DICEMBRE 2021
RIVISTA
MARITTIMA MENSILE DELLA MARINA MILITARE DAL 1868
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DICEMBRE 2021 - Anno CLIV
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La certezza dei confini marittimi del Mediterraneo, fattori di sicurezza, stabilità e sviluppo Fabio Caffio
Mediterraneo allargato e affollato Oreste Foppiani 11
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Sommario PRIMO PIANO
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La certezza dei confini marittimi del Mediterraneo, fattori di sicurezza, stabilità e sviluppo
Fabio Caffio
PANORAMICA TECNICO-PROFESSIONALE
66 Nuove prove sui viaggi di Amerigo Vespucci Piero Carpani
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Dal Mediterraneo allargato al Mediterraneo affollato: l’evoluzione del Mare Nostrum a discapito dell’interesse nazionale Oreste Foppiani
STORIA E CULTURA MILITARE
78 I MAS nella Grande Guerra: un’evoluzione tattica vincente 24 Il blocco del Canale di Suez: un case study di sicurezza marittima
Matteo Bucco
Matteo Bressan
32 La storia dei rapporti tra Israele e Grecia Rodolfo Bastianelli
40 Il contesto securitario del Mediterraneo allargato
e la protezione degli interessi nazionali marittimi: il ruolo della Marina Militare Daniele Panebianco
88 Storia di una baleniera Claudio Rizza, Platon Alexideas
RUBRICHE
54 La regione del Corno d’Africa, valenza strategica e presenza militare
106 112 119 127 130
Focus diplomatico Osservatorio internazionale Scienza e Tecnica Che cosa scrivono gli altri Recensioni e segnalazioni
Michele Cosentino
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RIVISTA
MARITTIMA
MENSILE DELLA MARINA MILITARE DAL 1868
PROPRIETARIO
EDITORE DIFESA SERVIZI SPA UFFICIO PUBBLICA INFORMAZIONE E COMUNICAZIONE DIREZIONE E REDAZIONE Via Taormina, 4 - 00135 Roma Tel. +39 06 36807248-54 Fax +39 06 36807249 rivistamarittima@marina.difesa.it www.marina.difesa.it/media-cultura/editoria/marivista/Pagine/Rivista_Home.aspx
DIRETTORE RESPONSABILE Capitano di vascello Daniele Sapienza
CAPO REDATTORE Capitano di fregata Gino Lanzara
REDAZIONE Capitano di corvetta Danilo Ceccarelli Morolli Sottotenente di vascello Margherita D’Ambrosio Guardiamarina Giorgio Carosella Sottocapo di prima classe scelto Luigi Di Russo Tel. + 39 06 36807254
IN COPERTINA: La Squadra navale con, in sovrimpressione, lo spazio geografico del Mediterraneo allargato.
SEGRETERIA DI REDAZIONE Primo luogotenente Riccardo Gonizzi Addetto amministrativo Gaetano Lanzo
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DICEMBRE 2021 - anno CLIV HANNO COLLABORATO: Ammiraglio ispettore (ris) Fabio Caffio
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Contrammiraglio (ris) Michele Cosentino
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COMITATO SCIENTIFICO DELLA RIVISTA MARITTIMA
Circolo di Studi Diplomatici
Prof. Antonello BIAGINI, Ambasciatore Paolo CASARDI Prof. Danilo CECCARELLI MOROLLI, Prof. Piero CIMBOLLI SPAGNESI Prof. Massimo DE LEONARDIS, Prof. Mariano GABRIELE Prof. Marco GEMIGNANI, C.A. (aus) Pier Paolo RAMOINO A.S. (ris) Ferdinando SANFELICE DI MONTEFORTE
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Dottor Platon Alexideas Ambasciatore Maurizio Melani, Dottor Enrico Magnani Contrammiraglio (ris) Ezio Ferrante Capitano di fregata Gino Lanzara
COMITATO EDITORIALE DELLA RIVISTA MARITTIMA C.A. (aus) Gianluca BUCCILLI, Prof. Avv. Simone BUDELLI, A.S. (ris) Roberto CAMERINI, C.A. (ris) Francesco CHIAPPETTA, C.A. (ris) Michele COSENTINO, C.V. (ris) Sergio MURA,
Prof.ssa Fiammetta SALMONI, Prof.ssa Margherita SCOGNAMIGLIO, Prof. Tommaso VALENTINI, Prof. Avv. Alessandro ZAMPONE
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E ditoriale
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ome ha sostenuto autorevolmente il generale Carlo Jean, noto studioso, in una sua celebre monografia: «La Geopolitica non è una scienza. È la riflessione che precede l’azione politica» (1). Oggi, pur non esistendo una definizione univoca, possiamo ritenere la geopolitica una disciplina relativa allo studio della politica degli Stati nell’ambito delle relazioni internazionali che si appoggia, nel corso della propria elaborazione, su materie diverse quali: la geografia, l’economia, la scienza e la gestione dell’informazione, mantenendo sempre in primaria e inevitabile considerazione l’identità, i valori e le tradizioni dei popoli e delle nazioni e quindi anche le dinamiche sociali. Essa non contempla dogmi ma interessi (2) in determinati spazi. È altresì evidente come il concetto di spazio, soprattutto geografico, costituisca l’elemento fondamentale di un ragionamento o, meglio, di un processo di analisi teso a pensare l’estensione geografica in funzione dei legittimi interessi strategici. Sappiamo anche che la geostrategia è «sorella minore» della geopolitica per quanto riguarda gli aspetti militari e inerenti alla sicurezza. Parimenti, la strategia marittima è strettamente connessa al potere marittimo proponendosi lo studio dei metodi d’impiego dei suoi elementi costitutivi: flotta, basi, Marina mercantile, industria cantieristica, commercio, cultura marittima e navale. Una moderna strategia marittima e navale abbraccia così, inevitabilmente, diverse discipline e comprende, oltre agli aspetti strettamente operativi legati all’impiego delle navi da guerra, tutti gli elementi e le varie discipline legate all’economia, alla diplomazia e, più in generale, alla cultura afferente alle relazioni internazionali e alla strategia. A tal proposito, risulta particolarmente pregnante la definizione di geostrategia data dallo studioso statunitense Jakub J. Grygiel: «La geostrategia è la direzione geografica della politica estera di uno Stato. Più precisamente, la geostrategia descrive dove uno Stato concentra i suoi sforzi proiettando la potenza militare e orientando l’attività diplomatica». Possiamo aggiungere, inoltre, SEGUE A PAGINA 4
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come il significato o l’importanza di un «dove», ovvero di uno spazio geografico inteso sia dal punto di vista geografico sia come il luogo dove vi siano le «percezioni profonde circa gli interessi nazionali e il senso dello spazio proprio di ciascun popolo e che affondano le loro radici nella sua storia e nella sua cultura e valori» (3), ha rappresentato e continui a rappresentare la sfida e l’impegno più importante e costante di ogni nazione e di ogni popolo nell’ambito delle relazioni internazionali. Tutto ciò è di inevitabile preludio di quello che concettualmente rappresenta lo «spazio geopolitico» definito Mediterraneo allargato. La definizione fu introdotta agli inizi degli anni 80 del secolo scorso dal contrammiraglio Pier Paolo Ramoino nel corso delle sue lezioni di strategia marittima, presso l’Istituto di Guerra Marittima di Livorno, poi trasferitosi a Venezia e divenuto Istituto di Studi Militari Marittimi. Tale felice espressione nasceva dal tentativo di «studiare la geopolitica con una visione marittima» (4). Nasceva così il teatro operativo marittimo del «Mediterraneo allargato», intendendo con questo: «un ambiente geografico limitato, vale a dire uno “scenario”, dove dobbiamo operare; ossia pensare “un modo di procedere”, avere quindi una “strategia”» (5). L’espressione «Mediterraneo allargato» è diventata una formula molto apprezzata e condivisa a vari livelli, pur con diverse sfumature interpretative. Il presente numero della Rivista Marittima intende fare un «punto nave» sull’argomento, allo scopo di espandere al meglio il significato di queste due parole, apparentemente semplici, ma dal senso profondo ed estremamente pratico: sia che si tratti di economia o della sicurezza della collettività, sia della stigmatizzazione delle criticità. Geograficamente il Mediterraneo allargato comprende il bacino propriamente detto, il Golfo di Guinea, la parte occidentale dell’Oceano Indiano, il Golfo di Aden, il Mar Arabico e il Golfo Persico; esso cioè si estende a ovest, in longitudine, a partire dal meridiano delle isole Canarie fino al meridiano che lambisce a est la parte orientale del mar Arabico; in latitudine si sviluppa dal parallelo sud che tocca il Mozambico, fino al parallelo settentrionale che può arrivare geograficamente a interessare l’Islanda e oltre, in ragione dell’impegno dell’Italia in Artico e a favore della NATO. Nel Mediterraneo allargato il baricentro non può che coincidere con il bacino mediterraneo stesso. Più precisamente, lo Stretto di Sicilia costituisce il pivot del Mediterraneo, definito anche come medioceano (6) e del Mediterraneo allargato, compreso tra lo scacchiere oceanico atlantico e lo scacchiere oceanico indo-pacifico. L’importanza di questo teatro operativo trascende la semplice geografia così come chiaramente evidenziato nell’editoriale del numero di Limes, «l’Italia e il mare» dell’ottobre del 2020: «L’importanza del Mediterraneo non sta tanto nelle terre che vi si affacciano, ma nella sua qualità di corridoio inaggirabile lungo la rotta più breve fra Indo-Pacifico e Atlantico, punteggiato di scali in frenetica competizione. Il Mediterraneo è Medioceano». A questo proposito possiamo ricordare come i prodromi di un allargamento del Mediterraneo si possono collocare già nel 1979, quando il governo italiano decise improvvisamente, con meno di 48 ore di preavviso, di inviare le navi della Marina Militare dell’VIII Gruppo navale nelle lontane acque del Vietnam. L’esecutivo aveva correttamente intuito che la politica dei decenni precedenti doveva mutare privilegiando una maggiore e fattiva presenza, confermatasi poi pagante negli anni a venire. Apparentemente, gli interessi italiani in quella lontana area del pianeta non giustificavano le spese da sostenere ma si trattò, come sempre accade quando si agisce sul mare e dal mare, di un ottimo investimento. Non c’è dubbio che le operazioni navali condotte in quel periodo, abbiano contribuito a rendere ancora più nota e diffusa l’immagine di un paese, il nostro,
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capace di produrre cultura, benessere e progresso; un paese che, sia pur povero di materie prime ha basato le sue fortune su una intelligente economia di trasformazione e su una politica commerciale che non ha mai fatto mistero di fondarsi sulla marittimità. Ed è curioso notare come proprio da quel periodo il made in Italy (dicitura introdotta dai produttori italiani agli inizi del 1980, sinonimo di elevata qualità, specializzazione ed eleganza) sempre più si è esteso a macchia d’olio, producendo benessere e progresso non solo per chi risiede nella nostra Repubblica ma, più in generale, per chiunque venga a contatto con la nostra cultura. Gli interessi dello Stato hanno dunque trovato validi interpreti sia nella capace flotta mercantile sia nelle unità navali della Marina Militare, espressioni di una tecnologia all’avanguardia, curata da un’imprenditoria attiva e fondata su maestranze capaci, un complesso armonico in grado di garantire lo show the flag italiano nel mondo. Se è vero che la flotta mercantile deve assicurare la regolarità degli approvvigionamenti nazionali, è però altrettanto vero che solo una componente marittima efficiente può garantire la sicurezza delle Sea Lines Of Communication, per il nostro paese così vitali. La sicurezza del traffico contro qualsiasi tipo di minaccia, compreso il terrorismo o nei riguardi del fenomeno della pirateria efficacemente contrastata nel Golfo di Aden, nell’Oceano Indiano o nel Golfo di Guinea, d’intesa con altre Marine interessate o, se necessario da soli è — infatti — la condizione necessaria e sufficiente di tutto quel che segue. La Marina Militare non pone limiti al concetto di Mediterraneo allargato poiché seppur inizialmente sviluppato secondo un’espressione geografica a noi familiare e dunque spazialmente limitata, concettualmente può comprendere qualunque estensione dove risulti necessaria e opportuna una concreta presenza della F.A., a presidio e salvaguardia degli interessi nazionali. Così nell’Artide dove, dopo un lungo periodo di assenza, la Marina è tornata a condurre campagne di ricerca scientifica; in particolare, il programma di ricerca denominato High North (attivo dal 2018) ha avuto e continua ad avere lo scopo di valutare i parametri geofisici marini e climatici, vitali per il pianeta, con continuità e per periodi sufficientemente lunghi, rendendoli così disponibili per la comunità internazionale. Una missione assolta senza clamori dai nostri equipaggi e dalla comunità scientifica, espressione e prova ulteriore di un impegno culturale e professionale serio e convinto di tutto il Sistema-Italia nell’ambito della lotta al riscaldamento globale. Non esistono terre o mari interdetti o irraggiungibili, occorre piuttosto maturare presto e bene una diversa e precisa consapevolezza in base alla quale la marittimità è l’unica risposta possibile alle sfide di questo secolo.
NOTE (1) Carlo Jean, Geopolitica, pag. 9, Edizioni Laterza 1995. (2) Danilo Ceccarelli Morolli, Appunti di geopolitica pag. 285, Roma 2018. (3) Carlo Jean, Geopolitica, pag. 21, Edizioni Laterza 1995. (4) Pier Paolo Ramoino, Fondamenti di strategia navale, pag. 41, Forum di relazioni internazionali, Roma 1999. (5) Ibidem, pag. 42. (6) L’Italia e il mare. Limes 10/2020 (Rivista italiana di geopolitica).
DANIELE SAPIENZA Direttore della Rivista Marittima
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PRIMO PIANO
La certezza dei confini marittimi del
Mediterraneo
Fattore di sicurezza, stabilità e sviluppo
Fabio Caffio Ammiraglio ispettore (ris), esperto diritto marittimo, collabora con la Rivista Marittima dal 1986. È autore del Glossario di Diritto del Mare, V edizione, supplemento Rivista Marittima novembre 2020; pubblica anche articoli sulle riviste online Affarinternazionali e Analisi Difesa.
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«Il tema della certezza dei confini marittimi rimanda alle radici del diritto internazionale, quando la dottrina giuridica romanistica ha elaborato il principio del mare come bene comune (...)» (Fonte immagine: changes.unipol.it).
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La certezza dei confini marittimi del Mediterraneo, fattore di sicurezza, stabilità e sviluppo
I
l tema della certezza dei confini marittimi rimanda alle radici del diritto internazionale, quando la dottrina giuridica romanistica ha elaborato il principio del mare come bene comune (1). Secoli dopo, all’inizio dell’evo moderno, si è andato formando il concetto di mare territoriale come spazio di esclusiva sovranità dello spazio costiero. Di qui l’esigenza di fissarne i limiti spaziali che a lungo sono stati consuetudinariamente stabiliti in 3 mg in relazione alla potenziale estensione in mare del dominio terrestre connesso alla portata delle artiglierie costiere (2). Nel secolo scorso è stata poi formulata la teoria delle aree costiere di giurisdizione funzionale: prima il fondo e il sottofondo marino della piattaforma continentale con il Proclama Truman del 1945 (3); dopo la colonna d’acqua della Zona Economia Esclusiva (ZEE) con la Dichiarazione di Santiago del Cile, Ecuador e Perù del 1952 (4). In seguito, la Convenzione del diritto del mare del 1982 (UNCLOS) ha compiutamente disciplinato sia il regime della piattaforma continentale (in precedenza estensibile fino alla batimetrica dei 200 m o oltre, secondo la IV Convenzione di Ginevra del 1958) (5) sia quello dei diritti funzionali esercitabili nella ZEE già ritenuto conforme al diritto consuetudinario dalla Corte internazionale di giustizia (ICJ) (6). L’UNCLOS regolamenta i principi per la loro delimitazione — consensuale o per deferimento del caso a un tribunale arbitrale — tra Stati con coste frontiste o contrapposte lateralmente. Dal punto di vista terminologico, limiti e confini non sono sinonimi, dovendosi i primi riferire a proclamazioni unilaterali, mentre i secondi rinviano a delimitazioni stabilite per accordo o per via giudiziaria. La casistica della fissazione di limiti unilaterali che generano confuse situazioni di sovrapposizione è quanto mai vasta. Le cause possono imputarsi a un’errata interpretazione dei principi del diritto del mare o, peggio ancora, a forme di consapevole abuso del diritto volte a creare tensioni e incidenti. La natura di tali situazioni ha trovato sistemazione nella teoria delle «Grey Zone» che ha anche assunto valenza geopolitica (7). Un paradigma è dato dal caso del Mar della Cina, in cui Pechino avanza pretese di giurisdizione su spazi marittimi rivendicati da Brunei, Giappone, Filippine, Malesia, Taiwan e Vietnam: le pretese di Pechino sono state di-
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chiarate prive di fondamento da un tribunale arbitrale, al termine di un procedimento cui Pechino non ha voluto partecipare (8). Un altro esempio è costituito dalla disputa sulla ZEE della Crimea e sul regime del Mar di Azov contesi tra Russia e Ucraina (9). Qualcosa di simile sta accadendo in Mediterraneo e rappresenta una seria minaccia alla stabilità del bacino e allo sviluppo della sua Blue Economy. Non è senza significato, d’altronde, che la strategia di sicurezza marittima dell’UE comprenda, tra gli interessi strategici dell’Unione e degli Stati membri, «la delimitazione delle zone marittime, quali le Zone Economiche Esclusive, le quali presentano un potenziale per la crescita e l’occupazione» (10). L’UE si limita comunque a consigliare i paesi membri di attivarsi per delimitare i propri spazi marittimi, senza interferire con le loro prerogative sovrane. Non vi è, infatti, alcuna competenza istituzionale dell’Unione in questo settore che è invece attribuita esclusivamente ai singoli paesi.
Mediterraneo, mare complesso a. ZEE e piattaforma continentale Nessuna eccezione fu prevista nell’UNCLOS circa la proclamazione di ZEE nei mari chiusi come il Mediterraneo in cui non sussistano le condizioni geografiche per la loro unilaterale istituzione. Tant’è che, durante la III Conferenza del Diritto del mare, un gruppo di Stati propose un regime derogatorio specificatamente dedicato ai mari ristretti (11). In mancanza di consenso, si giunse solo a inserire nell’UNCLOS (art. 123) un richiamo all’obbligo di cooperazione tra gli Stati rivieraschi nell’esercizio dei diritti e nell’adempimento degli obblighi. Sta di fatto che — come noto — in nessun punto del Mediterraneo le coste opposte distano tra loro 400 o più mg, come sarebbe necessario a consentire proclamazioni unilaterali: gli Stati possono difatti istituire ZEE estese 200 mg dalle linee di base del mare territoriale. Il che vuol dire che è necessaria una distanza di 400 dalle coste rispettive nel caso che la linea di base coincida con quella di bassa marea, ovvero una distanza superiore qualora esistano delle linee di base dritte tracciate ai sensi dell’art. 7 dell’UNCLOS (12). Questo ha determinato per decenni uno stallo nella
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La certezza dei confini marittimi del Mediterraneo, fattore di sicurezza, stabilità e sviluppo
Situazione delle pretese in Mediterraneo orientale (Bloomberg, https://www.bloomberg.com/news/articles/2021-09-17).
proclamazione di ZEE. Gli Stati furono perciò indotti ad autolimitarsi, nell’istituire spazi di giurisdizione extraterritoriali, a «quasi ZEE» come le Zone di Protezione Ecologica (ZPE) o di Protezione della Pesca (ZPP) di estensione inferiore alle 200 mg. Ultima in ordine di tempo, con la ZPE del Mar Ligure e del Tirreno (istituita con DPR 209-2011) l’Italia aggiunse un ulteriore tassello a uno scoordinato quadro di spazi marittimi paragonato dal prof. Tullio Scovazzi a una «arlecchinata» (13). A modificare un equilibrio faticosamente raggiunto, giunse nel 2003 l’invito da parte della FAO, nel corso della conferenza di Venezia dello stesso anno (14), a procedere all’istituzione generalizzata di ZEE nel Mediterraneo come antidoto alla pesca illegale e non regolamentata (IUU dall’acronimo di Illegal, Unreported and Unregulated) (15). Cipro se ne era avvantaggiata immediatamente stipulando nel 2003 un accordo di delimitazione della ZEE con l’Egitto che, come si dirà più avanti, ha creato un’area di sovrapposizione con la ZEE pretesa dalla Turchia. Insomma ZEE, ZPE e ZPP si alternano e si sovrappongono in Mediterraneo secondo un disegno che non risponde a logiche prevedibili e razionali, anche se il
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trend dominante procede verso la generale proclamazione di ZEE che determinerà la quasi totale scomparsa dei residui spazi di alto mare: Italia e Croazia l’hanno fatto da ultimo, rispettivamente con Legge 9 giugno 2021, n. 91 (16) e Decisione del 5 febbraio 2021 (17) mentre Turchia e Grecia, dopo aver già stipulato specifici accordi con paesi frontisti, sembrano intenzionati a farlo lungo tutte le loro coste mediterranee. Gli Stati sono indubbiamente sovrani nello stabilire i limiti esterni delle loro zone di giurisdizione ma questi sono «null and void» per gli Stati terzi che li contestino come affermato dalla Corte internazionale di giustizia nel caso delle pescherie norvegesi del 1951 (18). Quella delle proclamazioni unilaterali è ormai divenuta un’arma geopolitica. Due casi recenti sono al riguardo eloquenti: da un lato, nel Mediterraneo occidentale, la proclamazione di una ZEE che si sovrappone agli spazi di giurisdizione italiana (19); dall’altro, nel Mediterraneo orientale, gli accordi turco-libici del 2019 e grecoegiziani del 2020, che hanno creato aree di sovrapposizione di ZEE e piattaforma continentale, anche a ridosso delle acque territoriali greche di Creta e del Dodecaneso (20).
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Aree di sovrapposizione delle ZEE di Algeria-Spagna-Italia-Francia (Limes, 12, 2020). In basso: ipotetiche aree di overlapping delle zone di giurisdizione di Italia-Malta-Libia-Tunisia (Malta Independent, 13/4/2014).
