specie presenta una colorazione bruna, più chiara nelle femmine, con
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grandi macchie ocellate. La maera vola, da maggio a settembre, di preferenza nelle scarpate rocciose dalla pianura fino a 2.000 e più metri di quota.
Il Campanile di Val Montanaia (2.173 m) è una cima del gruppo degli Spalti di Toro e Monfalconi nelle Dolomiti friulane. È una guglia di bellezza spettacolare, selvaggia e unica nel suo genere, alta quasi 300 metri e con una base quadrata di 60 metri per lato circa, su ogni versante è presente uno strapiombo da superare per raggiungere la “Audentis resonant per me loca muta triumpho”, la campana che ne decora la vetta. Molte sono state le definizioni per questo campanile, quelle che più gli si addicono sono: “La pietrificazione dell’urlo di un dannato” (Compton), “il monte più illogico” (Cozzi) e “Il Santuario delle Alpi Clautane” (Hubel). Alpinisticamente il Campanile è conosciuto ovunque. È stato scalato completamente per la prima volta il 17 settembre 1902 dagli alpinisti austriaci Wolf von Glanvell e Karl von Saar per la via che ora è considerata normale: una normale con difficoltà di IV.
Michele ed io partiamo alle 6 di mattina da Trieste, destinazione Rifugio Pordenone, quando ancora si poteva raggiungere con l'auto e posteggiare a pochi passi dal Rifugio senza pagare il pedaggio. La giornata promette molto bene, temperatura ottimale, cielo sereno, morale altissimo. Ci carichiamo gli zaini con l'attrezzatura e iniziamo a percorrere la Val Montanaia in un silenzio assoluto, surreale; incredibile ma, in questo primo fine settimana di luglio, ci siamo solo noi in tutta la valle. Seguendo il sentiero CAI 353 risaliamo l’incassata, brulla e severa Val Montanaia, dapprima per tracce di sentiero sull’enorme conoide di deiezione, poi direttamente per il greto del torrente fin sotto la soglia del cadin
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terminale, che raggiungiamo prima muovendoci verso destra e poi seguendo il letto del torrente, ripidissimo e quasi completamente roccioso e umido. In un paio d’ore arriviamo ai piedi del Campanile fantasticamente isolato nel centro del cadin; tutt’intorno una corona regale di dieci punte: la più bella è la Croda Cimoliana. Procediamo lentamente, ipnotizzati dalla mole dell’incombente Campanile, fin sotto la sua parete Est, lasciamo zaini e scarponi in un anfratto della roccia vicino al sentierino che useremo in seguito per la discesa dalla Nord. Lentamente indossiamo gli imbraghi e ci leghiamo con le doppie corde, controlliamo l'attrezzatura, calziamo le scarpette; il tintinnio dei moschettoni, suono piacevole e rassicurante per ogni climber, ci accompagna sul primo avancorpo, una quindicina di metri facili (I) in obliquo su gradoni prima a sinistra e poi a destra, giusto per arrivare al primo anello cementato, inizio "ufficiale" della via normale.
Uno sguardo alle spalle verso la lontana Val Cimoliana avvolta nella foschia del fondovalle, uno sguardo alla solare parete Sud che ci sovrasta ed al ballatoio con gli strapiombi che impediscono la vista della vetta; mi chino per aiutare Michele ad armare la sicura con un mezzo barcaiolo ed ecco comparire, con fare gioioso, il terzo componente della cordata: una graziosa farfalla di montagna, di colore beige con macchioline nere sulle ali ben definite. Si ferma quasi sospesa all'altezza dell'anello cementato, poi, con veloci saliscendi, si avvicina al mio nodo delle guide sostandoci sopra, infine, inizia a salire lungo la parete, poi la ridiscende, poi la risale ancora, quasi ad indicarmi la via e a sollecitarmi a seguirla. Mi viene il dubbio che voglia essere lei la capocordata.
Inizio a salire lungo il caminetto con difficoltà di III+ seguendo, come suggerito
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dalla mia capocordata, la parete di
destra fino ad uscire su una piccola terrazza in prossimità dell’evidente sosta. Attrezzo la stessa con un barcaiolo per me ed una placchetta per Michele che senza difficoltà in pochi minuti ci raggiunge. La mia farfalla, inizia già a stupirmi, immaginavo fosse solo una farfalla curiosa ma, mi rendo conto che sembra “consapevole” sia della nostra presenza nel suo ambiente sia del suo “ruolo”; durante la sosta per il recupero di Michele non si muove dal moschettone a ghiera utilizzato per fissare l’anello di fettuccia e solo dopo aver assicurato il mio compagno e preparato nuovamente le corde riprende il suo allegro svolazzare su e giù lungo la parete. Conosco la via, farfallina... voglio proprio vedere se pieghi a sinistra adesso... Detto, fatto! La farfalla insiste perché io la segua e ci spostiamo correttamente per qualche metro a sinistra per attaccare la fascia strapiombante nel suo punto più abbordabile (IV-) e per salire poi direttamente (III) ad una nicchia sotto il camino-dietro già visibile dall’attacco. Incredibilmente tutti i chiodi in parete mi sono stati segnalati dalla mia amica con una sua piccola sosta sul chiodo stesso. Secondo terrazzino, stessa scena del primo: non si muove dal moschettone a ghiera! Ma chi è questa farfalla? Cosa vuole? Decido di non dire nulla a Michele e proseguire. Seguiamo il diedro per i primi 15 metri su difficolta di IV ma, mentre mi appresto per spostarmi a destra verso la piccola rampa che dovrebbe condurmi alla sosta in prossimità dello spigolo Est, la farfalla si dirige decisamente a sinistra, verso il versante Ovest. Eh no! Non sono preparato a questo cambio di programma.
Che voglia farmi evitare la piccola e sprotetta rampa friabile? La seguo, so dove può condurmi la variante e, senza difficoltà, anche se ho preferito mettere un blocchetto, raggiungo la quinta di roccia (II) che in breve mi consente di risalire il Pulpito Cozzi, il più bel terrazzino aereo che io abbia mai visto. Sosto proprio sulla verticale della Fessura Cozzi, fradicia come non mai!
