N. 3 | OTTOBRE 2020
BIRRA NOSTRA
MAGAZINE
NOVITÀ, DEGUSTAZIONI, PRODUZIONI, ITINERARI NEL MONDO BIRRARIO
IL LUPPOLO
UN PROTAGONISTA, TANTI RUOLI Luca Pretti
IN PRINCIPIO FU L’AMARO Simonmattia Riva
FOCUS
Hoppy Beers
MoBI Tasting Team
Le guide
LA TUA BIRRA FATTA IN CASA - 5a ED. In questo manuale bestseller, giunto alla 5a edizione, due esperti birrificatori casalinghi spiegano finalmente per filo e per segno i cosa, i quando e i come di una birra buona e genuina: per sapere veramente che cosa si beve! Vengono approfonditi argomenti come: • Le materie prime e l’attrezzatura • Il processo di produzione • Tecniche particolari (bazooka, metodo BIAB, malti speciali nel forno di casa) • Pregi e difetti della birra. Come valutare una birra. Progettare la propria birra • Ricette per realizzare svariati stili birrari
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ISSN: 2038-0895
#251
ISSN:2038-2723
NOVEMBRE/DICEMBRE 2016
ANNO 8 - FEBBRAIO 2017
Organo ufficiale
bimestrale
A SCUOLA DI EFFICIENZA
ORGANO UFFICIALE ANGAISA (Associazione Nazionale Commercianti Articoli Idrotermosanitari, Climatizzazione, Pavimenti, Rivestimenti ed Arredobagno)
TAVOLA ROTONDA
Conto Termico e TEE. A che punto siamo?
CLASSIFICHE 2015
Analisi del processo e case study
FILTRAZIONE E QUALITÀ DELL’ARIA SOTTORAFFREDDAMENTO ADIABATICO PER LA FRIGOCONSERVAZIONE ALIMENTARE
Produttori e distributori: ce la si può fare!
Poste Italiane Spa – Posta target magazine – LO/CONV/020/2010
IMPIANTI NEGLI NZEB: DALLA TEORICA ALLA PRATICA EPB, LE NOVITÀ DELLE NUOVE NORME IMPIANTI AD ARIA PRIMARIA VS VAV FOCUS COMMISSIONING
N. 64 · Anno XI · dicembre 2016
Per PENSARE, PROGETTARE e COSTRUIRE SOSTENIBILE
ITS Dove va la filiera? FOCUS Un anno di logistica MATERIA CONNECTION
SPECIALE BIM TREND Il bagno che ti calza a pennello
DISTRIBUZIONE Quando la differenza la fa il “service”
ANTONIO FALANGA Una passione sempre viva
N. 0 | SETTEMBRE 2019
BIRRA NOSTRA SAIE INNOVATION 2016 MEDAGLIE D’ORO A “IMPATTO ZERO”
FOTOVOLTAICO INTEGRATO STORIA E ITER PROGETTUALE PCM UNA SCELTA DA NON SOTTOVALUTARE
RISPARMIO ENERGETICO NEL TERZIARIO
Passo obbligato e grande opportunità
Il ruolo del BIM nella sicurezza in cantiere
MAGAZINE
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Organo ufficiale FINCO
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NOVITÀ, DEGUSTAZIONI, PRODUZIONI, ITINERARI NEL MONDO BIRRARIO
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FOCUS
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I BENEFICI DELLA NORMAZIONE
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1563
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L’EDITORIALE
Innovazione e cambiamento di GIOVANNA ROSADA
O
gni campo dell’architettura e dell’ingegneria nel senso più ampio del termine ha fatto progressi, ha modificato modalità, metodologie, tecnologie, mezzi e strumenti, fatto ricerche e scoperte. Le idee sono progredite, sono mutate, si sono evolute; si sono adeguate alla società o hanno modificato modi e stili di vita. Nessuno si è mai posto il problema se fosse giusto o sbagliato; la cultura del “fare” ha privilegiato la sperimentazione e ha insegnato che dagli errori si può imparare, crescere, progredire e migliorare. Non è mai stato chiesto ai professionisti se fossero d’accordo con un “SI” o con un “NO”. È stato dato semplicemente per scontato che il cambiamento fosse insito nella natura dell’uomo e nel nostro caso dei professionisti, nella loro ricerca di miglioramento e progresso per il bene comune. Ci sono stati “si” e “no” dettati da successi e insuccessi; il buon senso e la competenza hanno sempre fatto da guida nelle scelte e quindi nell’evolversi delle professioni. Per la politica evidentemente è diverso; ma ciò dimostra solo uno scollamento fra i problemi pratici della quotidianità dell’individuo e l’incapacità della politica ad adeguarsi. Il buon senso non fa da guida; un referendum che fa contento/scontento la metà dei cittadini resta un problema non risolto. Il cambiamento è necessario e la civiltà parla da sola a tal proposito; ma il cambiamento dovrebbe godere della fiducia e della certezza di tutti i cittadini quando si parla di politica. Se tutti quanti noi quando attraversiamo un ponte o saliamo sulla cima di un grattacielo diamo per scontato di poterci fidare di chi ha pensato il progetto, forse non vuol dire che i professionisti potrebbero insegnare e dire il loro pensiero con più forza alla politica?
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DIGITAL N. 12 - Dicembre 2016
Dal 1952 periodico di informazione per ingegneri e architetti
La crisi ancora “morde”, il contesto politico barcolla, alta l’attenzione sul governo degli ingegneri
Un CNI eletto per dare risposte
di MATTEO PALO
R
iorganizzazione delle divisioni operative del Cni. E, in prospettiva, due sfide: quella dei servizi per gli iscritti e delle strutture territoriali. Armando Zambrano, presidente uscente del Consiglio nazionale degli ingegneri, si prepara a governare la categoria per altri cinque anni: dal 2016 guiderà gli ingegneri fino al 2021, quando completerà i suoi dieci anni di mandato. In attesa che arrivi l’ufficialità del ministero della Giustizia e che i consiglieri designati indichino lui come nuovo presidente, è già possibile fare il punto sulle prime mosse del nuovo Governo del Cni. “Siamo desiderosi di partire, visto che dai territori è arrivata un’indicazione così forte per la continuità del Consiglio nazionale uscente”, è stata una delle prime dichiarazioni fatte da Zambrano.
In USA volano le infrastrutture
TAX& LEGAL Partite IVA dal prossimo anno la contabilità diventa un lavoro a tempo pieno e i costi salgono a pag. 15
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LA DISTRIBUZIONE NEGLI IMPIANTI DI RISCALDAMENTO
SCIA, operativo il modello unico
Raddoppiati i programmi per le opere pubbliche, un trilione Lj r-]ĸƐ di dollari per infrastrutture e stimolo ai consumi. Gli effetti in Europa e le opportunità per le imprese italiane. La Cop22 di Marrakech e le politiche Usa sulle emissioni. alle pagg. 6-7
Lj r-]ĸƐƓ
segue a pag. 2
GOVERNO IN CRISI
Ancora trattative e consultazioni?
CASSA DEPOSITI E PRESTITI
Parte il piano 'smart city' 1 miliardo per 14 città
a pag. 7
I pareri degli Ordini dopo l’esito del referendum del 4 dicembre
Abbiamo sentito alcuni Ordini per commentare un ipotetico scenario all'indomani delle dimissioni di Renzi. Nelle parole dei Presidenti inter pellati è fortissima la preoccupazione sull’ennesima battuta d’arresto di un Paese in affanno. Stabilità e certezza sono oggi più lontane per lo meno dal punto di vista temporale. Come sottolinea Varese “Ora gli ac cordi tra CNI e Governo che fine faranno?” / alle pagg. 1819
LA TRIVELLA
Professionisti al passo coi tempi...
SPECIALE MILLEPROROGHE
INTERVISTA ALL’ARCH. DE LUCCHI
“Il museo del futuro è il mondo intero”
Eucentre per ricostruire la sicurezza Tutti
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Novembre/Dicembre 2016
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CORSI
FINANZIAMENTI PMI
TAVOLA ROTONDA
Editoriale
Via libera alla finanza innovativa, quali risposte alla stretta del credito?
Italia scossa di Fabio Chiavieri Macerie ovunque, interi paesi rasi al suolo, gente disperata, sguardi persi. No, non è lo scenario di guerra che ci arriva da qualche zona remota del mondo, a cui siamo tristemente abituati. È la forza devastante del terremoto che ha colpito, e continua a farlo, il nostro Centro Italia. Una faglia che si è estesa per cinquanta chilometri, una ferita su quelle terre che non si potrà più rimarginare. L’Italia è scossa, fisicamente e mentalmente; schiaffeggiata dalla mano della natura che a volte sa essere molto dura nella sua inarrestabile forza. Eppure il nostro paese risulta essere nelle prime posizioni per quanto riguarda l’utilizzo di tecnologie antisismiche nelle nuove costruzioni. Cosa succede allora? Alessandro Martelli, Presidente del Glis (Isolamento sismico e altre strategie di progettazione antisismica), ha dichiarato che “Oltre il 70% dell’edificato italiano attuale non è in grado di resistere ai terremoti che potrebbero colpirlo”. Il problema pertanto è la sicurezza delle costruzioni più datate, e di un immenso patrimonio storico e culturale famoso in tutto il mondo, fatto di chiese, monumenti, palazzi storici, emblema di un passato grandioso che ha visto protagonisti i più grandi artisti e ingegneri di tutti i tempi. Il tema della sicurezza degli ambienti in cui viviamo e lavoriamo, più volte trattato dal nostro giornale e a cui le nostre imprese pongono molta attenzione, ritorna così alla ribalta in un frangente – purtroppo non l’unico negli ultimi anni - tanto eclatante quanto drammatico. Dalle pagine de L’Ammonitore abbiamo rivolto molti inviti al settore manifatturiero italiano a investire in tecnologie produttive innovative per continuare a essere competitivo, e questa volta ci sentiamo di invitare tutti a investire sulla propria sicurezza, lo Stato a salvaguardare la vita dei cittadini intervenendo significativamente sulle strutture pubbliche e sul nostro prezioso patrimonio artistico, perché il futuro non si prevede, men che meno un terremoto, ma si prepara.
LA CITTÀ DELLA BIRRA AMERICANA Matteo Macalaria
Per redarre un progetto il supporto informatico è dato per scontato che i professionisti lo abbiano, lo usino e lo utilizzino. Per depositare un progetto in Comune è scontato che tutto il supporto elettronico diventi carta, che la firma digitale non sia prevista, e che sia scontato fare una coda di ore per farsi mettere un timbro di carta per documentare la consegna.
50 anni di torni
Fondata da Paolo Giana nel 1966, Torgim compie il prestigioso traguardo dei 50 anni di attività. Il comune di Magnago vide un grande sviluppo economico e industriale già a partire dalla seconda metà del 1800. Con il passare dei decenni il territorio s’è via via arricchito di aziende manifatturiere che hanno rappresentato delle vere eccellenze in molti settori industriali. [pag. 11]
[pag. 10]
– Anno 72 - n. 9
i rinvii
[pag. 14]
a pag. 10
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Il 2016 è un anno molto importante per Tiesse Robot. L’azienda festeggia infatti i 40 anni di attività: una storia lunga di successi nazionali e internazionali per le applicazioni della robotica in [pag. 6] ambito industriale.
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Trasformare l’esperienza di oltre 40 anni di attività in una nuova piattaforma in grado di coniugare soluzioni avanzate con le esigenze e professionalità di oggi. Questo è lo sforzo che sta compiendo Hexagon Manufacturing Intelligence, emerso anche durante il forum di fine settembre dedicato all’automazione e alle tecno[pag. 4] logia multisensore.
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Rettificatrici Ghiringhelli: 95 anni sull’onda dei mercati
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Rivista dell’Associazione Italiana Tecnici del Latte Journal of the Italian Dairy Science Association www.aitel.it Innovazioni tecniche nella stagionatura dei formaggi molli Soft cheese ripening technological innovation
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INTERVISTA Gianfranco Carbonato, un’emozione che dura da quarant’anni TENDENZE Generative design, come cambierà il mondo
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Editoriale
L’importanza della MATERIA PRIMA
N
on c’era periodo migliore per dedicare il numero monografico di Birra Nostra Magazine al luppolo! In un settembre con il clima più da spiaggia che da raccolta, gli agricoltori hanno lottato contro il tempo per preservare una delle materie prime indispensabili per ottenere una buona birra. Di luppolo e della sua coltivazione se ne parla da tempo. Chi pensa che si tratti di una moda agricola passeggera sbaglia prospettiva: nel 1875 un visionario di nome Alfonso Magiera, segretario del Comizio Agrario di Modena, aveva avviato uno studio su questa coltivazione che, a suo avviso, non aveva nulla di meno rispetto ad altre e poteva garantire una buona resa. Il tempo gli ha dato ragione e in occasione della realizzazione di questo numero abbiamo incontrato chi, nel solco dei suoi insegnamenti, ha fatto del luppolo, in tutte le sue forme, la sua professione. In questo numero dal colore verde come quello del luppolo maturo, abbiamo spaziato tra chi lavora nei campi e lo coltiva come Roberto e Ludovico, chi invece per nome e conto
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dell’Università che rappresenta lo studia e approfondisce come Tommaso e Luca, chi lo utilizza come Eugenio, Fabiano e Agostino, chi ancora lo assapora e lo degusta per raccontare ad altri l’essenza di questa materia prima e la sua capacità di influenzare il prodotto finale come i componenti del MoBI Tasting Team o l’autorevole opinione di Simonmattia; abbiamo lasciato anche spazio a chi invece si spinge verso confini più o meno lontani, verso nuove terre alla scoperta di sapori, storie, tecniche e tradizioni. Alla fine ci siamo resi conto che la materia prima di cui volevamo parlare è passata in secondo piano. È emerso invece l’elemento indispensabile, ciò senza il quale nulla di tutto quello che noi vi abbiamo raccontato potrebbe prendere forma: la passione! Non esiste infatti materia prima più rara e delicata della passione e tutte le persone con le quali abbiamo parlato, che abbiamo conosciuto e che collaborano con noi ne sono fortemente dotati!
MIRKA TOLINI Professionista della scrittura e della comunicazione collaboro da dieci anni al progetto Birra Nostra
Buona lettura e buona bevuta!
BIRRA NOSTRA MAGAZINE
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BIRRA NOSTRA NOVITÀ, DEGUSTAZIONI, PRODUZIONI, ITINERARI NEL MONDO BIRRARIO
MAGAZINE
IN QUESTO NUMERO... EDITORIALE L’importanza della materia prima
3
MATERIE PRIME La coltivazione del luppolo nella storia di Mirka Tolini
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La forza di osare di Mirka Tolini
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Valutazione del luppolo di Eugenio Pellicciari
14
L’INTERVISTA Fabiano Toffoli e il luppolo a Km O! di Mirka Tolini
20
Marco Sabatti e Porta Bruciata di Andrea Camaschella
14
24
BIRRA & RICERCA Testa, cuore… e braccia! di Mirka Tolini
28
Il luppolo: un protagonista, tanto ruoli di Luca Pretti
32
HOMEBREWING Non solo luppolo di Massimo Faraggi
TECNICA
36 SEGUICI SU
4
36
La conservazione del luppolo di Massimo Faraggi
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facebook.com/BirraNostraMagazine
BIRRA NOSTRA MAGAZINE
ottobre 2020
NOME SEZIONE
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52 Birra Nostra Magazine - Bimestrale Pubblicazione registrata presso il Tribunale di Verona in data 22 novembre 2013 al n. 2001 del Registro della Stampa
FOCUS MoBI tasting sessions: Hoppy Beers a cura del MoBI Tasting Team
44
Produzione Paolo Ficicchia
Comitato di Redazione Davide Bertinotti, Luca Grandi redazione@birranostra.it
Stampa Grafica Veneta S.p.a.
Hanno contribuito a questo numero Vanessa Alberti, Andrea Camaschella, Massimo Faraggi, Eugenio Pellicciari, Luca Pretti, Simonmattia Riva, Federico Viero
L’OPINIONE In principio fu l’amaro di Simonmattia Riva
Direttore Responsabile Mirka Tolini
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Impaginazione LIFE - LSWR Group Quine Srl
Iscrizione al Registro degli Operatori di Comunicazione n. 12191
TURISMO BIRRARIO
Presidente Giorgio Albonetti
USA: Pacific North West di Vanessa Alberti e Federico Viero
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Coordinamento editoriale Chiara Scelsi chiara.scelsi@quine.it
RUBRICHE 31
Dalle aziende BrewDog Tomorrow, bere birra artigianale fa bene al pianeta
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News Hop Tony, Hop!
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ABBONAMENTI Quine srl, Via G. Spadolini, 7 20141 Milano – Italy Tel. +39 02 88184.117 Fax +39 02 70057190 www.quine.it Rosaria Maiocchi e-mail: abbonamenti@quine.it Gli abbonamenti decorrono dal primo fascicolo raggiungibile.
Birra Nostra Magazine è frutto della collaborazione tra Birra Nostra e MoBI - Movimento Birrario Italiano www.birranostra.it - www.movimentobirra.it
Eventi Nata la partnership tra Unionbirrai e Cibus
Amministratore delegato Marco Zani
Archivio immagini Shutterstock Foto di copertina di Isabella Franceschini: Raccolta del luppolo alla Cooperativa Luppoli italiani, Grattacoppa (RA). La foto di copertina del n.2/20 era a cura di Sofie Delauw. Si ringrazia per l’ospitalità Birrificio Brùton
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BIRRA ARTIGIANALE ITALIANA DI QUALITÀ
Tutto il materiale pubblicato dalla rivista (articoli e loro traduzioni, nonché immagini e illustrazioni) non può essere riprodotto da terzi senza espressa autorizzazione dell’Editore. Manoscritti, testi, foto e altri materiali inviati alla redazione, anche se non pubblicati, non verranno restituiti. Tutti i marchi sono registrati. INFORMATIVA AI SENSI DEL GDPR 2016/679 Si rende noto che i dati in nostro possesso liberamente ottenuti per poter effettuare i servizi relativi a spedizioni, abbonamenti e similari, sono utilizzati secondo quanto previsto dal GDPR 2016/679. Titolare del trattamento è Quine srl, via Spadolini, 7 - 20141 Milano (info@quine.it). Si comunica inoltre che i dati personali sono contenuti presso la nostra sede in apposita banca dati di cui è responsabile Quine srl e cui è possibile rivolgersi per l’eventuale esercizio dei diritti previsti dal D.Legs 196/2003. © Quine srl - Milano
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MATERIE PRIME
di Mirka Tolini
LA COLTIVAZIONE DEL LUPPOLO NELLA STORIA Un esempio da seguire
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e qualcuno pensa che la coltivazione del luppolo sia una moda passeggera figlia di coltivatori alternativi dovrà rivedere il suo punto di vista. Il nome di Alfonso Magiera ai più dirà molto poco, ma è suo un documento che risale al 1875 dal titolo “Della coltivazione del luppolo”, letto e consegnato a tutti agli agricoltori del Comizio Agrario di Modena e da lui redatto in qualità di Segretario dello stesso. Nel documento parla di una «coltivazione per me anche più insueta (della barbarbietola n.d.r), dappoichè mai l’abbia praticamente sperimentata, e solo due volta abbia visti campi segnati dalle
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BIRRA NOSTRA MAGAZINE
verdeggianti linee di Luppolo, coperti dai ricchi suoi pergolati, ornati delle sue ardite piramidi, guglie, obelischi e fantastici padiglioni». Una coltivazione che lui stesso definisce «nuova per questa provincia» ma che a suo dire come già la barbabietola aveva fatto, poteva dare vita «ad una industria fino ad ora non tentata fra noi (...) per aumentare il benessere della agricoltura». Nel presentare i suoi studi agli agricoltori del Consorzio, Magiera si presenta come «uno studente novizzo» che si è accostato adulto allo studio di questa coltivazione facendo suoi gli studi del bolognese Carlo Berti-Pichat, citato non in qualità
di deputato del Regno d’Italia e fresco Senatore ma piuttosto di agronomo e agricoltore ai cui studi si rifece anche «il primo che introdusse nella nostra provincia la coltivazione del Luppolo padre della birra (..) Raimondo Montecuccoli che ne fece ben riuscito esperimento ne prediletti contorni di Marano». Gli studi di Magiera partono dall’osservazione del territorio «lungo le siepi, attorno alle macchie, sul ciglio dei fossati e dei burroni, singolarmente nei fondi di terreno leggiero e permeabili nel sottosuolo, cresce spontaneo il Luppolo selvatico e tanto prospera nel nostro clima che, crescendo pronto, s’avvitic-
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MATERIE PRIME
chia stringendo e sovraponendosi accavalla e soffoca fra le sue spire le piante ed i frutticci mal cauti che gli diedero il primo appoggio» e da una considerazione «Prospera questa vite del Nord coltivata da immemorabile tempo in Germania, nelle Fiandre, In Inghilterra, nei paesi bassi, nell’America settentrionale, in Francia e mi par che ciò basti a concludere debba prosperare anche nel giardino di Europa se trova giardiniere che la coltivi». Nei suoi studi il segretario del Comizio Agrario di Modena viene a conoscenza del forlivese Gaetano Pasqui «che dal 1847 al 1850 coltivò una trentina di piante ed ebbe buoni risultati (...); nel 1873 aveva una luppolaja di qualche entità, fece buona birra e buoni danari». Arriva a documentare le piante, il raccolto, la spesa, l’incasso e anche l’utile netto della coltivazione di Gaetano Pasqui, definendo i risultati «lusinghieri» nonostante la luppolaja venisse «colta da malattia speciale nel terzo anno di sua vita, nel 1855, la quale
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infierì poi più forte sulle piante adulte nel 1856, e che il Pasqui riuscì a dominare nel 1857, anno in cui gli fu conferita una medaglia d’onore a Forlì». Se Gaetano Pasqui riuscì a realizzare «lire 4 il chilogrammo» divenute poi «lire 6» qualche anno più avanti è anche bene sapere che negli stessi anni il prezzo del luppolo in Germania era di «lire 15 il Kil», il che fa desumere a Magiera che «i calcoli del prezzo del Pasqui pel prezzo, non sono adunque certamente esagerati». Incoraggiato dai risultati nel forlivese, il prof. Francesco Luigi Botter, originario di Valdobbiadene ma nel 1861 docente di agraria e botanica all’università di Bologna che «intraprese le sue esperienze volte a provare, non se il luppolo attecchiva e vegetava a Bologna, ma se veramente quella coltivazione fosse così favolosamente proficua» per concludere che alla fine il «prodotto enorme e sorprendente» pur avendo calcolato il risultato con le più pessimistiche ipotesi. «Non pretendo che il lup-
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polo si sostituisca al frumento e si faccia un luppolajo di una provincia, ma mi sembrano tali dati assai lusinghieri per indurre a destinare, se non altro in via di prova, un angolo dei nostri campi allo sbiadito grappolo di bevitori del Nord, non certo colla idea di sostituirli alla più colorita corona del nostro rubizzo Dio nazionale». Il documento passa poi ad analizzare e valutare le spese e le rendite dei possedimenti del marchese Montecuccoli a Marano per concludere che «si avrebbe più della rendita media che in ebbe in un decennio a Rottembourg» senza tralasciare di citare «il diploma che otteneva il Montecuccoli alla esposizione internazionale di Hugenau il 18 ottobre ultimo scorso, il quale attesta che Marano, certo per la prima volta, ha figurato ed ha meritato un premio per Luppolo nel paese della birra». Il documento prosegue poi con l’analisi delle attività atte ad una buona e proficua coltivazione, soffermandosi anche sulle fasi di lavorazione e di essiccatura indispensabili per ottenere un buon
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prodotto. Verso la fine dell’intervento la richiesta al Comizio Agrario di «poche e buone are di terra per la coltivazione e preparazione del Luppolo» e il desidero espresso «se il nostro luppolo andasse in Francia ed in Germania anzichè da quelle con nostro scapito essere ritratto sarei molto orgoglioso di avere a ciò cooperato, a rischio d’essere riuscito stucchevole e, non aspirando io a corona civica, proporrei una corona del più bel tralcio di luppolo che fra qualche anno fosse nata in provincia».