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La certezza dei confini marittimi del Mediterraneo, fattore di sicurezza, stabilità e sviluppo
Non va inoltre dimenticato che nel 2003 Cipro ed Egitto avevano, come detto, delimitato le proprie ZEE secondo un confine che la Turchia non riconosce per la parte a ovest del meridiano 32°16’18’’ (21). Una questione che presenta implicazioni politiche internazionali, prim’ancora che giuridiche, è infine la disputa dell’Egeo che dal 1974 contrappone, senza che si intravedano ancora spazi di soluzione, Grecia e Turchia (22). Per quanto riguarda l’Italia, un caso a sé è quello della piattaforma continentale rivendicata da Malta sin dal 1980. La pretesa della Valletta non tiene conto dei diritti reclamati da noi avanti l’ICJ e da questa implicitamente riconosciuti nell’ambito della sentenza Malta-Libia del 1985 (23): la decisione della Corte è stata posta a base del DM. 27/12/2012 (24) con cui è stata aperta alla ricerca, a est del meridiano 15°10’, un’area della piattaforma continentale italiana sovrapposta a quella pretesa da Malta. Situazioni di incertezza continuano anche a verificarsi in Adriatico dove la Croazia non ha ancora riconosciuto la decisione della Corte arbitrale (25) incaricata di decidere il contenzioso con la Slovenia relativo alla Baia di Pirano e all’accesso di Lubiana alle acque internazionali attraverso la ZEE croata. Da definire sono anche i confini laterali di Croazia, Montenegro e Albania. Quanto ai limiti delle acque territoriali tra Albania e Grecia, nell’area dello Stretto di Corfù, la soluzione del contenzioso è stata rimessa nel 2020 dalle due parti alla ICJ (26). Irrisolta è infine la secolare disputa tra Spagna e Gran Bretagna relativa alle acque di Gibilterra (27).
funzionale per il salvataggio di persone in pericolo «intorno alle coste» (29). I limiti delle zone SAR vanno definiti per accordo, anche se resta fermo non che costituiscono confini politici: la norma è, infatti, che questi limiti non debbano coincidere con le frontiere marittime (30). Da questo punto di vista destano perplessità le posizioni più volte espresse da Malta, in difesa della intangibilità della propria zona SAR, quasi si trattasse di vero e proprio spazio territoriale (31). La SAR maltese ha un’estensione vastissima (32), pari a circa 250.000 km2: essa coincide con la sovrastante Flight Information Region (FIR) (33), si prolunga dalle Isole Pelagie sin sotto Creta per non meno di 500 miglia (34) e si sovrappone, nella parte occidentale e settentrionale, con la corrispondente zona SAR italiana, coprendo addirittura le acque territoriali di Lampedusa e Lampione. La SAR maltese non tiene nemmeno conto — come avviene con le nostre Pelagie — delle acque territoriali tunisine. Anche tra Grecia e Turchia ha aperto da anni un contenzioso in materia. La Grecia ha, infatti, istituito una zona SAR di propria giurisdizione che comprende tutte le acque internazionali dell’Egeo, oltre ovviamente alle proprie acque territoriali. Il criterio seguito dalla Grecia è
b. Zone SAR Ai problemi riguardanti la proclamazione unilaterale di aree di giurisdizione si devono aggiungere in Mediterraneo quelli riguardanti l’overlapping delle aree al cui interno lo Stato costiero fornisce servizi di ricerca e di salvataggio, costituenti le zone SAR (28). Si tratta di «aree di responsabilità»
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Zone SAR del Mediterraneo centrale (Maricogecap, 2015). Legenda: area di responsabilità SAR Italia, 495.553 km2 (perimetro in rosso); area meridionale di responsabilità SAR Italia, 221.000 km2 (perimetro in rosso tratteggiato); area di responsabilità SAR Stati Nord Africa (perimetro in verde) + Malta, 630.000 km2.
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La certezza dei confini marittimi del Mediterraneo, fattore di sicurezza, stabilità e sviluppo
stato quello di far coincidere la zona del SAR marittimo con quella del SAR aereo ricadente nella propria FIR. La Turchia, per parte sua, ritiene invece che la propria giurisdizione SAR si estenda sino alla metà dell’Egeo e alla parte costiera di Cipro occupata (c.d. «Repubblica turca Cipro del nord») (35), in sintonia con le proprie pretese in materia di ZEE e piattaforma continentale.
Grey Zones Nel Mediterraneo, e in particolare nel suo versante orientale, vi sono dunque varie pretese tra loro confliggenti, che in parte si sovrappongono in mancanza della fissazione di confini concordati o stabiliti per arbitrato. La causa di ciò sta nell’unilateralismo marittimo che risponde a diverse logiche. Anzitutto può essere espressione di un radicato nazionalismo che impedisca di definire confini improntati a compromesso ed equità. La difficoltà evidenziata da Malta nel negoziare con noi soluzioni alle controversie su piattaforma continentale e SAR potrebbe esprimere un simile orientamento incentrato su tempi lunghi per consolidare lo status quo delle rivendicazioni. Ma, può anche divenire uno strumento di politiche di potenza volto a creare confuse situazioni in cui ciascuno dei contendenti cerchi di far valere le sue ragioni anche con la forza, nonostante questo sia contrario al diritto internazionale (36). La tattica turca di dislocare proprie unità di ricerca come la «Oruç Reis» in aree di giurisdizione greca o cipriota è funzionale, come messo in evidenza da James Holmes (37), ad attuare contestazioni sul campo, in modo da creare quella incertezza sui limiti in mare che genera le c.d. «Grey Zones». L’effetto determinato da pretese confliggenti non è solo geopolitico. Pesanti sono, infatti, le implicazioni economiche che impediscono un ordinato sviluppo della Blue Economy. È noto difatti che la validità nei confronti di Stati terzi di confini marittimi stabiliti unilateralmente dipende dalla loro conformità al diritto internazionale (38). Gli accordi di delimitazione non sono inoltre opponibili agli Stati che li contestino. Le attività economiche nelle zone disputate sono infine congelate nel senso che gli Stati non potrebbero rilasciare licenze di sfruttamento e le compagnie energetiche non dovrebbero assumersi il rischio di operare in zone contestate da altri Stati. Il risultato: uno stallo di iniziative quali il gasdotto
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EastMed (39), ovvero un disincentivo, per alcune compagnie impegnate nell’offshore energetico, a sfruttare le concessioni ottenute in aree di ZEE contese. Si pensi al caso della Saipem 12.000 (40): la nave di ricerca dell’ENI, nel 2018, fu indotta da Forze navali turche ad allontanarsi dal block assegnato da Cipro. In precedenza, la Libia aveva assunto analoghe iniziative verso Malta: il 19 agosto 1980 una fregata libica si avvicinò alla nave italiana Saipem II che effettuava ricerche energetiche sul Banco di Medina per conto della Texaco Malta Inc., ordinando di fermare le attività su quella che l’unità militare definì come «piattaforma continentale libica» (41). Più di recente, nel 2011, Tripoli aveva inviato alla Valletta una lettera di «cease and desist» con cui intimava di far cessare le ricerche offshore della società Heritage Oil in block energetici ricadenti nella piattaforma continentale libica (42). Secondo quanto evidenziato dal prof. Tullio Treves (43), due sono i comportamenti che possono tenere gli Stati i quali avanzino pretese unilaterali: rafforzare de facto le loro rivendicazioni concedendo sempre più autorizzazioni offshore (o anche licenze di pesca); oppure evitare azioni escalatorie che possano compromettere i rapporti con la controparte impedendo il raggiungimento di una soluzione di compromesso. Di «Grey Zones» si deve anche parlare per le zone SAR mediterranee che, come visto, si sovrappongono. Questa situazione è estremamente pericolosa per il salvataggio della vita delle persone che siano in pericolo (in prevalenza migranti) in quanto può causare incertezze su quale sia il paese tenuto a intervenire. Vari sono gli episodi di questo tipo verificatisi nella SAR maltese. Le zone SAR non dovrebbero sovrapporsi l’una all’altra. L’esigenza della certezza dei loro limiti deriva dal fatto che esse rientrano nella responsabilità dello Stato costiero e sottostanno quindi al suo controllo e al suo potere di intervento, a meno che non esista un accordo di cooperazione tra Stati limitrofi, come sarebbe naturale e necessario tra Malta e il nostro paese (44). La Convenzione di Amburgo del 1979 prevede, infatti, che le parti, se non raggiungono un accordo sull’esatta delimitazione delle rispettive zone SAR, hanno il dovere di coordinarsi tra loro (45). Nessun accordo di questo tipo esiste tuttavia né tra Malta e Italia, né tra Grecia e Turchia.
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Anarchia dei mari Mentre la terraferma è suddivisa in chiare linee di confine, «il mare non conosce altri confini che quelli delle coste. Esso rimane l’unica superficie spaziale libera per tutti gli Stati e aperta al commercio, alla pesca…». Così scriveva nel 1950 Carl Schmitt (46) tenendo conto della situazione degli spazi marittimi esistente sino ad allora, caratterizzata da ininterrotte aree di alto mare. Il compianto prof. Benedetto Conforti (47) osservava invece che la determinazione esatta di confini marini è veramente importante solo quando serva a delimitare comunità territoriali. Un tale approccio, per quanto perfettamente attagliato alla realtà del diritto marittimo che si basa ancora sulla libertà dei mari teorizzata da Hugo Grozio nel Seicento, non può tuttavia essere condiviso in un mare semichiuso e «affollato» come il Mediterraneo. L’incertezza dei limiti degli spazi di giurisdizione marittima è difatti elemento che causa tensioni internazionali e impedisce l’ordinato svolgimento delle attività marittime. Le dispute di pesca (in passato con la Tunisia e ora con la Libia) affliggono da anni i nostri pescatori costretti a pagare con la loro incolumità e libertà personale la mancata fissazione bilaterale dei confini delle Limiti Modus Vivendi 1970, Italia-Malta (Francalanci). zone di pesca da loro frequentati. Per non dire comportamento contrario agli obblighi di buona fede della pesca illegale che marinerie extraeuropee impe(50) che gli Stati devono osservare nell’esercitare i loro gnate nella lucrosa cattura del tonno rosso (48) praticano diritti (UNCLOS, art. 300). Connesso a tale generale in residue aree di alto mare o all’inquinamento di zone obbligo è quello di concludere «entro un ragionevole non sorvegliate causato da mercantili substandard. Le periodo di tempo» le trattative per raggiungere un actensioni per le attività offshore nel Mediterraneo oriencordo di delimitazione di ZEE o piattaforma continentale sono quotidianamente sotto gli occhi di tutti, e anche tale (UNCLOS, articoli 74, 2 e 83,2), procedendo il tracciato del gasdotto EastMed costituisce di per sé un altrimenti al ricorso alle procedure per la definizione elemento di instabilità geopolitica. È noto inoltre che la delle controversie. deresponsabilizzazione dei paesi tenuti a garantire il serIl massimalismo nazionalistico è dunque un atteggiavizio SAR nelle loro teoriche zone di competenza comento, anche nel settore della definizione dei confini stituisce la causa principale delle tante tragedie accadute marittimi, che ha una connotazione deleteria e contraria nella vasta area tra l’Italia e la Libia (49). al diritto internazionale. L’Italia ha invece sempre dimoChiaramente, gli Stati che frappongono ostacoli o al strato, sin dagli anni Sessanta del secolo scorso capacità raggiungimento di intese di delimitazione con i paesi di raggiungere intese, concludendo con ex Iugoslavia vicini rinviandone sine die la conclusione, hanno un
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(1968), Tunisia (1971), Spagna (1974), Grecia (1977) e Albania (1992) accordi di delimitazione della piattaforma continentale improntati al criterio dell’equidistanza/circostanze speciali (51). Inoltre, tra Italia e Malta da circa cinquant’anni sono in corso trattative (52) che, se si esclude un Modus Vivendi a carattere provvisorio e limitato spazialmente perfezionatosi nel 1970 (53), non hanno mai raggiunto risultati concreti.
Multilateralismo marittimo Le intese bilaterali sono ancora lo strumento principe di cui gli Stati dispongono sulla base dell’UNCLOS per convertire i limiti unilaterali in confini riconosciuti internazionalmente. La diplomazia marittima ha un aspetto antico: quello dei rapporti diplomatici necessari a concludere accordi di delimitazione è forse uno dei pochi esempi di diplomazia diretta che si sviluppa al di fuori di fori internazionali o regionali. Si è detto dell’assenza di strumenti concreti dell’UE in materia di confini marittimi degli Stati membri, nonostante l’attenzione costantemente mostrata. Anche le Nazioni unite non
hanno strumenti concreti per risolvere i contenzioni marittimi, a meno che non degenerino in atti di aggressione. Per la disputa tra Grecia e Turchia, il Consiglio di sicurezza è intervenuto una sola volta con la Risoluzione 395 (1976) (54) in cui, tra l’altro: «Calls upon the Governments of Greece and Turkey to resume direct negotiations over their differences and appeals to them to do everything within their power to ensure that these negotiations will result in mutually acceptable solutions» (55). Sulla base di questo monito i due paesi continuano ancora oggi a incontrarsi periodicamente alla ricerca di una soluzione bilaterale negoziata. È mancato sinora un confronto aperto, in una sede neutra, tra le parti, volta a comprendere meglio quali sono le loro pretese. Basti dire che si parla di ZEE mediterranea della Turchia e di accordi relativi con la Libia quando invece Ankara solo di recente ha annunziato che intende istituirla (56). La questione riguarda ovviamente anche paesi mediterranei diversi da Grecia e Turchia, come l’Algeria per le sue pretese verso Spagna e Italia, o la Spagna per il suo contenzioso con la Francia, o anche Italia e Malta per le loro
MAR MEDITERRANEO E MAR NERO. GIURISDIZIONI MARITTIME Stati costieri UE
Paesi costieri non membri UE
Linee di equidistanza membri UE
La c.d. «Mappa di Siviglia»: i limiti delle aree maltesi e greche non tengono assolutamente conto dei diritti rivendicati, rispettivamente, da Italia e Turchia (EU Parliament).
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contrastanti rivendicazioni che si trascinano dagli anni Sessanta del secolo scorso (57). Potrebbe pensarsi a forme di diplomazia pubblica, come un «Forum delle delimitazioni» (58) da organizzare periodicamente a turno in sedi accademiche, in cui tutti i paesi abbiano la possibilità di esporre le loro pretese. Se questo fosse stato fatto regolarmente, forse si sarebbero evitati sotterfugi e ambiguità insite nella pubblicazione, in uno studio svolto da un’università spagnola per conto del Parlamento europeo, di una cartina contestata dalla Turchia. Si tratta di quella che è definita da Ankara come «Mappa di Siviglia» la quale riporta, senza specificarne la natura unilaterale, le rivendicazioni avanzate da Malta, Grecia e Cipro a danno, rispettivamente, di Italia e Turchia (59). Il confronto diretto è senza dubbio la via migliore per evitare quelle incomprensioni e quelle speculazioni che in materia marittima possono far salire rapidamente la tensione. L’Unione per il Mediterraneo (60) che raggruppa quasi tutti i paesi del Nord Africa e del sud Europa (Turchia compresa) potrebbe essere la sede ideale per avviare un dialogo. Ipotetiche future aree di esplorazione congiunta greco-turche del mar Egeo (Ortolland). Resta fermo, infine, che l’UNnel 2012, relativamente allo sfruttamento di loro CLOS offre una brillante soluzione per aggirare i «Grey Zones» della piattaforma continentale, ma problemi di definizione dei confini marittimi per acsembra che l’iniziativa non abbia avuto seguito (62). cordo ed è il ricorso a forme di intese provvisorie di Peraltro, al genus di questi accordi provvisori apparnatura pratica. La Convenzione agli articoli 74, 3 e tiene il già citato Modus Vivendi italo-maltese del 83, 3, prevede infatti che le parti, in attesa di rag1970 relativo alle acque tra Sicilia e Malta entro la giungere un accordo finale di delimitazione, conclubatimetrica dei 200 m (63). Qualcuno si è anche dano medio tempore intese di natura pratica spinto a immaginare per l’Egeo aree greco-turche di («provisional arrangements of practical nature»). sfruttamento congiunto (64). Un esempio ci viene dal «1978 Grey Zone AgreeQuanto al SAR, un esempio di questo tipo può conment» russo-norvegese volto a creare una zona di siderarsi la creazione da parte di Australia e Indonesia pesca di giurisdizione joint nel Mare di Barents (61). nel 2004, di una zona di interventi di soccorso comune Italia e Malta avevano imboccato una strada similare
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che lascia impregiudicata la sovrapposizione delle rispettive aree SAR (65). In questa direzione procede sia l’accordo SAR per l’Artico (66) (tra Canada, Danimarca, Finlandia, Islanda, Federazione Russa, Regno Unito e Stati Uniti ), sia quello relativo al Mar Nero
(67) (tra Bulgaria, Georgia, Romania, Russia e Ucraina). Tra l’altro, l’adozione di una simile soluzione in Mediterraneo rappresenterebbe la giusta risposta ai tanti problemi e lacune verificatisi in trent’anni di emergenza umanitaria/immigrazione (68). 8
NOTE (1) Cfr. in materia l’excursus di G. Vismara, Il diritto del mare, in La navigazione mediterranea nell’alto medioevo (Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto, 14-20 aprile 1977), Spoleto, 1978, pp. 689 e ss. (2) Vedi T. Scovazzi, Elementi di Diritto Internazionale del Mare, Milano, 2002, 29. (3) Nella Dichiarazione del 28 settembre 1945 il presidente degli Stati Uniti, H. Truman, dopo aver premesso che la piattaforma continentale poteva considerarsi come il prolungamento in mare della terraferma, affermò che le risorse naturali del fondo e del sottofondo marino sottostanti l’alto mare dovevano ritenersi «come appartenenti agli Stati Uniti e soggetti alla loro giurisdizione e controllo». La Dichiarazione precisava altresì che il «carattere di alto mare delle acque sovrastanti la piattaforma continentale e il conseguente diritto di libera navigazione non erano in nessun modo in discussione». Sulla nozione di piattaforma continentale vedi F. Caffio, Glossario di Diritto del mare, 2020, p. 110 ss., disponibile in https://www.marina.difesa.it/media-cultura/editoria/marivista/. (4) I tre paesi dichiararono «(…) as a principle of their international maritime policy that each of them possesses sole sovereignty and jurisdiction over the area of sea adjacent to the coast of its own country and extending not less than 200 nautical miles from the said coast (…)» (http://www.fao.org/). (5) L’art. 1 di questa Convenzione prevede che: «For the purpose of these articles, the term “continental shelf” is used as referring (a) to the seabed and subsoil of the submarine areas adjacent to the coast but outside the area of the territorial sea, to a depth of 200 meter or, beyond that limit, to where the depth of the superjacent waters admits of the exploitation of the natural resources of the said areas; (b) to the seabed and subsoil of similar submarine areas adjacent to the coasts of islands». (6) Case Concerning Delimitation of the Maritime Boundary in the Gulf of Maine Area (Canada/United States), 1984 ICJ in https://www.icj-cij.org/files/case-related/67/067-19841012-JUD-01-00-EN.pdf. Sul regime della ZEE anche in rapporto alla sottostante piattaforma continentale, vedi F. Caffio, Glossario cit., pp. 201 ss. (7) Cfr. J. Holmes, The Mediterranean Sea Is One Dangerous Place, The National Interest, Sept. 21 2020. (8) Le rivendicazioni di Pechino sono state dichiarate infondate da una tribunale arbitrale nel 2006 (https://pca-cpa.org/en/cases/7/) innanzi al quale le Filippine avevano citato la Cina nell’ambito della procedura per la soluzione delle controversie relative all’UNCLOS di cui la Cina è parte. In discussione erano la miriade di scogli disabitati o emergenti a bassa marea delle formazioni insulari come le Spratly e le Paracels, di cui Pechino pretende il possesso, costruendovi anche strutture fisse, in modo da poter reclamare spazi di acque territoriali e ZEE. Il Tribunale, pur in assenza della Cina non costituitasi nel procedimento, ha stabilito in particolare che: 1) i diritti pretesi da Pechino nella c.d. «Nine Dash Line» (linea dei nove tratti) esulano dall’ordinario regime dell’UNCLOS e non trovano fondamento in consolidati titoli storici; 2) le scogliere affioranti a bassa mare su cui Pechino ha costruito installazioni (spesso di natura militare), non possano avere propri spazi marittimi. In relazione a tale pronuncia, Washington svolge sistematicamente operazioni navali nel Mar Cinese Meridionale, per affermare la libertà di navigazione nelle aree di acque territoriali illegittimamente pretese dalla Cina, operando a stretto contatto con Gran Bretagna e Australia nell’ambito di una Coalition of Willings cui partecipano anche altri Stati. (9) A. Ranieri, Il regime giuridico dell’area Azov-Kerch, Il Diritto Marittimo, 2015, II, 315. (10) Il testo della EUMSS è in https://ec.europa.eu/. (11) U. Leanza, Il Nuovo diritto del mare e la sua applicazione nel Mediterraneo, 1993, 360. (12) Il para 1 dell’art. 7 così recita: «1. Nelle località dove la linea di costa è profondamente incavata e frastagliata, o vi è una frangia di isole lungo la costa nelle sue immediate vicinanze, si può impiegare il metodo delle linee di base diritte che collegano punti appropriati, per tracciare la linea di base dalla quale si misura la larghezza del mare territoriale». (13) T. Scovazzi, Harlequin and the Mediterranean in Contemporary Developments in International Law, Brill, 2016,291 ss. (14) Atti in http://gfcmsitestorage.blob.core.windows.net/documents/web/SAC/2013/IUU/Third_Ministerial_ Conference_Fisheries_Venice_2003.pdf. (15) https://www.fao.org/iuu-fishing/en/. (16) Testo in GU Serie Generale n.148 del 23/06/2021. (https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2021/ 06/23/21G00103/sg). (17) Sulla decisione croata vedi il comunicato in https://www.un.org/Depts/los/. (18) Fisheries Case (United Kingdom v. Norway), Icj, 1951, Judgment, p. 20: «The delimitation of sea areas has always an international aspect; it cannot be dependent merely upon the will of the coastal State as expressed in its municipal law. Although it is true that the act of delimitation is necessarily a unilateral act, because only the coastal State is competent to undertake it, the validity of the delimitation with regard to other States depends upon international law». (19) Cfr. F. Caffio, L’Italia di fronte alla proclamazione unilaterale algerina della Zona economica esclusiva, Il Mare, MISE-Unmig, III ed., 2020, 85. (20) Cfr. «Turkey: Remodelling the eastern Mediterranean», European Parliament, Briefing, 2020, in https://www.europarl.europa.eu. (21) La posizione turca, espressa per la prima volta con la Information Note del 2 marzo 2004 (in LOS Bulletin n. 53), è stata ripetuta infinite volte in documenti ufficiali. (22) Vedi D. Ortolland, The Greco-Turkish dispute over the Aegean Sea : a possible solution?, La Revue gèopolitique, 10 Avril 2009, http://www.diploweb.com/TheGreco-Turkish-dispute-over-the.html. (23) Cfr. F. Caffio, La lunga storia del negoziato italo-maltese sulla delimitazione della piattaforma continentale, Rivista Diritto della Navigazione, 2020, 1,. 285. (24) Testo in https://unmig.mise.gov.it/index.php/it/dati/cartografia/. (25) Il sunto della decisione in data 29 giugno 2017 della Corte arbitrale è in https://pcacases.com/web/sendAttach/2175. (26) Cfr. «ICJ to rule on Albanian-Greek maritime dispute», 28/10/2020. https://country.eiu.com/ article.aspx. (27) La disputa tra Spagna e Gran Bretagna verte sulle acque territoriali del possedimento britannico di Gibilterra, appartenente all’Inghilterra dopo essere stato ceduto dal regno di Spagna con il trattato di pace di Utrecht del 13 luglio 1713. L’Inghilterra pretende uno spazio di acque territoriali di 3 miglia verso l’alto mare, separato verso terra, nella baia di Algeciras, dalla mediana con la costa spagnola. La tesi spagnola è che la Gran Bretagna non abbia titolo alla sovranità sulle acque territoriali in quanto l’articolo X del trattato di Utrecht stabilisce che la Spagna cede alla Corona della Gran Bretagna «la città e la rocca di Gibilterra, unitamente al suo porto, postazioni difensive e fortezze [...] senza alcuna giurisdizione territoriale [...]». La posizione inglese è che il divieto di giurisdizione territoriale debba intendersi al di là della portata dei cannoni delle fortificazioni, la quale al tempo era convenzionalmente stabilita in 3 miglia in relazione al principio del «cannon shot rule». (28) Convenzione di Amburgo del 1979, Annesso, par. 1.3.1. (29) Convenzione SOLAS , cap. V, regola 7. (30) L’Annesso alla Convenzione di Amburgo (para 2.1.7) dispone che «La delimitazione delle regioni di ricerca e di salvataggio non è legata a quella delle frontiere esistenti tra gli Stati e non pregiudica in alcun modo dette frontiere». (31) Cfr. M. Vella, Malta SAR “not for sale”, Borg replies to Frattini, in Maltatoday, 29 agosto 2009. Eloquente è la seguente posizione maltese espressa in tale articolo: «Italy has long vied for a portion of Malta’s SAR area, which would also mean raking in the benefits of funding for the Italian coastguard, fishing zones, and even oil exploration. Malta also earns millions of euros a year from air traffic control charges on aircraft using the area, known as the flight information region (FIR). The Cabinet had also shot down a proposal made by then Home Affairs Minister Tonio Borg in 2005 to shrink the SAR area by some 70%. Borg had said the government could choose either to reduce the SAR area or to stick to its stand that the nearest safe port receives immigrants and refuse to sign any international conventions to the contrary».