Michele con qualche sbuffo mi raggiunge e ci accomodiamo sul Pulpito cercando di disattorcigliare le corde. Siamo addirittura costretti a slegarci ed a raccoglierle nuovamente per poi legarci di nuovo. Durante tutto questo tempo ogni tanto lancio un’occhiata distratta alla Fessura Cozzi e mi ritorna in mente tutta la storia del povero Napoleone Cozzi e della furbizia di Von Saar e Glanvell. Devo dire che il Pulpito è talmente comodo e la Fessura così agghiacciante che anche psicologicamente è un po’ difficile abbandonare il primo per la seconda. La mia amica farfalla è ancora lì, paziente, ad
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attendere che i due umani terminino il loro buffo lavoro sulle corde, avessimo anche noi un paio d’ali...
Siamo al punto chiave, la Fessura Cozzi; mi preparo all’attacco ma, la mia compagna di cordata insiste perché io vada a sinistra, verso lo spigolo tra la Sud e la Ovest. Ritorno sui miei passi e mi sposto qualche metro a sinistra verso il baratro della parete Ovest, le pareti Est della Punta Pia e della Cima Toro, dall’altra parte del cadin, sembrano vicinissime. La farfalla inizia a salire e mi mostra uno spit, due, tre... in poco meno di cinque metri. È una parete compatta, verticale, a rigole piccole ma solide, di difficoltà forse superiori alla Fessura; la risalgo senza difficoltà e mi ritrovo spostato di diversi metri a sinistra rispetto al terrazzino. Troppo per rientrarvi. Anche la farfalla è d’accordo con me e quasi intuendo i miei pensieri inizia a percorrere verso sinistra la vicina ed esposta cengia (II) che porta sul versante Ovest proprio sotto il Camino Glanvell, in una piccola nicchia dove l’anello cementato assicura riposo a me ed alla farfalla. Ho dovuto allungare l’ultimo rinvio per favorire un migliore scorrimento delle corde, consapevole di poter aumentare le difficoltà di Michele.
Inizio a recuperare le corde, Michele sale con regolarità senza scossoni e rallentamenti, mi lascia il tempo di pensare a questo strano insetto beige che sembra quasi cercare una forma di comunicazione e devo dire che ci sta riuscendo, perché ora ha la mia completa fiducia; se non altro, ha dimostrato di conoscere anche lei la via per la vetta. Ecco Michele, sorridente e nient’affatto stanco; gli comunico che mancano tre lunghezze per la campana di vetta ed il tiro più bello sta per iniziare. Il Camino Glanvell ha un attacco strapiombante (IV), a sua volta posizionato sopra l’immenso strapiombo della parete Ovest che, salendo, è praticamente invisibile sotto di noi. È importante posizionare subito un rinvio per diminuire il fattore di caduta, ma gli appigli sono fantastici, l’entusiasmo alle stelle, la fatica a zero e praticamente salgo l’intera lunghezza senza alcuna protezione...
Michele ancora non lo sa...
Quando leggerà questo scritto sì...
Trenta metri con fattore di caduta 2, una pazzia...
Sono sul ballatoio, di nuovo al sole, in una comoda posizione, in vista della cima e con la farfalla che ormai sembra più interessata al mio nuovo casco
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azzurro (regalo dello stesso Michele) che alle ultime due lunghezze. Che mi consideri fuori pericolo?
Forza Miche’, ci siamo quasi.
Il sole è quasi allo Zenit ma non fa caldo; dopo aver districato nuovamente le corde, iniziamo a salire direttamente la cuspide finale seguendo un caminocolatoio che esce su una conca dove sostiamo per l’ultima volta. Adesso la farfalla non indica più nulla, si permette di allontanarsi lungo la parete ma per ritornare poi sempre in prossimità delle corde o delle soste o del mio casco. Allungo una mano, quasi a volerla accarezzare; non si spaventa, anzi, spicca il volo e si posa sul dorso della mia mano destra. Per non disturbarla rallento il recupero delle corde, lei vi rimane appoggiata sopra fin quando non devo bloccare Michele sull’ultima sosta.
Mancano 40 metri di III, gli ultimi di una splendida arrampicata. Senza problemi, in pochi minuti, li saliamo e raggiungiamo la vetta, pochi metri quadrati di roccia calpestati nel corso dell’ultimo secolo da migliaia di alpinisti felici dell’impresa compiuta.
È la mia quarta ripetizione, ma l’emozione è la stessa della prima volta. Quest’ultima è stata speciale, tutto è andato alla perfezione e sono convinto che anche per Michele il ricordo di questa avventura rimarrà a lungo.
Ho dedicato la salita a mio padre, venuto a mancare un paio d’anni prima; se il male non se lo fosse portato via, appassionato com’era, avrebbe certamente voluto condividere queste emozioni.
A proposito: la farfalla si è adagiata sul supporto del mozzo della campana e sta aspettando che qualcuno la faccia risuonare... i rintocchi rimbombano per la Val Montanaia ed allo sfumare dell’ultima nota, si solleva e vola decisa verso Sud, verso valle.
È ora di iniziare la discesa... e che discesa!
Ma questa è un’altra storia.
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Io sono Dio 1 di Vincenzo Marino
Se due persone sono fatte l'una per l'altra finiranno per ritrovarsi, a dispetto della distanza, del tempo e persino delle circostanze. [#noraephron]
Eri sulla strada verso casa quando sei morto.
Un incidente d’auto.
Niente di particolarmente eclatante, ma comunque fatale. Hai lasciato una ex moglie, una delle tante, e una figlia. E’ stata una morte indolore. Al pronto soccorso hanno fatto il possibile per salvarti, senza riuscirci. Il tuo corpo era cosi completamente a pezzi che è stato meglio così, fidati.
Ed è così che mi hai incontrato.
“Cosa… Cosa è successo?”, mi hai chiesto. “Dove sono?”
“Sei morto, defunto, game over” ti ho detto senza troppi giri di parole. Che senso avrebbe misurare ormai le parole?
“C’era un… furgone e stava slittando…”
“Si, lo so”, dissi.