Poca strada si è fatta dal 1875 ad oggi quando ancora all’interno delle associazioni agricole si discute sulla scarsità di informazioni in merito a disciplinari sulla coltivazione del luppolo e alla necessità di farne una eccellenza italiana. Gli studi e gli esperimenti ante litteram di Magiera ci giungano quindi come un invito a migliorare il percorso fino ad oggi tracciato con lo scopo di trarre il meglio dal nostro territorio potenziando quel concetto di made in Italy applicato anche alla birra artigianale. ★
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Le guide
IL MANUALE DEL BIRRAIO Il testo più completo e autorevole a livello mondiale sulla scienza e la pratica della birrificazione, riferimento indispensabile per tutti i birrai e per gli studiosi della materia. Illustra nel dettaglio i principi alla base del processo di produzione della birra, dalla maltazione all’ammostamento, all’utilizzo del luppolo e del lievito. Il volume approfondisce inoltre le fasi della fermentazione, i pericoli di contaminazione, la maturazione, l’imbottigliamento e le diverse influenze sul gusto finale della birra. Particolare attenzione è dedicata anche agli aspetti ingegneristici e tecnologici, per offrire soluzioni teoriche e pratiche all’azienda birraria di grandi e piccole dimensioni.
ISBN 978-88-6895-767-4 Pagine 392 | 2 Colori Prezzo 59,90 euro
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edizioniLSWR
MATERIE PRIME
di Mirka Tolini
LA FORZA DI OSARE
Una nuova coltivazione è possibile!
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lasse 1991 Ludovico Lucchi è un agricoltore di nuova generazione che, senza una famiglia di contadini alle spalle ha deciso che il suo futuro poteva avere il colore del luppolo. «Nel 2016 ho deciso che dovevo dare una chanche alla mia passione per la campagna; non avevo alcuna esperienza diretta ma avevo conosciuto Eugenio Pellicciari e ho iniziato a pensare al potenziale del luppolo. Sul mercato c’era tanta America e Germania ma si parlava poco o niente dell’Italia; consapevole di non avere una preparazione adeguata mi sono documentato, ho studiato e approfondito, ero alla ricerca di un nuovo modo di fare agricoltura qualcosa che non guardasse alle coltivazioni tipiche della zona. Ho deciso di puntare sul luppolo, una coltura poco sviluppata sul territorio su cui però c’erano i primi studi da parte dell’Università di Parma grazie alla collaborazione dello stesso Eugenio. I miei primi cinque ettari sono stati una sorta di investimento sul futuro, mi piaceva l’idea di poter contribuire alla creazione di un nuovo mercato che faceva del concetto di italianità un valore aggiunto». Dopo aver studiato le caratteristiche della pianta e il mercato del luppolo nasce così a Campogalliano, in provincia di Modena, l’Azienda Agricola Lucchi. «All’inizio non è stato affatto facile perché la coltivazione era poco conosciuta, mancavano delle vere e proprie basi, gli stessi interlocutori del settore come le Associazioni di categoria o il Consorzio Agrario non erano in grado di darmi il sostegno pratico che necessita chi deci-
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de di avviare un luppoleto. Quando ho presentato il Piano di Sviluppo Rurale per l’azienda che avevo in mente, anche con lo scopo di poter attingere a qualche finanziamento, ho amaramente scoperto che non mi sarebbe stato possibile accedervi perché la coltivazione non era neanche censita, anzi veniva indicata come erba aromatica alla pari del basilico o del timo! Le Associazioni di categoria non disponevano di parametri che mi potessero supportare nella preparazione di un business plan; è stato grazie all’aiuto degli studi del professor Ganino dell’Università di Parma e all’esperienza di Eugenio Pellicciari, fresco della sua start up “Italian Hops Company”, che ho potuto disporre del supporto tecnico e pratico che mi ha permesso di stilare una previsione di bilancio e di iniziare la mia avventura».
liano, che ha lo scopo di permetterci di capire se possiamo spingere verso una coltivazione italiana anche in termini economici e di resa, possiamo dire di avere ottenuto buoni risultati che ci fanno essere ottimisti in vista di un cammino futuro in questa direzione».
Di studiare e sperimentare non si finisce mai... «La parte dedicata al campo test è per noi molto importante perché è qui che sperimentiamo le diverse varietà incrociate dagli studiosi dell’Università di Parma per meglio comprendere come reagiscono alla coltivazione nei terreni italiani; in questi primi anni abbiamo imparato che ogni varietà reagisce a modo suo ma che tutto sommato il terroir italiano ha una buona adattabilità per il luppolo».
Incontriamo Ludovico nel bel mezzo del raccolto, durante una pausa ci spiega che queste giornate di settembre, più calde del solito, lo obbligano ad una raccolta rapida e veloce tesa ad evitare che i coni si degradino. «La raccolta sta andando bene, l’annata è stata buona così come la media di produzione. A distanza di tre anni siamo entrati in piena produzione; certo quella di questi giorni è la fase più delicata. La raccolta di per sé è un’attività semplice ma una volta separato il luppolo dalla parte verde della liana c’è la necessità di entrare al più presto in essicazione per evitare che i fiori fermentino e per preservarli al meglio. Il ciclo di essicazione varia dalle 8 alle 10 ore a temperature che oscillano tra i 48 e i 50 gradi, il prodotto secco ottenuto viene poi imballato e inviato per essere impellettato e confezionato in buste da 5
La scommessa è stata partire con un investimento che si aggira sui 35mila euro ad ettaro e che richiede due anni per ottenere i primi parziali risultati, sempre che le intemperie o i parassiti non arrivino prima! «Ero consapevole che non sarebbe stato facile, credevo fortemente nel progetto ed oggi, anche se c’è ancora molto lavoro da fare, posso dire di avere in qualche modo contributo a gettare quelle basi che non c’erano e di riuscire a fornire risposte a quanti si vogliono cimentare nella coltivazione del luppolo». Oggi l’azienda agricola non solo coltiva, lavora ed essicca il luppolo ma fornisce anche assistenza ad altre aziende; nei cinque ettari si coltivano venti varietà di luppolo ed una parte è dedicata a campo test per le nuove coltivazioni. «Coltiviamo tre varietà autoctone registrate di luppolo: Aemilia, Mòdna e Futura che rappresentano un primo passo verso un prodotto autenticamente italiano. In questi tre anni, dopo una prima fase di studio nei territori di Marano e una parte di coltivazione intensiva a Campogal-
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kg. Ci stiamo creando una filiera ed oggi l’Azienda Agricola essica anche luppolo di altri coltivatori; coltivare è il meno, la lavorazione ma soprattutto la vendita sono le fasi più delicate; non serve a niente coltivare un buon prodotto se non si sa poi come lavorarlo e non hai a chi venderlo».
Con lo sguardo rivolto sempre al futuro Nel 2019 Ludovico Lucchi è entrato a far parte di Italian Hops Company al fianco di Eugenio Pellicciari. «La società aveva la necessità di un referente che si occupasse della coltivazione, della processazione e della lavorazione del prodotto in azienda con lo scopo di arrivare, nel tempo, a coltivare e produrre prodotti italiani. I nostri obiettivi collimavano e così le strade mie e di
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Eugenio si sono incontrate ancora una volta. Oggi puntiamo a creare una filiera ed un giusto equilibrio che permetta ad altri agricoltori di trovare i giusti interlocutori nel loro processo di crescita; in qualche modo l’Azienda Agricola Lucchi funge da garante per dimostrare che una coltivazione diversa è possibile!». Nel frattempo qualcosa si muove, il mercato e le associazioni di categoria sono più preparati sull’argomento e attenti ai nuovi cambiamenti. «Dai miei primi passi in un campo a dir poco inesplorato, sono passati pochi anni ma sono stati fatti passi da gigante. Oggi le aziende studiano e lanciano nuovi percorsi per prodotti a base di rame e zolfo pensati apposta per risolvere gli attacchi fungini alle piante di luppolo; altre ancora si occupano di concimazioni fogliari per meglio comprendere
come il loro uso modifichi il luppolo; le associazioni di categoria iniziano a spostare il focus anche su questa coltivazione per riuscire a fare le cose come si deve e garantire un prodotto che sia identificato come italiano e valorizzato dai birrifici stessi. Dopotutto, non serve fare ottimo luppolo se il birrificio per primo non sposa la causa di un luppolo italiano!». L’Azienda Agricola Lucchi è pronta ad ampliarsi con l’arrivo in società di Eugenio: «Mio fratello è agronomo e il supporto iniziale al progetto si è trasformato nel tempo in aiuto materiale; è lui ad occuparsi della gestione del luppoleto, della produzione e delle fasi di processazione per Italian Hops Company. Il nostro obiettivo è di ampliare la coltivazione aggiungendo ettari di luppoleto fino ad arrivare, nel tempo, a 15».
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La capacità di guardare avanti e di andare oltre il conosciuto, sono le caratteristiche che hanno trasformato in soli quattro anni, il sogno di Ludovico in una realtà ben radicata a terra, pronta a crescere ancora designandolo come il degno erede di Alfonso Magiera che guarderebbe con orgoglio ai millenial pronipoti modenesi, figli della sua stessa terra. Molto lavoro resta ancora da fare in merito ad una normativa che tuteli e aiuti le aziende agricole che vogliono misurarsi con la coltivazione del luppolo, ma molto è stato fatto, le basi sono state gettate ed è ora di raccogliere il testimone di quel documento del 1875 nel quale si valutavano i pro e i contro di questa coltivazione. Inutile dire che erano maggiori i pro ed ora, ad ulteriore conferma raccolta, non resta altro che rimboccarsi le maniche e lavorare la terra! ★
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di Eugenio Pellicciari
VALUTAZIONE DEL LUPPOLO
aka scratch ‘n snuff
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al birraio all’homebrewer, per chiunque produca birra, è indispensabile conoscere e saper controllare le materie prime utilizzate. Partendo da questo ovvio presupposto, in una era luppolocentrica come quella che stiamo vivendo, è fondamentale per chi fa birra saper riconoscere e valutare il luppolo. Ecco dunque una completa per quanto veloce guida alla degustazione del luppolo. Si tratta di un brevissimo prontuario nato dalla necessità, non solo di poter valutare qualità e differenze tra i luppoli prodotti e commercializzati dalla nostra realtà, Italian Hops Company, ma anche per poter offrire uno strumento di lavoro attendibile e di facile utilizzo a birrai e birrifici che con noi collaborano e lavorano.
Linee guida, informazioni generali e consigli sulla degustazione del luppolo. Generalmente, esattamente come nella degustazione della birra, anche approcciandosi alla valutazione del luppolo ci si dovrebbe affidare ad un sistema di riferimento prestabilito con procedure di degustazione definite, un lessico comune, un gruppo di esperti, degustatori più o meno tarati, ecc. Dunque proprio come in un qualunque team di degustazione si dovrebbero osservare alcune norme basilari come: ❱❱ evitare di usare profumo; ❱❱ evitare di fumare per almeno mezz’ora prima del test;
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❱❱ avere le mani pulite ma non profumate di sapone; ❱❱ la degustazione dovrebbe avvenire in un ambiente adeguatamente illuminato e confortevole, lontano da rumori e odori; ❱❱ ci si può concedere piccole pause durante la degustazione per liberarsi la testa ed il naso; ❱❱ nella valutazione del pellet è utile disporre di mortaio o qualsiasi altro oggetto con la stessa funzione utilizzabile nel rompere eventuali pellet troppo duri che sovente possiamo incontrare; ❱❱ durante la degustazione è utile avere vicino un barattolo di caffè macinato, serve a ripulire e offre una sensazione di ritrovata pulizia e neutralità all’olfatto; ❱❱ è importante definire un proprio vocabolario dell’aroma. Comprendere i descrittori comuni per il luppolo, regolare il senso dell’olfatto sulle note proprie e più comuni dei diversi luppoli.
Note specifiche utili sull’analisi del luppolo Le varietà sono molto differenti tra loro, nell’aspetto, nell’aroma, nel colore, nella fisionomia del cono e in molte altre variabili, a tal punto che è quasi impossibile poter confrontare le une con le altre. Anche all’interno della stessa cultivar si possono notare grandi differenze di aroma, di aspetto, in funzione della regione di coltivazione o della nazione di origine. Inoltre le condizioni ambientali annuali influenzano ovviamente il luppolo, è importante tenere a mente infatti che il luppolo, è prima di tutto, un prodotto agricolo.
Alcune informazioni sui pellet utili da sapere Queste indicazioni sono dedicate ad una valutazione di luppolo in stato di pellet e non luppolo in forma di coni. Le logiche delle due possono essere talvolta anche molto diverse. La scelta per
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una e non per l’altra è dovuta appunto alla finalità ed agli obiettivi della degustazione. Nella stragrande maggioranza dei casi infatti, il luppolo che arriva in mano a tutti noi è luppolo t90, per tanto è più efficace approfondire questo tipo di aspetto piuttosto che non quello del cono che, per quanto più pittoresco, sarebbe senza dubbio meno utile. Pellet di migliore qualità sono quelli provenienti dal luppolo di alta qualità. Non è banale: con gli standard di produzione a cui oggi tutti gli impianti di processazione fanno riferimento in Europa o in USA, la materia prima rimane in massima parte invariata ed inalterata, cambia soltanto di forma. Durante il processo di pelleting infatti il luppolo viene semplicemente polverizzato e compattato in piccoli pellet. Il processo dovrebbe influire in maniera impercettibile sulla qualità del pellet. Dunque se il luppolo di partenza è di buona qualità il risultato sarà di buona qualità. Se il luppolo di partenza è di
scarso aroma o reca altri difetti questi si manifesteranno anche nel pellet. Nel processo di pellettizzazione accade sovente che vengano applicate logiche di miscelazione di diversi lotti di una medesima varietà per ottenere una qualità media e standardizzata quanto più possibile. Questo accade non solo per mitigare la qualità di quote di luppolo più scarse di altre, ma anche per tenere l’umidità desiderata nel pellet finito. Questo tipo di pratica non viene applicata nei luppoli grand cru di prima scelta. La logica per ottenere la più alta qualità infatti è quella di unico lotto di selezione diretta proveniente soltanto da parcelle appunto grand cru con rese superiori. Il lotto rimane così inalterato dal campo al pellet.
Metodologia di analisi 1 - Preparazione Lasciare i campioni a temperatura ambiente per qualche ora prima della de-
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HOPS AROMA WHEEL Origine Paese:
Varietà:
Forma:
Anno raccolta:
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Warm
Erbaceo
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Resinoso
Sweet 1
Speziato
Agrumato
Bacche
Fruttato
4 - Esame tattile Rompere il pellet. Con un po’ di sforzo i pellet dovrebbero rompersi. Fregare la polvere tra le dita. A questo punto valutare l’umidità. In generale i luppoli con più alfaacidi tenderanno ad avere una più alta viscosità.
Intensità: Off flavor
Note aggiuntive
Cheesy: Aglio/Cipolla: Paglia/Fieno: Marmellata di frutta rossa:
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gustazione; ciò permetterà all’aroma di emergere con facilità, se il campione è troppo freddo l’aroma rimarrà chiuso al suo interno proprio come per una birra.
2 - Esame visivo Esaminare l’aspetto. Il colore dovrebbe essere verde, ma esso può cambiare, anche molto, in funzione della varietà.
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3 - Primo esame olfattivo dei pallet interi Nella forma integra l’espressività aromatica è bassa ma è spesso più facile idenficare eventuali aromi sgradevoli e difetti. Controllare la lista dei descrittori dei difetti può essere utile.
Catty
Tropical
lore verde fluo, mentre varietà come il Cascade hanno un colore verde scuro, altre ancora come il Chinook possiedono un verde molto più acceso carico ed intenso. Un colore troppo pallido, inconsueto per lo standard di una determinata varietà (ad esempio il chinook) può essere segnale di un raccolto tardivo oppure di un’essiccazione a temperature eccessive, ma anche ad insetti o caldo eccessivo durante la stagione di coltivazione. Un aspetto vitreo del pellet è segno di un eccessivo riscaldamento durante la trasformazione in pellet. Pressione e temperatura eccessive determinano infatti la vetrificazione della superficie del pellet di luppolo.
Un colore verde spento e scuro o marrone suggeriscono possibile ossidazione, tuttavia non è detto che il colore sia indicatore certo di questo difetto. Ricordate dunque che il colore del luppolo determinerà il colore del pellet. Varietà come il Centennial tendono ad essere di un giallo quasi iridescente o fluorescente, il Comet sviluppa un co-
SCHEDE ANALITICHE
Per la compilazione sono state fornite delle schede di valutazione con grafico a tela di ragno. Le schede dovrebbero riportare tue le informazioni richieste: • varietà, • Paese di origine • forma (coni/pellet) • anno di raccolta • intensità.
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ITALIAN HOPS COMPANY - LEGENDA DESCRITTORI Floreale
Agrumato
• Lavanda • Camomilla • Violetta • Rosa • Gelsomino • Geraneo • Calendula
• Lime • Pompelmo • Citronella • Mandarino • Cedro • Buccia d’arancia • Limone
Erbaceo
Sweet
• Té • Timo • Finocchio • Maggiorana • Té verde • Rosmarino • Muschio • Erba tagliata • Tisana • Prezzemolo • Menta/Mentolo
Resinoso
• Caramello • Vanilla • Miele • Toffee • Marmellata • Candito
Warm
• Resina di Pino • Canfora • Marijuana • Resina
• Woody • Caffè • Catrame • Tabacco • Frutta secca • Terroso • Liquirizia
Catty • Urina di gatto • Pianta di pomodoro
Off flavor Speziato • Anice • Erba cipollina • Ginepro • Zenzero • Pepe • Chiodo di garofano • Noce moscata • Peperoncino
Cheesy
Frutta • Mela • Frutti rossi • Banana • Pesca • Uva • Pera • Albicocca
Cipolla/Aglio
Bacche • Ribes nero • Sambuco • Uva spina
Paglia/fieno
Tropicale • Passsion fruit • Papaya • Mango • Melone • Ananas • Coconut
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Se il luppolo d’origine era troppo essiccato (<5%H2O) oppure se raccolto tardivamente, il pellet avrà una struttura secca e friabile, trasmettendo una sensazione di polvere inanimata. Accade spesso anche nel caso di pellet oltre il quarto anno di conservazione o stoccato in maniera inappropriata (sopra i 18° per lunghi periodi): perdendo gran parte degli oli e degli altri composti, assumano questo stato. Pellet di luppoli da aroma - luppoli che generalmente possiedono un inferiore livello di alfaacidi - tendono ad essere meno compatti e a disgregarsi con più facilità rispetto a luppoli con contenuto di oli e alfaacidi molto alti. Può succedere di imbattersi in pellet anche molto duri, questo non è per forza un elemento di certa negatività. Può accadere infatti che in certi momenti della processazione, quando le temperature e la pressione non sono costanti, si generino pellet particolarmente duri. Può diventare un difetto nel caso in cui, dopo aver triturato il pellet, ci si accorga che il luppolo risulta secco al tatto e poco aromatico. Di contro un luppolo di buona o alta qualità avrà una risposta molto particolare al tatto: il pellet si fraziona in una polvere vivida e fresca che allo sfregamento sembra che si gonfi. Si tratta di una caratteristica ben specifica che recano generalmente i luppoli di più alta qualità, meglio conservati e con i migliori livelli di umidità (±9,5/11%). Generalmente questi sono i campioni che hanno le aromaticità più fresche, vivaci ed intense.
5 - Esame olfattivo Comunemente, sia nella valutazione dei coni sia in quella dei pellet, il metodo preferito da molti esperti è quello di uno sfregamento e quindi un esame olfattivo in due tempi. Una volta che il pellet sarà rotto un primo sfregamento poco incisivo aiuterà l’idenficazione di eventuali note erbacee molto volatili.
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Con un secondo sfregamento, più incisivo, si rilasceranno gli idrocarburi e quindi l’aroma. Il pellet dovrebbe avere un aroma di luppolo fresco. Annusare con pazienza e attenzione il campione. Valutare utilizzando i descrittori indicati in Figura o qualsiasi altro aroma che si è in grado di riscontrare. Dovrete valutare il luppolo sulla base della sua attinenza alla varietà ma anche in base ai vostri criteri personali. Approcciare l’analisi tenendo in considerazione la varietà ma anche la regione di coltivazione (si pensi a Magnum USA vs Magnum tedesco oppure a Saaz ceco vs Saaz USA oppure ancora Cascade USA e Cascade europeo). Considerare anche che, trattandosi di un prodotto agricolo, le condizioni ambientali annuali influenzeranno tutti i parametri. Controllare che non vi siano aromi di formaggio e altri segni di ossidazione (l’ossidazione spesso è dovuta ad alte temperature nel processo di essiccazione). Ogni varietà ha inoltre delle caratteristiche distintive e peculiari, ricercate e verificatele durante la degustazione.