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La certezza dei confini marittimi del Mediterraneo, fattore di sicurezza, stabilità e sviluppo (32) Questo risulta dal Global SAR Plan elaborato dall’IMO (in http://www.imo.org/en/ourwork/safety). (33) La FIR è un’area dello spazio aereo internazionale in cui, sulla base delle prescrizioni dell’Organizzazione internazionale dell’aviazione civile (ICAO), è previsto che gli aeromobili comunichino allo Stato costiero informazioni sul proprio piano di volo al fine di salvaguardare la sicurezza del traffico aereo. La coincidenza tra SAR e FIR non è obbligatoria; la Convenzione di Amburgo del 1979 la prevede solo in forma di auspicio, considerando l’eventualità di un evento SAR che coinvolga un aeromobile. (34) Cfr. F. Caffio, L’emergenza immigrazione riaccende la tensione tra Italia e Malta, in Affarinternazionali, aprile 2010. (35) Sulla posizione turca cfr. https://www.mfa.gov.tr/search-and-rescue-regions-in-the-aegean.en.mfa. (36) Cfr. E. Milano-I. Papanicolopolu, Territorial Disputes and State Responsibility on Land and at Sea, 2009 in https://boa.unimib.it/retrieve/handle/ 10281/7845/8485/milano_papanicolopulu_paper.pdf. (37) J. Holmes, cit. (38) Vedi precedente nota (18). (39) Un ennesimo episodio messo in atto dalla Turchia per ostacolare la realizzazione del gasdotto si è verificato il 29 settembre 2021 a danno della nave di ricerca Nautical Geo operante per conto di Edison Italia. Vedi Report: Turkish Navy Intervenes in EastMed Pipeline Survey in https://www.maritime-executive.com/article/. (40) Vedi F. Caffio, Cipro: ambizioni e strategie marittime nel Mar di Levante, in https://www.affarinternazionali.it/2018/02/. (41) Vedi A. Sicurezza, La vicenda della Saipem II, Rivista Marittima, 6, 1999, 87. (42) R. Vassallo, Updated|Castille requests clarifications from Heritage Oil on Libyan “cease and desist”, Maltatoday, 5 January 2011 in https://www.maltatoday. com.mt/news/national/7697. (43) T. Treves, Coastal states’ rights in the Maritime areas under Unclos, Brasilian Journal of International Law, 2015, 1, 40. (44) Cfr. F. Caffio, La cooperazione nel soccorso in mare tra i paesi mediterranei: un impossibile obiettivo?, in E. Sciso (a cura di), I flussi migratori e le sfide all’Europa, Torino, 2020, 3 ss; Vedi anche, da ultimo, S. Gallinelli, Il paradosso delle aree SAR di Malta ed Italia. Le questioni giuridiche e politiche alla base del mancato raggiungimento di un accordo SAR tra i due paesi membri dell’Unione europea e il retroscena dei flussi migratori irregolari via mare, Il Diritto Marittimo, 2021, III, 662 ss. (45) Questo il testo dell’Annesso alla Convenzione di Amburgo (par. 2.1.5): «Se le parti interessate non raggiungono un accordo sulle dimensioni esatte di una zona di ricerca e di salvataggio, dette parti fanno tutto il possibile per raggiungere un accordo sull’adozione di disposizioni adeguate che permettano di assicurare un equivalente coordinamento generale dei servizi di ricerca e di salvataggio in detta zona. Il Segretario generale viene informato dell’adozione di dette disposizioni». (46) C. Schmitt, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello «Jus publicum europaeum», Adelphi, 1991, 207. (47) B. Conforti, The Mediterranean and Exclusive Economic Zone, in U. Leanza (a cura di), Il regime giuridico internazionale del Mar Mediterraneo, 1987, pag. 180. (48) Cfr. G. Ciarlariello, 10 tonnellate di tonno rosso illegale sequestrate ogni anno in Italia, WWF 23.7. 20, in https://www.wwf.it/. (49) Cfr. al riguardo il seguente Ordine del giorno approvato dalla Camera nella seduta di giovedì 13 marzo 2014: «La Camera, premesso che: (…) il 3 e l’11 Ottobre 2013 a largo di Lampedusa si è consumata una terribile tragedia con la morte di centinaia di rifugiati che tentavano di raggiungere le coste europee per trovare asilo politico. Moltissimi dei deceduti sono bambini; in particolare la strage dell’11 di ottobre ha evidenziato una non chiarezza su chi — tra Italia e Malta — dovesse andare in soccorso della nave dei naufraghi che, con diversi feriti a bordo, imbarcava acqua, perché precedentemente mitragliata da una vedetta della Marina libica. L’incertezza su chi doveva intervenire ha provocato l’irreparabile, con la morte di centinaia di persone, impegna il governo: a istituire una sala operativa congiunta Italia-Malta in modo da uniformare il coordinamento di Roma del Comando generale delle Capitanerie di porto… con la corrispondente struttura dello Stato di Malta che tenda in tal modo a ridurre i conflitti o le situazioni di ridotta capacità decisionale, causata da una non ben definita competenza; a modificare i trattati di collaborazione per le operazioni SAR nel canale di Sicilia al fine di ridurre al minimo i problemi di competenza rilevati nel tragico evento dell’11 ottobre 2013» (9/2149/10. on.li Villarosa, Lombardi, Nuti). (50) In merito a questo obbligo la Corte internazionale di Giustizia (North Sea Continental Shelf, Judgment (1969), para. 85(a)) ha stabilito che le parti devono negoziare «with a view to arriving at an agreement and not merely go through a formal process of negotiation» e non insistere nelle loro posizioni «without contemplating any modification of it». (51) Sulle soluzioni — non sempre favorevoli al nostro paese — vedi G.P. Francalanci-P. Presciuttini, Storia dei trattati e dei negoziati per la delimitazione della piattaforma continentale e del mare territoriale tra l’Italia e i paesi del Mediterraneo 1966-1992, IIM, 2000. (52) Nel 2012 è stato costituito «un tavolo tecnico tra Italia e Malta per lo studio di un’eventuale esplorazione e sviluppo congiunto in una parte di mare oggetto di contenzioso, Malta ha continuato ad assegnare a compagnie petrolifere delle aree in acque non ancora definite da un accordo bilaterale» (Il Mare, Mise, Ed. 2015, 65). (53) Il Modus Vivendi è citato nella sentenza del caso Malta/Libia, 1985, ICJ, para 17 (in https://www.icj-cij.org/files/case-related/68/068-19850603-JUD-01-00EN.pdf) nel seguente modo: «In 1970 agreement was reached between Malta and Italy for provisional exploitation of the continental shelf in a short section of the channel between Sicily and Malta on each side of the median line, subject to any adjustments that might be made in subsequent negotiations». (54) Testo in https://documents-dds-ny.un.org/doc/. (55) È importante notare che la stessa Risoluzione: «Invites the Governments of Greece and Turkey in this respect to continue to take into account the contribution that appropriate judicial means, in particular the International Court of Justice, are qualified to make to the settlement of any remaining legal differences which they may identify in connexion with their present dispute». (56) Cfr. Cavusoglu says Turkey could declare EEZ in Eastern Mediterranean, 8/10/2021 https://www.ekathimerini.com/news/. (57) Vedi F. Caffio, La lunga storia del negoziato italo-maltese sulla delimitazione della piattaforma continentale, cit. (58) Qualcosa di simile è stato realizzato col Pacific Islands Forum cui partecipano Australia, Federated States of Micronesia, Fiji, Kiribati, Palau, Papua New Guinea, Marshall Islands, Nauru, New Zealand, Samoa, Solomon Islands, Tonga, Tuvalu, Vanuatu (vedi lo Statement del 2020 in https://www.un.org/en/ga/sixth/75/pdfs/statements/ilc/13mtg_pacificislans.pdf). (59) Ci si riferisce alla ricerca relativa ad Acque giurisdizionali nel Mediterraneo e nel mar Nero, Parlamento europeo, Bruxelles, 2009, p. 96 in https://www.europarl.europa.eu/RegData/etudes/ etudes/join/2009/431602/IPOL-PECH_ET(2009)431602_IT.pdf. In questo studio dell’Università di Siviglia è compresa una cartina indicante come ZEE greca un’area di circa 40.000 km2 che sarebbe generata dall’isolotto di Castellorizo. Secondo questa cartina, la Turchia avrebbe invece titolo a una ridotta area di ZEE in prossimità della costa anatolica che le negherebbe la possibilità di essere lo Stato frontista dell’Egitto. Nella stessa mappa si indica come ZEE maltese un’area che contrasta con i diritti dell’Italia e rappresenta, dal 1980, la pretesa unilaterale avanzata dalla Valletta per la piattaforma continentale. La Turchia ha più volte contestato questa mappa (vedi per esempio il Press Release n. 244-2020 in https://www.mfa.gov.tr/no_244). (60) https://ufmsecretariat.org/who-we-are/member-states/. (61) Cfr. K. Stabrun, The Grey Zone Agreement of 1978: Fishery Concerns, Security Challenges and Territorial Interests, FNI Report 13/2009. Questo accordo è stato poi parzialmente recepito in quello del 2010 relativo alla delimitazione delle ZEE tra Russia e Norvegia e alla creazione di una zona di sfruttamento congiunto a cavallo del confine. (62) Vedi la precedente nota (52). (63) Vedi la precedente nota (53). (64) Vedi D. Ortolland, cit. (65) Cfr. S. Trevisanut, op.cit., p. 528. Il testo dell’Arrangement for the coordination of search and rescue services concluded between the Government of Australia and the Government of Indonesia, è stato pubblicato dall’IMO nella SAR.6/Circ.22 13 April 2004, reperibile nel sito https://www. transportstyrelsen.se/contentassets/. (66) L’intesa è stata definita con l’Agreement on cooperation on aeronautical and maritime search and rescue in the arctic del 2011 (reperibile nel sito https://www.ifrc.org/docs/idrl/N813EN.pdf). (67) Testo reperibile in http://www.bsmrcc.com/files/legal3.pdf. (68) Un excursus in materia è in F. Caffio, La cooperazione nel soccorso in mare tra i paesi mediterranei: un impossibile obiettivo?, in E. Sciso (a cura di), I flussi migratori e le sfide all’Europa, Torino, 2020.
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Dal Mediterraneo allargato al Mediterraneo affollato: l’evoluzione del Mare Nostrum a discapito dell’interesse nazionale Oreste Foppiani
Professore associato confermato di Storia e Politica internazionali presso il campus ginevrino della Webster University, dove dirige il Dipartimento di Relazioni internazionali, ha insegnato o diretto progetti di ricerca al Center for European & Mediterranean Studies (CEMS) della NYU, alla School of International Politics, Economics & Communication (SIPEC) dell’Aoyama Gakuin University e al Japan Maritime Self-Defense Force (JMSDF) Command & Staff College di Tokyo.
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«Il Mediterraneo allargato: «Un continuum geostrategico e geoeconomico con il Mar Nero e l’Oceano Indiano e il Golfo Arabico (...)».
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l Mare Nostrum degli antichi romani ha cambiato pelle, poiché ormai da quattro decenni si parla di un nuovo Mare Mediterraneo: il cosiddetto «Mediterraneo allargato», che si estende a ovest fino al Golfo di Guinea e a est fino al subcontinente indiano passando per il Mar Rosso, il Medio Oriente e l’Asia Minore. Il Mediterraneo allargato è uno dei più noti e rilevanti concetti strategici ideati da alcuni ufficiali della Marina Militare come Pier Paolo Ramoino e alcuni studiosi tra cui spiccano Giorgio Giorgerini e Carlo Maria Santoro negli anni ‘80 del secolo scorso (1). Ciononostante, questo concetto ha conseguito un successo parziale. Secondo Matteo Marconi, infatti, «il successo è stato parziale, poiché è mancata un’elaborazione geopolitica esplicita», che alla fine ha azzoppato il concetto di Mediterraneo allargato. Pertanto, è mancata (e manca tuttora) una «visione del Mediterraneo, un modo per intendere i rapporti con gli altri attori e, soprattutto, il progetto che si auspica implementare» (2). Sempre secondo Marconi, «il rimando ideale che alcuni, sulla base del concetto, hanno fatto tanto a Fernand Braudel che a Samuel Huntington denuncia una mancata decisione di fondo sulla geopolitica del Mediterraneo» (3). Inoltre, è interessante la proposta di Samuel Huntington, che legge il Mediterraneo come frattura tra tre am-
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biti di diversi modelli sociali: islamico, occidentale e cristiano-orientale. Pur senza entrare nei dettagli, come specificato anche da Marconi, «è chiaro che la visione che propone Huntington è caratterizzata fortemente dalla frattura, mentre Braudel immagina un modello esattamente opposto, dove l’interscambio delle esperienze e dei commerci crea un’unità, per quanto sui generis, che invita al dialogo» (4). Ciononostante, l’associazione di Braudel a Huntington non è problematica dal punto di vista descrittivo, piuttosto lo è nel passaggio all’aspetto progettuale. Nella misura in cui nel Mediterraneo allargato non ci si pone sistematicamente il problema dell’interesse/obiettivo politico, il discorso, pur essendo coerente, non può non risultare limitato (5). Infine, è bene chiarire che l’Italia si affaccia su di un mare che dovrebbe dominare e sfruttare al meglio perseguendo il proprio interesse nazionale, un interesse che altri paesi sfruttano molto bene, ma non lo Stivale. Tutto ciò avviene perché non c’è una vera politica estera italiana da decenni, probabilmente dall’epoca del duo Craxi-Andreotti a Palazzo Chigi e alla Farnesina. Durante il suo discorso di insediamento lo scorso 4 novembre, il Capo di Stato Maggiore della Marina Militare, l’ammiraglio di squadra Enrico Credendino, ha elencato tra le priorità del suo comando la «diffusione
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della cultura marittima in un paese che dipende dal mare in ogni aspetto sociale economico e di sicurezza» (pilastro per la comprensione e la divulgazione del concetto di Mediterraneo allargato) e il «rinnovamento dello strumento operativo» (in soldoni, senza nuove unità navali è inutile parlare del futuro della Penisola nel Mediterraneo allargato). «Al centro del Mare Nostrum, l’Italia — ha ricordato l’ufficiale ammiraglio torinese, citando anche la recente istituzione della Zona Economica Esclusiva (ZEE) da parte del Parlamento — è un paese a spiccata connotazione marittima, fortemente dipendente dal mare in ogni aspetto socioeconomico e di sicurezza [… ]. Il Mediterraneo, critico fianco meridionale della difesa dell’UE e della NATO, è oggi al centro di preoccupanti competizioni e di interessi geopolitici ed economici dei paesi rivieraschi: intensificando la loro presenza militare in tutta la regione, attori statuali e non statuali mettono a rischio i nostri diritti per lo sfruttamento delle risorse marine e insidiano la fonda-
mentale libertà dei traffici marittimi e della navigazione, che è nostro imperativo difendere e tutelare» (6). L’area di immediato interesse nazionale — ha spiegato l’ammiraglio Credendino — è il Mediterraneo allargato: «Un continuum geostrategico e geoeconomico con il Mar Nero e l’Oceano Indiano e il Golfo Arabico. Tale area è scossa da faglie profonde, ingerenze di attori assertivi, traffici illeciti, disordini sociali e fenomeni di natura religiosa e climatica. La Marina dovrà quindi continuare ad assicurare una presenza aeronavale continua e adeguata per la sorveglianza dei bacini marittimi di interesse nazionale e la difesa delle linee di navigazione» (7). Tuttavia, l’Italia ha bisogno di una politica estera incisiva e determinata, che tenga sì conto delle diverse sensibilità dei paesi rivieraschi, ma che persegua urbi et orbi l’interesse nazionale. Un interesse che potrebbe realizzarsi solo con la guida delle Forze navali dell’UE, magari in alternanza con l’Esagono in modo da ristabilire una presenza forte ed efficace in Libia, in Algeria
La fregata MARTINENGO durante l’operazione di vigilanza e sorveglianza marittima, atta a prevenire e contrastare il fenomeno della pirateria nel golfo di Guinea.