“Ma sono… morto?”
“Sì, ma non sentirti male per questo. Non è nulla di grave. Chiunque muore”, dissi.
Ti sei voltato, hai guardato intorno. C’era il nulla. Solo tu ed io sospesi in un candido vuoto.
“Ma che posto è questo?” hai chiesto, “E’ l’aldilà?”
“Beh, sì, più o meno potremmo definirlo così”, dissi.
“Sei Dio?”, hai chiesto.
1 Tranquilli, nessun delirio di onnipotenza né un plagio al compianto Faletti. È solo una libera, ma molto libera, traduzione e interpretazione da una novella di Andy Weir (www.andyweirauthor.com), personalizzata dal sottoscritto e autorizzata dall’autore. Andy Weir è uno scrittore e programmatore statunitense, conosciuto principalmente per il suo romanzo d'esordio L'uomo di Marte (The Martian), best-seller mondiale, e per la sua attività editoriale nella fantascienza.
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“Si”, risposi orgogliosamente scandendo bene le parole: “Io sono Dio”.
“Mia figlia, la madre, i miei amici…”, hai detto. “Che sarà di loro? Staranno bene?”
“Ecco! Questo è quello che mi piace sentire”, dissi. “Sei appena morto e la tua prima preoccupazione sono i tuoi affetti. Questa qui è una cosa bella”. Mi ricordo ancora come mi hai guardato, eri affascinato. Ai tuoi occhi non sembravo nemmeno un dio, chissà poi come te lo immaginavi, vi siete creati certe iconografie che hanno del comico. A te sembravo, ora, una persona normale. Un uomo? Una donna? Una figura di una qualche vaga autorità forse. Forse più come un severo e autoritario insegnante liceale di matematica che l’Onnipotente.
“Non ti preoccupare ”, dissi. “Staranno tutti bene. Tua figlia si ricorderà di te come il padre perfetto, in ogni senso. Non hanno avuto tempo per far crescere in loro il fastidio. Le tue ex compagne piangeranno, ma segretamente si sentiranno sollevate. Diciamoci la verità, ti sei comportato spesso da coglione con loro e tutte le tue relazioni, sono cadute a pezzi a causa tua. Se ti sarà di qualche tipo di consolazione, sappi che diverse tra loro si sentiranno molto in colpa per questa sensazione di sollevamento.”.
“Ah!”, hai detto. “Quindi che succede adesso? Vado in paradiso o all’inferno o qualcosa del genere?”
“Ma nessuna delle due, caro mio…”, dissi. “Ti reincarnerai.”
“Reincarnarmi?”, hai detto. “Quindi gli indù e i buddisti avevano ragione ”
“Tutte le religioni hanno ragione a modo loro, le ho inventate tutte io.”, dissi.
“Vieni con me, facciamo due passi”.
Mi hai seguito mentre a lunghi passi attraversavamo il vuoto.
“Ma dove stiamo andando?”
“Da nessuna parte in particolare.”, dissi. È piacevole camminare mentre camminiamo. Non trovi?”
“Ma allora spiegami, qual è lo scopo di tutto ciò?”, hai chiesto. “Quando rinasco, sarò semplicemente una pagina bianca, vero? Un neonato. Tutte le mie esperienze e tutto quello che ho fatto nella vita precedente non significheranno nulla.”
“Quasi, non del tutto!”, dissi. “Hai dentro di te tutta la conoscenza e le esperienze delle tue vite passate. Solo, non le ricordi in questo istante. Sarebbe per te uno shock troppo grande ricordarti improvvisamente di tutte le esperienze passate.”
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Mi sono fermato e ti ho preso per le spalle, guardandoti dritto negli occhi. “La tua anima è molto più grandiosa, bella e magnifica di quanto tu possa anche solo immaginare. Una mente umana può contenere solo una minuscola frazione di quello che sei. E’ come immergere un dito in un bicchiere d’acqua per vedere se è calda o fredda. Tu hai messo una piccola parte di te nel recipiente, un dito, e quando l’hai tirata indietro, hai avuto tutte le informazioni su quell’acqua, utilizzandone solo una piccola parte, ma tutte le esperienze che hai avuto sono come l’acqua in quel bicchiere. Sei stato umano per tanti anni, quindi non ti sei ancora preparato per sentire la tua immensa coscienza. Se rimaniamo qui abbastanza a lungo, inizierai a ricordarti tutto. Ma non c’è nessun motivo di farlo tra una vita e l’altra. E’ inutile. Non ne trarresti alcun vantaggio.”
“Quante volte mi sono reincarnato, quindi?”
“Oh, tante, tantissime, centinaia di migliaia, milioni, miliardi e in tantissime vite differenti.”, dissi. “Questa volta, sarai una contadinella cinese del 540.”
“Aspetta, cosa?” hai tartagliato. “Mi stai mandando indietro nel tempo? Pensavo che ci si potesse reincarnare solo in una direzione temporale ”
“Per come lo conosci tu, il tempo esiste solo nel tuo Universo, quindi tecnicamente, sì, ti sto mandando indietro nel tempo. Le cose sono molto diverse nel luogo da dove arrivo io.”
“E da dove arrivi?”, hai chiesto.
“Oh vero, non te ne ho ancora parlato. Proverò a spiegartelo: io arrivo da un altro dove. Da qualche altra parte. E ci sono altri come me, tanti altri. So che vorresti sapere adesso come è di là, ma onestamente non capiresti.”
“Va bene, mi sento confuso e mi rendo conto che non ci capirei nulla.”, hai detto tristemente. “Ma aspetta. Se mi reincarno in altri luoghi e in altri tempi, potrei aver interagito con me stesso in qualche momento. Come è possibile?”
“Certamente. Hai interagito. Succede sempre. E dato che entrambe le vite, tutte le vite, sono coscienti solo della loro vita tu non sai nemmeno che sta succedendo. Non te ne accorgi.”
“Ma allora qual è lo scopo di tutto questo? A cosa serve?”
“Davvero?”, ho chiesto. “Per davvero mi stai chiedendo il significato della vita? Non è forse una domanda un po’ troppo stereotipata, scontata, da talkshow televisivo?”