Altre possibili prove Tè di luppolo e prove di infusione: sono ulteriori prove talvolta utilizzate per la verifica del luppolo. Non sempre attendibili ma comunque offrono un’ulteriore fotografia ed una informazioni in più sulla natura del luppolo in esame. Diversi i metodi: 1. simulando una bollitura: si miscela acqua e luppolo e si porta ad ebollizione, si lascia sobbollire verificando l’evoluzione nel tempo degli aromi del luppolo (fase di pre bollitura, a distanza di alcuni minuti intanto che sobbolle, a bollitura cessata, durante il raffreddamento). Spesso gli aromi che fuoriescono nei primi minuti sono aromi vegetali legati alla clorofilla, piuttosto strani e inconsueti. Nelle prime fasi dell’ebollizione si perderà il mircene e altri composti volatili tra i più termolabili. A volte gli aromi che emergono dai té di luppolo non sono piacevoli. 2. Imitando un whirpool: si miscela acqua ben calda - ma non in ebollizione - e luppolo lasciandoli riposare per 10/15 minuti in un luogo non freddo per evitare che la temperatura si abbassi troppo in fretta. Anche
ESAME OLFATTIVO: LE DOMANDE DA PORSI
Rintracciate gli oli essenziali a livello aromatico? Vi piace? È coerente rispetto alla varietà ed alle vostre attese? Conservate sul palmo della mano il campione di luppolo per almeno un minuto per far si che si riscaldi leggermente. Riannusatelo. Quale è il suo odore? Trovate un’evoluzione? Positiva o negativa? Vi piace ancora? Vi piace di più? I luppoli analizzati rispecchiano in fedeltà e coerenza rispetto alle proprie varietà di appartenenza? Quale tra quelli degustati vi piace di più e perché? Quale di meno e perché?
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in questo caso si verifica l’evoluzione nel tempo degli aromi. 3. decotto in acqua fredda, spesso poco efficace. In ogni caso è importante avere un riferimento per operare un confronto, quindi, nel caso in cui si facciano diverse prove di questo tipo, applicare a tutti un unico metodo di lavoro. Fermo restando l’utilità delle informazioni che queste prove possono fornirci nella valutazione globale di un luppolo, bisogna comunque sempre considerare che per una completa e vera valutazione di un luppolo è indispensabile mischiarlo al malto e farlo fermentare.
mettere a paragone delle coppie con analogie o differenze o verificare alcune caratteristiche comuni. Alcuni esempi comunemente utilizzati durante i nostri test sono: ❱❱ styrian golding / italian golding ❱❱ styrian wolf 2017 / styrian wolf 2019 *(particolarmente interessante notare che il 2017 per lo styrian wolf è stata una stagione migliore rispetto al 2019). ❱❱ varietà tedesche / varietà americane ❱❱ herkules e polaris, varietà altissime in alfaacidi e spesso anche di oli essenziali. Trova questo elemento qualche corrispondenza nell’aroma?
❱❱ mittelfruh e tettnanger, nobili, tra le varietà aromatiche tedesche più classiche. ❱❱ dragon e wolf, nuove varietà slovene con una importante impronta genetica americana. ❱❱ it cascade, it golding, it magnum, rintracciabilità e verificabilità di eventuali note o sfumature del terroir italiano. ❱❱ it exp. Emilia, primordiale genetica italiana, luppolo selezionato da genotipo selvatica, linea genetica pura, importante caratteristiche aromatiche desiderabili positive e composti aromatici molto caratterizzanti della zona italiana come il selinene. ★
Suggerimenti su come impostare un panel Anche nella valutazione del luppolo, si vorrebbe sviluppare un sistema con metodologia e descrittori comuni è per questo che, cercando di definire un linguaggio univoco, è bene utilizzare parole condivise per descrivere che cosa si annusa nel luppolo. Di seguito troverete una lista di descrittori positivi e di descrittori di difetti utilizzata nell’industria del luppolo e qui riportata secondo le nostre sensibilità, esperienze e competenze e seguendo le indicazioni rintracciabili nelle pubblicazioni internazionali disponibili sul tema. Suggeriamo di struttura il panel con almeno 4/6 partecipanti e di suddividere i panel test in due diverse sessioni. Nella prima una valutazione di varietà più classiche dichiarate per una taratura del panel ed un primo approccio ai luppoli in degustazione. Successivamente una seconda sessione in blind test che comprenda una parte delle varietà già degustate ed alcune varietà non ancora testate. Importante scegliere le varietà cercando di offrire termini di paragone chiari e che possano essere oggettivamente evidenti. Utile e consigliato cercare di
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L’INTERVISTA
di Mirka Tolini
FABIANO TOFFOLI
e il luppolo a Km O!
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e si pensa alle coltivazioni tipiche della campagna italiana si pensa ai vigneti, agli alberi da frutto ai più disparati cereali ma non certo al luppolo... questo almeno fino ad una decina di anni fa. Da qualche anno infatti alcune aziende agricole si sono convertite passando dalla coltivazione o dall’allevamento, al luppolo! Una scelta strategica che ha permesso di diversificare la produzione e di ritagliarsi un posto di tutto rispetto in un settore considerato innovativo. Fabiano Toffoli, responsabile della produzione di 32 Via dei Birrai dal 2014 coordina la coltivazione di luppolo nei colli Asolani in provincia di Treviso; il birrificio, forte dell’esperienza, finanzia un piccolo centro di trasformazione nell’azienda agricola di Roberto De Paoli che è passato dalla cura e dall’allevamento delle vacche da latte alla produzione di luppolo. «Roberto ha creduto da subito nel progetto» dichiara Toffoli «un progetto sicuramente ambizioso iniziato insieme nel 2013 e che all’inizio ha viaggiato in parallelo con l’allevamento delle vacche da latte la cui stalla però, nel giro di un paio d’anni, è stata allestita per la lavorazione del luppolo; l’ottimo raccolto del 2019 ha confermato la lungimiranza di Roberto che oggi affianca a pieno titolo il luppolo ad altri tipi di coltivazione». Oggi il luppolo di Monfumo, coltivato nelle colline trevigiane, ha permesso a 32 Via dei Birrai di accorciare ulteriormente la filiera e di usarlo nella produzione di tre tra le birre prodotte, a conferma della scelta di collaborare con gli agricoltori locali per consolidare il legame con il territorio.
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Fabiano Toffoli, mastro birraio responsabile della produzione per 32 Via dei Birrai
«La nascita di quello che viene definito il “distretto del luppolo e del farro” che ha sede proprio a Monfumo» continua Toffoli «è stata sicuramente condizionata dal fatto che le quote di territorio da dedicare ai vigneti erano finite e che quindi bisognava trovare il modo di diversificare la produzione. La coltivazione del luppolo è simile a quella dell’uva, gli investimenti analoghi e i ricavi paragonabili così come anche le ore lavoro per ettaro; è stato quindi logico, per un territorio come quello trevigiano, vedere nel luppolo il naturale sviluppo e un modo per non perdere un know how di conoscenze e tecniche che da generazioni permettono alla marca trevigiana di mantenere la sua forte identità agricola.
100% Italiana anche nella grafica. Ambita è l’ultima nata in casa di 32 Via dei Birrai prodotta con prodotti tutti italiani
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L’INTERVISTA
Nella gestione delle piante la conoscenza del terreno, di malattie come la peronospera, dei tempi di maturazione che gli agricoltori della zona hanno sempre dedicato alle viti sono risultati vincenti per ottenere l’ottimo raccolto del 2019 in attesa di vedere quello di quest’anno. Del resto il luppolo come la vite soffre le malattie fungine, non ama l’umidità, ha bisogno di una leggera ventilazione notturna e di un ambiente privo di ristagno come ad esempio quello collinare. Qui nell’asolano abbiamo tutti questi elementi motivo per il quale il luppolo è diventato davvero una valida alternativa alla coltivazione dell’uva». Se è vero che l’accordo tra 32 Via dei Birrai e contadini per la produzione di luppolo esisteva prima della nascita del “distretto del luppolo e del farro” bisogna anche dire che nel tempo il progetto si è allargato ed oggi raccoglie giovani del territorio, alcuni figli d’arte cresciuti coltivando la terra, altri che invece hanno
CONSORZIO BIRRA ITALIANA PER IL LUPPOLO
Carlo Schizzerotto è il direttore generale del Consorzio Birra Italiana per la tutela e la promozione della birra artigianale italiana. Diretta emanazione di Coldiretti il Consorzio ha lo scopo di raccontare e promuovere la qualità delle materie prime e delle birre artigianali italiane, vero elemento di distinzione e di legame con il territorio italiano, favorendo la coltivazione di orzo, dal quale si ricava il malto e del luppolo, principali materie di base per la preparazione della birra. «Il Consorzio» ci spiega Schizzerotto «pone l’accento sulla filiera nazionale, dobbiamo recuperare le nostre specificità con una produzione di cereali e di luppolo italiani. Con i cereali siamo a buon punto, disponiamo di due malterie e siamo in grado di tracciare la produzione; con il luppolo la strada è ancora lunga. Oggi in Italia sono 60 gli ettari coltivati a luppolo, 964 le aziende italiane e i micro birrifici sparsi sul territorio nazionale tra cui 100 produttori di luppolo. Poco per fare quel salto culturale che la birra artigianale richiede e che potrebbe promuovere; pensiamo ad esempio al settore dell’indotto o alla possibilità per i birrifici di avere accesso a materie prime su quantità utili. Investire sulle materie prime, sul luppolo in particolar modo significa investire sulla caratterizzazione italiana della birra. Il legame vero della birra con il territorio è il terroir della birra; ma si tratta di una filiera che va costruita sia nella sua parte scientifica sia in quella produttiva. Sul mercato oggi ci sono buoni esempi ma ancora molto lavoro da fare!»
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Roberto De Paoli nel suo luppoleto
trovato nel luppolo e nella birra artigianale una passione ed anche un secondo lavoro o un modo diverso per investire valorizzando la propria identità territoriale e magari anche le conoscenze di marketing acquisite. Produrre luppolo non basta; un’azienda che intende perseguire questo tipo di coltivazione deve innanzitutto garantirsi un contratto di filiera contadino/birrificio che permetta di garantire al prodotto una destinazione certa, avere una visione strategica e soprattutto un piano marketing e social che permetta di valorizzare il prodotto. Non serve produrre luppolo se non si ha a chi venderlo e se non lo si fa sapere!». Diversificare è quindi la parola chiave che riguarda non solo la produzione ma anche il gusto. «L’aroma del luppolo dipende anche dalla temperatura durante il raccolto» spiega Toffoli «l’ambiente mediterraneo italiano permette quindi di raggiungere aromi più intensi e allo stesso tempo offre la possibilità di coltivare molteplici varietà di luppolo. Il
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L’INTERVISTA
nostro Paese, date le sue particolarità territoriali, rappresenta un’opportunità per questo tipo di coltivazione; la scelta dei luppoli contribuisce a caratterizzare la birra di un birrificio artigianale sia da un punto di vista di origine geografica sia sensoriale, infondendo ai prodotti personalità e aromi caratteristici». Se è vero che nomen omen un progetto ambizioso non poteva che determinare la nascita di una birra dal nome altrettanto evocativo. Ambita è l’ultima nata di 32 Via dei Birrai, lanciata sul mercato a giugno rappresenta un prodotto completamente italiano, dal concept ai prodotti utilizzati per la produzione: l’orzo è veneziano, il luppolo non poteva che essere asolano così come le mani che l’hanno lavorato, il lievito è anch’esso trevigiano e la bottiglia arriva invece dalla provincia di Mantova... ma soprattutto, orgoglio italiano, il luppolo utilizzato è stato analizzato dal CERB (Centro di Eccellenza per la Ricerca sulla Birra) ed è risultato migliore rispetto alla stessa varietà coltivata in Belgio! Una birra genuina creata nel rispetto delle materie prime come testimoniano le prove cristallografiche che hanno determinato “un insieme armonioso e dinamico di forze vitali che testimonia la cura nelle lavorazioni eseguite, il rispetto delle qualità iniziali delle materie prime”. ★
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L’INTERVISTA
LUPPOLO E TERRITORIO. I DATI UFFICIALI AL 31.12.2018 DI CREA
Per meglio conoscere i dati relativi alla produzione annua di luppolo ci siamo rivolti a Katia Carbone, ricercatrice CREA (Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria) che ci ha spiegato della difficoltà di disporre di dati certi per il fatto che la coltivazione del luppolo gode di più codici, tra loro diversi, rendendo praticamente impossibile riuscire a tracciarne in maniera obiettiva la filiera. I dati più aggiornati in mano all’Ente collegato al Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali sono quelli relativi al 31 dicembre 2018 che hanno portato al censimento di 88 luppoleti commerciali corrispondenti a circa 56 ettari di superficie coltivata, localizzati prevalentemente in Emilia Romagna, Lombardia, Veneto e Lazio.
Attualmente sono stati censiti 88 luppoleti commerciali, corrispondenti a quasi 56 ettari di superficie coltivata
Dei luppoleti censiti, più della metà sono stati verificati mediante questionario e sopralluoghi aziendali
La superficie nazionale media stimata coltivata a luppolo è risultata essere pari a 6351 mq
Mappa dei luppoleti italiani con superficie superiore o pari a 1000 metri quadrati aggiornata a dicembre 2018
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di Andrea Camaschella
MARCO SABATTI E PORTA BRUCIATA
una storia di luppolo
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e parliamo di luppolo in Italia il birrificio Porta Bruciata è decisamente uno di quelli da tenere in considerazione. Nata da poco più di cinque anni, l’azienda di Marco Sabatti si è immediatamente distinta proprio nel mondo delle “luppolate” con chiara ispirazione al mondo nordamericano. Alla prima apparizione a Birra dell’Anno, dove tra l’altro è stato subito premiato, si pensò alla meteora. L’anno dopo, con nuovi premi, in molti iniziarono a convincersi che era un birrificio da tenere in considerazione. Oggi, benché le referenze si stiano aprendo anche verso la tradizione belga, oltre a una solida base anglosassone apparsa sin dai primissimi anni, è ancora sulle “americane” che Porta Bruciata detta il passo. Qualità, costanza, pochi fronzoli, cura maniacale in produzione e massima attenzione a ogni dettaglio in cantina portano le birre in stile USA a livelli decisamente alti. A mio parere uno dei punti di riferimento per questi stili. Il contrasto tra la sobrietà del birrificio, la timidezza quasi schiva di Marco Sabatti, lontano anni luce dalla figura del birraio hipster che l’assaggio delle sue birre potrebbe suggerire, accentua l’attenzione sui prodotti che invece mostrano un carattere deciso e, vivaddio, un amaro evidente e fresche note di luppoli anziché caramello e sentore di sacchetto di pellet appena aperto. In questa chiacchierata con Marco Sabatti riviviamo un po’ la parabola di Porta Bruciata.
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L’INTERVISTA
Marco, da dove arriva questa passione per le birre angloamericane? Come sai sono uno dei pochi birrai che non è stato homebrewer, ho un percorso un po’ diverso rispetto a tanti altri colleghi. L’amore per il luppolo nasce per l’amore verso le birre luppolate che ho amato nella frequentazione, per diversi anni, della California. L’ambiente allora era molto più avanti dell’Italia, le IPA, anche solo una decina di anni fa, erano molto diffuse e non rappresentavano un’eccezione. Non ho fatto viaggi “birrai” in California, mia sorella Chiara vive là, dopo la laurea a Milano fece un PhD a Stanford, dove ha conosciuto il futuro marito e dove lavora tuttora. Una volta c’era lo zio d’America, io ho la sorella e i miei figli avranno la zia d’America! E quando andavo a trovarla ho semplicemente scoperto le birre che si bevevano là. Questo è iniziato nella prima metà degli anni ’90. All’inizio era un modo per bere qualcosa di diverso, poi ho visto che anche in Italia qualcuno si ispirava a quel mondo e mi è nata la curiosità di approfondire e capire meglio quelle birre, per vedere se c’era anche per noi la possibilità di fare qualcosa del genere. Insomma, la fortuna di avere una sorella in California e non, chessò, in Patagonia... Sì, questo è un dato oggettivo, poi conta molto anche il gusto. Sono sempre stato un amante delle birre ad alta fermentazione, luppolate. Quello era un po’ il mio mondo, ecco. Poi, dopo aver visto la realtà italiana, una combinazione di circostanze favorevoli, perché non è che fosse tutto programmato, ci ha portati ad aprire il birrificio. Lorenzo Guarino del birrificio Rurale ci ha convinti che non fosse solo un sogno ma che si poteva concretizzare. Abbiamo fatto un contratto di formazione con il suo birrificio per poter fare qualche ottobre con lui e poi siamo partiti sulle nostre gambe.
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La West Coast è fonte di ispirazione delle vostre ricette e anche la scelta del luppolo guarda soprattutto in quella direzione. Sappiamo che i luppoli, tra viaggio, partite di serie A e serie B (o peggio) perdono qualcosa se non in partenza almeno col tempo: come fate, in Italia, ad avere questa qualità del prodotto così da mantenere, lotto dopo lotto, costanza qualitativa e aromaticità dei luppoli? Questo è un tema sempre attuale. Noi purtroppo non abbiamo ancora dei volumi di acquisto tali che ci permettano di avere la possibilità di andare a scegliere i singoli lotti direttamente dai fornitori. In realtà credo che in ogni caso sarebbe una scelta indirizzata perché per quanto grande possa essere un birrificio artigianale italiano non ha quella capacità economica, il “peso” necessario per imporsi. Noi ovviamente lavoriamo solo su contratti annuali, firmati al raccolto, in questo modo ci assicuriamo la quantità ma anche che il distributore italiano ci dia la possibilità di scegliere tra i lotti, a volte tre, a volte più altre meno, che gli arrivano. Poi la freschezza del prodotto è data dalla corretta conservazione, del distributore prima e nostra poi, trasporto refrigerato, conservazione refrigerata. Occorre trovare un distributore qualificato per le qualità di maggior utilizzo. Abbiamo anche qualche contatto con dei produttori americani però solo per alcune varietà.
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Tra l’altro negli USA lavorano attraverso dei consorzi, delle società che si occupano di vendere per più coltivatori. É praticamente impossibile dire che un luppolo arriva da una specifica fattoria. In Hallertau o nel Tettnang è possibile ma negli Stati Uniti no, si lavora con Yakima Chief. Bisogna affidarsi a dei partners (più che dei semplici fornitori) che cercano di darti il meglio. Successivamente, la sfida è portare nel bicchiere quello che hai nel sacchetto. Non è che se hai la materia prima di alta qualità hai automaticamente la birra perfetta ma si può fare esprimere al meglio quello che hai a disposizione, puoi far “parlare” il bicchiere in un modo o in un altro, hai la responsabilità creativa: birrifici e birraio diversi esprimono, con gli stessi ingredienti, birre significativamente diverse. Questo attraverso le tecniche di dry hopping e altre, piccole e grandi, attenzioni in fase di produzione. Fortunatamente per noi birrai la tecnica è importante tanto quanto la materia prima.
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chiamarsi a quanto successo negli Stati Uniti, anche lì i gusti si sono evoluti col tempo. Porta Bruciata, sul fronte delle birre luppolate, ha seguito gli stessi passi della Craft Revolution americana. Molti anni dopo ma in molto meno tempo… Sì forse… Prima però mi è sfuggito di dirti il perché del luppolo: io sono convinto che le IPA in particolare siano l’espressione migliore per apprezzare le birre artigianali. Mi spiego meglio: senza nulla togliere alle Lager, se prendi una Pils industriale fatta davvero bene, e ce ne sono alcune, nel confronto con una artigianale è molto più difficile per quest’ultima svettare e colpire i sensi di chi le beve. Le variabili sono poche e i paletti in produzione molto stringenti.
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Le vostre basi non sono ricche di malti caramello, sin dalla ricetta cercate di mettere in evidenza sapori e aromi del luppolo. Gli appassionati apprezzano molto, ma il mercato in generale? Il mercato si è evoluto negli ultimi 4 anni, si è ampliata la platea degli estimatori delle birre amare. E poi noi lavoriamo prevalentemente con i fusti, in questo modo hai già fatto una scrematura, la nostra birra la trovi al pub [e quindi il publican aiuta preparando i clienti…]. Io ho visto un’evoluzione del gusto, cinque anni fa la spalla maltata era necessaria per sostenere (coprire) l’amaro. La maggior parte delle birre luppolate erano… come dire…
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...dolci! …dolci… sì (ride). Anche alla vista, si vedeva dal colore, più carico, la presenza di caramello.
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A volte anche l’ossidazione aiutava il colore… Sì, e forse il caramello aiutava anche a coprire parte dell’ossidazione (ride di nuovo). Negli ultimi anni comunque i nostri clienti sono cresciuti con noi, è un ri-
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In effetti pensando a una Pilsner Urquell in forma, in un locale che la serve come dio comanda… Esatto! Mentre se prendi una IPA industriale te ne accorgi immediatamente dalla mancanza di fragranza del luppolo.
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Infatti, la birra sembra uno sciroppo e non dei migliori. E quindi io lo vedo come lo stile attraverso il quale il mondo artigianale mostra al meglio la differenza con l’industria, il caso in cui è più evidente cosa sia pastorizzato e cosa no. [personalmente ho dei dubbi che sia la pastorizzazione il problema delle IPA industriali, ma me lo tengo per me] Dunque, per riuscire a fare determinate IPA, delle vere IPA, ci vuole il mondo artigianale, non hai alternative. Per cui a chiudere il discorso sì abbiamo conosciuto il mondo americano in tempi non sospetti, ci piace il luppolo e ci piacciono le birre amare, ma volevamo anche fare birre con le quali potessimo esprimere al meglio la nostra filosofia e la nostra artigianalità.
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Torniamo più strettamente ai luppoli: siete partiti con la classiche tripletta “made in USA”, American Pale Ale, American India Pale Ale e Double IPA (La Pallata, Orifiamma, Larkin Street) ma avete aggiunto man mano altre declinazioni di stili: Shantung (White IPA), Under Plato (Brut IPA), Teypana (single hop - Sabro - American IPA), Dusky Bay (Session IPA) e poi Milmaq (Vermont IPA) Sulla NEIPA ci avete messo un po’ di più ma in effetti tu sei West Coast e quelle arrivano dalla East Coast… La NEIPA non è ancora definitiva, doveva nascere qualche ottobre fa e alla fine abbiamo approfittato del lockdown per fare un po’ di prove per la Lighthouses Series, dedicata ai fari del New England: abbiamo fatto 3 NEIPA diverse, in ognuna delle quali abbiamo spinto agli estremi alcuni aspetti per valutare poi il risultato nel prodotto finito e farci un’idea di quale direzione prendere. In una abbiamo usato tantissima avena, in un’altra dry hopping concentrato durante la fermentazione e così via per provare tecniche e valutare i risultati. A settembre uscirà la nostra NEIPA, sintesi di queste prove.