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e in Egitto. Da oltre cent’anni, l’Italia aspetta ciò che la Gran Bretagna le promise col Patto di Londra dell’aprile 1915 e che non ottenne per il bastone tra le ruote messo dagli Stati Uniti con il sostegno della Francia. Non ci fu, infatti, l’agognata creazione del «Lago Adriatico» e nemmeno un’influente presenza italiana nel Mediterraneo Centrale e Orientale (8). Senza una politica estera talassocratica e un gruppo di pressione navalista sulla falsariga di — mutatis mutandis — quello statunitense degli anni ‘90 del diciannovesimo secolo composto essenzialmente da Henry Cabot Lodge, Alfred T. Mahan e Theodore Roosevelt, non si vedrà mai un’Italia pronta a gestire appieno il Mediterraneo allargato e non solo a stabilire efficacemente una ZEE, ma anche a difenderla dagli interessi delle altre nazioni. Anche la stessa tanto decantata ZEE non ha ancora i regolamenti attuativi. Quindi, rimane per ora un arco senza frecce. Vorrei, infatti, vedere le navi della Marina Militare, di fronte a quelle della flotta di un altro paese, come reagirebbero. Sarebbero assertive e deterrenti? Sarebbero pronte a difendere la ZEE italiana? Come saranno sviluppate le regole d’ingaggio inerenti alla protezione e alla difesa della ZEE? La naturale evoluzione del concetto strategico del Mediterraneo allargato dovrebbe portare a sposare una «direzione geopolitica esplicita, discussa in modo sistematico e che impegni l’Italia in un quadro d’interessi più ampio» (9). Il concetto sottende una sfera politica unionista. Pertanto, se vogliamo accettarne la prospettiva d’azione ciò porta all’obiettivo dell’unione lato sensu dei paesi rivieraschi. Quest’ultima, dovrà però essere perseguita in un ambito politico più ampio dello Stato-nazione (10). Come ben analizzato da Marconi: Queste dovrebbero essere le coordinate minime per cominciare a dibattere sul pensiero geopolitico di Mediterraneo allargato. Dovremo poi interrogarci su quanto dovrebbe essere ampio questo spazio politico, ossia se possa coinvolgere solo NATO e UE oppure anche gli attori non occidentali dell’area. Altra questione centrale è in quali istituti politici debba consistere la nuova unione del mare. Tutto questo, però, non sarebbe conclusivo se non in relazione all’interesse proprio dell’Italia. L’unione del Mediterraneo, vero centro del
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Mediterraneo allargato, rappresenta davvero gli interessi italiani? Fino a che punto la rinnovata stabilità del Mediterraneo sarebbe in grado di rispondere alle esigenze politiche ed economiche italiane? Oppure è più opportuno per il nostro paese guardare totalmente al continente europeo? Comunque si voglia rispondere a queste domande, deve essere evidente che solo la chiarezza di un pensiero autenticamente geopolitico permetterà all’Italia di avere nitidi i propri interessi per poterli perseguire coerentemente (11). Tra i paesi da temere di più non c’è la Russia, che come l’Italia, ma per diversi motivi, non poté avere la sua parte di «bottino» dopo la fine della Grande guerra, e che giustamente è finalmente arrivata ai «mari caldi» a cui ambisce fin dai tempi di Pietro il Grande stabilendo due basi militari in Siria (dirimpetto a quelle inglesi a Cipro) e acquisendo una notevole influenza in Cirenaica e nel Mediterraneo Orientale (12). Il problema del Mediterraneo allargato e dell’interesse nazionale italiano è il problema turco-libico. La questione del Mediterraneo affollato da tanti attori, tra cui la Cina, che sta comprando porti a destra e a manca tramite la vincita di appalti per la gestione del traffico intermodale e la costruzione di porti duali (militare/base e cargo/civile) in colli di bottiglia importanti. Come specificato da Gino Lanzara, il neo-ottomanesimo del presidente Recep Erdoğan «definisce comunque le ambizioni geopolitiche turche, a partire dall’ascesa di Turgot Özal nel 1983, e ora incarnate dal governo del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (Akp), catalizzatore dell’incontro tra il progresso e un’identità storica data per erosa dalla politica kemalista dei primi sessant’anni repubblicani» (13). Erdoğan e accoliti non hanno proceduto a una islamizzazione ortodossa all’iraniana, quanto a una «riconciliazione con l’Islam e a una revisione del laicismo kemalista» (14). Operazione che ha comunque indebolito il potere detenuto dai militari, custodi istituzionali della laicità dello Stato, e ha condotto a una revisione della politica estera turca, ora più distante dall’Unione europea e, apparentemente, da Israele, con avvicinamenti a Russia e Cina, e attriti con l’occidentalità espressa dalla NATO. Si tratta di una concettualizzazione elaborata in ambito accademico, e si fonda sull’idea che l’Islam sia elemento
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utile al rafforzamento dei valori nazionalisti. Secondo una dinamica che tuttavia depotenzia qualsiasi afflato secolare, e accantona il multiculturalismo acuendo gli scontri etnici, per esempio con l’entità curda e, già in passato, con quella armena. Quando alla fine del 2020 il governo libico guidato dall’allora primo ministro libico Fayez Al-Sarraj chiese un aiuto concreto all’Italia per fermare le truppe del generale Khalifa Haftar, giunto a una ventina di chilometri da Tripoli, Roma nicchiò e non decise di inviare un paio di navi alla fonda di fronte alla capitale libica. Quindi, Al-Sarraj si rivolse ai turchi che decisero bene di prendere lo spazio lasciato libero dall’Italia. Il Mediterraneo affollato con lo stato quasi fallito libico pone dei problemi seri alla politica estera dell’Italia. L’Italia è una penisola tuttora centrale del concetto del Mediterraneo allargato, ma a causa dell’inceppamento e sovrapposizione di diversi interessi nazionali tra cui, solo per citarne uno, quello della Francia — con buona pace dei firmatari del recente Patto del Quirinale tra lo Stivale e l’Esagono — della Turchia, dell’Egitto, dell’Algeria, del Marocco e della Spagna, si sente sempre di più il bisogno di un’Europa forte che accetti tutte le sue responsabilità. Il Mediterraneo deve diventare una priorità per l’UE e per l’unica troika che possa veramente creare una Europa della Difesa unita e una futura Europa politica: Germania, Francia e Italia devono potere lavorare insieme per gestire un Mediterraneo affollato e agguerrito. Pur non volendo essere pessimista, la Comunità europea della Difesa è per ora un pio desiderio. Quindi, meglio puntare nuovamente sulla sempiterna e longeva alleanza militare della NATO. Per un paese provinciale come l’Italia dovrebbe essere una priorità avere il posto in scadenza di Segretario generale della NATO, un modo per avere una voce e una antenna che conosca in anticipo gli umori e cosa bolle in pentola a Mosca e a Washington. Alla NATO a trazione polacco-baltica, l’Italia dovrebbe sostituire una maggiore attenzione, per esempio, al quadrante del Mediterraneo. Il fallimento italiano del 2004 con l’ex ministro degli Esteri Franco Frattini e, in un secondo momento, con
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l’ex ministro della Difesa Antonio Martino, oggi potrebbe essere usato come un credito dalla nostra diplomazia a Washington. Resta, comunque, il dubbio che la classe politica attuale non abbia ben chiare le priorità della politica estera della Penisola. Pare che ci sia una disfasia tra i politici e (qualche) statista e la dirigenza delle Forze armate. Il secolo blu deve essere un secolo italiano con una forte politica navalista e mediterranea (da allargare fino all’Indo-Pacifico), ma senza una parimenti forte e navalista politica estera non vedo alcuna possibilità di riuscita (15). Nonostante il ritiro delle truppe italiane in Afghanistan e il loro impiego in altre missioni (ci sono circa 10.000 militari italiani impiegati in missioni fuori area, tra cui le Forze speciali al confine tra Libia e Sahel/Barkane), lo sforzo della media potenza italiana non è sufficiente. Tuttavia, l’Italia, con le proprie sole forze, non è in grado di cambiare la traiettoria dello sviluppo economico e sociale dell’Africa. Le istituzioni finanziarie internazionali possono svolgere un ruolo decisivo. Infatti, «l’allargamento del perimetro geografico di intervento della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo all’Africa sub-sahariana e il rafforzamento delle dotazioni di capitale della Banca Europea degli Investimenti, della Banca Mondiale e della Banca Africana di Sviluppo aiuterebbero molto» (16). Si spera, comunque, che la «Direttiva ministeriale per la strategia di Difesa e sicurezza nel Mediterraneo» (17), in corso di emanazione, possa costituire un primo ed essenziale passo verso il riconoscimento del ruolo dell’Italia come media potenza regionale marittima. Tuttavia, è bene precisare che lo strumento marittimo necessita di una flotta coerente e bilanciata in tutte le sue componenti, in grado di integrarsi nei dispositivi internazionali per la difesa comune e di fronteggiare autonomamente le emergenze, qualora non si possa fare affidamento sul concorso degli alleati — a tal fine si prenda per esempio
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il rinnovamento delle Forze di autodifesa giapponesi, dal 2010 in poi, sia a livello qualitativo che quantitativo (18) — al fine di garantire al nostro paese la più ampia gamma di interventi in mare (19). Al momento, pare che manchino una visione navalista e un calcolo dei rischi da prendere necessari per rimettere in carreggiata una nazione in crisi di identità. Infine, finché non si avrà — forse col premier Mario Draghi? — uno slancio verso un sistema nazione pari a quello francese o britannico, ogni sforzo sarà velleitario. 8 NOTE (1) Ramoino P.P., «La NATO e il “Mediterraneo allargato”: primavera araba, intervento in Libia, partnerships», Quaderni di Scienze Politiche. Università Cattolica del Sacro Cuore. Vol. 4 (2012), pp. 73-84. (2) Marconi M., «Dallo spazio fisico allo spazio relazionale. Una nuova visione geopolitica per il Mediterraneo allargato?» in Gnosis, 1/2016, p. 33. (3) Cfr. Marconi, op. cit., p. 34. Il concetto di Mediterraneo allargato rimanda all’intuizione dello storico francese Fernand Braudel, elaborata negli anni ‘40 del secolo scorso per significare che il Mar Mediterraneo non è composto da un unico bacino fisico, bensì da una successione di mari e di terre uniti tra loro da scambi commerciali, politici e culturali che sono arrivati a produrre, al loro apogeo, un mare ben più ampio di quello visibile sulle carte. Per Braudel ciò che contava nell’economia del Mare Mediterraneo erano le molteplici relazioni tra gli uomini che, al di là delle politiche dell’identità, componevano un quadro di comuni interessi e complicità, sorprendentemente unito. Una vera e propria teoria geografica, che guardava alle relazioni tra le cose per giungere a una sintesi non solo morfologica ma relazionale. Per questo motivo lo storico francese parlava del Mediterraneo come di un «centro luminoso», la cui forza di civilizzazione superava i limiti del bacino fisico e diradava man mano, tanto che non poteva distinguersi nettamente la luce dall’ombra, ossia non erano precisamente determinabili i confini fisici. (4) Marconi, op. cit., p. 34. (5) Ibidem. (6) Cfr. Credendino E., «Discorso di insediamento del Capo di Stato Maggiore della Marina», 4 novembre 2021 (https://www.marina.difesa.it/media-cultura/Notiziarioonline/Pagine/20211105_ Ammiraglio_Enrico_Credendino_nuovo_CSMM.aspx). (7) Ibidem. (8) Foppiani O., «The Italian Navy in the Adriatic, 1918-1919. An Unknown Actor between Diplomatic Rivalry and International Competition», in Nuova Rivista Storica, Anno 2017-Volume CI-Fascicolo III, passim; ID. «Italy’s Aspirations in the Adriatic Sea in the Aftermath of World War I: Impromptu Intelligence and Naval Diplomacy», in J. Baev and D. Minchev (a cura di), Unsettled Problems after the 1919 Peace Conference. Military Conflicts and Diplomatic Negotiations (Sofia: Veles Publishing, 2020), pp. 201-202. (9) Marconi, op. cit., pp. 40-41. (10) Marconi, op. cit., pp. 40-41. (11) Ibidem. (12) Ceccarelli Morolli D., Appunti di Geopolitica, Roma 2018, p. 229. (13) Lanzara G., «Neo-ottomanesimo e profondità strategica» in La Voce di Ginevra, 20 maggio 2021 (https://lavocediginevra.ch/neo-ottomanesimo-e-profonditastrategica). (14) Ibidem. (5) De Leonardis M., «Ambizioni, interessi nazionali e ideali dell’Italia», Rivista Marittima, 8-9 (2014), pp. 125-133, passim. (6) Massara G., «L’Italia e il Mediterraneo allargato», 25 maggio 2021, Aspenia Online. International Analysis and Commentary (https://aspeniaonline.it/litalia-e-ilmediterraneo-allargato). (7) Romano L., «Il Mediterraneo (più che) allargato. Guerini presenta la strategia della Difesa», in Formiche, 21 aprile 2021 (https://formiche.net/2021/04/guerinimediterraneo-strategia-difesa). (18) Fatton L.P., Foppiani O., Japan’s Awakening. Moving toward an Autonomous Security Policy. Berna e New York, Peter Lang, 2019, passim. (9) De Giorgi G., «L’importanza strategica degli assetti marittimi italiani nell’area mediterranea», in Gnosis, 1/2006, pp. 1-2 (http://gnosis.aisi.gov.it/Gnosis/ rivista46.nsf/servnavig/10?Open&Highlight=2,De+Giorgi), passim. BIBLIOGRAFIA MINIMA Braudel Fernand, La Méditerranée et le monde méditerranéen à l’époque de Philippe II, Armand Colin, Parigi, 1949. Credendino Enrico, «Discorso di insediamento del Capo di Stato Maggiore della Marina», 4 novembre 2021 (https://www.marina.difesa.it/media-cultura/Notiziarioonline/Pagine/ 20211105_Ammiraglio_Enrico_Credendino_nuovo_CSMM.aspx). De Giorgi Giuseppe, «L’importanza strategica degli assetti marittimi italiani nell’area mediterranea», in Gnosis, 1/2006, pp. 1-2 (http://gnosis.aisi.gov.it/ Gnosis/rivista46.nsf/servnavig/10?Open&Highlight=2,De+Giorgi). De Leonardis Massimo, «Ambizioni, interessi nazionali e ideali dell’Italia», Rivista Marittima, 8-9 (2014), pp. 125-133. Fatton Lionel e Foppiani Oreste, Japan’s Awakening. Moving toward an Autonomous Security Policy. Berna e New York, Peter Lang, 2019. Foppiani Oreste, «The Italian Navy in the Adriatic, 1918-1919. An Unknown Actor between Diplomatic Rivalry and International Competition», in Nuova Rivista Storica, Anno 2017-Volume CI-Fascicolo III. Foppiani Oreste, «Italy’s Aspirations in the Adriatic Sea in the Aftermath of World War I: Impromptu Intelligence and Naval Diplomacy», in J. Baev and D. Minchev (a cura di), Unsettled Problems after the 1919 Peace Conference. Military Conflicts and Diplomatic Negotiations (Sofia: Veles Publishing, 2020). Lanzara Gino, «Neo-ottomanesimo e profondità strategica» in La Voce di Ginevra, 20 maggio 2021 (https://lavocediginevra.ch/neo-ottomanesimo-e-profondita-strategica). Marconi Matteo, «Dallo spazio fisico allo spazio relazionale. Una nuova visione geopolitica per il Mediterraneo allargato?» in Gnosis, 1/2016, pp. 33-41. Massara Gaetano, «L’Italia e il Mediterraneo allargato», 25 maggio 2021, Aspenia Online. International Analysis and Commentary (https://aspeniaonline.it/litalia-eil-mediterraneo-allargato). Ramoino Pier Paolo, «La NATO e il “Mediterraneo allargato”: primavera araba, intervento in Libia, partnerships», Quaderni di Scienze Politiche. Università Cattolica del Sacro Cuore. Vol. 4 (2012). Ramoino Pier Paolo, «Geopolitica e strategia navale. Considerazioni sull’attualità», Rivista Marittima, 6 (1993), pp. 13-16. Romano Luigi, «Il Mediterraneo (più che) allargato. Guerini presenta la strategia della Difesa», in Formiche, 21 aprile 2021 (https://formiche.net/2021/04/guerini-mediterraneo-strategia-difesa).
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Il blocco del Canale di Suez: un case study di sicurezza marittima Matteo Bressan
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li spazi marittimi, in generale, e in particolare il Mar Mediterraneo, sono considerati sempre di più come luoghi strategici dove possono sorgere forme di cooperazione o conflitti. Nell’area del Mediterraneo, su cui si affacciano ventidue Stati, la sicurezza dei singoli Stati è strettamente interconnessa. La sicurezza marittima si riferisce alla protezione degli spazi marittimi da sfide che includono il contrabbando di armi illegali, droga ed esseri umani, inquinamento,
pirateria e azioni che ostacolano la libertà di navigazione. Le minacce alla sicurezza marittima sono numerose, ibride e comprendono le minacce al commercio mondiale, la corsa alle risorse energetiche, le ricadute dei conflitti in Libia e Siria, l’immigrazione illegale, il traffico di esseri umani, il terrorismo, il crimine organizzato transnazionale, il ritorno della competizione tra superpotenze e la sovrapposizione di rivendicazioni di sovranità espresse attraverso dispute sulle delimitazioni
Docente di Studi Strategici presso la SIOI e analista del NATO Defense College Foundation.
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Il 23 marzo la portacontainer EVER GIVEN, della lunghezza di 400 metri, si è arenata a causa dei forti venti bloccando il Canale di Suez, una delle rotte commerciali più trafficate del mondo (bbc.com).
marittime di Zone Economiche Esclusive (ZEE). La centralità del Mediterraneo nella scena geopolitica globale, anche se in misura diversa nel corso dei secoli, deriva dalla sua caratteristica di essere un bacino di transito energetico e di rotte commerciali. Il Mediterraneo unisce infatti l’Europa occidentale con le risorse petrolifere del Medio Oriente, collega i trasporti marittimi dall’Oceano Atlantico all’Oceano Indiano, riunisce le nazioni geograficamente distanti della NATO nel suo fianco Sud, unisce i porti del Mar Nero con l’Oceano Indiano e l’Atlantico e, infine, unisce alcune delle più importanti nazioni industriali dell’Occidente con il loro mare e le loro risorse. La centralità della sicurezza marittima nel Mediterraneo conferma la natura multiforme e in evoluzione della sicurezza marittima, dell’interconnettività delle minacce alla sicurezza e della presenza simultanea di minacce convenzionali e non. Nella regione si possono individuare quattro specifiche dinamiche tra loro interconnesse: scoperte energetiche e rivendicazioni di sovranità sovrapposte espresse attraverso dispute di delimitazione marittima, rivalità geopolitiche, ritorno della competizione tra superpotenze e immigrazione illegale/traffico di esseri umani. Insieme, queste dinamiche hanno portato a un maggiore coinvolgimento di numerosi attori regionali (Turchia, Grecia, Cipro, Francia, Italia, Egitto, Libia e Algeria) e potenze esterne, in particolare Stati Uniti, Russia e Cina.
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Il valore del trasporto marittimo per l’Europa Il trasporto marittimo continua a rappresentare il principale «veicolo» dello sviluppo del commercio internazionale: il 90% delle merci, infatti, viaggia via mare. I trasporti marittimi e la logistica valgono circa il 12% del PIL globale. Il trasporto marittimo rappresenta, molto più che quello aereo in questa fase di ripresa post pandemia, l’unica forza motrice della Supply Chain globale. Il 2020 è stato caratterizzato, a partire dal secondo semestre, da un incremento della domanda di beni che ha in parte sostituito quella dei servizi per il cambiamento delle abitudini di consumo dovuto alla pandemia. Questo ha generato un’impennata dell’e-commerce, cresciuto del 30% rispetto al 2019. La riapertura delle economie e la ripresa della domanda rimangono il motore chiave per la crescita del commercio mondiale nel 2021 con una previsione dell’8,4% e ancora del 6,5% nel 2022. Riguardo al trasporto marittimo complessivo si stima per il 2021 un aumento del 4,2% per volumi complessivi maggiori di 12 miliardi di tonnellate, superiori quindi ai livelli antecedenti al Covid-19, e per il 2022 un ulteriore incremento del 3,1%. Il segmento container, che rappresenta la modalità di trasporto privilegiata del commercio globale di beni, a partire da luglio 2020, con la ripresa della domanda soprattutto da parte dell’Europa e del Nord America, ha registrato una cre-
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206,3 miliardi di euro, registrando un -17% rispetto all’anno precedente. Di questi, 99,8 mld sono in import (-23%) e 106,5 in export (-10%). Nel primo trimestre 2021 l’import/export via mare ha registrato un incremento del 3%. Il mare assorbe il 33% dell’interscambio italiano mentre il trasporto su strada assorbe ancora il 52% del traffico merci. La Cina è il nostro principale Paese fornitore: con 20,5 miliardi di euro rappresenta il 21% di tutto l’import via mare italiano. Il primo Paese cliente per modalità marittima sono gli Stati Uniti che, con 27,2 miliardi di euro, concentra il 26% del nostro export.
scita costante che lo ha portato a chiudere il 2020 con una riduzione di appena l’1,1%. Per il 2021 si stima una crescita dell’8,7% e per il 2022 del 4,7%. Allungando le previsioni al 2025, la movimentazione container dei porti a livello mondiale dovrebbe crescere a un tasso medio annuo del 4,8% fino ad oltre 1 miliardo di TEU entro il 2025 (a livello di aree mondiali Europa +3,9%, Africa +4,9%, Far East +5,3%, Middle East +4% e Nord America +3,6%). La presenza di 14 porti asiatici nella Top 20 mondiale conferma ancora una volta la rilevanza di questo continente nel segmento del trasporto containerizzato, con una quota del 54,5%. Anche lo sviluppo e l’attuazione di continui accordi commerciali regionali (ad esempio NAFTA, RCEP e AfCFTA) e le tensioni commerciali in corso tra le principali economie potrebbero contribuire ai cambiamenti nei modelli di produzione delle catene del valore globali. Inoltre, la persistente carenza di container e l’aumento dei noli potrebbero fornire ulteriore impulso alle tendenze di reshoring e nearshoring. Nel periodo della pandemia si è registrato un sensibile aumento del trasporto su ferro sulla rotta Cina-Europa e viceversa. Secondo quanto reso noto da China State Railway Group, nel primo trimestre 2021, il numero di treni merci ha toccato il record di
Poiché circa il 90% delle merci globali sono scambiate attraverso le rotte marittime, la libertà di navigazione, la sicurezza, la sostenibilità e il rispetto del diritto internazionale sono fondamentali per l’UE. La strategia globale dell’UE evidenzia la necessità di garantire aperte le rotte marittime nevralgiche per il commercio, così come l’accesso alle risorse naturali. La sicurezza dei mari e degli oceani è una chiara priorità per l’Unione europea e per i suoi Stati membri. Essa è un prerequisito del commercio marittimo, che contribuisce al benessere economico e sociale dei cit-
3.345 convogli che hanno trasportato 317.000 TEU, con una crescita del 79% sullo stesso periodo del 2020. Secondo le ferrovie cinesi, il trasporto via treno ha avuto un peso determinante nello stabilizzare la catena della logistica internazionale interrotta dalla pandemia. La ridefinizione di alcune supply chain su scala regionale riporterà in Europa alcune filiere e ciò potrà favorire ulteriormente la crescita del trasporto marittimo a corto raggio per il quale il Mediterraneo ha già una posizione di leadership in ambito europeo. In Italia la componente internazionale del trasporto marittimo è sempre rilevante. Nel 2020 il valore degli scambi commerciali via mare dell’Italia è stato pari a
tadini europei e facilita anche l’attuazione delle misure di salvaguardia dell’ambiente marino. L’UE ha quindi un interesse strategico nell’identificare e affrontare i rischi e le minacce alla sicurezza marittima — sia all’interno che all’esterno delle zone marittime dell’UE — in particolare quelli derivanti da atti e attività illegali in mare che riguardano le navi, i porti e altre infrastrutture critiche. I rischi e le minacce alla sicurezza nel settore marittimo sono diventati più complessi e intrinsecamente connessi a livello globale. Alle porte delle frontiere europee si sono verificati aumenti significativi dei flussi migratori irregolari e del traffico e della tratta di esseri umani,
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L’UE come provider di sicurezza marittima
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in particolare attraverso il Mar Mediterraneo, che si sono andati ad aggiungere ad altre attività illegali, come il traffico di droga, di armi e la pesca illegale. Queste sfide hanno portato il Consiglio ad adottare nel 2014 la Strategia di Sicurezza Marittima dell’UE (EUMSS) e un piano d’azione a sostegno della sua attuazione. La strategia mira a migliorare il modo in cui l’UE previene e risponde alle sfide alla sicurezza che riguardano le persone, le attività, le infrastrutture e l’ambiente nel settore marittimo. Attraverso una più stretta collaborazione tra le autorità marittime a livello nazionale, regionale e dell’UE, la strategia cerca di aumentare sia la consapevolezza della situazione che l’efficienza operativa. L’EUMSS e il suo piano d’azione cercano di proteggere gli interessi marittimi globali dell’UE e di promuovere l’UE come un contributore alla sicurezza marittima globale. Attraverso una più stretta cooperazione, l’UE e i suoi Stati membri possono fare un uso migliore delle risorse esistenti
ed entrare in partenariati internazionali più efficaci e credibili. L’EUMSS si basa sui seguenti quattro principi, che si riflettono anche nel suo piano d’azione: — approccio intersettoriale (compresa la cooperazione civile-civile, civile-militare e militare-militare); — integrità funzionale; — il rispetto delle regole e dei principi stabiliti dal diritto internazionale e dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare (UNCLOS); — multilateralismo marittimo (compresa l’autonomia decisionale dell’UE) (1). Nel giugno 2018 il Consiglio ha adottato un piano d’azione aggiornato, che allinea l’EUMSS alla strategia globale dell’UE. Esso fa proprie le proposte della comunicazione congiunta del 2016 sul ruolo dell’UE nella governance internazionale degli oceani e le conclusioni del Consiglio del giugno 2017 sulla sicurezza marittima globale. Vengono elencate le azioni nei settori chiave della cooperazione internazionale,
Missioni e operazioni europee, militari e civili (eeas.europa.eu).