“Beh dai, è una domanda ragionevole.” hai continuato.
Mi sono fermato e ti ho fissato nuovamente negli occhi. “Il significato della vita, la ragione per cui ho creato tutto l’Universo intero, è per farti maturare.”
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“Intendi tutta la razza umana? Vuoi che maturiamo?”
“No, ma quale razza umana, te, soltanto te. Ho creato questo universo tutto e solo per te. Con ogni nuova vita, cresci, maturi e diventi un intelletto più grande.”
“Solo io? E tutti gli altri?”
“Non c’è nessun altro”, dissi. “In questo universo ci siamo solo noi due, te ed io.”
Mi hai guardato con lo sguardo perso, incredulo. “Ma tutte le altre persone sulla terra…”
“Sei sempre tu. Diverse incarnazioni di te stesso. Miliardi di incarnazioni di te stesso.”
“Non ci capisco nulla… Aspetta. Mi stai dicendo che io sono chiunque su questo pianeta!?”
“E dai! Finalmente ci stai arrivando, era ora!”, dissi con una bella pacca sulla spalla per congratularmi.
“Io sono ogni essere umano che è mai vissuto?”
“E che mai vivrà, si.”
“Sono Abraham Lincoln?”
“E sei anche il suo assassino.”, ho aggiunto.
“Sono Hitler?”, hai detto costernato.
“E i sei milioni che ha ucciso.”
“Sono Gesù?”
“E sei ognuno di quelli che lo hanno seguito e quelli che lo hanno crocefisso. Sei Putin e i suoi soldati e le centinaia di donne e bambine stuprate e massacrate, sei un terrorista e ogni morto ammazzato nelle strade palestinesi o europee, sei il ricco magnate strapieno di denaro e i morti di fame del terzo mondo, sei il carnefice e la vittima, per imparare il dolore che si prova in entrambi i casi e, cosa ancora più importante, sei ognuna delle tue donne.”
Ti sei ammutolito. Ne ero certo. È sempre così.
“Ogni volta che hai di fatto ingannato qualcuno”, ho continuato, “Stavi ingannando e perseguitando te stesso. Ogni atto di gentilezza che hai fatto, lo hai fatto a te stesso. Ogni momento felice e ogni momento triste di cui ha mai avuto esperienza, o mai ne avrà un essere umano, è un’esperienza vissuta da te. Ogni volta che ti innamoravi di una donna, ti innamoravi di te stesso, ma poi ti rivedevi in lei e creavi certi casini… Non puoi cercare te stesso in un altro te stesso, anche se di sembianze diverse. Ma finalmente al crepuscolo della
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tua vita, hai compreso, non so quanto coscientemente, che non è necessario cercarsi negli altri, c’è già l’intero universo dentro di te.”
“Perché?”, mi hai chiesto. “Perché hai fatto tutto questo?”
“Perché un giorno, tu diventerai come me. Perché questo è quello che sei. Uno della mia specie. Tu sei mio figlio.”
”Woow” hai detto, incredulo, “Vuoi dire che sono un dio?”
“No. Non t’allargare, non ancora. Sei ancora un feto. Stai ancora crescendo. Una volta che avrai vissuto ogni vita umana attraverso ogni tempo e attraverso tutte le esperienze, sarai cresciuto abbastanza da poter finalmente nascere.”
“Quindi l’intero universo che cos’è?”, hai detto, “E’ solo…”
“Un uovo, un semplice uovo”, ho risposto. “E adesso è venuto il momento di proseguire con la prossima vita.”
E ti ho mandato per la tua strada.
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Come si diventa un A.A.A. di Paolo Siligato
“Ognuno va dove vuole andare e perde ciò che vuole perdere” [#fridakhalo]
Di cosa è, dal punto di vista associativo, A.A.A. o meglio ancora di cosa non è, si è già scritto.
Per i meno attenti si rimanda al Non-Decalogo disponibile sul sito alla voce Chi NON Siamo.
Sono state stilate delle regole per l’adesione, per l’accredito, per l’accesso ai servizi “on line”. Disposizioni ferree e doverose, sono state messe nero su bianco in modo da far tabula rasa di eventuali dubbi sugli scopi del nostro gruppo.
Ma sul processo che porta ad aggregare i futuri consodali fino a farli diventare parti attive degli Alpinisti Autonomi Associati si sa ancora poco ed è quindi giunto il momento di spiegare la sequenza socio-evolutiva che porta degli esseri, dapprima ignoti gli uni agli altri, a frequentarsi in modo amichevole e propositivo oppure, una volta fatta reciproca conoscenza, ad allontanarsi e chiudere definitivamente l’esperienza dell’incontro.
Disclaimer: per evitare di usare il famigerato carattere non-gender “schwa” (per la semplice ragione che non so che tasto bisogna battere …), tutte le voci sono da considerarsi valide per qualsiasi genere di sesso, scelto o percepito (inclusi i sedici generi necessari alla riproduzione delle Piccole Creature Pelose di Alpha Centauri che però, a causa dei social che li tengono bloccati a smanettare sugli smartphone nelle loro tane, si stanno estinguendo).
Tengo inoltre a precisare che i seguenti titoli non sono delle scale evolutive o devolutive, o di un processo di miglioramento da U.U.U. a E.E.E. o di scadimento se viceversa, ma di un livello di assegnazione percepito “a pelo” dagli A.A.A. nei confronti di un nuovo arrivato.