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Quali altre “sorprese” ci aspettano per il prossimo futuro? Stiamo studiando alcune nuove qualità di luppolo, poco conosciute per ora,
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ma ancora non abbiamo prodotto nulla. Sono varietà alsaziane, insomma qualcosa di diverso dal nostro solito che ci intrigava. Non solo le nuove varietà di luppoli aromatici dell’Hallertau, che poi oramai non sono una novità, come Melon, Ariana e così via, ma anche in altre parti d’Europa si trovano luppoli molto molto interessanti. Abbiamo individuato questi luppoli alsaziani con i quali, penso verso fine settembre, produrremo un’American IPA. Uhm… una European IPA?! In effetti poi ci sarà il problema di come classificarla. Questo non è un esercizio fine a sé stesso: ci piace sperimentare nuove varietà, provarne le potenzialità per inserire in produzione nuove birre e non solo nord americani. Nella Brut IPA abbiamo usato Hallertau Blanc e Melon, abbinati a Galaxy che però prese il sopravvento e nessuno o quasi riconosceva i due luppoli europei. Abbiamo imparato a usarlo col contagocce… Perché se lo vuoi come coprotagonista è così, altrimenti si fa una single hop… Noi cerchiamo di dosare i luppoli per avere birre con profili aromatici complessi e piacevoli, con combinazioni di luppoli diversi, soprattutto luppoli nordamericani. Cerchiamo un equilibrio non dico perfetto ma piacevole. L’unica birra che produciamo mono luppolo è la Teipana, dove usiamo tuttora solo Sabro, una varietà che ha un ventaglio di aromi diversi e ampio che a nostro avviso danno una complessità che solitamente si ottiene usando più tipologie. Altre novità… da settembre, cominceremo a confezionare lattine (la riempitrice l’avevamo ordinata poco prima del lockdown) e poi ad integrare una piccola tap room nel nostro capannone. Davanti alla scelta se puntare sulla bottiglia o sulla lattina non abbiamo avuto dubbi e abbiamo scelto quest’ultima, vista la tipologia di birre su cui puntiamo di più e per il nostro modo di lavorare. Oggi confezioniamo tutte le birre
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“americane” in isobarico. Ricordo che il passaggio della Pallata da rifermentata a isobarica, con i clienti che si lamentavano, perché non era più la stessa birra. Era più buona, eh! E lo confermo: più decisa, più secca, più amara, quasi chirurgica ma facile da bere e ancora più piacevole di quando era rifermentata. E alla fine l’hanno accettata con entusiasmo, però qualche reticenza all’inizio ci fu. É anche [la birra rifermentata] un prodotto più fragile, perché la rifermentazione allunga un po’ la vita del prodotto ma il vantaggio aromatico per noi è imprescindibile. E quindi la scelta delle lattine segue questa filosofia. Abbiamo fatto qualche prova con dei sistemi di mobile canning [macchine riempitrici di lattine che si affittano a giornata, a domicilio] per capire le problematiche ed essere il più pronti possibile quando a settembre Gai ci consegnerà la macchina. Insomma, confidiamo nei valori molto bassi [di pick up di ossigeno] che ci ha garantito Gai ma anche in chi sta già usando quella macchina, in particolare Marco Valeriani di Alder che ce l’ha caldeggiata. L’importante comunque è arrivare in fase di confezionamento con la minor quantità di ossigeno possibile [quindi lavorando in modo certosino in tutte le fasi di produzione]. Il mercato oggi è maturo per le lattine, i primi hanno dovuto affrontare molte reticenze iniziali. Quindi da un lato potremmo sembrare in ritardo ma dall’altro ci troveremo di fronte a un mercato più attento e pronto per le lattine.
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Posto che come me non hai esperienza nel campo, cosa consigli ad un homebrewer che si avvicina alla produzione di birre luppolate, nordamericane in particolare? L’argomento è piuttosto vasto e complicato, in birrificio abbiamo strumenti che ci agevolano, comunque bisogna
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far tesoro delle esperienze, anche di quelle negative. Per quanto riguarda le varietà di luppolo non è detto che un luppolo stratosferico dia una birra stratosferica ma a volte l’unione di diverse qualità porta a un profilo aromatico complesso e piacevole anziché “bomba” ma monocorde. Quindi sarebbe meglio partire con piccole quantità e poi man mano andare a trovare le giuste dosi per raggiungere i risultati attesi. Importante anche la scelta della base maltata, più semplice è, più si evidenzierà il luppolo. Un’altra norma per noi è che non esistono i luppoli da amaro e quelli da aroma: noi cerchiamo il filo conduttore dal luppolo sia in amaro sia in aroma, per cui se utilizziamo un luppolo da amaro lo utilizziamo anche per il profilo aromatico o quanto meno ne cerchiamo uno compatibile. Insomma, gli amari possono essere diversi tra di loro, noi cerchiamo lo stesso amaro. E soprattutto restare umili e non dimenticare che è un hobby, quindi deve essere soprattutto un divertimento. E poi appunto per me non avvezzo “ai pentoloni” non saprei cosa aggiungere, ma sui luppoli mi pare di avere dato qualche spunto. Che dire… grazie della chiacchierata e a presto! ★
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di Mirka Tolini
Testa, cuore e...
BRACCIA!
L
o studio del luppolo parte dai laboratori e non, come si potrebbe pensare, dai campi. Quello che oggi è conosciuto come il luppolo di Marano è frutto di una collaborazione tra l’Università di Parma e il comune di Marano sul Panaro per una coltivazione di luppolo autoctono. «Una collaborazione nata
ufficialmente nel 2012» spiega il professor Tommaso Ganino, ricercatore e docente del Dipartimento di Scienze degli Alimenti e del Farmaco dell’Università di Parma «dopo una serie di incontri avvenuti l’anno prima insieme con l’allora sindaco Emilia Muratori ed Eugenio Pellicciari, un ex studente dell’Ateneo oggi
fondatore di Italian Hops Company. Che il progetto fosse interessante io e il mio collega e superiore prof. Andrea Fabbri, lo abbiamo capito subito anche se in effetti io al tempo nutrivo anche un interesse personale oltre che professionale dato che ero un homebrewer che usava i fiori dei luppoli selvatici per aromatiz-
Il campo sperimentale di Marano
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zare una mia birra dal nome evocativo di ET». La validità del progetto si è così trasformata in una collaborazione con il Comune che ha dato in concessione gratuita un appezzamento di terreno dove è nato l’embrione del campo di collezione. Al progetto nel 2013 si unisce Margherita Rodolfi che, fresca di laurea in Scienze e Tecnologie Alimentari, inizia il suo percorso di ricerca sul luppolo in Italia andando così a formare il team che oggi si occupa sia della parte agronomica sia di quella di analisi chimiche e genetiche. «Il ruolo dell’Università nel progetto» prosegue Ganino «è stato quello di individuare, caratterizzare e valorizzare dei luppoli selvatici presenti nel territorio Maranese; ma ci abbiamo messo
Tommaso Ganino, ricercatore e docente del Dipartimento di Scienze degli Alimenti e del Farmaco, Università di Parma
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poco a capire che il territorio modenese ci stava stretto e così abbiamo iniziato a collezionare luppoli provenienti da varie regioni del Nord Italia come: Lombardia, Trentino e Veneto ma anche del centro, la Toscana o del sud come la Calabria. Oggi l’Università seleziona luppoli, ma segue anche diverse attività legate al luppolo come la tecnica agronomica, agricoltura 4.0, l’utilizzo degli scarti della filiera del luppolo e dei suoi sottoprodotti. Insomma, tante cose bollono in pentola e siamo sempre più convinti che questa pianta possa dare tanto all’Italia e alla filiera brassicola». Il progetto prosegue nel suo sviluppo e superata la fase di selezione oggi è molto orientato sulla tecnica agronomica e su alcuni punti della filiera del luppolo anche a causa della scarsità di fondi a favore della ricerca. «Alcune novità a “DNA italiano” sono state selezionate» spiega Margherita Rodolfi «ma ci restano da fare alcune valutazioni in merito ad aspetti agronomici delle piante selezionate e degli incroci. Al momento è ancora tutto top secret!». Il gruppo di ricerca di Parma ha imparato che ogni realtà scientifica e ogni azienda agricola può contribuire alla causa della ricerca sul luppolo e quindi non mancano collaborazioni nazionali ed estere con soggetti pubblici e privati. Oltre alla già citata Italian Hops Company anche l’Azienda Agricola di Ludovico Lucchi a Modena, la Cooperativa Luppoli Italiani a Ravenna; le collaborazioni di ricerca guardano a Porto Conte Ricerche in Sardegna e al Centro per le Attività Vivaistiche a Faenza. Con ognuna di queste realtà le collaborazioni e le attività di ricerca sono ovviamente sempre nate davanti da un boccale di birra! Infine merita di essere citata anche la collaborazione più “strana” e recente ossia quella con la chef Beatrice Maria Petrini con cui l’Università ha ideato un olio al luppolo chiamato Hopium: quest’olio, sapientemente dosato dalla chef, dona ai piatti un’esplo-
sione di sapore in grado di sorprendere i sensi e i palati. Il luppolo italiano esiste, anzi ne esistono tre nuove varietà dal 2017 a DNA completamente italiano. «Ne abbiamo isolate tre» precisa il professor Ganino «Humulus lupulus cv. M/P Futura, Humulus lupulus cv. M/P Aemilia e Humulus lupulus cv. M/P Modna; questi luppoli sono frutto della selezione che abbiamo avviato nel 2012 e l’acronimo M/P, che precede il nome di ogni varietà, sta ad indicare Marano sul Panaro, cioè il luogo dove tutto ha avuto inizio. Humulus lupulus cv. M/P Futura è un luppolo dagli aromi equilibrati, non ha prevalenza dell’una o dell’altra molecola aromatica e caratterizza la birra in modo elegante. Humulus lupulus cv. M/P Aemilia è un luppolo il cui nome è
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stato dedicato al Sindaco di Marano sul Panaro, Emilia Muratori. È un luppolo deciso, graffiante ma mai aggressivo. Humulus lupulus cv. M/P Modna è un luppolo il cui nome è in onore della provincia che ci ospita, Modena. Il nome è volutamente in dialetto perché in questo modo viene accentuato il legame con il territorio. Modna è un luppolo da aroma, ha un bouquet aromatico importante e una concentrazione di acidi amari (alfa acidi) vicini a 7. È un luppolo che caratterizza bene uno stile APA. Purtroppo queste varietà in Italia non possono essere registrate in un registro varietale perché quest’ultimo non esiste. Questo però non ci deve impedire di coltivare piante nuove e italiane». Inevitabile a questo punto chiedersi cosa in realtà differenzi, dal punto di vista organolettico, un luppolo autoctono da uno importato. «Nelle zone miti a clima mediterraneo come quel-
Margherita Rodolfi, parte del team di ricerca dell’Università di Parma
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Hopium, l’olio al luppolo creato dalla collaborazione tra l’Università di Parma e lo chef Beatrice Maria Petrini
le italiane» precisa Ganino «i luppoli sintetizzano una buona quantità di molecole che si chiamano selineni; si tratta di molecole che danno al luppolo un aroma fresco ed erbaceo che quindi tende a caratterizzare anche quelli italiani anche se poi ogni luppolo ha un suo bouquet aromatico; nel campo collezione abbiamo circa 300 genotipi e gli aromi variano dallo speziato al fruttato. Non mancano i cosiddetti “aromi indesiderati”, come per esempio i composti solforati (aglio e cipolla), ma esistono anche interessantissimi aromi; a me piacciono molto due luppoli, uno a prevalente aroma di cedro e l’altro a prevalente aroma di geranio. Non mi dispiace neanche la varietà che abbiamo chiamato “Zero”: è un genotipo a zero alfa acido, quindi ha un amaro quasi impercettibile. Date le particolarità del nostro belpaese come terroir, qualità, caratterizzazione delle produzione e differenziazione del prodotto, inevitabile che i birrifici italiani guardino alla produzione di luppolo casalinga per i loro prodotti «anche perché dai nostri studi» conferma Ganino
«il clima e l’orografia italiana non pregiudicano la qualità del prodotto ma anzi a volte si tratta di prodotti di qualità più alta o semplicemente diversa». Certo pensare di riuscire a soddisfare le esigenze dei microbirrifici con una produzione made in Italy non è reale «ma non dovrebbe neanche essere un obiettivo secondo me» precisa Ganino «perché questo vorrebbe dire appiattire le produzioni birrarie. Credo invece che dovremmo puntare ad arricchire le possibilità produttive di quegli artisti che vengono definiti semplicemente mastri birrari. L’immissione sul mercato di un solo ingrediente nuovo come ad esempio una sola varietà di luppolo, porterà a innumerevoli nuove ricette di birre e già questo sarebbe un successo. Bisognerà puntare anche ai mercati esteri e magari alla ricerca di uno stile birrario italiano legato proprio al luppolo, come già hanno fatto negli Stati Uniti. I tempi? Forse ci siamo o forse no. Mediamente per la selezione di una nuova varietà sono necessari dieci lunghi anni di ricerche, analisi e prove… se facciamo due conti forse…».
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EVENTI
NATA LA PARTNERSHIP
tra Unionbirrai e Cibus Nell’occasione si svolgerà anche la premiazione di Birra dell’Anno, concorso dedicato alle migliori birre artigianali italiane
È
stato siglato l’accordo che segna la nascita della partnership tra Unionbirrai e Cibus Salone Internazionale dell’Alimentazione, che vedrà la partecipazione dell’associazione di categoria dei piccoli birrifici indipendenti con un proprio spazio nella XX° edizione della fiera del made in Italy alimentare dal 4 al 7 maggio 2021 a Parma, per promuovere e sostenere la birra artigianale italiana. Nella stessa occasione le migliori birre artigianali d’Italia saranno premiate nella XVI edizione del concorso Birra dell’Anno, che si prepara con una veste rinnovata, sia di immagine sia di organizzazione, a diventare parte di un evento che rappresenta per la community internazionale degli operatori dell’agroalimentare un punto di riferimento assoluto per la promozione dell’Authentic Italian food&beverage. «Cibus è l’evento che rappresenta l’eccellenza del made in Italy in ambito agroalimentare. - ha dichiarato Vittorio Ferraris, direttore generale Unionbirrai - La partnership con Cibus è una grande novità, sia per il concorso Birra dell’Anno sia per i birrifici ar-
tigianali, che avranno così l’occasione di entrare in un network BtoB e di far conoscere i propri prodotti al mercato nazionale e internazionale. Il Salone Internazionale dell’Alimentazione sarà inoltre il palcoscenico ideale per la premiazione del concorso Birra dell’Anno 2021, che valorizza le eccellenze della birra indipendente artigianale italiana. Con Cibus, infine, è stata condivisa l’opportunità di creare dei momenti di incontro fuori fiera, affinché oltre agli appuntamenti BtoB, i birrifici possano incontrare i consumatori». «Cibus ha firmato oggi un accordo quadro con Unionbirrai che porterà a Parma il prestigioso premio Birra dell’Anno, accordo che contribuirà anche a dare nuove opportunità di business a tutta la community dei microbirrifici italiani – ha aggiunto Riccardo Caravita, Cibus and Food Brand Manager. Il successo dei grandi eventi fieristici avviene anche grazie a importanti e strategiche alleanze. Il nostro obiettivo è quello di completare la già ricca offerta assortimentale, che consentirà ai top buyer italiani e esteri di incontrare al
prossimo Cibus 2021 il meglio delle birre artigianali italiane. Un ringraziamento va a Unionbirrai e al suo presidente Vittorio Ferraris, che in un momento così delicato per il settore hanno creduto nel cambiamento e in un innovativo e ambizioso progetto. Un grazie anche al prezioso ruolo di Luca Grandi di Birra Nostra che negli anni ha sempre lavorato per lo sviluppo e la crescita della sezione MicroMalto all’interno di Cibus». Sin dagli albori del movimento, Unionbirrai sostiene la promozione della birra artigianale con iniziative rivolte ai piccoli produttori indipendenti e ai consumatori. «Abbiamo scelto di cambiare location, da Beer Attraction di Rimini a Parma, dopo tanti anni per ottimizzare i vantaggi commerciali per i birrifici. - ha concluso Giampaolo Sangiorgi, responsabile gruppo marketing ed eventi di Unionbirrai - La nostra scelta è ricaduta su Cibus per diverse motivazioni, non ultima il periodo dello svolgimento della fiera. Sarà una collaborazione nuova e proficua, che aprirà una serie di ottimi scenari per la birra artigianale italiana». ★ Comunicato stampa Fiere di Parma
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di Luca Pretti
IL LUPPOLO:
Un protagonista, tanti ruoli
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uantità, qualità e modalità di utilizzo del luppolo, nella realizzazione delle ricette per la produzione di birra, sono i fattori che continuano a tenere banco (si potrebbe dire bancone…) nel mercato della birra artigianale. D’altra parte, il ruolo assunto da questa pianta nell’accompagnare
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il processo di espansione nel mercato italiano e non solo, delle birre artigianali, è innegabile. Per quantità impiegata, la birra artigianale ha scavato un solco nei confronti dell’industria dove il luppolo viene ancora oggi adoperato, principalmente ed in piccola misura, quasi esclusivamente
durante la bollitura del mosto. In questo ambito produttivo, infatti, questa materia prima è identificata in termini di dotazione in α-acidi; riconoscendogli quindi come unico ruolo sensoriale, quello di equilibrare, tramite l’amaro, l’eccessiva dolcezza del mosto di malto. Per poterlo dosare al meglio viene preferita la forma
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di estratto rispetto ai pellets o ad altri preparati commerciali, più largamente utilizzati nelle produzioni artigianali. Queste, di contro, hanno attinto a piene mani dalla disponibilità di nuove varietà ottenute attraverso programmi di selezione che hanno affiancato alla funzione amaricante quella della dotazione in sostanze volatili, permettendo al luppolo di assumere un ruolo di protagonista negli stili birrari che oggi dominano il mercato. L’esempio più evidente di questo cambio di filosofia di utilizzo, è dato dalla proposta di India Pale Ale sempre più muscolose in termini di amaro e l’occupazione del dominio sensoriale olfattivo con profili aromatici, intesi come varietà di sostanze volatili, fruttati e/o floreali sempre più complessi e ricercati. Secondo una stima datata 2017, un quarto degli stili di birra artigianale prodotti negli Stati Uniti erano rappresentati da India Pale Ales (IPA) per la realizzazione delle quali i produttori, nel corso degli anni, hanno incrementato quantità e varietà di luppolo allo scopo di assecondare un mercato sempre più esigente e competitivo. Uno studio di settore aveva a tal proposito certificato una correlazione diretta tra la predisposizione del consumatore a pagare un prezzo maggiore al bicchiere e la luppolatura “percepita”. Una considerazione che non sembra essere sfuggita ad alcuni produttori industriali che su questo componente hanno incentrato la loro strategia di marketing basata sulla identificazione della tipologia produttiva proprio in base ad un numero crescente (tre, quattro, dodici…) di luppoli, in etichetta. Nonostante la loro quota di mercato relativamente piccola i birrifici artigianali, soprattutto oltre oceano, hanno avuto un enorme impatto sull’industria produttiva di questa Cannabinacea. Per avere un’idea di questo fatto basterebbe ricordare l’incremento del 20% nel 2017 rispetto all’anno precedente, ed un trend in continua crescita
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oltre alla presenza di nuovi luppoleti anche in Paesi storicamente non vocati, con la proliferazione di programmi di ricerca in ogni parte del mondo, Italia compresa. Gli oli essenziali, che sono la risultante dell’estrazione delle resine presenti tra le ratee dei fiori di luppolo, sono il materiale nel quale si concentrano le sostanze caratterizzanti le sensazioni olfattive, variabili in quantità e composizione, in funzione delle singole varietà considerate ma anche delle condizioni geo-pedologiche e ambientali, nelle quali vengono coltivate. In linea generale, sono circa 450 i composti aromatici presenti e identificati negli oli essenziali tra cui mircene e linalolo rappresentano quello che potremmo definire, con buona approssimazione, il profumo tipico del luppolo. Per quanto i mastri birrai facciano ricadere la scelta di una o un’altra varietà anche in funzione delle caratteristiche compositive degli oli essenziali, tuttavia questo rappresenta un’approssimazione di ciò che realmente accade, al loro prodotto, durante le diverse fasi di produzione. È evidente infatti che non solo la quantità di prodotto utilizzata sia importante, ma anche la sua provenienza e la scelta del momento tecnologico nel quale verrà utilizzato. Perciò, le sensazioni dirette derivanti dall’analisi sensoriale del
prodotto o lo studio della sua composizione, possono variare in maniera consistente le caratteristiche del prodotto idealizzato rispetto a quello realizzato. In questo senso il fatto che i composti aromatici del luppolo, identificati nel
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momento della scelta varietale, possano sopravvivere alle diverse fasi di produzione è solo una delle sfide accettata dal mastro birraio. Molti produttori riferiscono di cambiamenti non previsti in alcuni parametri in seguito a dryhopping spinto tra i quali registrano ad esempio: un incremento degli zuccheri residui o del pH, o di contaminazioni microbiche dovute alla presenza di lieviti indesiderati, o ancora un inaspettato incremento della gradazione alcolica, cui si accompagna una maggiore produzione di CO2 e dei livelli di diacetile. Queste evidenze, riportate da alcuni ricercatori inglesi nel 1893 indicavano nel dry hopping il responsabile di una più pronta e lunga fermentazione del mosto nelle botti pur tuttavia senza capirne il reale motivo. Ancora oggi il luppolo è considerato, a differenza degli altri ingredienti, incapace di interagire in maniera attiva con le altre materie prime e sono relativamente poche le ricerche che diano conto dell’interazione tra luppolo e lievito al di fuori degli effetti sui composti aromatici. Più in particolare ci si concentra “nell’effetto somma” derivante dagli apporti dei prodotti degli uni e degli altri: la frazione terpenica (dei luppoli) e esterica (dei lieviti) la quale dovrebbe nelle intenzioni, definire l’orizzonte olfattivo finale. Ciò che in seguito era stato solo ipotizzato, è stato poi confermato di recente dalla scoperta di alcuni enzimi amilolitici prodotti dai luppoli stessi, la cui concentrazione risultata correlata alla varietà di luppolo e alla quantità utilizzata. Questi sono capaci di determinare incrementi significativi nel grado plato e nella concentrazione alcolica. In pratica esiste la dimostrazione che una frazione di zuccheri fermentescibili del malto, possano essere resi disponibili dall’azione enzimatica dei luppoli e messa a disposizione di lieviti ancora vitali e capaci perciò di alterare in maniera consistente la qualità del prodotto finale.