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della gestione dei rischi, della ricerca e dell’innovazione. Una serie di azioni riguarda la «consapevolezza marittima», che promuove «un regime coerente per la sorveglianza marittima in tutta l’UE». La relazione di attuazione dell’ottobre 2020 sull’EUMSS ha ribadito l’implementazione della strategia globale dell’UE e in particolare la sua dimensione di fornitore di sicurezza nel settore marittimo. Nel campo della sicurezza e della difesa, gli strumenti della politica di sicurezza e di difesa comune dell’UE, in particolare le sue missioni e le sue operazioni all’estero sono la manifestazione più visibile della sua attività marittima. La sicurezza marittima è vista come una delle aree più promettenti dell’attività recente e futura della politica di sicurezza e di difesa comune (PSDC). L’Unione Europea ha attualmente due importanti operazioni navali dispiegate nell’ambito della PSDC: l’EU Naval Force Somalia – Operation Atlanta e l’Operazione EUNAVFOR MED IRINI (2).
L’importanza del Canale di Suez e la vicenda della Ever Given
Rosso al Mediterraneo. Inoltre, il Mediterraneo si trova all’incrocio tra Europa, Africa e Asia, collegando questi continenti sia geograficamente che commercialmente. Il Canale di Suez, nell’anno della pandemia, ha mostrato una notevole resilienza oltrepassando il miliardo di tonnellate di merci e totalizzando un numero di transiti pari a 18.829 navi. Anche in un momento economico complesso, Suez è dunque rimasto uno snodo strategico per i traffici nel Mediterraneo continuando a rappresentare il 12% del traffico mondiale ed il 7-8% di quello petrolifero. Il governo egiziano ha stanziato 16,9 miliardi di sterline egiziane (1,07 miliardi di dollari) di investimenti per l’esercizio 202021, finalizzati alla realizzazione di progetti di sviluppo del Canale. Quanto avvenuto, lo scorso 24 marzo, con il blocco del Canale di Suez (interruzione dello stretto dove passa il 12% del commercio mondiale, circa 19.000 transiti all’anno, causata dalla portacontainer Ever Given) ha evidenziato l’interconnessione delle nostre economie e quanto siano fragili le nostre catene globali del valore (Global Value Chains). Più di 300 le grandi navi che si sono dovute fermare in attesa di poter attraversare il Canale di Suez.
Sebbene abbia un’estensione solo dell’1% della superficie marittima mondiale, il Mediterraneo è uno dei bacini marittimi di maggiore interesse per la sicurezza, per la stabilità e per la prosperità dello scenario mondiale. Nel Mediterraneo si trovano 3 dei 9 principali Choke Points marittimi mondiali ed è quindi il crocevia di numerose e importanti direttrici del traffico marittimo dove transita: — il 20% del traffico marittimo mondiale; — il 25% dei servizi di linea su container; — il 30% dei flussi di petrolio mondiali; — il 65% del flusso energetico per i Paesi dell’UE. Il Mediterraneo comprende anche uno degli stretti più significativi del mondo e la sua importanza per il commercio mondiale è esemplificata dalla rilevanza del Canale di Suez per il commercio globale, che per secoli ha fatto Blocco del passaggio marittimo nel canale di suez (marinetraffic.com del 24 marzo 2021). affidamento sul collegamento del Mar
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dollari, senza considerare gli effetti diretti e collaterali di questo blocco sulla filiera distributiva. Nel dettaglio le perdite sono state di 4,5 miliardi di dollari sulla rotta verso sud che va dal Mediterraneo verso l’Oceano Indiano e 5,1 miliardi di dollari sulla direzione opposta (4). A livello nazionale il blocco ha avuto un impatto sull’import-export italiano da e per l’Asia (nel settore agroalimentare) e sugli approvvigionamenti di materie prime che, come nel caso del petrolio, significa aumenti del costo dei carburanti. L’episodio, un vero e proprio case study di sicurezza marittima applicato alla libertà di navigazione e alla libera circolazione dei beni, ha evidenziato quanto la navigazione mon-
Northern Sea Route (economist.com).
Tra 40 e 80 sono le navi che mediamente attraversano il canale al giorno. Per sei giorni il traffico mercantile di una metà del mondo ha fatto un salto indietro di 200 anni. L’episodio ha anche alimentato la tesi, sostenuta dalla Russia, della necessaria diversificazione delle rotte e che si basa sulla promozione della Northern Sea Route, un ambizioso piano di infrastrutture spinto dal presidente Vladimir Putin che mira a capitalizzare lo scioglimento dei ghiacci polari dal riscaldamento globale aprendo così la navigazione e lo sviluppo dell’Artico (3). Una valutazione di Lloyd’s List, relativamente alle perdite dovute al blocco del Canale di Suez, ha stimato che per lo stop ai transiti di Suez si sia determinata una perdita giornaliera pari a 9,6 miliardi di
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Percorso alternativo per la spedizione delle merci mentre il canale di Suez è bloccato (Vessels Value).
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diale non possa prescindere da Suez. L’incidente è stato un promemoria di quanto siano vulnerabili le rotte commerciali marittime più trafficate nei loro punti di strozzatura e di come questa vulnerabilità potrebbe manifestarsi in futuro. Lo scorso maggio, l’Egitto ha annunciato dei progetti per ampliare e approfondire ulteriormente la sezione del canale in cui l’Ever Given è rimasta bloccata e, più recentemente, che avrebbe acquistato una flotta di rimorchiatori più potenti, una nave di supporto e una gru che potrebbero alleggerire il carico di qualsiasi futura nave in difficoltà. Sebbene stia conducendo l’indagine sull’incidente, l’Egitto è spesso apparso più interessato a ottenere maggiori risarcimenti dall’armatore della nave, piuttosto che a ricostruire le cause su cosa sia andato storto e, di conseguenza, adottare misure per evitare che incidenti simili possano ripetersi (5). Tuttavia, nonostante questi sforzi, né le autorità del canale né il fulcro della catena di approvvigionamento globale né l’industria navale che da esso dipende hanno affrontato alcune delle questioni più critiche che hanno portato al naufragio. I pochi punti di strozzatura marittimi del mondo sono
sempre più sotto pressione. Questo è vero non solo per il Canale di Suez, ma anche per l’adiacente Stretto di Bab al-Mandeb — sulle cui rive Gibuti ospita una considerevole presenza militare straniera — così come per lo Stretto di Malacca, il Canale di Panama e lo Stretto di Hormuz. Non è una novità che le strozzature siano vulnerabili e che mantenerle aperte sia essenziale per il commercio globale. Il diritto di passaggio attraverso il Canale di Suez per tutti i tipi di navi (comprese le navi militari) di qualsiasi nazione è garantito dalla Convenzione di Costantinopoli del 1888, che vieta i blocchi sul corso d’acqua. Tuttavia, negli ultimi tempi, le crescenti tensioni politiche in tutto il mondo hanno posto serie sfide a tali accordi, come emerso relativamente alle tensioni nel Mar Cinese Meridionale. Con l’aumento delle tensioni geopolitiche, sta diventando sempre più probabile che gli Stati utilizzino questi punti di strozzatura come strumenti per incidere sui loro avversari (6). La limitazione della capacità di movimento o l’interruzione di questi flussi rappresenta pertanto un vulnus alla sicurezza economica e quindi alla sicurezza nazionale. 8
NOTE (1) Report on the implementation of the revised EU Maritime Security Strategy Action Plan, European Commission, 23/10/2020. (2) Lațici T., Stanicek B. and Pichon E., Charting a course through stormy waters – The EU as a maritime security actor, European Parliamentary Research Service (EPRS), February 2021. (3) Dixon R., While the world tore its hair out over the Suez, Russia saw an opportunity, The Washington Post 29 Marzo 2021 https://www.washingtonpost.com/ world/russia-suez-touts-arctic-sea-route/2021/03/ 29/576f6794-9097-11eb-aadc-af78701a30ca_story.html. (4) Italian Maritime Economy – Porti, rotte, noli e shipping: specchio di un cambiamento globale, SRM 7 luglio 2021. (5) Yee V. and Glanz J., How One of the World’s Biggest Ships Jammed the Suez Canal, The New York Times 11 luglio 2021 https://www.google.com/search?q= july&rlz= 1C1VDKB_itIT946IT947&oq= july&aqs= chrome..69i57j0i512l3j0i67j46i512j0i512l4.911j1j7&sourceid=chrome&ie=UTF-8. (6) Medunic F., A glimpse of the future: The Ever Given and the weaponisation of choke-points, ECFR 23/04/2021 https://ecfr.eu/article/a-glimpse-of-the-future-theever-given-and-the-weaponisation-of-choke-points.
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PRIMO PIANO
La storia dei rapporti tra Israele e Grecia Rodolfo Bastianelli
L
a storia delle relazioni tra Grecia e Israele, pur non avendo forse la stessa rilevanza di quelle con altri paesi, è comunque utile per compren-
dere come sia evoluta la linea politica di Gerusalemme nell’area dell’Europa mediterranea dalla fondazione dello Stato ebraico a oggi. I rapporti tra i due paesi per
Nato a Roma il 5 novembre 1969. Laureato in Giurisprudenza a Roma, ha effettuato un corso di specializzazione post-laurea presso l’Institut Français des Relations International (IFRI) a Parigi. Dopo aver lavorato presso le riviste Ideazione e Charta Minuta, dal 2011 segue la politica estera per L’Occidentale. È professore a contratto di Storia delle relazioni internazionali e collabora inoltre con LiMes, Informazioni della Difesa, Rivista di Politica, Affari Esteri e il settimanale on-line dello IAI, Affari Internazionali. Collabora con la Rivista Marittima dal 2009.
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lungo tempo non sono stati improntati alla cordialità. Anche se la storia del popolo greco e di quello ebraico presenta diversi tratti comuni — alcuni commentatori sottolineano come entrambi hanno vissuto sotto la dominazione ottomana e che il sionismo di Theodor Herzl e la «Grande Idea» dei nazionalisti ellenici siano animati dallo stesso spirito di rinascita nazionale pur se quest’ultima non presentava una visione politica di orientamento
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socialista — i legami sono stati spesso segnati da una reciproca sfiducia che solo di recente sembra aver lasciato spazio a delle relazioni più collaborative.
La prima fase: i rapporti dalla fondazione di Israele al colpo di Stato del 1967 Già durante il Secondo conflitto mondiale, la popolazione ebraica del paese si era trovata ad affrontare
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La storia dei rapporti tra Israele e Grecia
una difficile situazione, e questo non solo a causa dei crimini perpetrati dai nazisti. Difatti, nonostante alcuni greci durante l’occupazione tedesca si impegnarono a mettere in salvo dei residenti ebrei, gran parte dell’opinione pubblica ellenica rimase tuttavia silente di fronte all’eccidio (1). Questa poca sintonia esistente tra i due popoli emerse poi quando alle Nazioni Unite la Grecia votò poi contro il progetto di divisione della Palestina e, al momento della proclamazione d’indipendenza d’Israele nel 1948, Atene riconobbe solo «de facto» il nuovo Stato e quattro anni dopo stabilì delle relazioni diplomatiche a livello di rappresentanza tramite il Consolato generale di Gerusalemme, cosa che suscitò non poca irritazione tra i dirigenti politici israeliani. La ragione di questa freddezza era dovuta a tutta una serie di elementi. Di questi, il più rilevante era senza dubbio la forte dipendenza della Grecia dai paesi arabi per le forniture di petrolio i quali a loro volta costituivano anche uno dei principali mercati per i prodotti agricoli greci, senza dimenticare poi come numerosi uomini d’affari ellenici erano attivi nelle capitali mediorientali e avevano dato vita a una potente «lobby» filo-araba che esercitava non poca influenza sulle scelte politiche del governo. Inoltre lo stesso traffico navale greco poggiava in massima parte sulle rotte del Canale di Suez e un deterioramento dei rapporti con il mondo arabo avrebbe danneggiato una delle più importanti voci dell’economia ellenica. La posizione di Atene era poi dettata anche dal desiderio di preservare i diritti delle comunità greche presenti nella regione. Come avevano dichiarato i leader arabi poco dopo la nascita d’Israele, se Atene avesse riconosciuto lo Stato ebraico ci sarebbero potute essere delle ritorsioni contro i cittadini greci residenti in Medio Oriente, una comunità forte di almeno duecentomila persone, la maggior parte delle quali viveva in Egitto, nonché nei confronti della stessa chiesa ortodossa e dei suoi patriarcati presenti nel paese. Sull’atteggiamento greco verso Israele pesarono inoltre delle considerazioni strategiche, dettate dallo sviluppo dei legami tra Israele e Turchia e dalla politica che Atene intendeva perseguire nei confronti di Cipro. All’inizio degli anni Cinquanta, il governo israeliano aveva iniziato a stringere rapporti di collaborazione politica e
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militare con la Turchia, i cui rapporti con Atene erano segnati da continue tensioni, mentre la Grecia da parte sua desiderava conservarsi una sponda nei paesi arabi per ottenerne l’appoggio alla sua politica di «Enosis» verso Cipro che puntava a riunificare l’isola, allora colonia britannica, alla madrepatria greca. Tuttavia, all’inizio degli anni Cinquanta le relazioni tra Atene e i paesi arabi entrarono in una fase di freddezza sia per l’atteggiamento assunto dal nuovo governo egiziano insediatosi dopo il colpo di Stato del 1952, che prima decise di confiscare le proprietà ai cittadini greci residenti imponendogli inoltre severe restrizioni sull’acquisto e la vendita di immobili e poi obbligò oltre centomila di loro a lasciare il paese senza alcun indennizzo, nonché per quello di Damasco il quale stabilì che il Patriarca ortodosso dovesse essere di nazionalità siriana e non greca (2). Lo stesso governo greco poi, pur schierandosi alle Nazioni Unite quasi sempre a fianco delle nazioni arabe, decise di astenersi nelle risoluzioni il cui tono era ostile a Israele e contenente riferimenti anti-semiti. Questo suscitò all’interno degli ambienti politici israeliani la convinzione che fosse possibile un riavvicinamento con la Grecia e ricevere il formale riconoscimento «de jure» dello Stato d’Israele da parte di Atene. Ma, nonostante l’impegno diplomatico israeliano la posizione del governo greco per gran parte degli anni Sessanta rimase sostanzialmente immutata: da un lato Atene continuava a intrattenere i rapporti con i paesi arabi anche perché con la sua politica intendeva svolgere un ruolo di «ponte» per favorire un riavvicinamento tra l’Egitto di Nasser e l’Occidente, dall’altro però non desiderava pregiudicare i suoi legami con lo Stato ebraico. Gli stessi ambienti politici greci apparivano comunque divisi sull’atteggiamento da tenere verso Israele. Così se gli esponenti dell’«Unione Radicale Nazionale», la formazione conservatrice di Konstantinos Karamanlis, erano più favorevoli a un riavvicinamento verso lo Stato ebraico, quelli dell’«Unione di Centro», il partito nazionalista di orientamento liberal-progressista guidato da Georgios Papandreou, rimanevano contrari a qualsiasi apertura a Israele ritenendo che l’appoggio dei paesi arabi era di fondamentale importanza se Atene voleva realizzare la sua politica di unificazione verso
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I membri della giunta dei Colonnelli. Al centro il re Costantino II (AP Photo).
Cipro. Poco dopo però, il colpo di Stato operato in Grecia nell’aprile 1967 da un gruppo di ufficiali dell’Esercito sembrò che potesse portare a un miglioramento nelle relazioni con Israele. Gli esponenti politici israeliani ritenevano che l’orientamento filo-statunitense della giunta militare avrebbe spinto il nuovo regime greco a riconoscere formalmente lo Stato ebraico, allacciare formali relazioni diplomatiche e avviare così una nuova era nei rapporti tra i due paesi. Ma, contrariamente a quelle che erano le aspettative di Israele, la posizione di Atene non cambiò.
I rapporti durante il regime militare (1967-74) Subito dopo la «Guerra dei Sei Giorni» del 1967, il governo greco affermò come Israele non doveva porre alcuna precondizione per il suo ritiro dalla striscia di Gaza e dalla Cisgiordania, mentre all’interno del Consiglio di sicurezza la Grecia votò una mozione avanzata dalla Jugoslavia con la quale si richiedeva l’incondizionato ritiro israeliano dai territori occupati (3). A una più attenta analisi il quadro all’interno del paese appariva però più sfumato. Nonostante la politica pro-araba del governo e i toni violentemente antisemiti di alcuni quotidiani di estrema destra, l’opinione pubblica greca e parte degli stessi ambienti istituzionali non erano ostili a Israele e sottolineavano come anche in assenza di formali relazioni diplomatiche un disgelo nei rapporti tra i due paesi fosse ormai auspicabile. Le conseguenze del conflitto del 1967 finirono per ripercuotersi anche sulla scena politica greca. L’avvio dei colloqui tra Atene e il governo israeliano unito a un sensibile peggioramento delle relazioni tra la Grecia e i paesi arabi, esposero il territorio greco al rischio di attentati da parte dei gruppi terroristici palesti-
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nesi. Questo costrinse il governo di Atene a un difficile equilibrismo diplomatico per non compromettere i rapporti con i paesi arabi e, allo stesso tempo, non deteriorare quelli con Israele. E il più grave di questi, compiuto dal gruppo «Settembre Nero» nel 1973 all’aeroporto di Atene contro il banco della TWA nel corso del quale vennero uccise tre persone e altre trentacinque furono prese in ostaggio. Arresisi alla polizia greca, i due membri del commando vennero processati e condannati a morte dopo un breve processo. Comunque l’atteggiamento del governo greco non cambiò, in quanto questo continuò a seguire una politica dialogante nei confronti dei gruppi palestinesi per evitare che il paese diventasse oggetto di nuovi attacchi terroristici (4). Tuttavia, le pressioni degli Stati Uniti spinsero però il governo di Atene, spesso accusato da Gerusalemme di essere troppo tollerante verso la causa palestinese, a modificare la sua politica e a riavvicinarsi a Israele, una mossa questa dettata anche dall’intenzione del regime militare di migliorare la sua immagine presso gli ambienti politici statunitensi. Così quando nel 1974 il nuovo premier greco Markezinis assunse l’incarico, dichiarò come la Grecia, pur avendo storici legami con i paesi arabi, sosteneva che Israele aveva pienamente il diritto a esistere offrendo inoltre la disponibilità di Atene a ospitare dei colloqui di pace per risolvere la crisi mediorientale (5). La fine del regime militare e il ritorno alla democrazia non cambiarono l’atteggiamento di Atene verso Israele. Tuttavia se i governi conservatori di «Nuova Democrazia» guidati da Konstantinos Karamanlis e Georgios Rallis seguirono una politica pragmatica, l’esecutivo socialista di Andreas Papandreou al contrario assunse una posizione apertamente critica, se non addirittura ostile, nei confronti di Gerusalemme. Appena giunto al governo, il nuovo Premier greco invitò ad Atene il leader dell’OLP Yasser Arafat garantendo alla missione palestinese lo stesso status diplomatico di quello attribuito alla rappresentanza israeliana. Lo stesso Papandreou espresse poi la sua contrarietà agli accordi di pace di Camp David, mentre in occasione dell’intervento israeliano in Libano, che il Premier greco definì un crimine contro l’umanità, la protesta assunse toni particolarmente aspri tanto che il governo di Atene arrivò a proporre l’introduzione di sanzioni economiche contro Israele. La posizione filo-palestinese di
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Papandreou costituiva poi anche uno strumento all’interno della politica di Atene nei confronti della Turchia, il cui sostegno a Israele e agli Stati Uniti incontrava la ferma contrarietà di numerosi dirigenti del PASOK. E alla luce di queste considerazioni, il Capo del governo ellenico quindi non solo vedeva nella diaspora palestinese un tratto comune con quanto accaduto alla popolazione greca in Turchia nel 1922 e a Cipro nel 1974, ma, al pari dell’OLP, considerava favorevolmente anche l’azione in chiave anti-turca del «Partito dei Lavoratori del Kurdistan» (PKK), i cui membri dopo il colpo di Stato militare avvenuto in Turchia nel 1980 erano stati costretti a trovare rifugio in Libano (6).
Dagli anni Ottanta alla nuova fase di alleanza politica Sul piano diplomatico, la linea apertamente filo-palestinese di Papandreou aveva il duplice obiettivo di garantire l’appoggio degli Stati arabi alla Grecia per la sua politica verso Cipro e le sue rivendicazioni nei confronti della Turchia nel Mar Egeo nonché di favorirne gli investimenti nel paese in un momento in cui Atene necessitava di valuta pregiata per la sua economia. In seguito, con il ritorno al governo dei conservatori di «Nuova Democrazia» nel 1990, i rapporti tra Atene e Gerusalemme però migliorarono sensibilmente. Anche se l’opinione pubblica greca rimaneva propensa a simpatizzare per la causa palestinese viste appunto le similitudini con quanto accaduto a Cipro dove migliaia di greco-ciprioti nel 1974 erano stati costretti a fuggire in seguito all’intervento militare turco, il nuovo premier Konstantinos Mitsotakis decise nel 1990 di riconoscere formalmente Israele e stabilire così complete relazioni diplomatiche con lo Stato ebraico. Inoltre, a differenza di quanto accaduto durante il governo Papandreou che con la sua politica era stato accusato di favorire l’attività dei gruppi terroristici palestinesi, il nuovo esecutivo greco prese una posizione più ferma contro il terrorismo di matrice islamica. E anche sotto gli esecutivi socialisti succedutisi a quello di Mitsotakis le relazioni migliorarono ulteriormente, favoriti dall’uscita di scena di Andreas Papandreou e dalla sua sostituzione alla guida del governo con il riformista Kostas Simitis. Nonostante un momento di tensione causato dalle accuse
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di spionaggio a favore della Turchia rivolte a Israele dal governo cipriota, i legami culturali si intensificarono notevolmente al pari dell’interscambio commerciale, mentre anche sul piano militare Atene e Gerusalemme prima siglarono un accordo di cooperazione, rimasto tuttavia inattivo sia perché la Grecia non desiderava compromettere i legami con i paesi arabi e Israele non voleva porre a rischio i suoi rapporti con Ankara, poi decisero di svolgere delle manovre navali comuni che vennero però rinviate in quanto il governo greco era esitante a spingere troppo in avanti la collaborazione con Israele per la probabile reazione negativa del mondo arabo. Il riavvicinamento con Gerusalemme era poi dettato dal mutato quadro strategico che si era formato alla fine degli anni Novanta nei Balcani e nel Medio Oriente. I nuovi Stati sorti in seguito alla dissoluzione della Jugoslavia e dell’Unione Sovietica tendevano infatti a essere più orientati verso la Turchia, legata inoltre a Israele da una solida partnership strategica, mentre la Grecia poteva contare solo sugli storici legami con la Serbia e sui buoni rapporti con la Russia. E lo stesso ritorno al potere di Papandreou nel 1993, segnò un ulteriore passo verso il disgelo, rappresentando una svolta rispetto alla politica precedentemente seguita dal leader socialista. Sarà infatti sotto l’esecutivo di Papandreou che nel 1994 Atene e Gerusalemme siglarono un accordo di cooperazione militare in base al quale i due paesi avrebbero svolto manovre aeree e navali congiunte nonché nella preparazione di missioni di soccorso (7). Negli anni seguenti lo scenario si è nuovamente modificato e, come sottolineano gli osservatori, il raffreddamento nelle relazioni tra Ankara e Gerusalemme ha portato Israele prima ad assumere una politica di equidistanza tra Tur-
Incontro Netanyahu-Mitsotakis, Maggio 2021 (Britannica Quest Image).