Solitamente il primo passo per l’aggregazione ad A.A.A. viene compiuto in veste di E.E.E., ovvero di Escursionista Educato Eventuale. L’E.E.E., introdotto e presentato da un consolidato componente effettivo degli A.A.A., partecipa per alcune volte alle escursioni proposte da uno dei soci degli Alpinisti Autonomi. Durante la gita, collabora al raggiungimento della meta mantenendo attenzione al percorso in modo che non si smarrisca il sentiero e fa attenzione che nessuno rimanga troppo indietro o fugga in avanti
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prendendo bivi sbagliati. Senza esserne esplicitamente richiesto, contribuisce alle spese per benzina o autostrada, salvo che i conducenti delle rispettive vetture non lo ritengano necessario. Alla fine della gita magari “butta un giro” in bar…
Il grado inferiore, quando un E.E.E. non ha sin da subito rispettato tutti i presupposti per una sua futura entrata ufficiale in A.A.A., è quello di I.I.I, ossia di Individuo Invitato Indistinto. Come il precedente, viene in gita se chiamato da un socio A.A.A., che se ne assume la “responsabilità morale” nel caso si riveli un’autentica pigna. In questo caso la frase sarcastica usata solitamente dagli A.A.A. in separata sede è “Cocolo el tuo amico, ah …?”
L’I.I.I cammina, sale, scende come se fosse in una gita solitaria, si fa i selfie o chiede di farsi fotografare in vetta da solo, cerca il segnale e telefona ogni volta possibile. In osteria chiede conti separati o quanto viene la sua birra. Al termine dice “Se fe altre gite, ciameme pur ... ”
Da I.I.I a O.O.O. il passo in discesa dai monti è breve. Ecco l’Occasionale Ospite Onnivoro. Si aggrega anche come sotto-invitato dell’I.I.I, perché ritiene di poter partecipare di diritto a ogni gita promossa da chiunque sia … Però parla solo con chi conosce o se attacca bottone non molla il ciacolare neanche nelle salite più ripide, non mette a disposizione posti nella sua auto (perché “dopo noi femo un altro giro per tornar ”), corre in salita senza aspettare gli altri o prende scorciatoie che lo fanno perdere di vista. Al termine della giornata non si ferma neanche per un caffè o due chiacchiere. Difficilmente salirà di categoria fino ad A.A.A. e non lo rivedremo più se non nelle foto delle gite di altre svariate associazioni, comprese quelle che si dedicano all’avvistamento degli alieni nel Friuli Collinare.
Il grado più basso e definitivo è quello di U.U.U., Unica e Ultima Uscita. Durante le gite l’U.U.U. appare negli stessi modi degli E.E.E., I.I.I o O.O.O. (per invito, sotto-invito o auto-invito) ma immediatamente si rende nocivo. Nel caso metta a disposizione la sua auto, deve passare a fare il pieno in distributori specifici e durante il tragitto verso la località scelta per l’escursione pretende numerose soste o deviazioni verso bar e pasticcerie di sua conoscenza per caffè e dolcetti. Se l’escursione prevede attrezzature specifiche, come ciaspole o ramponcini, certo che li ha, nel senso che li possiede, ma li ha lasciati a casa. Per rallegrare gli altri gitanti, racconta barzellette a nastro o si esibisce in yodel su cime e passi, possibilmente in presenza di un nutrito pubblico. A fine gita, rimane con il gruppo per “prendere qualcosa”, ma per posizioni oltranziste sulla nutrizione, pretende che si vada nel bar o nel ristoro da lui scelto nonostante tutti gli altri vogliano andare felicemente in un altro posto.
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Per facilitare la comprensione delle categorie di escursionisti su esposte, vi rimandiamo all'esplicativo diagramma di flusso.
Lasciamo comunque determinare ai soci A.A.A. ciò che percepiscono “in essenza” di ogni singolo gitante non ancora accolto ufficialmente nel nostro gruppo di illuminAAAti, illuminati sì, ma a patto che abbiano nel loro zaino la lampada frontale.
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L'Altopiano di Asiago o dei Sette Comuni di Patrizia Mosetti e Paolo Siligato
“Nascere non basta. È per rinascere che siamo nati. Ogni giorno.” [#pabloneruda]
Asiago è una graziosa cittadina a 1001 m di quota nel territorio della Provincia di Vicenza ed è il capoluogo dell'Altopiano omonimo, anche detto dei Sette Comuni (che però sono otto: Enego, Roana, Foza, Gallio, Lusiana, Conco, Rotzo e, appunto, Asiago). È un territorio particolare, che presenta un piacevole clima d'estate e grandi quantità di neve nel periodo invernale, costituendo così un paradiso specialmente per ciclisti e sci escursionisti, ma che ha anche peculiari aspetti legati alla cultura locale, che risale ai Cimbri, popolo di origine germanica arrivato qui nel XII secolo, e ai combattimenti che qui si svolsero nel corso della Prima Guerra Mondiale.
È la prima volta che veniamo qui e per il primo approccio abbiamo scelto la primavera, prima dell'assalto dei gitanti e villeggianti provenienti dalla pianura e proprietari dei numerosi condomini presenti, che in occasione della festa nazionale del 2 giugno sono arrivati, puntualmente e in massa, ad affollare la città con le sue frazioni, che di suo conterebbe non più di seimila residenti. Asiago vanta una attività turistica di antica tradizione, che affonda le sue origini nei primi decenni del Novecento, quando la ferrovia raggiungeva l'altopiano con la linea Piovene Rocchette – Asiago, ora scomparsa, con la sua locomotiva, affettuosamente soprannominata
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la Vaca Mora. È ancora
visibile invece la bella stazione ferroviaria, costruita nel 1910 e in funzione fino al 1958, che oggi ospita la sede dell'Unione Montana della Spettabile Reggenza dei Sette Comuni e un esercizio pubblico di bar. Come è facile immaginare, la ferrovia consentiva ai villeggianti di raggiungere numerosi la zona fin da allora, coprendo i 21 km di strada e i 718 m di dislivello necessari. Oggi la località è servita unicamente dalla strada asfaltata (una decina di chilometri di tornanti) e ai gitanti che usano l'automobile si uniscono i numerosi camperisti. Sull'altopiano le strade sono sterrate e consentono di girare veramente dappertutto.
Nonostante la quota modesta e i dislivelli contenuti, l'area offre diverse belle opportunità di escursione: noi abbiamo salito i monti Ortigara (2.106 m) e Caldiera (2.124 m), che rientrano nel perimetro dell'Ecomuseo della Grande Guerra, e il Monte Zebio (1.717 m), presso il quale si ricorda l'episodio della Mina di Scalambron, il cui scoppio accidentale durante un temporale l'8 giugno 1917 provocò il seppellimento dell'intera Brigata Catania e lasciò a testimonianza un cratere di decine di metri.