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Luppoli e lieviti tanto importanti nel determinare i contorni altamente caratterizzanti della birra condividono anche altre interazioni biochimiche e che coinvolgono il fenomeno fermentativo e post fermentativo. A partire da alcune ricerche che riferiscono di quanto i lieviti abbiano responsabilità sui composti volatili del luppolo durante il processo di trasformazione, altri studiosi hanno rivolto la loro attenzione sull’influenza che i diversi ceppi di lievito possono avere sulla composizione della frazione volatile della birra quando utilizzati con diverse varietà di luppolo, e viceversa. In particolare, è stato osservato come i lieviti siano in grado di compiere reazioni enzimatiche capaci di modificare la maggior parte
dei composti volatili, o loro precursori, rilasciati nella birra dai luppoli. Non tutti i lieviti hanno equivalenti capacità di azione, mentre l’entità delle trasformazioni a carico di queste sostanze sarebbero da ricercare nella concentrazione della molecola di partenza che è, invece, una caratteristica specifica della varietà di luppolo utilizzata e delle condizioni di coltivazione e post raccolta. Da quanto esposto si evince che la scelta delle varietà di luppolo ormai rappresenta solo uno degli aspetti guida verso l’ottenimento di una determinata birra e che il mastro birraio è chiamato ad un ulteriore sforzo di comprensione delle interazioni tra le diverse materie prime avendo, come sempre, la ricerca dalla propria parte.
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INFORMAZIONE PUBBLICITARIA
BREWDOG TOMORROW
bere birra artigianale fa bene al pianeta
L’indole rivoluzionaria di BrewDog non è certo rimasta inosservata dal 2007 ad oggi. In questo 2020 così diverso dagli altri anni, James Watt, Martin Dickie e il loro team hanno deciso di mettere in atto una nuova rivoluzione dimostrando quanto un’azienda possa fare la differenza. Lo hanno fatto producendo gratis gel sanificante durante il lockdown, e continuano a farlo dando vita ad una nuova avventura La nuova sfida dei ragazzi di Ellon riguarda la sostenibilità ambientale, piccole e grandi iniziative che cambieranno l’impatto di BrewDog sulla Terra, perché del resto abbiamo bisogno di un pianeta sano per produrre buona birra. BrewDog Tomorrow è l’insieme di azioni concrete che il birrificio sta mettendo in atto in collaborazione con il professor Mike Benners-Lee che li ha supportati nell’analisi della propria carbon footprint e con cui hanno studiato le migliori azioni possibili per il loro tipo di business, con un obiettivo da portare a termine nei prossimi 24 mesi. L’azione più grande, annunciata in diretta YouTube sabato 22 agosto, è la BrewDog Forest. Più di 2000 acri nelle Highlands scozzesi dove verranno piantati più di un milione di alberi e ripristinati circa 250 ettari di torbie-
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re. Grazie a questa iniziativa BrewDog è il primo birrificio al mondo ad essere Carbon Negative, sottraendo dall’atmosfera il doppio dell’anidride carbonica che emette. Ma le loro azioni non si fermano qui. Nell’ottica di recuperare anche gli scarti di produzione trasformeranno l’orzo maltato esausto in biometano, mentre l’acqua avanzata dalla produzione diventerà acqua distillata, da ri-utilizzare. Anche la CO2 in eccesso prodotta durante la fermentazione viene recuperata ed usata per carbonare le birre successive. In più viene prestata particolare attenzione alle fonti di energia: il birrificio viene alimentato tramite pale eoliche e i mezzi per le consegne saranno ibridi o elettrici al 100%. Parte dell’impegno in termini di sostenibilità ovviamente riguarda tutte le azioni che permettono di ridurre gli sprechi e di utilizzare materiali riciclabili ove possibile. Da anni ormai i ragazzi di Ellon prediligono il formato in lattina sia per le birre della core-line che per le release speciali; in più, con la grande azione di rebranding avvenuta proprio ad inizio 2020, l’uso della plastica è stato ridotto notevolmente in favore di packaging più sostenibili.
Le nuove lattine hanno uno stile pulito e di grande impatto, anche la celebre Punk IPA, la birra che ha dato inizio a tutto con la sua luppolatura intrigante, le note di frutta tropicale e l’amaro deciso, cambia profilo pur mantenendo i toni del blu che da sempre la caratterizzano. Nuova veste e nuova versione anche per Hazy Jane, Hazy Pale Ale da 5% abv, caratterizzata dall’uso massiccio dei luppoli in dry-hopping che la rendono morbida e fruttata. E ovviamente BrewDog non lascia delusi i Beer Lover che stanno già pensando alle prossime feste proiettandosi verso un Natale luppolatissimo con Hoppy Christmas, IPA luppolata esclusivamente con Simcoe. Tutte le birre di BrewDog sono disponibili attraverso Ales&Co che da più di 10 anni porta in Italia Punk Ipa e tutte le esplorazioni brassicole dei ragazzi di Ellon. Potete trovare sul loro sito tutte le informazioni per acquistare le birre, ma anche per tenervi aggiornati sulla scena craft internazionale. Ales&Co – www.alesandco.it Instagram: @highwaytoale Facebook: Ales&Co Twitter: Alesandco
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HOMEBREWING
di Massimo Faraggi
NON SOLO
LUPPOLO
L
uppolo, luppolo e ancora luppolo... si ha un bel dire che le mode birrarie vanno e vengono: le birre luppolate sono arrivate per rimanere, nei gusti sia dei nerd birrofili (che lo ammettano o no) sia in quelli del grande pubblico. A contenderne il ruolo, ma solo in ambiti più limitati, sono naturalmente le birre acide/selvagge/barricate, qualche imperial-pastry (per chi le apprezza...) e di recente il trend “franconia”, che in qualche modo unisce il birrofilo più consumato e il neofita non troppo avventuroso, soprattutto nelle hell/keller più beverine. A perdere consensi sembra essere, ad esempio, il classico Belgio (lambic a parte), le birre caratterizzate da esteri fruttati, dalla rotondità dei malti ... birre
da riscoprire! Quasi per caso, fra le birre che ho prodotto negli ultimi mesi (accanto alla dose minima obbligatoria di IPA/APA) ce ne sono tre che in qualche modo mettono in risalto caratteristiche importanti ma a volte dimenticate.
IL LIEVITO Se parliamo di lieviti di grande personalità, capaci da soli di dare un’impronta inconfondibile a una birra, il cosiddetto “Lievito Dupont” è sicuramente fra quelli più noti e rappresentativi. La Saison Dupont è da molti considerata un riferimento e sebbene alcune birre di questo stile siano caratterizzate dall’uso di spezie, la saison di Dupont non ne fa uso, e si affida solo al lievito proprietario per ottenere l’inconfondibile caratte-
ZEN SUPER SAISON OG 1078 FG 1005 ALC 9.6% IBU 30-32 Quantità in gr. per 10 lt.
MALTI E ZUCCHERI Pils 3200 weizen 250 carahell 100 zucchero 200
LUPPOLI
Brewer’s Gold 7.5AA% Brewer’s Gold 7.5AA% Hallertauer Saphir 3.7AA% Stiryan Goldings 3.5AA% Stiryan Goldings
60min 10 10min 15 10min
15
10min (dry)
15 18
LIEVITO W 3724
Saccharomyces cerevisiae
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Usare il fondo (cake) di lievito di una fermentazione precedente, oppure almeno una confezione da 150ml per 10 litri di mosto, o uno starter adeguato. Consigliato nutriente per lievito. LIEVITO secco (Fermentis o Lallamand) se necessario una bustina per 10 lt nel corso della fermentazione Acqua oligominerale con aggiunta di ca. 5 gr di gypsum Mash 40 min @ 63 °C poi 20 min @ 72 °C e fino a conversione. Bollitura 60 min.
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re speziato, fruttato e vinoso così tipico da poter essere descritto con sufficiente precisione solo come “aroma tipo Saison Dupont”. Ma la notorietà di questo lievito non è solo dovuta all’impronta che lascia alle birre: il Dupont infatti è un “animale” non facile da gestire, capace di lavorare a temperature che si avvicinano ai 30° C e di raggiungere attenuazioni estremamente spinte, ma a volte capriccioso e pigro, con la tendenza a fermare quasi improvvisamente la sua azione - magari per un piccolo abbassamento della temperatura, ma a volte senza apparente ragione - rifiutandosi di proseguire il lavoro. Mi è capitato di visitare il birrificio di un noto e ottimo birraio, e di vedere un fermentatore (di dimensioni moderate) con accanto una stufetta: “è una birra che sto provando a fare con il Dupont” ha spiegato il birraio “è arrivata a metà strada ma non si schioda più... MAI PIÚ QUEL LIEVITO!”. Altri birrai PRO e casalinghi giurano invece di usarlo senza aver mai avuto problemi. Dopo diversi anni, sono tornato a utilizzare questo lievito in occasione di un corso di Homebrewing, durante il quale - come d’abitudine nei corsi effettuati
a Genova - proviamo sempre a clonare una birra di Maltus Faber, in questo caso la loro ottima Saison. La ricetta (fornita dal birraio e da me adattata per il mio impianto) prevedeva appunto il lievito 3724 Wyeast - il “simil-Dupont” [1]. Grazie probabilmente a una buona inseminazione e all’uso di nutriente per il lievito, la fermentazione si è svolta senza intoppi: in due settimane a 25-27 °C la birra è arrivata alla giusta attenuazione e il risultato è stato soddisfacente. Ma l’appetito vien mangiando - sia al lievito che al birraio - quindi perché non approfittarne per usare il “letto” di lievito del secondario come starter per un’altra birra? Anch’essa una birra dal grist semplice, dorata, ma spinta a gradazione ben più alta: una super-saison, insomma. Uno stile un po’ bastardo ma che vanta illustri rappresentanti, primo fra tutti la superba Avec le Bon Voeux della stessa Dupont (il modello della mia ricetta) senza scordarsi di eccellenti ma rari esemplari anche italiani. Pensate: gli aromi già funky e caratterizzanti della saison, esaltati e spinti dall’alcolicità della birra e da una fermentazione ad alta gradazione che, come sappiamo, tende ad aumentare ulteriormente la produzione di esteri.
La mia fiducia sul carattere benevolo del Dupont nei miei confronti però è stata ben presto tradita. Dopo un inizio promettente, sia come trend di fermentazione (da 1078 a 1044 nei primi 3gg) sia come produzioni di aromi, ecco il temuto stop: dopo una settimana la FG quasi non è cambiata, aggiungo altro nutriente, rimescolo, porto a 27 °C e oltre ma passa un’altra settimana e la FG non si è schiodata! Travaso e aggiungo un lievito secco (Belle Saison: non mi fa impazzire ma tanto l’imprinting aromatico è già stato dato, ora mi serve solo l’attenuazione!) e mi dimentico la birra accanto a un termosifone, vicino ai 30 °C, senza notare particolare attività. Ormai quasi rassegnato, misuro solo dopo altre due settimane... 1017! Sarà stato merito del Belle, o è il Dupont che si è risvegliato? Poco importa: con lentezza estenuante ma ammirevole costanza la discesa prosegue, stabilizzandosi sui 1005-1006 (un bel 93% di attenuazione) solo dopo ulteriori due settimane, per un totale di 45 giorni di fermentazione! Il risultato? Sebbene poco somigliante alla ALBV, direi positivo, e perfino Kuaska approved, durante una serata in cui il guru si è simpaticamente prestato a
Varietà di malti
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farsi avvelenare da un gruppo di homebrewer, come ai vecchi tempi. Le note speziate ci sono, seppure non troppo spinte e a spiccare sono soprattutto il tipico carattere “vinoso-Dupont” e un fruttato molto accentuato; non una birra “perfettina” ma di grande personalità. La ricetta non specifica l’ingrediente principale: tempo e pazienza!
IL MALTO O meglio i malti... la palette di aromi che il birraio ha a disposizione scegliendo i malti da impiegare è almeno altrettanto stimolante quanto quella dei luppoli. Provate ad annusare un sacco di malto aromatic o perfino un Vienna, e scoprirete ad esempio note di cioccolato che mentalmente assoceremmo a malti molto più scuri - responsabili questi di altre sfumature che arrivano alla frutta secca e uva passa. Malti apparentemente simili, di stesso valore di EBC come il biscuit e l’aromatic mo-
RAUCHWEIZENBOCKALE OG 1062 FG 1007 ALC 7.5% IBU 32-34 Quantità in gr. per 10 lt.
MALTI
rauch 850 weizen 400 Vienna 1500 peated 85 aromatic 130 biscuit 130
LUPPOLI
Fuggle 4% AA 60 min 30 Styrian 3% AA 0 min 8 LIEVITO Safale S-04 (provare anche US-05) Acqua oligominerale (residuo fisso ca. 180) non trattata Mash @ 65 °C fino a conversione. Bollitura 60 min.
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strano al naso (e nella birra) caratteristiche diverse pur avendo la stessa intensità di tostature. Ma i malti più caratterizzanti sono senz’altro quelli affumicati. Le varianti sono molteplici, a seconda di cereale di partenza (non solo orzo), legno impiegato e tecniche usate; diverse varietà sono presenti sul mercato, o preparate in autonomia dai birrai e HB più evoluti. I due principali tipi sono comunque il rauchmalz affumicato con legno di faggio, e il peated con la torba. Chiariamo subito un equivoco: le birre scozzesi tradizionali, comprese le più forti Wee Heavy, tradizionalmente NON usano malto torbato, che è impiegato nei Whisky (e non in tutti, anzi solo in una minoranza). Inoltre, un’avvertenza: impiegato in quantità non moderate, il peated tende ad impartire, secondo me, un aroma di tabacco, anzi di cenere di sigaretta che molti (me compreso) trovano sgradevole. Alcuni birrai si spingono a consigliare semplicemente di lasciar perdere l’uso di peated nella birra. Secondo me una quantità molto moderata (parlo del 3% sul grist) riesce ad emergere conferendo un carattere affumicato delicato che richiama quello dei whisky torbati meno spinti. Il rauch invece è utilizzabile fino al 100%, e per mia esperienza una presenza del 25% - 30% conferisce un carattere affumicato già soddisfacente. Per la mia ricetta ho voluto provare a combinare questi due caratteri, volendo ottenere sensazioni percepibili di torbato senza sforare (come dicevo sopra) nella sigaretta, al tempo stesso ottenendo un affumicato complessivo ben avvertibile: per questo ho optato per un 25-30% di rauch e poco meno del 3% di peated. Per il resto, vorrei poter scrivere che ho pensato ad una base maltata e rotonda senza eccedere in dolcezza, optando per il malto Vienna con aggiunte di aromatic e biscuit e un po’ di frumento per tagliare con la sua acidità; abbinato un lievito ad alta, tranquillo, che desse un filo di fruttato... In realtà devo confessare che la scelta è stata per lo più
dovuta alla necessità di utilizzare alcuni ingredienti avanzati durante il periodo di lockdown! Scherzi a parte, penso che nonostante tutto la ricetta sia stata ben ragionata. Luppolatura con Fuggle (moderata ma non trascurabile e sufficiente a bilanciare il tutto) e ammostamento per alta attenuazione - risultata abbastanza spinta - completano il quadro di una birra di stile indefinito ma gradevole e di soddisfazione.
...E NON SOLO Le birre aromatizzate con i più svariati ingredienti (del territorio e non, DOC, IGP ecc.) si possono considerare una moda non del tutto svanita ma ormai non più agli apici dell’interesse di birrai e consumatori maggiormente al passo coi tempi... Un tempo le aromatizzazioni più estrose erano spesso additate nel bene o anche nel male come caratterizzanti del movimento artigianale (dimenticando la maggior parte di birre con ingredienti tradizionali e altrettanto originali), ora sembra che valga la pena abbinare l’ingrediente “diverso” solo a birra acide, barricate e simili. Vale
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GOOD MORNING STOUT
Frutti e fave di cacao
OG 1052 FG 1018 ALC 4.5% (+0.7% versione aromatizzata) IBU 30 Quantità in gr. per 10 lt.
MALTI la pena di riscoprire, anche nell’ottica di questo articolo un po’ retrò, alcune aromatizzazioni classiche che funzionano. Cioccolato e caffè in birre con stout e porter non sono certo originali, e avendo una ricetta affidabile di stout ho voluto provare a caratterizzarne una parte con nocciole e l’altra con cacao. La stout alle nocciole, pur buona, non è stata particolarmente caratterizzata dalle stesse, pur usate in quantità relativamente abbondante. Più interessante la chocolate stout. Le tecniche di utilizzo di cioccolato/cacao sono svariate. Personalmente ho provato dapprima a usare il cacao in polvere, soprattutto perché dovrebbe essere la forma con minor contenuto di grassi (se non è presente burro di cacao), ma il risultato non è stato del tutto soddisfacente su diversi aspetti. Interessante l’impiego, in un’altra cotta delle bucce di fave di cacao, sulla carta molto aromatiche ma che non hanno caratterizzato molto la birra. Per questa stout ho utilizzato invece fave di cacao (di provenienza peruviana) già decorticate e tostate.
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Fra i diversi metodi possibili di estrazione, ho provato quella in alcool puro (95%), usato in quantità a malapena sufficiente a coprire le fave macinate grossolanamente [2]; dopo 6 ore, ho trasferito sia alcool “aromatizzato” che le fave (in un sacchetto filtro) nel piccolo fermentatore dedicato, per alcuni giorni. Il risultato è stato il migliore fra i miei vari tentativi di birre al cacao, grazie a una buona birra base e a una caratterizzazione che si fa sentire al punto giusto. ENJOY!
Note 1. Come per diversi altri lieviti liquidi, la provenienza è solo ufficiosa ma accertata da varie fonti, anche se la propagazione nei rispettivi laboratori può generare mutazione e quindi differenze. 2. Attenzione all’innalzamento del grado alcolico (che nel mio caso è stato dello 0.7%, usando la minima quantità sufficiente a immergere le fave di cacao): se si esagera, la birra potrebbe risultare sbilanciata.
maris otter 2100 chocolate 125 special B 290 orzo tostato 125 fiocchi d’avena 125
LUPPOLI Fuggle 4.2% AA 45 min 27 Fuggle 4.2% AA 0 min 10
LIEVITO Saf-04 Acqua oligominerale (residuo fisso ca. 180) non trattata Mash 40min @ 68 °C poi 20 min @ 72 °C e fino a conversione. Bollitura 60 min. Per l’aromatizzazione (sempre per 10 litri, eventualmente da scalare per esperimenti ridotti): Immergere 160 g di fave di cacao tostate, sbucciate e frantumate in 120 ml di alcool a 70°alc. Lasciare per alcune ore (6-12), poi unire al mosto in maturazione, sia il liquido che le fave (in una hop bag, appesantita perché non galleggi), per alcuni giorni.
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La conservazione DEL LUPPOLO Q
uesto articolo riprende in gran parte quello che scrissi nell’ormai lontano 2003 [1] riguardo alla conservazione delle caratteristiche del luppolo in relazione alle modalità di immagazzinamento (temperatura e packaging). Mi sono chiesto se questo argomento possa essere ancora di qualche interesse al momento attuale: gli studi fin troppo approfonditi sull’estrazione degli alfa acidi sono ormai passati di moda; l’”IBUmania” del bitter is better è arrivata e poi passata e l’attuale ossessione (craze) per la freschezza degli aromi luppolati - che porta a considerare un’IPA “andata” a poche settimane dal confezionamento - fa sì che per molti homebrewer l’idea di utilizzare un sacchetto di luppolo che non provenga dall’ultimissimo raccolto e non sia ancora intonso non venga nemmeno presa in considerazione. Tuttavia penso sia normale per molti homebrewer ritrovarsi a volte con diversi luppoli non più giovanissimi, alcuni ancora da aprire, altri utilizzati in minima parte. Talvolta questi luppoli - probabilmente ancora sufficientemente ricchi di alfa acidi, se non di aromi - vengono destinati a ipotetiche produzioni di lambic in qualità di “suranneé” [2], magari con il rischio di conferire un amaro di livello imprevisto. Ultimamente mi è capitato di valutare l’utilizzo di un sacchetto di luppolo non più giovane, e oltre a basarmi sulle formule che avevo a suo tempo ricavato e alla mia esperienza pratica, ho voluto confrontare i miei risultati con quelli di alcuni tool e app birrarie più note, rile-
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vando una forte discrepanza - in senso decisamente pessimistico da parte di queste. Questo mi ha spinto a riaffrontare l’argomento, per verificare se le mie valutazioni siano errate. Ho ricontrollato le fonti scientifiche sulle quali mi ero basato e altre ne ho trovate che confermano in buona misura le precedenti. Ripropongo a questo punto le mie valutazioni del 2003, aggiungendo una comparazione con gli altri software e app anche alla luce di esperienze pratiche. La conservazione del luppolo e il decadimento della sua qualità è un argomento abbastanza studiato, sia perché utile ai produttori per valutare le modalità di confezione e immagazzinamento, sia perché, a differenza di altri materiali, è possibile misurare quantitativamente questa perdita di qualità, almeno relati-
vamente agli alfa e beta acidi. Lo scopo di questo articolo è la messa a punto di un semplice metodo di calcolo approssimativo della diminuzione degli alfa acidi, utile per far capire quali siano le migliori condizioni di conservazione del luppolo, stimare se un certo luppolo è stato ben conservato, e in caso contrario, calcolare approssimativamente la sua perdita di AA% per poterne tener conto nel suo impiego. Per far questo, mi sono basato su alcuni articoli tecnici, in particolare a firma del Dr. A. Foster [3] e successivi [4].