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La storia dei rapporti tra Israele e Grecia
chia e Grecia e poi a sviluppare legami politici, militari ed economici più stretti con Atene, aiutati in questo anche dalla scoperta di importanti giacimenti di gas naturale nelle acque circostanti l’isola di Cipro. E a conferma di questo riorientamento della politica di Gerusalemme è venuta sia dalla visita effettuata ad Atene nell’agosto 2010 dal premier israeliano Netanyahu al suo omologo greco Papandreou — la prima nella storia dei rapporti tra i due paesi — che dallo svolgimento due anni più tardi di manovre militari navali congiunte assieme agli Stati Uniti (8). Denominata «Noble Dina» l’esercitazione, tenutasi nell’aprile del 2012, aveva lo scopo di simulare delle operazioni a difesa delle installazioni e dei giacimenti off-shore di gas naturale, un chiaro riferimento alle tensioni che nei mesi precedenti erano sorte tra Nicosia e Ankara in merito ai proventi derivanti dallo sfruttamento dei giacimenti di gas naturale scoperti a largo delle coste cipriote, proventi che, secondo il governo turco, apparterrebbero a «tutti i ciprioti» e dovrebbero essere quindi ripartiti coinvolgendo anche la «Repubblica Turca di Cipro del Nord». E anche se da parte israeliana si è subito sottolineato come l’avvicinamento con Atene non intendeva portare a una rottura dei legami con Ankara, appariva tuttavia evidente come il sensibile peggioramento dei rapporti con la Turchia aveva radicalmente mutato il quadro della politica estera di Gerusalemme nel Mediterraneo orientale (9). E se i rapporti erano rimasti sostanzialmente inalterati nonostante i cambi alla guida dell’esecutivo che in tre anni avevano visto succedersi come primi ministri prima il socialista George Papandreou (2009-11), poi il tecnico Lucas Papademos (2011-12) e infine il conservatore Antonis Samaras (2012-15), il successo di Alexis Tsipras alle elezioni del Gennaio 2015 aveva suscitato inizialmente negli ambienti politici israeliani non poca apprensione, visto che il leader di SYRIZA in passato aveva preso parte a manifestazioni a sostegno del popolo palestinese e un’altra esponente del partito, l’europarlamentare Sofia Sakorafa, si era espressa a favore di «Hamas». Tuttavia, al contrario dei timori di Gerusalemme, le buone relazioni continuavano anche con il nuovo esecutivo, tanto che il ministro degli esteri Nikos Kotzias affermava come per Atene fosse Ankara a costituire una minaccia per la sicurezza nazionale greca, men-
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tre il ministro della Difesa e leader della formazione di destra-sovranista «Greci Indipendenti» (ANEL) Panos Kammenos, più volte si segnalava per le sue posizioni favorevoli a Israele (10). All’inizio del 2016 inoltre, il premier israeliano Benjamin Netanyahu, il suo omologo greco Alexis Tsipras e il Presidente cipriota Nikos Anastiasades al termine del vertice trilaterale tenuto a Nicosia rilasciavano una dichiarazione comune nella quale si riaffermavano la comune adesione ai valori della democrazia e della libertà, l’intenzione di rafforzare la cooperazione in una vasta serie di settori, a iniziare da quello energetico la cui importanza veniva considerata fondamentale per creare una rete di reciproche relazioni positive tra i mercati energetici ciprioti, israeliani ed europei. Inoltre, sempre nel 2016 Atene e Gerusalemme prendevano parte alla manovra militare congiunta «Viper Valley», mentre l’anno seguente le aeronautiche dei due paesi tenevano delle esercitazioni nell’area di Creta, dove è stazionata una batteria di missili antiaerei S-300 di fabbricazione russa acquistata da Cipro agli inizi degli anni Novanta e poi trasferita alla Grecia, ritenute estremamente utili dai piloti israeliani, sia perché in grado di simulare il tipo di difesa che incontrerebbero nell’eventualità in cui dovessero attaccare i siti nucleari iraniani ma anche per il fatto che la distanza tra Creta e Israele è la stessa che intercorre con l’impianto di arricchimento nucleare iraniano di Natanz (11). E la cooperazione militare è stata poi ribadita sia nel 2017 che nel 2019 con partecipazione israeliana alle esercitazioni «Iniochos 2017» e «Iniochos 2019». Con l’arrivo al go-
Firma intesa su EastMed tra Grecia, Israele e Cipro (Britannica QuestImage).
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Alla presenza del capo di stato maggiore generale della difesa nazionale greca, generale Konstantinos Floros e dei capi delle delegazioni militari di Cipro e Israele, è stato firmato nel gennaio 2020 il programma di cooperazione militare tripartita tra Grecia, Cipro e Israele per il 2021 (Britannica QuestImage).
verno del conservatore Kyriakos Mitsotakis i rapporti tra i due paesi hanno conosciuto poi un ulteriore rafforzamento con una cooperazione che si è estesa anche all’energia, come dimostra la firma nel gennaio 2020 dell’accordo tra Grecia, Cipro e Israele per la costruzione di un gasdotto per il trasporto del gas naturale dal Mediterraneo orientale all’Europa (12). Sul piano della collaborazione militare, l’intesa tra Atene, Gerusalemme e Nicosia ha trovato conferma nel marzo scorso con la partecipazione dei tre paesi alle manovre «Noble Dina», attuate allo scopo di contrastare l’attivismo di
Ankara nella regione (13). Nei rapporti con la Grecia rimangono comunque aperte delle questioni, tra le quali la più rilevante per Israele è la persistenza di un atteggiamento anti-semita in vasti settori della società e del mondo politico ellenico, tanto che, stando a un sondaggio della «Anti-Defamation League» apparso il 22 maggio 2014 sul «The Times of Israel», il 69% dei greci avrebbe atteggiamenti anti-semiti, una percentuale pari a quella registrata in Arabia Saudita. In proposito vengono citate prima le dichiarazioni del leader del partito ultranazionalista «Raduno Popolare Ortodosso» (LA.O.S) Georgios Karatzaferis, il quale affermò come i servizi segreti israeliani l’11 settembre avessero avvertito quel giorno quattromila ebrei di non recarsi in ufficio ventilando dunque un coinvolgimento di Gerusalemme negli attentati, e in seguito quelle dei neonazisti di «Alba Dorata» e della stessa sinistra radicale di SYRIZA, il cui candidato a governatore della prefettura della Macedonia orientale Theodoros Karypidis sei anni fa dichiarò come l’allora premier Samaras fosse a capo di una cospirazione ebraica contro la Grecia (14). Ma, nonostante questo, il «grande freddo» che ha contraddistinto per oltre mezzo secolo le relazioni tra Atene e Gerusalemme non solo sembra essere passato, ma si sta trasformando sempre di più in una nuova alleanza che solo pochi anni fa appariva impossibile. 8
NOTE (1) Emblematico in proposito è quanto accaduto a Salonicco, in cui prima del conflitto la popolazione era composta per almeno un quinto da abitanti di religione ebraica. In questa città, quando i crimini commessi dai nazisti vennero alla luce, le notizie sulle deportazioni degli ebrei trovarono nella stampa locale assai poco spazio, se non un vero e proprio silenzio. Per esempio, il quotidiano (illegale) del movimento di resistenza comunista greco «Eleftheria» pubblicò la notizia riguardante la scoperta dei crimini contro la popolazione ebraica di Salonicco solo in quarta pagina e con una nota di poche righe. (2) Sui rapporti tra Grecia e Israele durante gli anni Cinquanta e Sessanta vedi Jacob Abadi, Constraints and Adjustments in Greece’s Policy toward Israel, apparso su «Mediterranean Quarterly», n. 11, Vol. 4, Anno 2000, pagg. 40-70. (3) Un altro punto estremamente sensibile riguardava poi la questione di Gerusalemme. Con l’annessione della città, il governo israeliano contava di «normalizzare» i rapporti con Atene contando anche sul ruolo della chiesa ortodossa, la quale, nelle intenzioni israeliane, avrebbe potuto servire proprio per avviare una campagna contro l’internazionalizzazione della città. (4) Dopo quello all’aeroporto di Atene, altri attentati vennero compiuti contro obiettivi greci allo scopo di ottenere la liberazione dei terroristi palestinesi detenuti nelle carceri elleniche. Così fu nel maggio 1974, quando un commando armato assaltò il cargo greco Vory nel porto di Karachi minacciando di farlo affondare se Atene non avesse liberato i responsabili dell’attacco compiuto ai danni della TWA. In base all’accordo, i due terroristi videro commutata la loro condanna nell’ergastolo e nel maggio 1974 vennero rilasciati e inviati in Libia. (5) Sui rapporti tra i due paesi durante gli anni del regime militare vedi Spiros Ch. Kaminaris, Greece and Middle - East, apparso su «Middle East Review of International Affairs», Vol. 3, n. 2, Anno 1999. (6) Sulla politica di Papandreou verso Israele verso vedi Sofia Papastamkou, Greece between Europe and the Mediterranean, 1981-1986: The Israeli-Palestinian Conflict and the Greek-Libyan Relations as Case Studies, apparso su «Journal of European Integration History», No 1/2015, pagg. 47-67. (7) Sulla politica greca verso Israele negli anni Novanta vedi Ekavi Athanassopolou, Greece-Israel. The evolution of the Bilateral Relationship and Future Challenges. Il testo dello studio è reperibile al seguente sito https://ahepa.org/Hellenic-Affairs/10-10-07_Athanassopoulou_remarks.pdf. (8) Greece and Israel: A New Beginning?, Research Institute for European and American Studies, 24 luglio 2010. (9) Vedi sull’argomento George Stavris, The New Energy Triangle of Cyprus-Greece-Israel: Casting a Net for Turkey?, apparso su «Turkish Policy Quarterly», Vol. 11, n. 2, Anno 2012, pagg. 87-102. (10) Sui rapporti tra Israele e Grecia dopo l’arrivo al governo di Tsipras e la collaborazione in materia energetica tra i due paesi vedi Emmanuel Karagiannis, Shifting Eastern Mediterranean Alliances, apparso su «The Middle East Quarterly», Vol. 23, n. 2, Anno 2016. (11) Vedi su questo Seth Cropsey, U.S. Policy and the Strategic Relationship of Greece, Cyprus, and Israel: Power Shifts in the Eastern Mediterranean, Hudson Institute Monograph, Washington D.C, marzo 2015. (12) Greece, Israel, Cyprus sign EastMed gas pipeline deal, Reuters, 2 gennaio 2020. (13) Israel leads naval drill with Greece, Cyprus as countries deepen ties, The Times of Israel, 12 marzo 2021. (14) Why is Greece the most anti-Semitic country in Europe?, The Times of Israel, 22 maggio 2014.
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PRIMO PIANO
Il contesto securitario del Mediterraneo allargato e la protezione degli interessi nazionali marittimi: il ruolo della Marina Militare Daniele Panebianco
Ufficiale della Marina Militare in servizio attivo. Entrato in Accademia navale nel 1990, ha servito sia a bordo di numerose unità navali, sia in diversi staff in prevalenza multinazionali. Ha partecipato a numerose attività e operazioni militari a livello nazionale, NATO, UE, Nazioni unite e di Coalizione. Specializzato in «Contromisure Mine Navali», è stato comandante di nave Gaeta e della Squadriglia cacciamine costieri 54. Più di recente ha servito presso il Centro innovazione dello Stato Maggiore della Difesa e, successivamente, nello staff di diretta collaborazione del Ministro della Difesa quale Consigliere per l’attuazione del programma di governo. Attualmente è il Capo Ufficio Politica delle Alleanze del 3° Reparto Pianificazione e Politica Marittima, dello Stato Maggiore della Marina. Ha conseguito la laurea specialistica in «Scienze marittime e navali» e «Scienze politiche» e un master di 2° livello in «Studi strategici e sicurezza internazionale». Collabora con la Rivista Marittima e dal 2020 è il curatore della Masterclass sulla «Sicurezza marittima» presso la Link Campus University di Roma e, dal 2021, presso l’Università statale di Brescia.
Flotta navale in formazione quale fondamentale strumento operativo marittimo per la difesa e la sicurezza.
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Italia, un paese che dipende quasi del tutto dal mare Guardandola dalle Alpi, cioè da terra verso mare, si comprende come l’Italia sia naturalmente predisposta a giocare il ruolo di «media potenza regionale marittima» — come ha evidenziato il Capo di Stato Maggiore della Marina, ammiraglio di squadra Enrico Credendino in occasione della giornata-convegno per il centenario della nascita dell’Istituto di Guerra Marittima, l’IGM (oggi Istituto Studi Militari Marittimi, ISMM, e Centro Studi Marina Militare) (1) — e abbia con la marittimità un legame indissolubile, legame che è poi alla base della sua imprescindibile e millenaria vocazione marittima. Grazie al mare, l’Italia, paese manifatturiero per eccellenza, è cresciuta nel commercio globale, nei mercati internazionali, nello sviluppo della pesca, della cantieristica navale e delle infrastrutture marittime, nel turismo, nella prospezione delle geo-risorse, nella presenza nelle aree marittime di rilevante interesse strategico nello scacchiere mondiale. Nonostante il Covid-19 abbia condizionato giocoforza gli equilibri del commercio marittimo mondiale, secondo uno studio del «Centro Studi SRM collegato al Gruppo Intesa Sanpaolo» pubblicato nel Rapporto su
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l’«Italian maritime economy 2021», il mare rimane il protagonista degli scambi commerciali italiani. Secondo SRM, nel 2020, il valore degli scambi commerciali via mare dell’Italia è stato pari a 206,3 miliardi di euro. Di questi 99,8 miliardi sono in import (48%) e 106,5 in export (52%), mentre nel primo trimestre 2021 l’importexport via mare ha registrato un incremento del 3%. Sempre secondo SRM, il mare assorbe il 33% dell’interscambio italiano a fronte del 52% del traffico merci assorbito ancora dal trasporto su strada. La Cina risulta il nostro principale paese fornitore, che, con 20,5 miliardi di euro, rappresenta il 21% di tutto l’import via mare italiano. Il primo paese cliente per modalità marittima sono gli Stati Uniti che, con 27,2 miliardi di euro, concentra il 26% del nostro export.
8° Rapporto Annuale 2021 sulla Italian Maritime Economy (fonte Centro Studi SRM collegato al Gruppo Intesa Sanpaolo).
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Il mare visto dalle Alpi e le sue cifre per l’Italia.
mantenersi nel prossimo triennio, indicando nel 2022 Una marcata ripresa dell’economia del mare italiana l’anno della vera e propria ripresa (2). è evidenziata anche dall’ultimo rapporto SACE, la SoPossiamo convenire che questi dati positivi per l’ecocietà per azioni del gruppo italiano a partecipazione pubnomia del mare italiana indicati dai citati rapporti sono blica Cassa Depositi e Prestiti, specializzata nel settore possibili grazie al «made in Italy marittimo», a cui conassicurativo-finanziario. Secondo SACE l’export itacorrono una serie di realtà, tra le quali: una cantieristica liano è tornato su quel sentiero di crescita interrotto dalla navalmeccanica a elevata connotazione tecnologica, che crisi, in un contesto in cui, avverte il rapporto, occorre pone l’Italia tra i primi al mondo e tra i leader europei per tuttavia avere ben chiare le coordinate delle opportunità flotta di bandiera, navi Ro-Ro (cioè in grado di traspora livello sia settoriale che geografico. In particolare, il tare mezzi ruotati di ogni forma e dimensione), navi cicommercio internazionale di beni in volume mostra una sterna per il trasporto di prodotti petroliferi, costruzione ripresa robusta nel primo semestre 2021, lasciando predi navi da crociera e mega-yacht; una flotta da pesca che, vedere una crescita negli scambi internazionali di merci con i suoi circa 12.000 pescherecci e 24.000 addetti, eleva di circa il 10%, mentre i flussi mondiali di investimenti diretti esteri seguiranno invece prospettive di ripresa più incerte e sarà necessario attendere la fine del 2022 per assistere a un pieno ritorno ai livelli pre-crisi. Per quanto riguarda l’Italia, il rapporto prevede che le esportazioni italiane di beni in valore cresceranno quest’anno dell’11,3%, in rialzo rispetto a precedenti previsioni, compensando in parte quanto perso nel 2020, lasciando intravedere una tendenza positiva Mappa «SACE» sulle maggiori esportazioni italiane (fonte SACE Gruppo Cdp). e incoraggiante che dovrebbe
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il settore al secondo posto in Europa in termini di occupazione e al quarto per la produzione; operatori energetici per la prospezione offshore — ossia il complesso delle attività per l’individuazione e utilizzo di giacimenti di idrocarburi presenti nel sottofondo marino — tra i primi al mondo (come dimostra, tra le altre, la recente scoperta italiana di un importante giacimento di gas nel Golfo di Guinea); l’industria ittica dell’acquacoltura, Mappa dell’approvvigionamento energetico nazionale (fonte Autore). che è registrata in espansione. Nell’ambito navale, la Marina Militare italiana è la prima dell’Unione europea termina una stretta dipendenza dal dominio marittimo con una capacità portaerei dotata dei modernissimi veanche nello strategico settore energetico. livoli di quinta generazione F35B e tra le prime Marine Infatti, nel 2020, sono stati importati 66,4 miliardi della NATO per tipologia e consistenza della flotta, di metri cubi di gas e 50,5 milioni di tonnellate di pequasi del tutto interamente made in Italy. trolio, a fronte, rispettivamente, dei 4,4 e 5,3 prodotti Il sistema portuale italiano è stato a lungo il primo dalle infrastrutture energetiche nazionali terrestri e offin Europa per volumi di merce trasportata — oggi è il shore ubicate nelle acque di giurisdizione marittima naterzo — e mantiene il primato europeo per movimento zionale. In effetti, questi dati del ministero della di navi da crociera e croceristi. Transizione ecologica indicano una diminuzione riSenza dimenticare la quota-parte marittima dell’induspetto al 2019, ritenuta tuttavia poco significativa come stria turistica che, nel complesso, vale il 13% del PIL. tendenza poiché nel 2020 i lunghi periodi di lockdown In sintesi, dal mare passano tutti i grandi snodi della hanno di fatto bloccato la produzione industriale. globalizzazione e larga parte degli interessi strategici Per quanto riguarda il petrolio — che ricordiamo, italiani: economia, energia, alimentazione, sicurezza, oltre a trasformarsi in combustibile multi-uso, permette internet, comunicazioni, tecnologia, cultura, una conla produzione dei lavorati plastici alla base della maggior dizione che è una grande ricchezza e che rappresenta parte dei manufatti made in Italy — arriva interamente ancora un enorme potenziale per l’Italia, quale nazione via mare a bordo di petroliere (3), mentre il gas allo stato interamente immersa in quello che è stato il Mare Noaeriforme giunge attraverso i gasdotti. Di questi, dei strum degli antichi romani e che oggi può considerarsi quattro attualmente operativi, due attraversano il Mediil nostro «patrimonio liquido». terraneo centro-meridionale e gli ulteriori due in costruzione attraverseranno il Basso Adriatico e il Tirreno (4). L’importanza del dominio marittimo per l’apIl gas allo stato liquido arriva, invece, a bordo delle provvigionamento energetico navi gasiere, che riconvertono la quota parte destinata a essere utilizzata allo stato aeriforme tramite i tre riCom’è noto, l’Italia, — un paese particolarmente gassificatori marittimi ubicati due nel Tirreno setten«energivoro» soprattutto per le esigenze industriali e trionale (5) e uno in nord Adriatico (6). per il riscaldamento delle nostre case — a fronte di una Le petroliere e le gasiere giungono dal Golfo Perlimitata produzione endogena, importa la quasi totalità sico, dai due versanti oceanici africani, dal Mediterradel fabbisogno di petrolio e gas, una situazione che de-
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Percentuale di petrolio (milioni di barili) transitata attraverso i principali chock points mondiali nel 2016 (fonte U.S. Energy Information Administration).
neo orientale e dal mar Nero attraverso i passaggi nevralgici ristretti di Hormuz, Bab El Mandeb (che rappresenta lo snodo più rischioso del quadrante essendo un epicentro dell’insicurezza sub-regionale poiché circondato da territori poco stabili come lo Yemen e il Corno d’Africa), Suez, Gibilterra e gli Stretti Turchi, oltre i quali il riacuirsi della crisi ucraina preoccupa, tra gli altri, proprio il settore energetico. La rilevanza strategica di questi passaggi obbligati è universalmente riconosciuta. Episodi come quello dell’incagliamento della mega-portacontainer Ever Given nel Canale di Suez ne hanno mostrato con chiarezza la vulnerabilità e le relative conseguenze importanti, se non addirittura critiche, anche sulla nostra routine, compresa quella di quanti vivono in aree tipicamente continentali e distanti dal mare, se pensiamo, per esempio, ai prodotti delle grandi multinazionali che si acquistano presso i centri commerciali o che si ricevono direttamente a casa, tramite lo shopping online. In questo contesto rientra anche il processo per la transizione energetica che, tra gli altri, include la produzione di energia green grazie alle precipue caratteristiche dell’ambiente marino, come il vento e le correnti, o lo stesso elemento «acqua» da cui è possibile scindere l’idrogeno, in predicato di diventare una delle maggiori fonti rinnovabili. L’instaurazione di
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nuove infrastrutture offshore e la riconversione di quelle esistenti, di cui la giurisdizione marittima italiana è densamente popolata soprattutto nel versante adriatico, costituisce un’ulteriore gamma di interessi che continueranno a necessitare della relativa protezione ai fini della sicurezza e della prosperità nazionale. Ciò è particolarmente rilevante in prospettiva dell’istituzione della Zona Economica Esclusiva (ZEE) italiana, autorizzata con L. 91/2021.