Una sorpresa particolarmente
piacevole è stata la gita ai Castelloni di San Marco (sentiero CAI n. 845): si tratta di un labirinto naturale creato da rocce e trincee naturali che si percorre seguendo le apposite indicazioni, che servono più a fare il percorso completo senza inutili giravolte che a non perdersi sul serio. Alcuni punti sono attrezzati e il sentiero richiede un po' di attenzione, al punto che è classificato per escursionisti esperti.
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Un altro bel percorso ad anello è quello del sentiero CAI n. 861, che dalla Forca di Barbatal raggiunge Malga Slapeur, quindi il Monte Castelgomberto (1.771 m), il Monte Fior (1.824 m), il Monte Spil (1.808 m) e Malga Montagna Nova, regalando una magnifica vista sulla Marmolada e sul Monte Grappa. Anche qui non mancano le testimonianze della Grande Guerra
(tra cui il cippo che ricorda il nostro concittadino Guido Brunner, qui caduto l'8 giugno 1916)) e la Città di Roccia, interessante formazione calcarea e fossilifera.
Qualora il tempo non consenta di fare escursioni, l'Altopiano offre alcune alternative interessanti: a Roana è visitabile SelvArt, parco di sculture all'aperto ideato
dall'artista Marco Martalar e oggi curato e promosso dall'associazione NaturalArte; presso il Rifugio Campomuletto c'è il parco di arte contemporanea Sentiero del Silenzio - Porta della Memoria, progettato dall'architetto Diego Morlin; presso il borgo di Sasso, sul Col d'Ecchele, si può anche ammirare il Monumento a Roberto Sarfatti di Giuseppe Terragni (1935), un piccolo capolavoro del razionalismo; a Stoccareddo si trova il bel Santuario della Madonna del Buso, con relativo Buso Vecchio, un piccolo bellissimo canyon scavato dal torrente Frenzela.
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Escursionismo alle Azzorre
di Patrizia Mosetti e Paolo Siligato
“Il più grande alpinista è quello che si diverte di più.” [#alexlowe]
Le Azzorre sono un arcipelago formato da nove isolette di origine vulcanica (Corvo, Flores, Graciosa, Sao Jorge, Faial, Pico, Terceira, Sao Miguel e Santa Maria) sparse nel bel mezzo dell'Oceano Atlantico. Insieme con Madera, le Canarie e le isole di Capo Verde fanno parte della cosiddetta Macaronesia, ossia le Isole Fortunate, che sono tutte di origine vulcanica e hanno la particolarità di non essere mai state parte di nessun continente. Sono famose principalmente per l'anticiclone omonimo, un'area di alta pressione che condiziona il clima dell'Europa, e godono di un clima mite e piovoso durante tutto l'anno, il che consente la crescita rigogliosa di piante e fiori. Politicamente sono territorio portoghese e voli di linea regolari collegano Lisbona alle principali località azzorrane.
Per organizzare un viaggio va tenuto presente che le isole sono distanti l'una dall'altra e che quindi bisognerà per forza programmare traghetti e voli interni, se non si vuole limitarsi a visitare un'isola sola (ma sarebbe veramente un peccato). Il nostro percorso ci ha portati da Lisbona a Ponta Delgada sull'isola di São Miguel (volo di linea); da Ponta Delgada a Pico sull'isola omonima (volo interno); e da qui a Horta sul'isola di Faial (traghetto). Per spostarsi sulle isole prendere a noleggio un'auto è una necessità assoluta e a volte piuttosto costosa, mentre abbondano alloggi per tutti i gusti: le case sono tante e le auto disponibili sono poche.
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Le Azzorre per chi ama i vulcani sono una meraviglia, poiché offrono vulcani attivi, fumarole, tubi di lava spettacolari e crateri scenografici. Naturalmente anche chi ha poco interesse per la geologia trova di che soddisfarsi, dal momento che qui è possibile praticare un gran numero di attività, dal surf al ciclismo, dall'osservazione dei cetacei alla pesca d'altura, dal torrentismo all'escursionismo.
La rete dei sentieri è estesa e ben segnalata e c'è un sito dedicato: https://trails.visitazores.com/pt-pt mentre caldamente consigliato è scaricare l'applicazione Alert4you, che pubblica avvisi relativi a terremoti, eruzioni, alluvioni, sentieri inagibili e catastrofi varie.
Naturalmente i percorsi sono di dislivello modesto, eccezion fatta per la salita del Pico, tuttavia vari e interessanti: vegetazione lussureggiante, spiagge nere, campi di lava. L'escursione in assoluto più bella è forse quella di Sete Cidades, sull'isola di São Miguel, che parte dal belvedere Vista do Rei per fare il giro di tre ampie lagune di origine vulcanica, scendere al villaggio di Sete Cidades e risalire al punto di partenza per un totale di una ventina di chilometri e circa 700 m di saliscendi: una giornata impagabile! Il 27 settembre 2022 ricorrono i 65 anni dalla famosa eruzione del Vulcano di Capelinhos, sull'isola di Faial, cominciata appunto il 27 settembre 1957 dapprima con un ribollire sottomarino, e continuata per 13 mesi, alla conclusione dei quali lasciò una imponente mole di materiale, che accrebbe il promontorio di circa due chilometri di superficie (che poi l'erosione oceanica si è portata via in buona parte). L'evento provocò
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lo spopolamento della zona, sommersa dalle ceneri. L'eruzione del Capelinhos è stata la prima eruzione sottomarina che fu possibile studiare dall'inizio alla fine e fu ampiamente documentata: su Youtube sono disponibili molti materiali dell'epoca tra foto e cinegiornali che vale la pena di vedere, tra i quali:
https://youtu.be/8mkG7bjwVxg
https://youtu.be/TnjfCnMfZtg
https://youtu.be/FMhoCoTzu1M
Vale la pena di ricordare che i due anni di attività del vulcano non causarono vittime umane, anche per l'impegno e l'interesse sul campo del geologo azorrano Frederico Machado, che seppe prevedere i momenti di maggior pericolo e indicare al momento giusto la necessità di evacuazione delle case. Oggi il promontorio del Capelinhos è percorribile a piedi o visitabile dal mare con una gita in barca ed è protetto come geosito di grandissimo interesse. Oltre al faro vi si trova un centro informativo, con un auditorium e sale espositive, costruito sotto terra proprio per non alterare la visione del paesaggio.