La ricerca della formula Che le alte temperature e la presenza di ossigeno siano nemici della buona conservazione del luppolo (come del resto di ogni alimento) è risaputo. È però inte-
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ressante notare, dai dati riportati, che vi è una perdita di alfa acidi, crescente con la temperatura, anche in assenza di ossigeno (impacchettamento sottovuoto o in gas inerte). Insomma, il fattore temperatura è importante anche nel caso di impacchettamento ottimale. Per i beta acidi, invece, in assenza di ossigeno non vi è praticamente decadimento, e il fattore temperatura va considerato solo in caso di confezione non ermetica all’O2 o dopo l’apertura della confezione. Dai dati misurati, emerge che la velocità con cui diminuiscono i componenti principali del luppolo segue con buona precisione la legge generale delle reazioni chimiche: vi è un raddoppio della velocità per ogni aumento di 10 °C; quindi ad es a 20 °C il deterioramento è 8 volte più rapido che non a -10 °C. Inoltre, una confezione impermeabile all’ossigeno, sottovuoto o in atmosfera inerte riduce approssimativamente di 10 volte velocità di perdita di alfa acidi nel tempo (e in pratica annulla la perdita di beta acidi). Partendo da questi dati, si arriva alla formula per gli alfa acidi (AA) residui (in rapporto alla quantità iniziale) R: T −20
R=
2 10 (R0)2·anni· P
R0 = residuo dopo 6 mesi all’aperto a 20°C [5] Dove ad esempio un R=0.5 (o 50%) sta a significare che un luppolo con un valore iniziale di AA poniamo di 12% ha un valore di 12*0.5=6% AA alla fine del periodo di conservazione considerato. Questa formula apparentemente complicata ha una semplice spiegazione: l’elevamento a potenza rispecchia il fatto che se ogni anno rimane una certa parte di AA, ad es 0.8, dopo due anni saranno 0.8*0.8, dopo 3 anni 0.8*0.8*0.8 e così via. L’esponente (il tempo, in anni) viene alterato dal fattore P (permeabilità), perché in caso di package ermetico e sottovuoto (o in atmosfera inerte) la perdita di AA è 10 volte più lenta; il fatto-
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re vale quindi 10 in quel caso e 1 per una confezione aperta, ma possiamo inserire un valore intermedio, ad es 3, per una confezione chiusa ma non inerte. L’altra correzione deriva dalla temperatura, che provoca un raddoppio della perdita ogni 10 °C; viene fatta la differenza rispetto a 20 °C, perché questa è la temperatura a cui viene di solito riferita la caratteristica di conservabilità di un determinato luppolo (indicata qui da R0). Per ogni qualità di luppolo, infatti, questa storage capability denominata solitamente HSI viene in genere calcolata per 6 mesi a 20 °C a contatto con l’aria. Il dato si può ricavare dalle caratteristiche dei tipi di luppolo riportate in vari siti e, in mancanza di questo, si può assumere un valore approssimato tra 0.5 (ovvero dopo 6 mesi a 20 °C rimane il 50% degli AA) e 0.7.[5] In caso di immagazzinamento in condizioni variabili si può applicare la formula ai vari periodi e poi moltiplicare i risultati fra loro. In base alla formula si ricava ad esempio che entrambi i fattori (pacchetto impermeabile e bassa temperatura) sono importanti contemporaneamente, specie per tempi lunghi. Un luppolo conservato aperto a -10 °C per un anno conserva ancora l’84% degli AA, ma dopo 3 anni alla stessa temperatura gli AA si riducono a meno del 60%. Una confezione ermetica sottovuoto a temperatura ambiente di 22 °C conserva buona parte degli AA dopo un anno, ma già dopo due ne conserva solo il 75% e dopo tre il 60%. Se poi teniamo del luppolo all’aria a temperatura ambiente anche solo per un anno, solo il 20% degli AA rimarrà disponibile! La conclusione è quindi che il luppolo, anche se il confezionato ermeticamente e sottovuoto va conservato in freezer, o per lo meno in frigorifero; se invece la confezione non è più sottovuoto, le basse temperature aiutano ma solo fino ad un certo punto. Per quanto riguarda l’aroma, gli studi sono più complicati e per ora meno
conclusivi, anche per la difficoltà di una stima quantitativa. Viene ipotizzato un comportamento simile ai beta acidi (cioè influenza della temperatura solo in presenza di ossigeno), ma volendo adottare un modello più conservativo si possono usare gli stessi criteri impiegati per gli alfa acidi. Confrontando le mie valutazioni esposte con altri articoli e tool software più recenti, come il noto e ottimo Beersmith [6], si può notare una notevole diversità, non tanto nei concetti ma sui risultati quantitativi. Il riferimento principale è un interessante articolo del noto esperto di luppoli Mark Garetz [7]: su questo articolo sono basati esattamente i calcoli effettuati da Beersmith. Come si può facilmente verificare, la formula proposta da Garetz, pur essendo posta in una forma diversa, rispecchia esattamente quella da me ricavata in questo articolo.
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La differenza è nei parametri utilizzati: Garetz infatti considera un raddoppio della velocità di decadimento degli AA ogni 15 °C (e non 10 °C) di innalzamento di temperatura, mentre utilizza solo un fattore 2 (e non 10!) per tener conto del packaging ottimale (alluminio, impermeabile all’ossigeno e sottovuoto) rispetto alla conservazione aperta. Riguardo al primo punto, non è chiaro da dove provenga il riferimento dei 15 °C; nell’articolo di Foster viene esplicitamente indagata l’ipotesi che anche il decadimento degli AA segua la legge generale del raddoppio ogni 10 °C, e i risultati sembrano suffragarla. Nello stesso articolo, i risultati sperimentali ottenuti confrontando la conservazione open ed ermetica mostrano una differenza intorno a un fattore 10 (ovvero, un luppolo conservato in modo ottimale può durare circa 10 volte rispetto alla conservazione in confezione aperta), ben maggiore di quella ipotizzata da Garetz, che peraltro non fornisce riferimenti precisi riguardo alla scelta dei suoi parametri. Un altro articolo più recente [4] conferma con buona approssimazione gli stessi risultati di Foster, sia riguardo alla temperatura che al packaging. Nella Tabella 1 possiamo confrontare i risultati della mia formula (colonna maxbeer.org) con quelli di Beersmith, applicati ai dati sperimentali riportati nei due articoli citati. Come si può vedere, i valori ricavati dalla mia formula rispecchiano con ottima approssimazione i dati sperimentali: non c’è da meravigliarsi, dato che i parametri da me utilizzati sono ricavati dagli articoli stessi. Quello che è sorprendente è la differenza rispetto ai risultati molto pessimistici di Garetz/Beersmith. Divario altrettanto accentuato (in questo caso solo rispetto ai miei risultati, data l’assenza di riscontri a livello di misurazioni) per i due casi ipotetici riportati in fondo alla tabella stessa: luppolo con HSI 0.5 conservato, sempre a 4°C, dapprima sei mesi ermeticamente, poi per altrettanti mesi non
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ermetico [11]; e luppolo con HSI 0.72 conservato in frigo, ancora chiuso e sottovuoto, per 5 anni. In entrambi i casi si passa da un normale utilizzo del luppolo allo scartarlo o quanto meno rivederne pesantemente il dosaggio. Oltre al conforto degli articoli citati, posso aggiungere l’esperienza pratica: l’ultimo esempio riportato infatti non era inserito a caso, ma riguarda una birra che ho effettivamente prodotto. A livello di amaro, effettuate le correzioni, la birra è risultata in linea con le aspettative. L’obiezione può essere che il mio palato non si può considerare un misuratore affidabile di IBU, ma il punto è che giuste o sbagliate che siano le IBU come valore, il livello di amaro percepito era analogo a una birra con ricetta analoga e con lo stesso livello di IBU calcolato utilizzando un luppolo fresco, con i rispettivi AA opportunamente scalati secondo quanto esposto sopra. Certo, un panel di degustatori più esteso darebbe conferme più solide, e naturalmente lo stesso dicasi per una misurazione delle IBU in
laboratorio - per quanto questa opzione risulti in gran parte già coperta dagli esperimenti descritti negli articoli citati. Nulla da aggiungere in particolare riguardo all’evoluzione e decadenza degli aromi. L’indicazione a livello di massima è analoga: ermeticità e basse temperature aiutano nel mantenere gli aromi, ma non ho trovato letteratura tecnica a riguardo e non ci sono software e app o formule che possono essere d’aiuto nel dare una precisa risposta quantitativa. Posso solo dire, per esperienza, che mi è capitato di aprire sacchetti di luppolo dell’ultimissimo raccolto e aver trovato aromi deludenti e evanescenti, mentre altri luppoli di annate precedenti, nonostante l’età, erano decisamente più soddisfacenti come intensità e freschezza di aromi. Insomma, la variabilità fra raccolti, fornitori, lotti diversi è spesso (purtroppo) più elevata rispetto alle variazioni nel tempo di una determinata confezione di luppolo. In questo caso, l’unico aiuto arriverà dal proprio naso...
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TABELLA 1 HSI (R0)
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TEMP ºC
PACKAGE (10=INERTE) (1=APERTO)
BEERSMITH
MAXBEER.ORG
MISURATI
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(nota: in valori in grassetto corrispondono in entrambi i casi a quelli sperimentali, in quanto presi come riferimento per l’HSI)
Note 1. M. Faraggi (2003), La conservazione del luppolo, su maxbeer.org (anche su UBnews 2003). 2. luppolo invecchiato in modo da perdere la gran parte dei suoi alfa acidi ma non le proprietà antisettiche, utilizzato nella produzione di lambic. 3. la sezione degli articoli non è più disponibile, ma si veda, reperibile su webarchive: Forster, A. (1999): Mea-
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sures for quality conservation of hop pellets in storage. Barth-Haas Research & Publications (http://www. barthhaas.com). 4. S. Srečec, T. Rezić, B. Šantek and V. Marić: Hop pellets type 90: influence of manufacture and storage on losses of a-acids. 5. Il parametro da me denominato R0 viene solitamente indicato come HSI, talora (come nel mio caso) rife-
rendosi alla percentuale di AA rimasti, oppure a quelli persi. 6. BeerSmith™ 3 www.beersmith.com 7. M. Garetz (2015), Hop Storage, Brewing Techniques, anche su www.morebeer.com/articles/storing_hops_properly 8. vedi [3] Table 3 e Table 4. 9. vedi [4] par.2.2. Changes of a-acids content during hop pellets storage in different conditions.
BIRRA NOSTRA MAGAZINE
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FOCUS BIRRE LUPPOLATE
A cura del MoBI Tasting Team
MoBI TASTING SESSIONS:
Hoppy Beers
Birre italiane e straniere, artigianali e (semi)industriali degustate e giudicate dal “MOBI Tasting Team”
I
l luppolo non passa mai di moda! Le “IPA”, ormai molto lontane dalla definizione originale dello stile inglese nato all’inizio del XIX secolo, continuano ad essere proposte dai birrifici italiani e internazionali: (quasi) tutti i produttori hanno almeno una referenza in catalogo con questo riferimento. Con l’incessante crescita delle varietà di
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BIRRA NOSTRA MAGAZINE
luppolo offerte sul mercato e l’ampliamento della tavolozza aromatica che oggi questa infiorescenza offre, i birrai possono sbizzarrirsi nella creazione di birre anche inusuali, alcune delle quali tendono più ad assomigliare a succhi di frutta che alla creazione originale di George Hodgson. Leggiamo i commenti del nostro MoBI Tasting Team!
I
membri del MoBI Tasting Team sono rinomati degustatori, giurati a concorsi BJCP, appassionati, talvolta anche birrai. Puoi trovare altre degustazioni e recensioni sul blog del sito MoBI. Inquadra il QRCode e segui il link!
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FOCUS BIRRE LUPPOLATE
Emisfero sud Birrificio Rurale
Galaxy 999 Blond Brothers
Jacaranda - Renton
Stile: Pacific Ipa
Stile: Triple IPA; Alc. 9.99% vol.
Formato: bottiglia 33 cl.
Formato: lattina 40cl
Formato: bottiglia 33 cl.
Lotto: 1919
Alc: 5.7%
Lotto: 53/19
Acquistata da: shop online
Lotto: 1084
Acquistata da: taproom
Scadenza: 05/12/2020 Acquistata: beershop Chiara, leggermente velata con schiuma bianchissima. Già dal nome è un chiaro inno ai luppoli dell’area australiana e il naso non si smentisce regalando suggestioni tropicali che vanno dall’ananas, al mango, alla papaya, con un sottofondo resinoso e quasi balsamico ad arricchire la complessità del panorama olfattivo. In bocca non c’è spazio per i compromessi: la base maltata è puro sottofondo utile a garantire un corpo comunque leggero su cui si vanno a esprimere gli stessi sentori che già trovavamo nel profumo, senza che si sfoci mai nelle tonalità dolciastre che a volte si abbinano alla frutta tropicale. La chiusura, anzi, ci regala un bell’amaro deciso dove tornano a fare capolino le note resinose con quel pizzico di balsamico. Una gran bella birra, di grande bevibilità, dove forse l’unico piccolo neo è proprio questo amaro finale che, senza un minimo bilanciamento della parte maltata, può risultare un po’ ruvido anche per via della sua lunghezza. Niente di grave, però, per una birra decisamente apprezzabile, che rispetta le attese.
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Stile: English IPA; Alc. 6% vol.
Limpida e dorata con tendenze aranciate, cappello di schiuma di colore e aspetto pannosi. Olfatto: tuttifrutti +1, esotici però. Luppolo Galaxy evidente, Citra meno scontato. Mango e frutto della passione fanno da architrave, litchi e maracuja impreziosiscono il bouquet. Arancia dolce esile ma ben distinta. Intermezzo di malti chiari con sentori di farina, pasta frolla e brioche. Floreale a margine, a cavallo tra i fiori di campo e il miele millefiori, su sfondo di ananas. Corpo medio/leggero, carbonazione medio/ alta, sensazione tattile morbida e voluttuosa. Il sorso è consistente, come un succo di frutta e la pinta diventa magicamente una macedonia. Tanta frutta fresca appena tagliata, di intensità sopra la media, ma l’arancia va fuori di polpa ed evolve prima in scorza e poi in pompelmo. Finale asciutto e retrogusto caratterizzato dal pompelmo, in retrolfatto un inaspettato cocco bello. L’alcol è speziato e riscaldante ma più docile di quanto l’etichetta lasciasse immaginare. Conclusioni: nonostante la quantità di amaro e il tasso alcolico, è una birra fedele alle promesse stilistiche, ovvero dissetare. Ben vengano one shot del genere. Il nome è un omaggio a Galaxy Express 999, cartone animato giapponese.
Colore ambrato profondo attraversato da venature aranciate. Schiuma compatta e persistente, fine, di aspetto pannoso e colore beige. Al naso, malti speciali e le note caramellate, luppoli europei e il loro amaro relativamente sobrio. Biscotto, marzapane, pane tostato, miele di acacia. L’intensità dei luppoli è media, con avvincente avvicendamento di elementi erbacei, terrosi, speziati e vagamente fruttati (arancia, pesca). Dulcis in fundo l’insolita freschezza della frutta esotica (melone retato, papaia). Corpo medio/pieno, carbonazione media, tatto morbido e carezzevole. L’ingresso è appannaggio dei malti. La tendenza dolce è però effimera: l’evoluzione della birra è decisamente amara. Un amaro che subentra prima di metà sorso caratterizza tutta la bevuta e persiste a lungo dopo la deglutizione. Agrumi, curaçao e pompelmo, con la conferma tropicale percepita al naso. E suggestioni di chinotto. Erbaceo e speziato a rimpolpare l’amaro, arricchito da note pepate, di cardamomo e di anice stellato. Chiude asciutta e ripulente, invogliando il bis. L’alcol, pur contenuto, si lascia percepire sia dal punto di vista aromatico (Irish Mist, erbe officinali), sia in termini di tepore etilico. Conclusioni: birra con qualche licenza di luppolo, che le si perdona, visto il rispetto stilistico. Il suo è un amaro d’altri tempi, che però fa sempre piacere ritrovare nel bicchiere.
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FOCUS BIRRE LUPPOLATE
Tuff Gong - Foglie d’Erba/Birra Perugia
Alley Hop, Birra Bellazzi
Rockfield - Alder
Stile: Double IPA; Alc. 8.5% vol.
Stile: American Ipa
Stile: Rye India Pale Beer
Formato: bottiglia 33 cl.
Formato: lattina 40cl
Formato: bottiglia 33cl
Lotto: 19032
Alc: 6,8%
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Acquistata da: sito internet
Lotto: 059B
Lotto: 71 2020 Scadenza: 05/12/2020 Acquistata: produttore Il periodo di isolamento dovuto al Covid-19 ha bloccato Luana Meola di Birra Perugia per qualche settimana a Forni di sopra. Quasi inevitabile che nascesse una birra collaborativa con birrificio di casa (tra l’altro non la prima). Bassa fermentazione, segale del territorio e una doppia versione: una base con sola luppolatura tedesca e una gemella dry hoppata anche con luppoli americani. E’ questa seconda versione che andiamo ad assaggiare noi, trovando una birra dal colore dorato e dai profumi vivaci senza eccessi e chiaramente “americaneggianti”, principalmente verso arancia e mandarino. In bocca l’attacco paventa leggerissime note di cracker ma lascia quasi subito spazio al ritorno dell’agrume e a una birra dal corpo leggero e di grande secchezza, con un buon amaro finale che ripulisce con decisione. In sintesi una gran bella birra, che riesce a essere contemporaneamente complessa ma semplice da bere, anche se in questa versione l’apporto della segale rimane forse troppo in secondo piano. Interessante l’assaggio comparato con la gemella non dry-hoppata, che gioca tutto sulla parte dei cereali e dei luppoli tedeschi.
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BIRRA NOSTRA MAGAZINE
Ambrata con qualche piglio dorato, aspetto limpido. Schiuma copiosa alla mescita, a riposo si assesta all’altezza di un paio di dita, aspetto e colore della crema. Olfatto: stuolo di luppoli a dare il benvenuto. Il curaçao capitana gli agrumi, resina a serrare le fila. Tra i ranghi si insinua una possente vena maltata: nuances biscottate, caramello, cenni di crosta di pane. E nel ripieno che si nasconde il segreto della felicità, l’alcol, che suggerisce l’immagine di un dolce ubriaco con cuore di scorza d’arancia. Corpo medio, carbonazione ben presente, sensazione tattile tondeggiante che lascia intuire il contrappeso maltato. Il primo sorso schizza giù per il cavo orale come su scivolo di un acquapark. Eccezionale dunque il lavoro “emolliente” dei malti, che spalmano e ammorbidiscono a dovere. Ciononostante, il calcio amaro è poderoso, come di calcio girato alla Van Damme, risultando letale per il palato disattento o non allenato. Non è una spremuta di luppolo, bensì una birra dagli equilibri invidiabili. Finale secco e ripulente, caloroso come uno shot di amaro alle erbe. Conclusioni: l’Hop Dream Team rinuncia alle prodezze della sua stella e ricorre al sempreverde lavoro di squadra. La strategia è vincente e la birra è uno slam dunk alla sete.
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Scadenza: 06/09/2020 Acquistata: produttore Il progetto autonomo di Marco Valeriani è partito col botto nell’autunno 2019 ed ha subito sfornato un notevole quantitativo di birre. La Rockfield è stata una delle prime e dovrebbe essere una di quelle prodotte con più costanza; non a caso, in una lista comunque di altissimo livello, è tra le più buone, andando a incarnare il top in Italia nello stile insieme a pochi altri selezionati colleghi. La birra è di colore giallo dorato, con un aroma percepibile a grande distanza, donato dall’uso di Citra e Mosaic: pompelmo, mandarino, qualche suggestione più nascosta di frutta gialla e tropicale, senza dimenticare accenni resinosi soprattutto quando la birra è un po’ meno fredda. L’attacco in bocca ci dice che la parte maltata è stata studiata con perizia; fa capolino con accenni di cracker e pane per poi lasciare spazio alle tonalità fruttate e a un amaro deciso ma ben dosato, che si ripropone abbastanza lungo con ritorni balsamici e quasi pepati. In sintesi: un punto di riferimento, poco altro da aggiungere.
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FOCUS BIRRE LUPPOLATE
Breaking Hops - MC77 Stile: Double Ipa
Wedra, Malaspina Brewing
Freak Time, Evoqe Brewing
Formato: bottiglia 33cl
Stile: Session Pale Ale; Alc. 4.7% vol.
Alc: 7,8%
Formato: bottiglia 33 cl.
Stile: Double IPA con frutta (frutto della passione e lamponi); Alc. 8.3% vol.
Lotto: 21
Lotto: 04/21
Scadenza: 23/09/2020
Acquistata da: birrificio
Lotto: 25/02/2020
Colore dorato come il sole, aspetto cristallino come l’acqua di mare di cui possiede anche spumosa schiuma bianca. Sul naso sventola bandiera arancione. Incursione fruttata, zesty di scorza e agrodolce di succosa polpa. Pompelmo e mandarino nei panni di attori non protagonisti, nettarine e cantalupo quali semplici comparse. Una leggiadra base di malti sostiene la generosa luppolatura con aromi di cracker, frollino e cialda gelato, più gocce di arancia candita. Bouquet elegante, impreziosito dagli effluvi di miele millefiori. Corpo medio/leggero, carbonazione media, sensazione tattile dalle curve moderatamente sinuose. Session: una filosofia più che un limite alcolico. Birra senza voli pindarici punta dritta all’obiettivo: evaporare. Pan bauletto, brioche, pasta frolla e biscotto gelato fanno da base ai luppoli. Chiude ripulente, rinfrescante nella sua connotazione citrica, con un amaro certamente sugli scudi ma sempre tra le righe. Lasciti erbacei e marginali pepature donano complessità e secchezza. Impressioni di marmellata d’arancia nel retrolfatto. Conclusioni: Session con la “S” maiuscola, Wedra scommette tutto su una luppolatura ruffiana e rinfrescante, altamente aromatica e moderatamente amara, senza rinunciare al gusto. Entry level, sì, ma con classe.
Nomen omen: birra “freak” già alla vista. Colore aranciato e aspetto lattiginoso, schiuma rosata poco persistente. Da una birra del genere c’è da aspettarsi di tutto. La follia spagnola è dietro l’angolo, per fortuna interviene Range Rover Evoqe a riportare disciplina. L’utilizzo parsimonioso della frutta la mantiene con i piedi per terra e dentro il confine delle Double IPA, semplicemente ne arricchisce la componente fruttata. Domina il frutto della passione, nonostante i lamponi siano altrettanto caratterizzanti. Farcia di agrumi, pompelmo e curaçao, topping di mango e papaia. Maltato quasi impercettibile, eccezion fatta per suggestioni di brioche, frolla e biscotto gelato. Corpo medio, carbonazione medio/alta, sensazione tattile morbida e avvolgente sotto cui si nasconde la verve acidula del frutto della passione, con il succo di lamponi a fare da contrappeso. Superata l’ondata di malti, in bocca giunge una quantità di amaro smodata. Il frutto della passione è croce e delizia. Inizialmente strano, poi diventa il migliore compagno di bevute per un giorno. Finale secco e lungo, intenso retrogusto amaro di pompelmo, retronasale di passion fruit. Conclusioni: birra particolare, meno folle del previsto. Stramba tutt’al più. Certamente monocorde: il frutto della passione caratterizza, stupisce, ma alla lunga stanca.