L’importanza del dominio subacqueo Il dominio marittimo non si limita a tutto ciò che si sviluppa sulla e sopra la superficie del mare. L’importanza di ciò che accade nella parte «invisibile», cioè nel dominio subacqueo — inteso come il complesso della colonna d’acqua, dei fondali e del sottosuolo marini — è in rapida crescita. Ciò è dovuto soprattutto allo sviluppo di tecnologie abilitanti sia per capacità militari sottomarine sempre più sofisticate, sia per lo sviluppo di mezzi in grado di assicurare un più ampio accesso a risorse ittiche, minerarie ed energetiche che si pensavano irraggiungibili fino a poco tempo fa. In particolare, i fondali marini sono diventati sede di nevralgici «corridoi strategici» attraverso cui passano, oltre le condotte per idrocarburi, i cavi sottomarini per le telecomunicazioni e le comunicazioni digitali, che sono cruciali per tutta la nostra realtà
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I concetti di «Mediterraneo allargato» e «sicurezza marittima avanzata» e gli interessi nazionali marittimi
Immagine al periscopio barconi sospetti.
socio-tecnologica che svolgiamo ininterrottamente su internet, in un sol termine la nostra vita. Oggigiorno, infatti, nessuno di noi può più prescindere da tale realtà, basti pensare, una tra tutte, a innovazioni quali lo SPID, il Sistema Pubblico di Identità Digitale, senza il quale non è più possibile accedere a servizi pubblici e amministrativi di primaria e vitale importanza, dall’anagrafe, al fisco, alla prevenzione sociale, fino alla sanità e i concorsi pubblici, per citare i più rilevanti. Non è un caso, per esempio, che la Commissione per l’industria, la ricerca e l’energia del Parlamento europeo ha, di recente, dato il via libera alla bozza della nuova «Direttiva Network and Information Security», la «NIS 2», che, tra gli altri provvedimenti, prevede la difesa dei cavi sottomarini e delle dorsali di reti, in quanto oggetto di possibili atti di spionaggio e azioni sabotanti (7). È, altresì, importante richiamare che il fondo e sottofondo marino sono fondamentali per l’accesso alle «terre rare» («rare» non tanto per la loro disponibilità, per ora, in natura, quanto per la difficoltà nell’estrazione e nella lavorazione), ovvero quei minerali (8) che consentono la produzione, per esempio, sia dei nostri smartphone, tablet, PC, sia degli aerei di ultima generazione e armamenti avanzati. Il dominio subacqueo rappresenta, dunque, una dimensione che, seppur non nuova, è meritoria di una rinnovata attenzione dal momento che la pervasività tecnologica ha riacceso una forte competizione anche in questo dominio.
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Il «Mediterraneo allargato» può in realtà essere considerato come l’effetto del complesso quadro securitario internazionale in cui risiedono gli interessi nazionali marittimi. Secondo un’accezione oramai generalizzata, si tratta di un concetto (9) geopolitico, geostrategico e geoeconomico non vincolabile geograficamente, che presuppone uno stretching dei confini del mar Mediterraneo che valorizza gli interessi nazionali ovunque questi siano presenti affinché possano essere tutelati — e che è quindi circoscritto da un perimetro «dinamico» — attraverso l’espressione di una «sicurezza marittima avanzata», anch’essa un concetto geostrategico con declinazione operativa non vincolabile geograficamente, da proiettare laddove vi è, appunto, un interesse nazionale da proteggere. A oggi, il «Mediterraneo allargato» comprende, oltre l’Europa, il nord Africa, l’area balcanica e caucasica, il Medio oriente, il Golfo Persico, la fascia centro-africana racchiusa dai due versanti oceanici, fino all’area indo-pacifica, cui si è aggiunto anche l’Artico, dove lo scioglimento dei ghiacci ha aperto nuovi scenari in termini di linee di comunicazione marittime alternative e più convenienti, e opportunità per l’accesso alle risorse del dominio subacqueo. Di recente, il «Mediterraneo allargato» è stato al centro dei «Med dialogues» di Roma di inizio dicembre 2021, un ciclo di conferenze organizzate da ISPI (10) in collaborazione con il ministero degli Affari esteri italiano, nell’ambito delle quali sono intervenute, tra gli altri, numerose autorità politiche nazionali e internazionali. In particolare, il ministro della Difesa Lorenzo Guerini ha sottolineato l’importanza di quest’area per la salvaguardia della sicurezza e per la protezione degli interessi strategici dell’Italia, sottolineando poi come il mar Mediterraneo in particolare rappresenti anche uno snodo strategico essenziale per tutta la regione euro-atlantica, essendo un «tessuto connettivo» tra Nord e Sud, e «infrastruttura strategica» tra Oriente e Occidente (11). In generale, gli interessi nazionali comprendono l’insieme di azioni, progetti, ambizioni e obiettivi della nazione che contribuiscono direttamente o indirettamente
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Mappa degli interessi nazionali marittimi nel «Mediterraneo allargato».
Nel concetto di «sicurezza marittima avanzata» posalla prosperità e al successo del Sistema Paese, ovverosia sono ricomprendersi, oltre le attività propriamente opequegli interessi fondamentali per il nostro sistema valorative militari, anche le attività di «costruzione di riale, politico, economico, culturale, militare. Tra essi capacità» (institution/capacity building) a favore dei rientrano: la libertà di navigazione; i connazionali alpaesi partner e la superiorità informativa tramite la col’estero e gli operatori marittimi nazionali; il commercio (incluso il connesso sistema dei trasporti nelle tre dimensioni); le risorse energetiche (incluse le infrastrutture e le condotte); i cavi sottomarini digitali; il posizionamento diplomatico, economico, industriale; la ricerca scientifica. La «sicurezza marittima avanzata» si traduce nel complesso delle azioni abilitanti al conseguimento dei reali obiettivi di sicurezza nazionale, identificandosi in quelle misure intraprese in senso omnidirezionale e omnicomprensivo attraverso le quali vengono salvaguardati gli interessi nazionali. Da qui la correlazione con il Attività di protezione delle infrastrutture energetiche offshore. «Mediterraneo allargato».
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stituzione e disseminazione della MSA, la Maritime Situational Awareness, ovvero la consapevolezza dello stato della situazione marittima, in altri termini, la conoscenza senza soluzione di continuità di tutto ciò che accade sopra, sulla e sotto la superficie marina. Si tratta di un complesso che contribuisce, altresì, al concetto geopolitico del «multilateralismo», inteso quale strumento per lo stabilimento di relazioni internazionali tese ad aumentare la mutua sicurezza e condividere (quindi ridurre) i costi dell’insicurezza.
Il contesto securitario del «Mediterraneo allargato» Oggigiorno, il mare è reso più fragile e insicuro sotto diversi punti vista: dallo sfruttamento incontrollato delle sue risorse, l’inquinamento, le pandemie, gli effetti dei cambiamenti climatici, le contese per l’accesso a risorse che sono sempre meno e disponibili in aree sempre meno libere, le migrazioni irregolari — in un sol termine le cosiddette Non Traditional Security Threat (NTST) (12) — alle attività criminali di qualunque genere (inclusa tanto la pirateria, quanto gli attacchi cibernetici ai mercantili e alle infrastrutture marittime), il terrorismo, fino alle crisi e ai conflitti regionali.
Con particolare riguardo alle NTST, alla luce dello shock sistemico introdotto dalla pandemia da Covid19 e degli evidenti effetti dei cambiamenti climatici, si è riacceso il dibattito internazionale sul livello di coinvolgimento delle Forze armate per fronteggiarne le conseguenze (cfr. l’articolo dell’autore «Le possibili evoluzioni del concetto di difesa del XXI secolo», pubblicato sulla Rivista Marittima 12/19). Ciò poiché, secondo molti think tank, tra cui l’americano «Near East South Asia Center For Strategic Studies» presso la «National Defence Univeristy» di Washington D.C., le NTST — con particolare attenzione al nesso tra scarsità di acqua e cibo (e i loro effetti sui territori, incluso l'innalzamento dei mari per le aree costiere) e l’aumento della povertà, all’origine del fenomeno dei flussi migratori — sono considerate tra le cause principali dell’aumento delle tensioni e dell’insicurezza in molti paesi. Tale condizione rischia, a propria volta, di estendersi ai paesi limitrofi (come è stato nel caso della Primavera Araba), una situazione che rimanda al concetto della «globalizzazione dei fenomeni di insicurezza locale», per cui le crisi a livello locale si riverberano poi a li-
Il «Mediterraneo allargato» oggi.
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vello regionale, se non addirittura mondiale, e in cui le Difese nazionali sono ovviamente in prima linea. Le sfide nel dominio marittimo sono, dunque, molteplici, a cui occorre aggiungere un panorama internazionale che è sempre più multiforme, molto movimentato e soprattutto in continuo divenire. Per quanto di più stretto interesse del contesto securitario della regione mediterranea allargata, il quadro geostrategico è reso instabile, incerto e particolarmente dinamico da una serie di situazioni. Dal conflitto in Libia, le tensioni al confine tra Marocco e Algeria, la situazione di instabilità tunisina, la permanenza della questione della sovranità sul territorio del Sahara occidentale, al quadro securitario del Sahel fortemente degradato e pervaso dalla presenza distribuita di Daesh, cui si aggiungono l’insicurezza del Golfo di Guinea, definito dall’IMB (International Maritime Bureau) hot spot mondiale della pirateria, e del Corno d’Africa, area in cui, oltre l’acclarata presenza terroristica di Al Shabab, la pirateria, seppur sopita, non risulta ancora completamente debellata, mentre permane l’accennata instabilità yemenita e i suoi riflessi su Bab El Mandeb e la crisi in Etiopia legata alla regione Tigray al confine con l’Eritrea. Senza dimenticare, la generale incertezza nell’area balcanica e in Libano, la guerra civile siriana, l’aumento delle competizioni energetiche e territoriali nel Mediterraneo orientale, la citata recrudescenza della crisi ucraina e quella al confine turco-siriano, fino alla instabilità irachena e l’innalzamento della tensione nell’area del Golfo Persico, registrato anche con attacchi a petroliere. Con focus più specifico al bacino mediterraneo, il vigente «Atto di Indirizzo» del Ministro della Difesa segnala che la tendenza geopolitica attuale vede il quadro di sicurezza dell’area mediterranea in costante peggioramento, verso una situazione di progressiva instabilità. Secondo l’Autorità Politica della Difesa, il Mediterraneo — considerata area di prioritario interesse nazionale — è teatro di minacce e rischi che impattano negativamente sugli interessi del paese, siano essi economici o di sicurezza, che «rischiano di chiudere in spazi angusti il Mediterraneo allargato, attraverso il quale passano le nostre vitali linee di navigazione, quale conseguenza di un decennio di crisi, conflitti e radicali trasformazioni dei rapporti internazionali,
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che l’emergenza sanitaria ha accelerato e accentuato nelle conseguenze». Alla luce di ciò, il Ministro ritiene indifferibile l’esigenza di articolare una nuova strategia della Difesa per il Mediterraneo che — di concerto con gli altri ministeri interessati — declini l’uso complementare dei mezzi a disposizione del paese, per contribuire a conferire stabilità a quest’area, a cui sono indissolubilmente connessi i nostri obiettivi di sviluppo e progresso (13). Questa rinnovata attenzione verso il Mediterraneo da parte della classe politica è resa, altresì, evidente nel cosiddetto «Trattato del Quirinale» tra l’Italia e la Francia, sottoscritto a Roma il 26 novembre 2021, nel quale, tra le altre cose, si annette una «priorità fondamentale» alla «stabilità e la prosperità a lungo termine del Mediterraneo per entrambi i paesi, determinati ad agire insieme per la sicurezza, per la promozione dei beni comuni tra le due rive di questo mare e per ripristinare il suo buono stato ecologico». In particolare, con il citato Trattato, Italia e Francia si sono impegnate a sviluppare per il Mediterraneo sinergie e rafforzare il coordinamento su tutte le questioni che influiscono sulla sicurezza, sullo sviluppo socioeconomico, sull’integrazione, sulla pace e sulla tutela dei diritti umani nella regione, e sul contrasto dello sfruttamento della migrazione irregolare, promuovendo un utilizzo giusto e sostenibile delle risorse energetiche (14). A tutto ciò occorre aggiungere il ricorso alla guerra ibrida — che porta la rivalità al limite dello scontro aperto, ma senza mai oltrepassarlo — e al confronto nella cosiddetta «zona grigia», un intreccio che ha alterato, erodendoli, i confini dei conflitti tradizionali, portando la sicurezza domestica e quella internazionale a convergere e a includere nella competizione il dominio ecofin attraverso la dimensione cibernetica, che si pone trasversalmente a tutti gli altri domini, non solo operativi. Questo contesto caratterizza quella che alcuni hanno definito «an era of strategic competition», in cui emerge uno stato di «competizione duratura», ovvero di tensione internazionale permanente, per perseguire, anche attraverso l’adozione di comportamenti particolarmente assertivi, obiettivi specifici indicate nelle varie agende nazionali di politica estera, in cui diventa sempre più complesso tutelare i propri interessi, soprattutto in mare, a causa dei fenomeni della territorializzazione e del law-
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Il “neo-espansionismo marittimo” (fonte Autore).
fare, cioè afferenti a un uso strumentale, a volte spregiudicato, del Diritto internazionale e del Diritto internazionale marittimo più nello specifico. Tali fenomeni, mirando all’appropriazione degli spazi marittimi e delle risorse in essi disponibili, sono presenti, in particolare, anche nel Mediterraneo, un bacino in cui oggi meno del 20% è «libero» da dispute e pretese da parte dei 21 Stati costieri che vi hanno affaccio. In buona sostanza, si tratta di politiche che sono sempre più supportate anche con una crescente presenza di navi da guerra o governative (se pensiamo all’uso di motovedette) i cui comportamenti mettono a rischio comparti per noi strategici come le coltivazioni energetiche offshore e la pesca. Si tratta di una situazione che potrebbe tradursi anche in scenari di area e port denial, ovvero di negazione al diritto di passaggio (15) o alterazione di tutti o parte dei servizi portuali in cui tali comportamenti sono attuati, con conseguenze negative sia sulla sicurezza degli operatori marittimi, sia sull’economia del mare italiana. In tale quadro si inserisce la richiamata recente conclusione dell’iter parlamentare relativo all’istituzione della ZEE italiana (16). La sua dichiarazione mira a stabilire zone in cui la giurisdizione nazionale sia dedicata
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responsabilmente all’economia marittima e all’ordinato svolgimento delle relative attività. Una volta istituita la ZEE, più che di chilometri di coste protese nel Mediterraneo, si dovrà forse parlare di miglia quadre di giurisdizione marittima in termini sia di opportunità, sia di responsabilità nella tutela e protezione del mare e dell’ambiente marino. Al di là del valore del «Mediterraneo allargato» per il nostro sistema economico e produttivo — che in ogni caso consta in circa 32 miliardi di euro pari al 2% del PIL, che sale fino al 5-6% se si considerano i vari moltiplicatori di settore — per il paese, «Mediterraneo allargato» vuol dire prima di tutto navigazione e flussi commerciali «verso» e «tra» Suez, Gibilterra e gli Stretti Turchi. Infatti, senza libertà e sicurezza della navigazione in tale regione, il nostro sistema di import-export, per quanto finora asserito, semplicemente si ferma (17).
Il ruolo della Marina Militare Ed è qui che entra in gioco la Marina Militare, Forza armata deputata, in primis, alla difesa della patria dal mare, sul mare e nel mare, e dei confini nazionali marittimi da potenziali aggressioni militari, essendo per legge «la componente operativa marittima della Difesa
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militare dello Stato, che vigila a tutela degli interessi nazionali e delle vie di comunicazione marittime al di là del limite esterno del mare territoriale» (18). Grazie alla loro naturale connotazione proiettabile, le Forze aeronavali offrono, infatti, rilevanti opportunità nella prevenzione dei conflitti e nello sviluppo della sicurezza e della stabilità regionale, tramite la costruzione della mutua-fiducia, delle capacità marittime dei partner, nello scambio informativo e in quello dello sviluppo di una crescente interoperabilità e intercambiabilità. Si tratta di attività tutte fondamentali per l’interesse e la sicurezza cosiddetta «a distanza», soprattutto dove non è possibile dispiegare truppe sul terreno. Le Forze aeronavali sono anche primario strumento a supporto della politica estera del paese, potendo esprimere il concetto di naval diplomacy, grazie alla quale è possibile ottenere importanti risultati a supporto degli interessi nazionali marittimi in vari campi, dall’economia del mare, tra cui rientra il contributo al posizionamento dell’industria nazionale per la Difesa verso potenziali acquirenti, all’affermazione pacifica della sovranità nazionale, grazie all’innata funzione deterrente espressa dalle «navi grigie». Nel supporto al Sistema Paese rientra anche la homeland security, ovvero la «sicurezza di casa», un am-
bito nel quale la Marina è impegnata, alla stregua delle altre Forze armate, nell’alveo della cosiddetta «quarta missione» inerente i concorsi e compiti specifici in circostanze di calamità, straordinaria necessità e nei campi della pubblica utilità e della tutela ambientale, e nel perimetro del duplice uso sistemico afferente alla moltitudine di compiti non militari. Ne è un esempio il contributo per l’emergenza Covid-19, per cui la Marina Militare, come le altre Forze armate, ha subito messo a disposizione del sistema sanitario nazionale i propri medici, infermieri, personale sanitario e logistico e una serie di strutture come navi con avanzate capacità ospedaliere (come nave Cavour), ospedali da campo, posti medici avanzati, drive through e laboratori per l’analisi dei tamponi. Sempre in questo ambito, rientrano le relazioni con gli altri dicasteri, realtà istituzionali e altre realtà di categoria e sociali. In aderenza alle direttive del Vertice politico-militare, tutto ciò si traduce nel contributo della Forza armata alla «sicurezza marittima avanzata» con un focus prioritario, ma non esclusivo, sul «Mediterraneo allargato», attraverso le operazioni marittime nazionali Mare sicuro, Vigilanza marittima e Vigilanza pesca, l’operazione dell’Unione europea Irini, peraltro sotto Comando operativo di un Ammiraglio italiano, le attività nei Gruppi
Nave RIZZO impegnata in operazione di sorveglianza e sicurezza marittima.
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navali permanenti della NATO nel Mediterraneo e Mar Nero e, in prospettiva, a un ritorno in seno alla Forza marittima dell’ONU della United Nation Interim Force In Lebanon, UNIFIL, davanti al Libano. Al di là degli stretti, la Marina è presente nel Sinai con la quasi quarantennale partecipazione alla Forza multinazionale di Osservatori, nel Golfo di Guinea con l’operazione nazionale antipirateria Gabinia (19), che interagisce con l’analoga iniziativa europea denominata Coordinated Maritime Presence (CMP); nel versante opposto, è presente in Oceano Indiano nell’ambito dell’operazione antipirateria dell’Unione europea Atalanta e dell’iniziativa europea per la sorveglianza dello Stretto di Hormuz denominata EMASOH, un acronimo che significa European Maritime Awareness Strait of Hormuz. Inoltre, vengono effettuate periodiche elongazioni nell’Artico a scopo scientifico. Infine, il personale della Marina è integrato nelle oltre 40 missioni internazionali della Difesa in corso nei vari teatri operativi.
La composizione dello Strumento aeronavale per l’espressione del ruolo della Marina Militare Come ha evidenziato il capo del 3° Reparto Pianificazione e Politica Marittima dello Stato Maggiore della Marina, ammiraglio di divisione Vincenzo Montanaro, in occasione della citata giornata-convegno organizzata dall’ISMM e Centro Studi Marina Militare, «affinché la
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Forza armata possa soddisfare questi obiettivi strategici e operativi è necessario possedere una credibile e flessibile capacità di proiezione dello strumento aeronavale, spiccatamente high-tech, che poggia su tre pilastri fondamentali, ovvero sul gruppo portaerei, centrato sul Cavour e sui nuovi cacciabombardieri a decollo corto di 5^ generazione F-35B, sulla Forza anfibia, entrambi dotati di unità di scorta, sommergibili, supporto logistico e unità specialistiche idrografiche e cacciamine, su una moderna capacità sottomarina e sulle Forze speciali. Questi pilastri riguardanti la composizione dello strumento aeronavale sono potenziati da: enablers operativi; una Difesa integrata antiaerea e antibalistica; fuoco navale di supporto; ingaggio in profondità, cioè a distanze sempre più grandi; armamento di nuova generazione; oltre a capacità per la Difesa cibernetica e accesso allo spazio da piattaforme navali» (20). Si tratta di un obiettivo capacitivo — in corso di attuazione e il cui completamento è previsto entro il 2035 — teso a esprimere capacità esse stesse abilitanti delle multi domain operation, le operazioni multi-dominio, che, andando decisamente oltre il concetto di «interforze», si incentrano più sulle capacità esprimibili e gli effetti da conseguire piuttosto che sul mettere insieme assetti con caratteristiche unidimensionali, implicando un’azione sinergica e integrata per contrastare gli effetti pregiudizievoli la difesa e la sicurezza collettiva, pro-
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dotti in alcuni o tutti i domini operativi, siano essi tradizionali (terra, mare, aria) o trasversali (ciberspazio e spazio extra-atmosferico).
Concludendo Le sfide che attendono il paese, in particolare nel dominio marittimo, impongono alla Marina lo svolgimento di attività di presenza, sorveglianza, vigilanza marittima, deterrenza e diplomazia navale, così come di proiezione di Forza militare a tutela degli interessi nazionali, laddove necessario. Nel complesso contesto descritto, la visione della Forza armata per continuare a mantenere il mare sicuro — ma anche pulito, dato che l’inquinamento marino in tutte le sue forme è esso stesso motivo di insicurezza perché impatta, oltre che sull’ambiente, sulla biodiversità e quindi anche sulla disponibilità e la qualità delle risorse alimentari in primis — è l’imprescindibilità di un approccio nazionale sistemico al dominio marittimo che coinvolga l’intera comunità marittima istituzionale e non, integrata dal mondo dell’industria, ricerca, accademia, scuola, terzo settore e il settore privato (come, per esempio, le associazioni di categoria del cluster marittimo). Quello in atto da parte della Marina Militare è, quindi, in impegno ad ampio spettro, in continuità col passato e proiettato al futuro, nella piena consapevolezza del cruciale ruolo che sono chiamate a svolgere le moderne Marine nella promozione della sicurezza
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marittima, quale fulcro della stabilità trans-regionale e dello sviluppo economico sostenibile, in un’ottica comunitaria e di alleanze internazionali. Volendo tradurre tutto ciò in un «concetto operativo» per la Marina Militare, peraltro già allo studio presso il 3° Reparto dello Stato Maggiore della Marina, esso si baserebbe sulla definizione e lo sviluppo di uno Strumento aeronavale composto da capacità idonee a declinare gli obiettivi di: prontezza attraverso una forma di addestramento credibile; capacità di intervento scalabile (ovvero esprimibile per situazioni operative da bassa intensità, low end, a quelle ad alta intensità, high end); interoperabilità e intercambiabilità in ambito alleanze o consessi multinazionali; capacità di proiezione nelle cinque dimensioni operative; garantire gli effetti desiderati attraverso missioni di vigilanza, sorveglianza, deterrenza; disponibilità di logistica e infrastrutture marittime anche a distanza dalla madrepatria; integrazione multidimensionale nell’ambito dell’approccio nazionale sistemico al dominio marittimo. L’impegno primario continua a essere rappresentato dalla capacità di garantire tanto il supporto alle operazioni multi-dominio, quanto la sicurezza marittima nella sua completa declinazione, in forma autonoma o in coalizione, laddove necessario, a tutela degli interessi nazionali, indipendentemente dai limiti geografici, ma rispondenti a una realtà geostrategica e geopolitica in continuo cambiamento.