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Montaña do Pico
di Patrizia Mosetti e Paolo Siligato
“Scalare non serve a conquistare le montagne; le montagne restano immobili, siamo noi che dopo un’avventura non siamo più gli stessi” [#royalrobbins]
A causa delle due ore di differenza di fuso orario, quando suona la sveglia alle 6:30 nella nostra stanza di São Miguel Arcanjo è ancora notte. Dopo una colazione veloce, a São Roque imbocchiamo in salita la statale R 2-2 che taglia perpendicolarmente l'isola di Pico. Dopo una decina di chilometri giriamo verso ovest sulla lunghissima linea della R 2-3 e quando inizia ad albeggiare giriamo a sinistra per la tortuosa strada che arriva al rifugio Casa da Montaña, a circa 1.250 m slm. Da là inizieremo la nostra escursione sulla Montaña Do Pico, il vulcano che con i suoi 2.350 metri di altitudine rappresenta la massima elevazione dell'arcipelago delle Azzorre e di tutto il Portogallo.
La salita al Pico è contingentata e necessita di una prenotazione, anche se non è necessario farlo con larghissimo anticipo. Noi avevamo prenotato per il giorno precedente ma il passaggio del Ciclone Gaston lo ha sconsigliato, in ogni caso i ranger del rifugio ci hanno contattato in anticipo (cosa che se non avessimo fatto noi...) e abbiamo posticipato la salita al giorno successivo. Per prima cosa ci dobbiamo notificare agli addetti al controllo e ci vengono consegnati dei GPS per rintracciarci in caso dovessimo perderci.
Ci fanno le raccomandazioni d'obbligo, cioè non lasciare il sentiero segnalato dalle 47 paline (nel caso c'è una signora multa), ci chiedono se abbiamo
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buoni indumenti, acqua, cibo. Nel caso ci smarrissimo, basta schiacciare un bottone del GPS, loro ti rispondono e se serve ti vengono a soccorrere. Se invece a perdersi è il GPS stesso, costa un 200 euro... Ora capiamo perché la salita è a numero chiuso: è in funzione di quanti GPS hanno.
Ci informano comunque che, dato il forte vento in quota, la discesa nel cratere e la salita al cono della cima vera e propria, il Piquinho, sono vietati.
Intorno alle 8:30 iniziamo a salire, prima delle comode scale in cemento, poi un buon sentiero fino al modesto cono vulcanico del Fuma-Abrigo, dove c'è anche una cavità con pozzo verticale recintato e alcuni cartelli esplicativi, siamo intorno ai 1.400 metri di quota. Da là in poi il sentiero inizia a inerpicarsi sul serio tra le colate brunastre solidificate di chissà quante eruzioni.
Anche se sulla costa ovest si scorge la cittadina di Madalena che comincia a illuminarsi nel sole, sulle pendici del vulcano ristagna una nebbia, a tratti densa, a volte nebulizzata, altri con veri e propri scrosci di pioggia. Non sempre è facile scorgere la palina successiva che indica la traccia da seguire e a volte, visto che si tratta di colatoi formati dallo scorrimento della lava, saliamo qualche decina di metri di distanza, per poi ritrovare l'indicazione successiva. Le paline sono fatte con travetti di legno di circa un metro e mezzo e alcune sono numerate (credo lo fossero tutte, ma pioggia e polvere hanno cancellato i numeri), ma si possono anche confondere con quelle vecchie, in travetto di cemento, non sempre sullo stesso tracciato del sentiero attuale. Durante la salita superiamo quasi tutti i gruppi di escursionisti, alcuni mal equipaggiati, e questi, ritenendoci (chissà perché...) più esperti del percorso ci seguono finché la nebbia non ci separa.
Il sentiero comunque non è mai esposto, in fin dei conti si tratta di un cono vulcanico, ma la pendenza si fa più accentuata man mano che si sale, quindi ci sono più zig zag e serpentine non sempre facile da scorgere nelle brume.
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Da palina a palina, sempre più bagnati e con visibilità pari a zero e vento teso con pioggia di taglio a 45° raggiungiamo l'orlo del cratere, non abbiamo capito se alla palina nr. 45 o 46 circa a quota 2.250 (la 47 è giù...) e in effetti qualcosa a tratti si intuisce: la rotondità della circonferenza si scorge per qualche secondo prima che le nebbie richiudano, ma non garantirei per una apparizione del conetto sommitale: sappiamo che c'è e questo deve bastare.
Iniziamo a ridiscendere nella nebbia incrociando parte di quelli che avevamo superato in salita.
In prossimità del craterino di quota 1.400 incontriamo gruppetti di giovani in scarpe da ginnastica bianche e felpe in cotone; c'è pure una biondina con canottiera bianca, perché effettivamente in basso spunta il sole e fa caldo: carina, lei, ma vedremo dopo, viste le condizioni meteo dopo poche centinaia di metri di altitudine più su.
Restituiamo i GPS e dopo un panino in macchina (prima non era consigliabile fermarsi) e aver strizzato per bene i calzettoni, scendiamo verso Madalena per un bel caffè e un “pastel de nata” al bar del centro commerciale Continente Modelo.
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Quando uno è bello, è bello! Il Monte Palabione
di Patrizia Mosetti
“Un paese di pianura per quanto sia bello, non lo fu mai ai miei occhi. Ho bisogno di torrenti, di rocce, di pini selvatici, di boschi neri, di montagne, di cammini dirupati ardui da salire e da discendere, di precipizi d’intorno che mi infondano molta paura.” [#jeanjacquesrosseau]
Nel nostro girovagare estivo a vedere un po' di monti in zone da noi poco battute, capitiamo in quel di Aprica (Sondrio). Il campeggio è poco frequentato, come pure il resto della vallata, e la cosa ci piace. Restiamo qualche giorno e facciamo qualche giro. Non abbiamo informazioni molto accurate, ma ci arrangiamo. Tra le scoperte più belle dell'estate c'è senz'altro questo percorso attrezzato di assoluto relax, facile e panoramicissimo, con cui si sale il Monte Palabione.