Acquistata: produttore Mc77 ormai non ha bisogno di presentazioni, così come non ne ha la Breaking hops, già vincitrice di premi e riconoscimenti a vari livelli, e cavallo di battaglia fin dai primi momenti di vita del birrificio. La double ipa della casa si colloca alla perfezione nel filone realizzativo moderno dello stile. Di colore dorato, ormai ben lontana dalla versione ambrata dei primi tempi, con i luppoli americani (e non solo) che riportano verso i consueti aromi di agrumi (pompelmo), combinati con frutta gialla, frutta tropicale e una nota resinosa più decisa appena la birra è versata. In bocca l’accenno maltato iniziale porta un tocco di miele che viene poi spodestato dal sapore agrumato/fruttato e soprattutto da un amaro deciso, lungo e improntato su toni resinosi. Anche la parte alcolica nel finale emerge un po’, ma senza disturbare. Una birra impeccabile, pulita, elegante e di grande impatto sia olfattivo che gustativo, sicuramente tra i migliori esempi dello stile che possiamo trovare in Italia e non solo.
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Formato: lattina 44 cl. Acquistata da: birrificio
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L’OPINIONE
di Simonmattia Riva
IN PRINCIPIO
FU L’AMARO
U
n piccolo test di autovalutazione per misurare la propria anzianità da appassionati birrari (e di conseguenza recuperare la datazione del proprio alcolismo) consiste nel cercare nella memoria le tracce del primo viaggio all’Ange Gardien e del conseguente incontro con la Petit Orval o Orval Vert: se si ricorda di averla trovata un po’ sbilanciata e sopra le righe sul versante dell’amaro, allora si è decisamente bevitori anziani, battezzati dalla cervogia ben prima
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BIRRA NOSTRA MAGAZINE
che il luppolo vivesse la sua stagione da principe degli ingredienti birrari. Nel caso in cui non si sia, colpevolmente, mai visitato il luogo di nascita di una delle birre più celebri al mondo, ricordare la Chouffe Houblon come un esperimento tanto ardito da essere in odore di eresia è un buon test surrogato. Se poi si rimembra anche di aver deliberato questa moda non può durare di fronte alle prime bevute di Sierra Nevada Pale Ale, con il loro lungo e deciso
finale agrumato, allora, oltre alla propria età si ha anche l’opportunità di denunciare una capacità di previsione del futuro a metà strada tra Piero Fassino e il manager di un’azienda cartaria che a fine anni Novanta, sorridendo sotto i baffi, avesse sentenziato ne riparliamo quando questa sbandata per internet sarà finalmente passata. Le luppolature generose, invece, sono ancora oggi orgogliosamente sulla cresta dell’onda e sono state una delle
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L’OPINIONE
architravi del movimento craft, con un importante ruolo simbolico di contrasto rispetto alle dinamiche dell’industria: tanto più le major andavano ad abbassare, di anno in anno, il quantitativo di luppolo e le unità di amaro presenti nelle loro etichette, convinti a ciò sia dalle opportunità di risparmio confortate dei panel test aziendali che testimoniavano come il taglio di un 2-3% del quantitativo di verdi coni fosse percepito solo da un’esigua minoranza dei clienti, sia dagli uffici marketing che garantivano come il consumatore, specie in paesi come l’Italia, non gradisse il gusto amaro, quanto più i microproduttori incrementavano la presenza delle infiorescenze femminili del rampicante, vantandosi sempre più spesso di praticare luppolature non più solo generose ma “smodate”. Apparentemente accadde dunque un fenomeno del tutto inedito e che smentì in modo clamoroso i soloni del marketing alimentare poc’anzi citati: se una della linee guida dei prodotti industrializzati, le birre come i formaggi o i salumi, è sempre stata quella di creare flavour sostanzialmente neutri, senza spigoli, per poter abbracciare potenzialmente l’intera platea dei palati, con l’avvento delle prime APA e American IPA si assistette ad un clamoroso successo di birre dal forte impatto aromatico e gustativo e con l’acceleratore decisamente premuto sulla componente amara. Tra i giovanissimi desiderosi di mostrarsi bevitori maschi alfa, addirittura, la richiesta dammi la aipiei più amara che hai sostituì lo storico dammi la birra più forte che hai nelle orecchie di publican e baristi durante i lunghi servizi serali del week-end. È ancora più interessante notare come i bouquet e i sentori agrumati della prima generazione di APA e A-IPA abbiano conquistato alla causa delle birre una vasta platea di pubblico, anche femminile, che in precedenza snobbava la spumosa bevanda perché la riteneva troppo banale o, e ciò ci farà riflettere maggiormente, troppo/solo amara.
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Nel primo caso, ovvero la maggiore complessità e ricchezza aromatica come fattore di successo, ha avuto anche un ruolo, quantomeno in Italia, il rinnovato interesse per la degustazione vinicola a cui si è assistito negli anni Novanta: trovare anche nelle birre profumi fruttati, speziati e minerali che si era imparato a riconoscere nei vini ha sicuramente avvicinato alle microproduzioni artigianali un pubblico informato, attento e dal notevole potenziale di interesse. Le donne sono poi, saggiamente, più inclini ad annusare e analizzare cibi e bevande prima di ingerirli e non è quindi una sorpresa che una ragazza o una signora provi più soddisfazione a sorseggiare una American IPA o Pacific Pale Ale, specie se caratterizzata da una prevalenza aromatica “fruttata” (termine quanto mai generico su cui andrebbe
compiuta una trattazione a parte), che a tracannare una lager industriale dal collo della bottiglia. É il secondo gruppo dei soggetti conquistati dalle luppolature spinte nate oltreoceano che ci fa però compiere importanti passi in avanti nella lettura del fenomeno: com’è possibile che persone che rifiutavano le mass market lager ritenendole “amare” abbia cominciato ad apprezzare, e in alcuni casi ad amare molto, birre con livelli di amaro decisamente più marcati? In primo luogo, esistono varie declinazioni di amaro e accade frequentemente che chi non ama l’amaro erbaceo, tipico delle Pils e della lager, o l’amarezza tostata delle birre scure, apprezzi invece l’amaro agrumato o viceversa. In secondo luogo, nelle birre caratterizzate da un’intensa luppolatura, il gusto
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L’OPINIONE
amaro viene sempre e necessariamente contrappuntato da altre componenti che vanno a limare le punte acuminate e generare equilibrio: il fiele, del resto, non è la bevanda preferita di nessuno! Nella prima generazione di APA e American IPA il bilanciamento era operato tramite una buona presenza di malti speciali come i Cara o il Cristal che andavano a colorare di ambrato carico le 60, 90 e 120 minutes di Dogfish Head, vere e proprie leggende liquide dei primi anni Duemila, e le primissime interpretazioni create in Italia dopo la Pioneer (nomen omen) Pale Ale di Mike Murphy come la Re Ale del Borgo, la AFO del Ducato o la eretica Artigianale di BiDu, in cui il Cascade convive con i continentali Perle e Styrian Goldings. Oltre al colore, i malti fornivano corpo e dolcezza che contribuivano ad abbassare la percezione dell’amaro: i più bravi, attenti e socratici publican, con il loro incessante interrogare, spesso finivano infatti a scoprire che ciò che i nuovi clienti amavano in queste birre era proprio la componente dolce, non quella amara. Non a caso, numerosi bevitori compulsivi di American IPA se venivano messi di fronte a una XX Bitter concludevano questa non mi piace, è troppo amara a dispetto di un numero di IBU decisamente inferiore alle loro birre preferite: l’assenza di malti speciali e la minore presenza di zuccheri residui rendevano infatti l’amaro della, a sua volta pionieristica, blond di De Ranke molto più percepibile. La seconda rivoluzione del luppolo, meno rumorosa della prima, giunse agli albori degli anni Dieci del XXI secolo con l’avvento delle American IPA di scuola West Coast: le produzioni di Port Brewing e Russian River, Pliny the Elder in testa, divennero i nuovi totem liquidi mentre in Italia la birra della svolta è stata la Spaceman di Brewfist. Cosa è cambiato nella sostanza? Niente più malti caramellati, solo pils o al massimo pale, quindi colore dorato chiaro, maggiore secchezza e conseguente ri-
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BIRRA NOSTRA MAGAZINE
schio di una percezione dell’amaro assai più elevata e potenzialmente graffiante. Il rischio di una minore corsa nel sorso venne quindi ovviato con un più contenuto carico di luppoli da amaro a fronte di un maggiore investimento sul late e dry hopping al fine di creare spettri olfattivi ancora più spinti e avvolgenti. Inoltre, la ricerca aromatica si è via via sempre più allontanata dai profumi agrumati per virare su note tropicali e resinose: Citra, Mosaic, Simcoe ed El Dorado, senza dimenticare i luppoli australiani, tasmaniani e neozelandesi con le loro fragranze di frutto a bacca, hanno soppiantato Cascade e Amarillo nella classifica delle varietà più ricercate e vendute. Alcuni di questi luppoli, per un curioso effetto paradosso, forniscono anche in bocca sentori di frutta matura e tropicale (inconfondibile il flavour di kiwi maturo dato dall’El Dorado o quello di guava fornito dall’Ekuanot) andando quindi a bilanciare con l’aromaticità dei loro oli essenziali le componenti amaricanti dei loro fratelli, sempre meno numerosi, usati a inizio bollitura. Le tendenze del più aroma meno amaro e del più frutta matura e tropicale e meno agrume hanno poi subito un’ulteriore
accelerazione con l’avvento, nell’ultimo lustro, delle NEIPA e Juicy IPA, originarie della East Coast (“se a Ovest hanno i luppoli noi dobbiamo caratterizzarci con i lieviti” pensarono intelligentemente i birrai della costa atlantica) e contraddistinte, oltre che da quantità inusitate di luppoli aggiunti a freddo, dall’utilizzo di lieviti come il Vermont o il Conan che, al contrario dell’US 05 e dei classici ceppi da American IPA, attenuano meno le birre lasciandovi più zuccheri residui e donando loro dunque un corpo succoso e a volte quasi masticabile. Inoltre, questi ceppi non hanno un profilo fermentativo neutro ma generano, all’opposto, una significativa quantità di esteri, con profumi orientati in particolare alla pesca gialla e all’ananas, che vanno a potenziare gli analoghi aromi rilasciati dal dry hopping. Non si pensi che l’uso di lieviti più caratterizzanti sia una tendenza rimasta confinata nella nicchia delle juicy con il suo correlato di follie, in primis le one shot a carissimo prezzo che generano (o, quantomeno, generavano in epoca pre Covid-19) chilometriche file fuori dai cancelli dei birrifici di oltreoceano: oggi anche chi produce IPA in stile West Coast predilige sempre più l’utilizzo del
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Vermont o addirittura di ceppi di lieviti britannici proprio per creare esteri dall’impronta aromatica affine a quella del blend di luppoli utilizzato. Come tutte le evoluzioni, anche quella delle birre molto luppolate porta con sé alcune forzature concettuali che finiscono per a volte sfociare in miti e leggende metropolitane. In principio fu l’amaro, abbiamo detto: ebbene, la sempre più spinta accelerazione sull’aroma a discapito dell’amaro ha portato oggi alla produzione di non poche birre, spesso etichettate come NEIPA, in cui l’aggiunta di luppolo a inizio bollitura è zero (non poco, proprio zero) e tutto si gioca negli ultimi minuti di cottura o a fuoco spento. Conseguenza è che sempre più frequentemente i publican sentono gli hop head della prima ora presentare rimostranze quali se ordino una IPA è perché voglio una birra amara, se volessi una boccetta di profumo andrei in una boutique. Le maggiori ossessioni, a volte ingiustificate, come vedremo, riguardano però shelf life e conservazione. Partiamo dai fatti: ❱❱ le birre fortemente caratterizzate dai luppoli devono essere consumate il più possibile fresche: vero. ❱❱ gli aromi da luppoli americani invecchiano peggio e più rapidamente
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rispetto alle fragranze dei coni continentali a causa del diverso rapporto tra alfa e beta acidi: verissimo. ❱❱ le più gloriose IPA a stelle e strisce che hanno la sventura di solcare l’Atlantico in nave e surriscaldarsi nei container saranno semplicemente irriconoscibili: vero e tristemente noto. ❱❱ la data di confezionamento è più utile, per queste tipologie birrarie, rispetto a quella di scadenza, specie se un birrificio concede 5 anni di shelf life a una Double IPA in bottiglia (visto con i miei occhi): senza dubbio vero. Quando però si sente parlare di birre che non sarebbero più in forma a due settimane dal confezionamento o perché spostate di 400 km (fatte salve le corrette modalità di conservazione e trasporto) giunge il momento di armarsi di spirito critico e non cascare in fandonie: la birra non è una mozzarella di bufala, per quanto anche in questo campo alcuni degustatori di formaggio stiano aprendo le porte a una possibile maturazione ed evoluzione organolettica positiva dei formaggi a pasta filata, è un prodotto che grazie al grado alcolico, al pH acido e ad altre componenti ha una sua stabilità per un periodo ragionevole di tempo. Ne consegue che una birra che perda le sue migliori caratteristiche aromatiche e gustative in pochi giorni sebbene sia chiusa nel proprio contenitore e ben conservata o trasportata è semplicemente un prodotto instabile a causa di errori umani o inadeguatezze strumentali in fase produttiva e di confezionamento, pick up di ossigeno in primis. In questo caso, dunque, il produttore avrebbe ben poco di cui vantarsi a riguardo e invece le dinamiche dell’hype spesso infrangono le leggi della logica e vanno a premiare proprio le birre più instabili incolpando di eventuali esperienze gustative deludenti il publican o rivenditore che ha osato spostare il sacro liquido dal suo luogo d’origine o il consumatore che si è illuso di poter
godere appieno del suo sublime gusto senza sobbarcarsi il viaggio. Il successo delle lattine, contenitore sicuramente consigliabile per birre, come le IPA e derivati, da bere poco tempo dopo il confezionamento e che porta con sé pure alcuni vantaggi logistici e ambientali rispetto alle bottiglie, ha aperto la porta anche ad altre leggende legate alla preferibilità del consumo direttamente dal contenitore metallico, senza l’ausilio di un bicchiere. In un’ottica di maggiore diffusione della birra artigianale è sicuramente meritevole e apprezzabile che un birrificio studi la carbonazione per donare godibilità anche al consumo dalla lattina, magari durante un’escursione a piedi o un concerto quando sarà possibile frequentarli di nuovo; quando si arriva però a sostenere che una birra non vada mai versata nel bicchiere dalla lattina perché si rovinerebbe proprio la carbonazione volutamente sottile, problema cui si può naturalmente ovviare versandola lentamente senza “splashare” o, tesi ancora più risibile, perché si genererebbe una dinamica ossidativa, dobbiamo di nuovo rispolverare le nostri capacità logiche e critiche e non berci, oltre alle birre, anche assurdità prive di riscontri scientifici o anche solo empirici. Luppolo sì, volentieri, ma con giudizio...★
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di Vanessa Alberti e Federico Viero
USA: PACIFIC NORTH WEST
un paradiso per gli amanti della birra artigianale
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opo aver visitato alcuni stati più conosciuti e famosi degli USA abbiamo deciso di esplorare la zona sul versante pacifico nord occidentale andando alla scoperta dello stato di Washington e dell’Oregon. La presenza
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di parchi naturali, catene montuose, cascate e una costa spettacolare disseminata di fari e scogliere a picco sull’oceano, unita alla presenza di molti birrifici disseminati un po’ ovunque rendono questa zona unica. Le alte aspettative
che avevamo nei confronti di questo viaggio sono state confermate appieno e siamo rimasti davvero soddisfatti. La prima tappa del nostro itinerario è la città di Seattle nello stato di Washington. Chiamata anche “Emerald City”
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per la grande quantità di zone verdi presenti sia in città sia nelle aree che la circondano, deve la sua fama anche alla scena musicale ed ai musicisti che qui sono nati, come Jimy Hendrix. La visita della città parte dal Seattle Center, e data la bella giornata saliamo sullo Space Needle, la torre futuristica alta 164 metri costruita per l’EXPO del 1962 che rende unico lo skyline di Seattle. La vista a 360 gradi dalla cima della torre è bellissima e riusciamo anche a vedere il Monte Ranier che svetta a est della città. Una volta scesi dalla torre entriamo nel particolare edificio che ospita il MoPoP, il Museo della cultura pop la cui visita rappresenta un vero e proprio viaggio nella cultura contemporanea. Usciti dal museo ci muoviamo verso il quartiere di West Queen Anne per raggiungere la Holy Mountain Brewing Company, nata nel 2014 dalla passione di due homebrewer e situata in un vecchio magazzino vicino al molo 91. Fin dal principio la produzione di questo birrificio è stata improntata sulle sour beer e sull’utilizzo di botti di rovere per le fermentazioni. Ci sediamo al bancone della moderna taproom con vista lungo la ferrovia ed iniziamo gli assaggi dalla Demonteller, una farmhouse ale da 5,6% prodotta con luppoli Galaxy e Mosaic e fermentata con un mix di lieviti in un foeder. Una birra fresca e profumata con una buona secchezza sul finale, un ottimo tonico, non solo nelle giornate calde e afose. Proviamo diverse altre birre tra le quali la The Goat, una brett saison da 4,9% davvero complessa ottenuta con orzo, segale, avena e frumento e lasciata fermentare con un mix di lieviti e brett in un foeder. Un mix di note funky e acide con un sentore fruttato e legnoso che evolve piacevolmente nel bicchiere. Un’altra birra da segnalare è la Midnight Still, un’ottimo blend di imperial stout da 13 % invecchiato in botti di Kentucky bourbon per 18, 12 e 9 mesi, aspetto oleoso con sentori di cioccolato, vaniglia e bourbon perfettamente bilanciati.
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Fremont Brewing Company
Molto soddisfatti dalle birre bevute ci dirigiamo verso downtown fermandoci lungo la strada da Cloudburst Brewing nel quartiere di Belltown poco più a nord del centro città. La tap room è piacevolmente spartana con qualche tavolo dove sedersi e il piccolo impianto in fondo al locale vicino alle spine. La scelta ricade sulla Pozor! una czech pils da 5,5% prodotta dopo un viaggio del birraio in Repubblica Ceca, che prevede l’utilizzo di malto pils e luppolo Saaz, e sulla The Games We Play, una IPA da 7,1% con luppoli Mosaic, Moutere e Waimea. Il birrificio è improntato su forti luppolature e hazy ipa, le birre sono mediamente ben eseguite, ma non ci hanno conquistato in modo particolare. Una breve passeggiata e arriviamo al Pike Place Market, il mercato che gli agricoltori locali crearono per vendere i loro prodotti e che dal 1907 rifornisce gli abitanti ed i negozi della città. La cosa più curiosa che potrete vedere in questo luogo sono le bancarelle di prodotti ittici famose per il lancio, da parte dei venditori, di enormi salmoni da un banco all’altro. A pochi passi dal mercato c’è il Gum Wall, una piccola strada
curiosa e schifosa allo stesso tempo, le cui pareti sono ricoperte da gomme da masticare. Il primo giorno della vacanza sta volgendo al termine, ci beviamo un paio di birre al Pine Box, un pub sito in un edificio degli anni ‘20 nel quartiere di Capitol Hill, prima di tornare in albergo. Il giorno successivo decidiamo di visitare Fremont, quartiere noto per le sculture a cielo aperto disseminate lungo le strade. Facciamo una pausa rinfrescante alla Fremont Brewing Company (FOTO) dove beviamo la Sky Kraken, una hazy pale ale da 5,5% con malto pale e luppoli Citra, Mosaic e Strata che donano un aroma citrico ed erbaceo molto piacevole. A Nord di Fremont si trova il quartiere di West Woodland popolato da vari birrifici tra cui Reuben’s Brew che si è rivelata una scelta vincente, taproom con posti interni ed esterni e food truck di fianco all’ingresso. Tra le birre proposte abbiamo trovato molto gradevoli la Betonbier Pilsner, una classica german pils da 5,3%, la Triumvirate, una IPA da 6% prodotta per il Brouwer’s Cafe di Seattle, la Hop Idol, una american Pale Ale da 7% prodotta in collaborazione con i due homebrewer vincitori
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di un concorso indetto dal birrificio ed infine la Hazealicious, una New England IPA da 6% con sentori di frutto della passione e prodotta con luppoli Citra, Strata, Comet, Mosaic e Azacca. Tutte molto buone e “easy to drink”, particolare da tenere sotto controllo essendo all’inizio del viaggio. Ritorniamo verso Fremont Street e lungo la strada facciamo uno stop da Outlander Brewery & Pub fondato nel 2012 e sito in una casa vittoriana del 1896 dal colore blu acceso e dal tetto spiovente. Outlander è un birrificio molto creativo a cui piace sperimentare molto ed è difficile che produca la stessa birra più volte. Il ragazzo dietro al bancone ci consiglia di provare la Smoked In Oak, una sour ale affumicata da 7,2% e la Biggus Dickus VI, un barleywine da 10,3% con prugne. Ci accomodiamo nel patio che si trova sul retro della casa e ci godiamo queste ottime birre sotto un perfetto sole estivo. Prendiamo un autobus e torniamo in downtown, domani si inizia il vero viaggio on the road. Ritiriamo la macchina e percorriamo una cinquantina di chilometri fino a Snoqualmie, famosa per essere stata la location di Twin Peaks. Questa serie cult degli anni 90 del regista David Lynch è stata girata in questa piccola e sonnolenta cittadina dove si respira un’atmosfera surreale. Visitiamo le cascate e tutte le altre location e terminiamo la visita nella vicina cittadina
Bailey’s Taproom
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Upright Brewing
di North Bend dove si trova il Twede’s Cafè, nella serie Double R Diner, dove l’agente Cooper beveva una tazza di caffè accompagnata dalla famosa torta di ciliegie. Non poteva mancare la birra dedicata a Twin Peaks prodotta dalla Snoqualmie Falls Brewery. La Ghostwood è una kolsch da 5% che ci sorprende con il suo corpo leggero ed una buona secchezza finale. Facciamo un giro in zona tra sperduti paesi e ci dispiace non avere tempo di proseguire fino alla Yakima Valley, zona votata alla produzione del luppolo americano. Dopo alcune ore di viaggio entriamo nello stato dell’Oregon e arriviamo a Portland (FOTO) ; se a Seattle pensavamo che i birrifici fossero tanti, non avevamo considerato quanto ci avrebbe offerto Portland. La città più popolosa dell’Oregon è divisa dal fiume Willamette con diversi ponti che collegano le due sponde. Il downtown si trova nella sponda ovest ma non offre grandi attrattive, è un agglomerato di uffici, negozi e ristoranti il cui cuore pulsante è la piazza del tribunale, Pioneer Courthouse Square. Facciamo una sosta alla Bailey’s Taproom e tra le varie spine scegliamo la Tangle of
Tigers del birrificio Coldfire di Eugene, NEIPA da 7,5% buona e ben bilanciata con aromi di frutto della passione e guava, e la Blonde Saison del birrificio Boneyard di Bend da 6% senza difetti ma niente di emozionante. Ci dirigiamo verso il quartiere di Chinatown poco più a nord di downtown dove visitiamo il Lan Su Chinese Garden per poi recarci verso ovest sulla collina che domina la città dove si trova l’International Rose Garden. Portland è nota come “città delle rose” e questo giardino ne è la prova inconfutabile con migliaia di rose di tutti i colori e dimensioni e un delicato profumo che permea la zona. Prendiamo un autobus verso downtown e percorriamo le rive del fiume attraverso il Tom Mc Call Waterfront Park per poi entrare nella zona est. Il quartiere di East Portland è il più rappresentativo del motto della città “keep Portland weird”, le persone si sentono libere di esprimersi e si possono tenere comportamenti che in altri stati americani sarebbero impensabili. Ci dirigiamo verso Lane’s Addiction dove si trova Apex, tipico pub americano con 50 spine e frigoriferi carichi di bottiglie, trascorriamo il tempo tra una partita a
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flipper e una birra, ad esempio un’ottima Hop A Wheelie di Boneyard, IPA da 7,5%, un mix esplosivo di luppolo Summit, CTZ, Apollo e Cascade che ci allieta per il resto della serata. La zona a est vanta una massiccia presenza di birrifici con annessa taproom e oggi andremo alla loro scoperta, la prima tappa è Upright Brewing nel quartiere di Sullivan’s Gulch. Sito nello scantinato di un anonimo edificio, produce piccoli batch e si ispira allo stile belga aggiungendo un tocco di northwest. Si viene accolti da un inebriante profumo di birra in fermentazione e da un’interessante selezione musicale, il nome infatti deriva dallo strumento principale del jazzista Charles Mingus, il contrabbasso. Tra le birre provate la Flora Rustica, una saison da 5,1% con Calendula e fiori di Achillea, la Foeder Five, un’ottima farmhouse da 5,75% luppolata e secca con un tocco di brett, e la Ives Blend Five, una american wild ale da 7%, blend tra una birra di frumento di 26 mesi con una più giovane con aggiunta di ciliegie, birra molto equilibrata e dall’acidità contenuta.