Prendiamo la cabinovia fino al Ristoro Pasò a 1.700 m di quota, poi, dato che, come dicevo, abbiamo dati un po' approssimativi, facciamo il percorso probabilmente in senso inverso a quello pensato dagli apritori, ossia in salita seguendo i segnavia n. 341 e 340 passando per il Rifugio Valtellina e in discesa il n. 327. Poco male, ravaniamo un po' e troviamo le attrezzature in discesa, ma dato il grado di difficoltà, non fa grande differenza. Il percorso è piacevole e divertente su bellissima cresta.
In discesa verso il lago troviamo la targa con la dedica del percorso ai coniugi Biglioli, posta il 27 luglio 2004: avessimo voluto celebrare la data di proposito non ci saremmo riusciti!
Al lago ci giriamo a riguardare il Palabione, che da questo punto sfoggia un
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profilo perfetto e ci conferma una volta di più che non occorre essere dei giganti per imporsi all'attenzione e non servono fatiche sovrumane per godere di una bella gita: grazie, Palabione, davvero bello!
SCHEDA TECNICA
Orobie Valtellinesi – Monte
Palabione (2.358 m)
Via del Cuore alla Croce – EEA
Dislivello percorso attrezzato 150 m
Dislivello complessivo 660 m
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Il Sentiero dei Contrabbandieri di
Paolo Siligato
"Tutto ciò che siamo, è il risultato di ciò che abbiamo pensato. La mente è tutto. Ciò che pensiamo, noi diventiamo." [#siddhartagoutama]
Non è che ci sia stato molto chiaro come trovare l'attacco del Sentiero Torti o anche detto Dei Contrabbandieri. Le possibilità erano due, dal basso, partendo dalla statale Gardesana Occidentale presso il Ristorante Casa della Trota, nel qual caso si risale, per poi percorrerlo in direzione nord, oppure dall'alto, dal borgo di Pregasina. Abbiamo optato per la seconda soluzione, anche se abbiamo faticato un poco per orientarci prima di capire che bisognava imboccare la strada per il lago di Ledro. Dopo una lunga galleria, ecco finalmente il cartello che indica il paese, un'altra breve galleria e il belvedere con una statua della Madonna, dove si lascia l'auto.
Dallo spiazzo panoramico un paio di gradini portano a una strada asfaltata in disuso per la quale si scende fino a incontrare una lastra di pietra con l'indicazione “Sentiero Contrabbandieri”; seguendo la traccia presto si cominciano a scorgere le reti antimasso che caratterizzano il primo tratto del Torti e dopo aver aggirato un pinnacolo si scorge la targa dell'inizio di questo percorso alpinistico.
Il Sentiero è dedicato Massimiliano Torti, un alpinista di Arco scomparso a 23 anni sul Dente del Gigante nel 2000. Molte recensioni reperibili in rete spiegano che è un vero e proprio percorso alpinistico e non una ferrata,
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lungo il quale è meglio procedere in conserva oltre a dotarsi del set con dissipatore. Così abbiamo fatto, con uno spezzone di corda di 40 metri (ma ne basterebbero meno), 8 rinvii, longe e un paio di cordini, secchielli e un paio di moschettoni a ghiera.
Ci si imbraga appena arrivati alla targa e via. Il primo tratto passa sotto la rete antimasso in una specie di galleria, poi si cammina in cengia.
La via è armata con spit e anelli con un cavo (sottile) nei punti più esposti, cosicché si procede spediti in conserva proteggendo ogni pochi metri, salvo ricongiungersi sia per scambiarsi i rinvii sia per far sicura nei pochi punti più aerei: il primo è un camino che bisogna attraversare nel vuoto o con una lunga spaccata o appendendosi (con fiducia) al cavo.
Si continua ancora sulla cengia, a volte larga ma senza cavo di protezione, sempre in conserva, fino al secondo punto “impegnativo” cioè un salto di alcuni metri con una scaletta penzolante con alcuni gradini rotti. Noi, forti delle nostre esperienze speleo, la scendiamo senza grandi difficoltà, ma ci si può anche calare in corda doppia atterrando su un ripiano ampio.
Dietro di noi c'è un'altra coppia, così approfittiamo per farci foto “in pose eroiche” a vicenda.
Nella direzione opposta invece, probabilmente partiti dalla Gardesana, arrivano quattro o cinque teutonici, rigorosamente senza imbragatura, casco o altro: magari sono i più forti alpinisti del mondo, però...
Infatti dopo un centinaio di metri, passato un canalone rientrante tra
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la macchia di lecci e ginestre, ecco un altro punto notevole del percorso: un lungo traverso su placca con alcuni passaggi strapiombanti, ben armata “a ferrata”, ma non sempre con buoni appoggi per i piedi; qualche centinaio di metri più in basso si vede la statale con i ciclisti che vi sfrecciano felici: piombar su di loro non sarebbe carino quindi il set con dissipatore e la longe servono eccome e fanno il loro dovere!
Le difficoltà sono presto terminate e si procede sulla cengia orizzontale seguendo il profilo delle pareti, a volte su veri e propri pulpiti aggettanti sul blu del lago e a volte rientrando nell'ombra di grandi camini, poi il versante si addolcisce e le rocce lasciano lo spazio ad arbusti e cespugli.
Tolti imbraghi e riavvolta la corda, salutiamo la coppia con la quale abbiamo condiviso parte del percorso; loro scendono verso la Gardesana, per noi invece un cartello indica la traccia che risale ripida verso Pregasina, dove abbiamo lasciato l'auto.
SCHEDA TECNICA
Prealpi Bresciane
EsposizioneEst
Dislivello circa 250 m
Materiale corda da 30 m, almeno 6/7 rinvii
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