Portland
Ci spostiamo verso sud e facciamo una sosta da Wayfinder Beer, che tra i proprietari annovera Matthew Jacobson a sua volta fondatore della Relapse Records nota tra gli amanti del metal estre-
Hair of the Dog Brewing Company
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mo. Il brewpub è molto ampio arredato con il giusto mix di mattoni a vista, legno e metallo, c’è davvero una bella atmosfera e ci rilassiamo al grande bancone. Approfittando dell’ottimo cibo servito ci rinfreschiamo con birre semplici e pulite, partiamo dalla Party Time Pils da 4,7 %, continuiamo con la CZAF, una pils ceca da 4,9% prodotta con decozione, e terminiamo con la Relapse, una IPA da 7,5% davvero molto dank. Continuiamo la nostra passeggiata verso sud fino a Hair of the Dog Brewing Company , fondato nel 1993 si è da subito specializzato nella produzione di birre dall’alto contenuto alcolico, principalmente barley wine e vari invecchiamenti in botte. Purtroppo vista l’ora pomeridiana e il caldo non possiamo dare libero sfogo ai nostri desideri alcolici, ma riusciamo comunque a fare un tasting di varie birre. La Fred from the Stone è una golden strong ale da 10% fermentata in un concrete egg che aggiunge un tocco di mineralità a una birra ben luppolata che presenta i classici esteri fruttati tipici dello stile e una buona secchezza finale. La Cherry Adam from the Wood è
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Cascade Brewing
una old ale da 13,5% invecchiata in botti di bourbon e sherry per 15 mesi con aggiunta di ciliegie, anche in questo caso troviamo una birra ben eseguita dove i sapori di malto, legno e ciliegia si fondono alla perfezione. La prossima tappa è Cascade Brewing, un pioniere nella produzione di sour beer del Northwest, che possiede un locale molto accogliente con vari posti a sedere soprattutto all’esterno. Proviamo diverse birre tra le quali ha sicuramente spiccato la Sang Noir una sour ale da 9,8% invecchiata in botti di bourbon e vino per due anni con aggiunta di ciliegie. Sentori di malti tostati, bourbon, ciliegie e porto uniti a un tocco di acidità creano un profilo aromatico pulito e complesso. La Péche Fumé da 6,8% è un blend di birre di frumento brassate con malto affumicato con legno di ciliegio e affinata in botti di rovere per 14 mesi con pesche locali. Una birra intrigante che gioca sull’equilibrio tra acidità, pesca e affumicato. Il loro cavallo di battaglia è la Kriek da 7,7%, blend di sour ales affinata in botti di vino rosso per 17 mesi con aggiunta di ciliegie, eccellente. Concludiamo con la Cuveé Du Jongleur birra da 9,4%, creata selezionando flanders, triple e quad sour ales e invecchiata in botti di rovere per 3 anni. L’acidità latti-
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ca unita a note legnose e fruttate sono perfettamente bilanciate e ci donano una birra eccezionale. Ci troviamo al cospetto di birre eseguite con una precisione chirurgica in fatto di complessità di sapori ed equilibrio alcolico. Si riparte in direzione est percorrendo l’Historic Columbia River Highway che attraversa la gola del fiume Columbia (FOTO), questo canyon scavato dal fiume e ricoperto di boschi si estende fino al confine con lo stato di Washington e attraversa una zona con panorami spettacolari e diverse cascate tra cui le famose Multnomah Falls che con i loro due salti raggiungono un’altezza di 190 metri. Arriviamo infine a Hood River dove ci rifocilliamo da Pfriem Brewery, aperto nel 2012 la sua produzione spazia tra i vari stili, ma si focalizza principalmente sul Belgio. Lo spazio è ampio e luminoso con i fermentatori in bella vista, ci sediamo al bancone e partiamo con gli assaggi dalla Pilsner da 4,9% dove i luppoli Perle, Saphir, Tettnang e Spalt Select donano note erbacee e floreali a una delle migliori pils bevute sul suolo americano. A seguire proviamo la Oude Kriek da 5,6% un’ottima birra con aggiunta di ciliegie autoctone e la Barrel Aged Saison III da 6,5% una farmhouse ale fermentata con aggiunta di bret in botti di Sauvignon Blanc per circa un anno. Entrambe eseguite magistralmente presentano note funky ed aromi fruttati o floreali e risultano molto pulite ed equilibrate. Facciamo una passeggiata lungo le rive del fiume Columbia guardando le evoluzioni di alcuni kitesurfer ma il tempo è tiranno e dobbiamo ripartire verso Mitchell, un piccolo paese immerso nel nulla che sarà il punto di partenza per la visita del John Day Fossil Beds National Monument. Questo parco gratuito è diviso in tre sezioni dove si possono trovare reperti e formazioni rocciose che risalgono a milioni di anni fa, non per nulla la strada che da Hood River ci porta verso Mitchell è chiamata la strada del viaggio nel tempo (Journey through time
scenic byway) e vi regalerà dei paesaggi incredibili. Fondata nel 1800 Mitchell mantiene ancora oggi l’atmosfera da avamposto del vecchio west anche se ora i pochi abitanti, circa un centinaio, possono dissetarsi alla Tiger Town Brewing Company. Questo nanobirrificio aperto nel 2014 dove sorgeva il vecchio distributore di carburante, produce birre in un impianto da 2 barrels posto in una stanza accanto al pub. Il clima della serata è perfetto e ci rilassiamo su uno dei tavoli all’esterno. Tra le quattro birre disponibili proviamo la Ginger Hop, una traditional ale con zenzero e la Buck’s Electric Light Ale, una pils da 4% molto piacevole, tralasciamo la dunkelweizen e la wheat beer con arancia rossa e ci buttiamo sul birrificio ospite, pFriem che con la sua IPA da 6,8% si conferma un ottimo produttore. Tiger Town offre anche buon cibo tra cui hamburger di cervo ed ottimi cocktail; torniamo in motel immersi nel buio illuminati da un cielo stellato ormai raro dalle nostre parti e l’indomani partiamo per la visita delle restanti sezioni del parco. Iniziamo da quella di Sheep Rock dove a farla da padrone sono le rocce di origine vulcanica dalla colorazione che va dal grigio al blu con sfumature di verde. Visitiamo anche il centro paleontologico con una mostra permanente di fossili davvero interessante e ripartiamo per la zona delle Painted Hills, una delle sette meraviglie dell’Oregon. Queste colline sono caratterizzate da striature di colori che vanno dal giallo al rosso che rappresentano differenti ere geologiche, percorriamo vari trail per poi rimetterci in marcia verso la prossima tappa. Bend è una piacevole cittadina immersa nella natura ed è un ottimo punto di partenza per la visita delle molte bellezze naturali che la circondano, inoltre dato che ci sono 18 birrifici in zona, avrete sicuramente modo di placare la vostra sete. Facciamo base a Bend diversi giorni e visitiamo il Cascade Lakes lungo la strada panoramica che costeggia alcuni laghi e la foresta di Willamette con il
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particolare Dee Wright Observatory, una costruzione in pietra lavica che permette di osservare le diverse montagne che lo circondano. Bend vanta la presenza di diversi ottimi birrifici che troverete disseminati in tutta la cittadina e nelle aree circostanti. Facciamo subito un giro in centro e ci fermiamo da Deschutes Brewing, il colosso birraio fondato nel 1988 che prende il nome dal fiume che attraversa Bend. Scegliamo le birre che hanno reso famoso questo birrificio, la Black Butte Porter, una porter da 5,6% ben bilanciata con sentori di caffè, cioccolato e malto tostato, e la Mirror Pond Pale Ale, una single hop pale ale da 5% con Cascade dalla quale ci aspettavamo decisamente di meglio. Ci dirigiamo verso nord e raggiungiamo il pub del birrificio Boneyard. Fondato nel 2010 deve il suo nome, letteralmente cimitero, perchè il primo impianto è stato creato con pezzi riciclati da impianti dismessi di diversi birrifici americani ed ha aperto il suo pub nel 2018. Entriamo nell’ampio locale e ci dirigiamo subito al bancone assetati, la produzione è incentrata su IPA americane e da queste parti il luppolo di certo non manca. Partiamo dalla Bone Light, una session ale da 4% con Mosaic, Centennial e Cascade, per poi passare alla RPM IPA da 6,6% prodotta con un mix di luppoli del Northwest. Continuiamo con la Enzymatic IPA da 7% e la Hop Venom, una west coast imperial IPA da 9%, ampiamente soddisfatti terminiamo con una Notorious triple IPA da 11,8%. Il punto di forza di questo birrificio è l’utilizzo del luppolo in grandi quantità, ma sempre in un modo oculato lavorando con il giusto rapporto di malto e alcol, questo permette loro di creare un bouquet di aromi mai banale di cui difficilmente ci si stanca. È di nuovo ora di scoprire altri birrifici di Bend e ci dirigiamo verso The Ale Apothecary, sicuramente il birrificio più particolare con le sue birre dalle caratteristiche uniche. Prendiamo un flight da sei birre tra le quali ha spiccato la
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Pfriem Brewery
Sahalie una american wild ale da 9,7% che viene lasciata fermentare in botte con lattobacilli per circa un anno per poi subire un dry hopping di Cascade sempre in botte. Frutti tropicali e agrumi si combinano con note funky e speziate che evolvono nel bicchiere durante la bevuta. La UNVRSL Farmhouse da 5,5% dal profilo rustico e floreale è perfetta in questa ennesima giornata di sole. La Sahati da 8,8% ispirata al sahti finlandese, prodotta utilizzando come lauter tun un tronco di un abete di 200 anni. Il metodo di produzione impartisce note resinose e balsamiche unite all’aggiunta di miele e a un tocco di acidità, una birra particolare non per tutti i palati. Concludiamo con la Barmhouse, una farmhouse ale da 6,3%, prodotta in collaborazione con De Garde, Upright e Block 15, blend di uguali porzioni di birre selezionate maturate in botte dai diversi birrifici; fresca, agrumata, terrosa con note funky. Durante la nostra permanenza a Bend si è volto il Bend Brewfest nella zona
dell’Old Mill District, il quartiere a sud del centro dove sorgeva il vecchio mulino che è stato riqualificato. Davvero un ottimo festival con una bella atmosfera ed organizzato bene considerato l’afflusso di gente. Non abbiamo incontrato nessun turista europeo e siamo stati l’attrattiva per molte persone dato il nostro “strano linguaggio”. I 70 stand propongono principalmente birrifici dell’Oregon e di Washington più qualche birrificio californiano e gli stili proposti spaziano a 360 grandi. La gente è molto ospitale e spesso ci troviamo a brindare con le persone più disparate, qui possiamo assaporare a pieno il Northwest sia dal punto di vista birrario che sociale. Soddisfatti del nostro soggiorno a Bend, ripartiamo verso Eugene non prima di aver visitato altri bellissimi parchi. A sud di Bend si trova il Newberry National Volcanic Monument dove ammiriamo la colata di ossidiana e diverse caldere per poi dirigerci ancora più a sud verso il Crater Lake Natio-
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nal Park dove la strada che circonda il lago vulcanico regala scorci bellissimi e particolari formazioni rocciose. Prima di arrivare a Eugene, ci fermiamo da Alesong Brewing & Blending (FOTO), un birrificio posizionato nella zona vinicola dell’Oregon che secondo noi è una tappa imperdibile data l’alta qualità delle birre e la bellezza del posto. Tra le birre provate la Terroir Pinot Noir una farmhouse da 9,7% maturata in botti con uve pinot noir presenta note di frutti rossi e acidità vinosa. La Common Nectar una sour ale da 6,2% con aggiunta di pesche nettarine è un tripudio di frutta, con una buona acidità e un finale secco molto piacevole. La Touch of Brett: Old Tom è una french saison da 9,3% fermentata con un mix di bret e maturata in botti di Old Tom Gin, con note citriche e speziate che le donano carattere. Ed infine la BeerMongers Biscotti, blend di imperial stout da 12,3 % maturato in botti di Heaven Hill bourbon con scorza d’arancia, fave di cacao, caffè, sale e nocciole. Una birra sontuosa, profonda e complessa che gioca sull’equilibrio dei vari ingredienti; per l’ennesima volta durante questo viaggio ci troviamo di fronte a un birri-
ficio di alto livello e questo non può che farci piacere. Riprendiamo la strada per pochi chilometri ed arriviamo a Eugene, una piacevole cittadina universitaria che ad agosto può sembrare un po’ vuota dato che i campus sono chiusi. Vale comunque la pena fare uno stop qui prima di risalire verso nord lungo la costa per godere l’atmosfera giovane ed alternativa, inoltre se siete fan del film “Animal House”, questo è il posto per voi, essendo stato proprio girato in questa cittadina. Facciamo una visita da The Bier Stein, un locale ampio con bancone centrale e un lunga parete coperta da frigoriferi con qualsiasi tipo di birra. Proviamo la Fresh Flow di Block 15, una IPA da 6,5% prodotta con luppoli americani e neozelandesi che donano un profilo tropicale e adatto alla stagione estiva. Dal frigo selezioniamo una bottiglia di Turbulent Consequence Pearl, sempre di Block 15, ispirata alle gueuze è un blend di birra maturata in botte per 1, 2 e 3 anni. Viene lasciata fermentare in maniera spontanea nella coolship del birrificio, il risultato è molto più delicato e pulito rispetto alle gueuze belghe, manca un
po’ di rusticità, ma la birra è sorprendentemente buona. L’indomani ripartiamo da Eugene, visitiamo il faro di Hecheta Head e di Yaquina e risaliamo la costa fino a Tillammook dove plachiamo la nostra sete con le birre del birrificio De Garde noto produttore di american wild ale. Iniziamo dalla F.A.I.L., una wild lager da 5,5% ben bilanciata e leggermente funky; passiamo alla The Petria, una wild ale da 7,9% passata in botte con uve riesling, fresca e beverina con acidità contenuta. La The Café è una wild ale da 5,5% maturata con aggiunta di chicchi di caffè, aromi terrosi e fruttati si fondono piacevolmente in questa particolare birra. A seguire assaggiamo la The Trio: Spruce Tip Cuvée da 6,6% una wild ale maturata in botti di gin dove l’acidità pronunciata si sposa con sentori di gin e aghi di pino. Questo birrificio riesce ad unire ingredienti inusuali creando nuovi profili aromatici molto interessanti, e devo dire che i clienti apprezzano al 100% il loro lavoro. Risaliamo ancora la costa e ci fermiamo a Cannon Beach luogo della scena finale del film “The Goonies” girato nel 1985 in queste zone. Finalmente giungiamo ad Astoria, nostra ultima tappa in Ore-
The Ale Apothecary
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Alesong Brewing & Blending
gon, che prende il nome da John Jacob Astor che seguendo il percorso dei pionieri Lewis e Clark stabilì qui nel 1811 una stazione postale dando vita al primo insediamento americano sulla costa ad ovest. Astoria è molto bella ed è una meta imperdibile per i cinefili e la visita al piccolo Oregon Movie Museum vi farà scoprire molti film girati in questo bellissimo stato. Pare che il primo birrificio artigianale di Astoria venne aperto nel 1872 e che la necessità di fornire birra ai vari saloon fece sì che molti immigrati con cultura birraia si trasferissero nella cittadina nascente. Tornando ai giorni nostri ad Astoria ci siamo trovati particolarmente bene alla Fort George Brewery dove siamo tornati più volte. Situato in una vecchia officina per auto costruita nel 1924, il birrificio si compone di diverse zone e piani con un’area esterna che porta all’impianto. Abbiamo provato praticamente tutto tra cui il loro cavallo di battaglia, la Vortex IPA da 7,7% con luppoli Cascade, Mosaic e Simcoe e la 3-Way IPA che Fort George Brewing produce ogni anno per il Memorial Day con altri due birrifici a rotazione. La versione 2019 consisteva in una hazy IPA da
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7,2 gradi con luppoli Cashmere, Idaho 7 e Citra prodotta in collaborazione con Ruse Brewing di Portland e Cloudburst Brewing di Seattle. Tutte le birre sono davvero ben eseguite e godibilissime, la produzione anche in questo caso è incentrata sull’utilizzo di miscele di luppolo, ma senza strafare e mantenendo un buon equilibrio finale nel prodotto. Saliamo sulla collina per godere di una vista panoramica di Astoria e del fiume Columbia e visitare la Astoria Column, una colonna di granito costruita nel 1926 decorata con immagini di eventi importanti nella storia dell’Oregon e della città. Lasciamo Astoria e percorriamo il lungo ponte che attraversa il fiume Columbia e permette di entrare nello stato di Washington dove visitiamo alcuni fari tra cui il Cape Disappointment e North Head per poi continuare verso nord nell’Olympic Penisula. Questa vasta area è sede di molte riserve indiane come la bellissima zona costiera e la spiaggia di La Push e la riserva dei Makah che con il vicino promontorio di Cape Flattery è il punto più a ovest degli USA. Visitiamo la HoH Rain Forest dove le abbondanti precipitazioni permetto-
no al muschio e ad altre piante come le felci di crescere sopra gli alberi e sul terreno creando degli intrecci di vegetazione davvero scenografici. Ormai mancano pochi giorni al termine del nostro viaggio e percorriamo l’ultimo lungo tratto di strada che ci riporterà a Seattle passando da Suquamish, luogo di riposo del valoroso capo indiano Sealth e difensore dei diritti dei nativi, da cui prende il nome la città. Il nostro ultimo alloggio è una casa vittoriana nel quartiere di Capitol Hill e con una breve passeggiata arriviamo al Chuck’s Hop Shop. Locale semplice con un’ottima selezione sia alla spina che nel frigo molto fornito tra cui scegliamo la Chuck Notion di Great Notion Brewing, NEIPA da 7% creata apposta per il locale con Mosaic, Galaxy, Simcoe, e Motueka, un’esplosione di frutta tropicale, juicy e resinosa. Scegliamo poi una bottiglia di Fructus di Propolis Brewing, nanobirrificio sperduto nell’Olympic Penisula, questa flemish da 7% maturata in botti di sangiovese con frutti di bosco e bret ci sorprende per l’eccezionale equilibrio, incarna la perfetta unione tra Belgio e Northwest. È arrivato l’ultimo giorno del nostro viaggio e non poteva mancare la visita al Puget Sound, la zona a nord di Seattle al confine con il Canada, dove vediamo diversi esemplari di orche tra cui un maschio enorme con la pinna caudale di quasi due metri e ritorniamo a Seattle che ormai è ora di cena. Passiamo l’ultima serata da Chuck bevendo le ultime birre e ricordando tutte le avventure vissute ed i bellissimi paesaggi visti che rimarranno per sempre nella nostra memoria. È stato un viaggio bellissimo sotto tutti i punti di vista, abbiamo incontrato gente simpatica e amichevole e pochi turisti, abbiamo ammirato una natura spettacolare e bevuto molto bene. L’elevato numero di birrifici metterà a dura prova il vostro fegato ed il vostro tempo ma non vi pentirete di esservi spinti fino al magnifico Pacific Northwest. Al prossimo viaggio! ★
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NEWS
HOP TONY, HOP! È stata presentata il 25 luglio la nuova birra di Birrificio Italiano denominata Hop Tony, Hop! «un inno alla ripresa» ha dichiarato Agostino Arioli «e all’italianità del prodotto dato che è la nostra prima birra realizzata con varietà italiane di luppolo». La birra a bassa fermentazione, dal colore giallo dorato e dalle sottili note di cereale, è stata fatta degustare insieme anche alla presentazione delle due cultivar di luppolo impiegate: Aemilia e Futura, varietà genetiche locali la cui linea discende dalle antiche progenitrici importate dai campi dell’Europa continentale. La partnership tra Birrificio Italiano e Italian Hops Company ha permesso la nascita di un prodotto pensato appositamente per permettere di far esprimere al meglio le caratteristiche aromatiche dei due luppoli. (m.t.)
da sinistra: Alessandra Agrestini, Luca Grandi, Agostino Arioli, Eugenio Pellicciari, Mirka Tolini
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ottobre 2020
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