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Per tutto questo non si può però prescindere da uno Strumento nazionale militare marittimo flessibile, high-tech, proiettabile e green e, soprattutto, non possiamo prescindere dalle preziosissime risorse umane, indispensabili per portare avanti, nel solco
della tradizione, i più alti valori etici e umani che da sempre permeano la Forza armata in termini di salvaguardia dei diritti umani e degli interessi vitali della nazione, e del rispetto dei principi della legalità internazionale. 8
NOTE (1) Svolta a Venezia presso la sede dell’Istituto il 25 novembre 2021. (2) Pubblicato il 16 settembre 2021, https://www.sace.it/studi/dettaglio/rapporto-export-2021-ritorno-al-futuro-anatomia-di-una-ripresa-post-pandemica. (3) Al riguardo, secondo SRM, il peso dei porti del Mezzogiorno è rilevante sul comparto «energy» di petrolio greggio e raffinato, rappresentando il 47% dei rifornimenti e delle esportazioni petrolifere via mare del paese ed essendo il Mezzogiorno un naturale terminale di importanti condotte dal Nord Africa e dall’Asia. (4) Transmed e Green Stream (Mediterraneo centro-meridionale) Trans Adriatic Pipeline (Basso Adriatico), Gasdotto Algeria Sardegna Italia (GALSI) (Tirreno). (5) Rigassificatori di Panigaglia e Livorno. (6) Il Terminale GNL Adriatico (noto in precedenza anche come Isola di Porto Levante). (7) «Rischi sabotaggio e spionaggio. Scudo Ue sui cavi sottomarini», https://formiche.net/2021/11/cavi-sottomarini-direttiva-nis-2, consultato il 20 novembre 2021. (8) Secondo la definizione dell’International Union of Pure and Applied Chemistry (IUPAC), l’Unione internazionale di chimica pura e applicata, le «terre rare» sono un gruppo di 17 elementi chimici della tavola periodica, precisamente: lantanio, cerio, praseodimio, neodimio, promezio, samario, europio, gadolinio, terbio, disprosio, olmio, erbio, tulio, itterbio, lutezio, scandio e ittrio. Il termine «terra rara» deriva dai minerali dai quali sono stati isolati per la prima volta, che erano ossidi non comuni trovati nella gadolinite estratta da una miniera nel villaggio di Ytterby, in Svezia. In realtà, con l’eccezione del promezio che è molto instabile, gli elementi delle «terre rare» si trovano in concentrazioni relativamente elevate nella crosta terrestre. Pertanto, pur non essendo «rari» in termini di disponibilità in natura (perlomeno finora), risultano tuttavia difficili da estrarre. (9) Non nuovo; è stato coniato agli inizi degli anni 90 tra i banchi dell’IGM. (10) Istituto per gli Studi di Politica Internazionale. (11) https://formiche.net/2021/12/guerini-med-dialogues-2021. (12) Providing Security in Times of Uncertainty Opting for a Mosaic Security System Report of the Global Reflection Group «Monopoly on the Use of Force 2.0?» – Fiedrich Ebert Stiftung. Reperibile su http://library.fes.de/pdf-files/iez/13465.pdf. Vds anche Michael Scrima and Jurgis Vedrickas Eastern Europe Studies Center «Non-traditional threats and NATO A look toward an expanded role for the NATO Alliance» ed. dicembre 2020, reperibile al seguente link: https://www.eesc.lt/wpcontent/uploads/2021/01/Non-Traditional-Threats-and-NATO.pdf. (13) Atto di Indirizzo 2021, reperibile su https://www.difesa.it/Content/Pagine/Linee_Programmatiche_Dicastero.aspx. (14) Formalmente «Trattato tra la Repubblica italiana e la Repubblica francese per una cooperazione bilaterale rafforzata». Reperibile al seguente link: https://www.governo.it/sites/governo.it/files/Trattato_del_Quirinale.pdf. (15) Come occorso, per esempio, nel 2019 a una nave per la prospezione offshore (Saipem 12000) operante per conto di ENI nella piattaforma continentale di Cipro — che aveva rilasciato regolare autorizzazione — allontanata dall’intervento di una unità militare turca. (16) La Rivista Marittima ha dedicato a questo tema il numero 09/2021. (17) P. Casardi «La situazione di sicurezza nel Mediterraneo allargato», RM 06/21. (18) D.Lgs 66/2010, Codice Ordinamento Militare, artt. 110 – 111. (19) Nome che ricorda la «lex Gabinia», appellativo con cui fu denominata la legge voluta dal tribuno Aulo Gabinio che, a seguito del saccheggio del porto di Ostia da parte di alcuni banditi nel 67 a.C., ultimo di una serie di fenomeni largamente diffusi, dichiarava i pirati hostes gentium, «nemici dell’umanità», e garantiva a Gneo Pompeo Magno ampi finanziamenti pubblici e un’autorità senza precedenti per combattere la pirateria e mettere fine al fenomeno. La «lex Gabinia» rese Gneo Pompeo Magno un uomo tra i più potenti di Roma, potendo disporre di 120.000 soldati, 4.000 cavalieri, 270 navi e un fondo di ben 6.000 talenti (1 talento equivaleva a circa 32 kg di argento). Con queste risorse, Pompeo intraprese una serie di operazioni contro i principali bastioni pirata del Mediterraneo, tra cui la Cilicia, Creta, l’Illiria e Delo. (20) Videoregistrazione disponibile al seguente link: https://www.youtube.com/watch?v=tqAr07Sj8Pc.
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PRIMO PIANO
La regione del Corno d’Africa Valenza strategica e presenza militare Michele Cosentino Contrammiraglio (r) del Genio Navale. Ha frequentato l’Accademia navale nel 1974-78 e ha successivamente conseguito la laurea in Ingegneria navale e meccanica all’Università «Federico II» di Napoli. In seguito, ha ricoperto vari incarichi a bordo dei sottomarini Carlo Fecia Di Cossato, Leonardo Da Vinci e Guglielmo Marconi e della fregata Perseo. È stato successivamente impiegato a Roma, alla Direzione generale degli armamenti navali, il segretariato generale della Difesa/Direzione nazionale degli armamenti e lo Stato Maggiore della Marina. Nel periodo 1993-96 è stato destinato al Quartier generale della NATO a Bruxelles; nel periodo 2005-11 ha lavorato al «Central Office» dell’Organisation Conjointe pour la Cooperation en matiere d’Armaments (OCCAR) a Bonn. Nel 2014, è transitato nella riserva della Marina Militare e nel 2016 è stato eletto consigliere nazionale dell’ANMI per il Lazio settentrionale. Dal 1987 collabora con numerose riviste militari italiane e straniere (Rivista Marittima, Storia Militare, Rivista Italiana Difesa, Difesa Oggi, Tecnologia & Difesa, Panorama Difesa, Warship, Proceedings, ecc.) e ha pubblicato oltre 600 fra articoli, saggi monografici, ricerche e libri su tematiche di politica e tecnologia navale, politica internazionale, difesa e sicurezza e Socio del Centro Studi Geopolitca e Strategia Marittima (CeSMar).
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La fregata ALPINO in manovra nel porto di Gibuti. Impegnata sin dal 2005 nelle operazioni antipirateria, la Marina Militare è diventata ormai una presenza costante e affidabile negli spazi marittimi del Corno d’Africa.
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ell’ultimo decennio, la regione del Corno d’Africa ha registrato un aumento sostanziale degli schieramenti militari stranieri, un fenomeno peraltro in essere sin dall’inizio del XXI secolo e che vede protagonisti un’ampia gamma di realtà statuali e non, a livello locale e internazionale. Infatti, alle forze militari — peraltro contenute — delle nazioni presenti nella regione, si aggiunge una nutrita presenza militare straniera, comprendente sia infrastrutture terrestri (basi, porti, piste di atterraggio, campi di addestramento, strutture semi-permanenti e hub logistici),
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sia Forze navali schierate in permanenza e a cadenza periodica in questa strategicamente importante porzione dell’Oceano Indiano occidentale. La valenza marittima dello schieramento militare è, infatti, rappresentata da due elementi correlati: la proliferazione di strutture militari nelle zone costiere lungo il Mar Rosso e il Corno d’Africa e la crescente presenza di Forze navali attorno allo stretto di Bab-el-Mandeb, all’ingresso meridionale del Mar Rosso e nel Golfo di Aden. La motivazione geopolitica di questo fenomeno risiede nella configurazione della regione. Sotto il profilo geografico, il Corno d’Africa è abitualmente associato a quattro entità statuali — Eritrea, Etiopia, Gibuti e Somalia — in cui le condizioni di sicurezza sono inficiate da un elevato livello d’instabilità, dovuta a contrasti sui confini e sulle risorse idriche e alimentari e a rivalità tribali e che nel caso della Somalia hanno portato a una frammentazione del potere politico-militare e alla presenza indisturbata di agguerrite fazioni terroristiche di matrice religiosa. L’unica eccezione a questa regola è Gibuti, nodo di transito marittimo geostrategico fra l’Europa e il continente asiatico e dal cui porto affacciato sul Golfo di Tagiura transitano annualmente da 1.000 a 1.700 unità mercantili, in prevalenza dedicate al trasporto di materie prime energetiche quali petrolio greggio e gas naturale (1). Poiché le Forze militari straniere presenti nell’area operano normalmente in un contesto interforze e anche internazionale, la regione del Corno d’Africa si può definire come uno spazio di sicurezza composto dalle quattro entità statuali citate in precedenza e da nazioni quali Kenya, Seychelles, Sud Sudan e Sudan, in aggiunta ad aree marittime di rilievo quali il Mar Rosso meridionale e i già citati Golfo di Aden e Stretto di Bab-el-Mandeb. Inoltre, i reparti militari stranieri dispiegati al di fuori di questo spazio di sicurezza operano in un contesto extraregionale che parte dal Sahel, abbraccia anche il Golfo Persico e giunge fino ai margini dell’Oceano Indiano occidentale, ma lavorano a stretto contatto con altre forze e infrastrutture fisicamente presenti nel Corno d’Africa. Pertanto, pur avendo concentrato l’analisi di quest’ultimo complesso di risorse su questa regione, non si devono disconoscerne sia i legami con quella del Golfo Persico,
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Mappa generale, risalente al 2019, della regione del Corno d’Africa (e del Golfo Persico) in cui sono rappresentate le principali infrastrutture presenti a Gibuti e nelle nazioni limitrofe, nonché le numerose Forze navali multinazionali operanti nei teatri marittimi (H. Ahlenius, Nordpil).
sia la sua appartenenza al più ampio contesto del Mediterraneo allargato: l’analisi è stata eseguita rispettando l’ordine alfabetico, dando priorità alle nazioni che a Gibuti dispongono di strutture fisse.
Le mosse di Riad Grazie anche alla sua lunga costa occidentale sul Mar Rosso, l’Arabia Saudita ha notevolmente aumentato la sua presenza militare nel Corno d’Africa, legata al conflitto nello Yemen, dove Riad opera contro i ri-
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belli sciiti Houti. Reparti militari sauditi erano inizialmente basati a Gibuti, ma dopo la rottura delle relazioni diplomatiche fra quest’ultima Repubblica e gli Emirati Arabi Uniti (2015), l’Arabia Saudita ha cercato altre opportunità altrove, in particolare nel porto di Assab in Eritrea, nonché potenziando il proprio dispositivo militare incentrato su Jeddah. Nel 2016, l’Arabia Saudita ha concluso un accordo di sicurezza con Gibuti, finalizzato alla realizzazione di una base militare, aperta solamente nella primavera del 2021; la consistenza
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delle Forze militari ivi dispiegate non è nota, ma è presumibile che la loro funzione si sostanzia al supporto tattico e logistico per i reparti in azione nello Yemen, al largo del quale l’Arabia Saudita ha mantenuto una significativa presenza navale.
La presenza francese La Francia è presente a Gibuti sin dall’istituzione del protettorato risalente al 1883-87. Dopo l’indipendenza ottenuta da Gibuti nel 1977, Parigi ha mantenuto diverse infrastrutture e una discreta guarnigione militare, evolutasi nelle «Forces Françaises stationnées à Djibouti», FFDJ e che rappresenta il più grande contingente permanente di forze francesi nel continente africano. La presenza delle FFDJ rientra nel trattato di cooperazione per la difesa tra la Francia e la Repubblica di Gibuti, in vigore dal 1o maggio 2014, dopo che il Libro Bianco della Difesa e Sicurezza del 2013 aveva assegnato una valenza strategica alla presenza permanente di Forze militari nella regione. Nel tempo, il numero dei militari francesi ivi dislocati è diminuito da 4.300 nel 1978 all’attuale livello di circa 1.450, inquadrati nel 5o Reggimento interforze d’oltremare, di cui fa parte un distaccamento di forze speciali su base periodica e un’aliquota di mezzi blindati: a Gibuti vi è inoltre una base aerea con velivoli ed elicotteri da combattimento e da trasporto, una base navale e un centro d’addestramento per le operazioni in ambiente desertico. Le infrastrutture vere e proprie sono situate a nord dell’aeroporto internazionale di Gibuti-Ambouli, mentre la base navale si trova a Hèron, nella zona settentrionale del porto, in una posizione defilata rispetto alle banchine normalmente impiegate da unità navali di altre nazioni in azione o in transito nella regione. A Hèron sono distaccati circa 60 militari della Marine Nationale, per dare assistenza alle circa 50 navi da guerra francesi (fra cui anche sottomarini d’attacco a propulsione nucleare) in sosta ogni anno a Gibuti e a fornire protezione diretta su specifiche unità navali; la sicurezza
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Unità navali della Marina francese nella base navale di Hèron nella zona settentrionale del porto di Gibuti (Comando FFDJ). In alto: la componente navale delle «Forces Françaises stationnées à Djibouti», FFDJ, comprende circa 60 militari per dare assistenza alle circa 50 navi da guerra della Marine Nationale (qui inquadrata la fregata GEORGES LEYGUES) in transito e in sosta ogni anno a Gibuti, nonché a fornire protezione diretta su specifiche unità navali (Comando FFDJ).
della struttura è responsabilità di ulteriori 30 militari specializzati e dispiegati a rotazione. Il compito principale delle FFDJ riguarda l’impiego in caso di crisi nel Corno d’Africa e nelle sue adiacenze, compreso il dispiegamento nell’Oceano Indiano e nell’intero Medio Oriente, con un reparto di pronto intervento responsabile della protezione di cittadini e interessi francesi nell’area; fra i compiti delle FFDJ vi sono anche la difesa della sovranità territoriale di Gibuti, il supporto alle operazioni NATO e UE nell’area — in primis quelle connesse al contrasto della pirateria marittima — e la protezione dei traffici commerciali marittimi. La base francese ospita periodicamente anche distaccamenti militari spagnoli (2), nonché lo staff logistico dell’operazione UE «Atalanta». A carico
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La regione del Corno d’Africa, valenza strategica e presenza militare
delle FFDJ sono anche le attività addestrative a favore di Forze militari di alcune nazioni africane e il supporto alle operazioni multilaterali e bilaterali condotte in Africa e a cui partecipa Parigi (3).
Dalla Germania e dal Sol Levante Fra i contingenti permanenti di consistenza contenuta che stazionano a Gibuti vanno annoverati quelli di Germania e Giappone. Il personale tedesco non supera normalmente 80 elementi ed è ospitato nelle stesse infrastrutture di quello francese, testimoniando dunque anche nel Corno d’Africa un’alleanza politico-militare radicata nel cuore del Vecchio Continente. La Germania è coinvolta militarmente nella regione sin dal 2011, dai tempi dell’inizio delle operazioni contro le organizzazioni terroristiche di matrice islamica, ma la sua attenzione si è poi concentrata sull’operazione «Atalanta», con il dispiegamento non permanente di un velivolo da
pattugliamento marittimo P-3C «Orion», utilizzato essenzialmente per missioni di sorveglianza e ricognizione. La presenza del Giappone a Gibuti risale a tempi più recenti di quella tedesca, ma ha assunto una dimensione più ampia. A partire dal 2009, unità navali giapponesi partecipano regolarmente alle operazioni antipirateria del Golfo di Aden, supportate da due velivoli basati nel comprensorio statunitense di Camp Lemonnier, esaminato più avanti. Nel 2011, per la prima volta dopo la Seconda guerra mondiale e a seguito di alcuni provvedimenti legislativi approvati dal parlamento di Tokyo, Forze militari giapponesi sono basate in permanenza in una nuova infrastruttura situata a ovest rispetto a quella francese, dotata di hangar e in grado di ospitare circa 200 militari. Col passare del tempo, le funzioni e le dimensioni della base giapponese si sono evolute oltre il mandato iniziale per comprendere anche l’assistenza e il soccorso a cittadini giapponesi vittime di attacchi terroristici e di violenze tribali (4) e al personale nipponico impegnato nella missione ONU nel Sud Sudan. Negli anni scorsi, in virtù di una postura più attiva assunta da Tokyo in tema di difesa e sicurezza anche al di là dei confini nazionali, la base giapponese a Gibuti è stata ampliata al fine di potenziarne le capacità di supporto militare e addestrativo: tuttavia, a causa delle limitazioni tuttora presenti nella Costituzione nipponica e al di là di un miglioramento qualitativo delle risorse aeree destinate alle operazioni antipirateria, la presenza nipponica a Gibuti assume un valore più politico che militare e s’inserisce nel contesto della cooperazione strategica con gli Stati Uniti e delle misure per controbilanciare la penetrazione in Africa della Repubblica Popolare Cinese (5).
La BMIS italiana
L’ex ministro della Difesa giapponese, Tomoni Inada, ripresa durante una visita alla base nipponica a Gibuti, svoltasi nella primavera del 2017. Il contingente militare giapponese è formato da circa 200 militari (Japan MoD). In alto: pattugliatori marittimi P-3C «Orion» della Marina giapponese schierati a Gibuti e impiegati per la sorveglianza antipirateria delle principali linee di comunicazione marittima della regione (JMSDF).
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La prima missione militare italiana per il contrasto alla pirateria marittima risale al 2005, quando il pattugliatore di squadra Granatiere fu inviato al largo della Somalia in una missione all’epoca denominata «Mare sicuro» (6). Dopo che l’impegno della Marina Militare nella regione del Corno d’Africa, inquadrato nell’operazione «Atalanta», divenne praticamente continuativo, nel 2013 fu costituita la Base Militare Italiana di Supporto, BMIS, con la scelta di Gibuti motivata dal fatto che l’area è un crocevia strategico per le linee di co-
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municazione marittima che dal Mediterraneo sono dirette, attraverso il Canale di Suez, verso il Golfo Persico, il Sud Est asiatico, il Sudafrica e viceversa. Anche la BMIS è situata nei pressi dell’aeroporto internazionale di Gibuti-Ambouli, a ovest rispetto a Camp Lemonnier, ed è stata intitolata al tenente Amedeo Guillet (7): in grado di ospitare fino a 300 effettivi e al comando di un colonnello o di un capitano di vascello, la base è impegnata soprattutto al supporto delle operazioni aeronavali nella regione del Corno d’Africa, nonché a soddisfare le esigenze logistiche degli assetti nazionali in transito sul territorio di Gibuti e a quelli impegnati in operazioni nell’area (8). Fra le attività della BMIS vanno ricordati l’addestramento delle Forze di polizia di Gibuti, a cura di un contingente di Carabinieri e l’impiego, a cura di un reparto dell’Aeronautica Militare, di velivoli a controllo remoto MQ1 «Predator» per la sorveglianza aeronavale.
L’avamposto del Dragone
La targa all’ingresso della Base Militare Italiana di Supporto (BMIS) a Gibuti, costituita nel 2013 e intitolata al tenente MOVM Amedeo Guillet (difesa.it). In alto: personale dell’Esercito italiano della BMIS prepara un’operazione militare. La base può ospitare fino a 300 effettivi ed è soprattutto impegnata al supporto delle operazioni aeronavali nella regione del Corno d’Africa (difesa.it). Al centro: due ufficiali della fregata BERGAMINI illustrano le sistemazioni della plancia al personale della Guardia costiera gibutiana; la diplomazia navale è uno dei compiti affidati alla Marina Militare in azione nelle acque del Corno d’Africa.
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Sebbene la Repubblica Popolare Cinese avesse avviato relazioni commerciali con nazioni africane già alcuni decenni orsono, una svolta significativa politico-militare è maturata nel 2008, con l’inizio delle missioni antipirateria nel Golfo di Aden e con il mantenimento di una presenza navale ininterrotta nella regione del Corno d’Africa che ha avuto come corollario strategico l’apertura, ad agosto 2017, della base militare a Gibuti. Nel 2011, l’importanza di un caposaldo nella regione era divenuto evidente, quando fu necessario evacuare via mare e per via aerea 35.000 cittadini cinesi bloccati in Libia; a maggior ragione, Gibuti assunse un significato strategico nel 2015, quando la Marina cinese evacuò 500 cittadini dallo Yemen, impiegando una fregata e il porto gibutino per rimpatriarli. La base militare cinese a Gibuti è ufficialmente impiegata per il supporto logistico agli impegni dei reparti militari di Pechino coinvolti nelle missioni antipirateria e di peacekeeping in ambito ONU, nonché per la protezione delle crescenti risorse umane e infrastrutturali che la Repubblica Popolare Cinese ha creato e sta creando oltremare, nell’ambito della direttrice marittima dell’iniziativa politica meglio nota come Belt & Road Initiative (BRI). Situata a occidente del centro urbano di Gibuti, la base militare cinese si trova a ridosso della zona portuale
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La cerimonia di inaugurazione della base militare della Repubblica Militare Cinese, avvenuta nell’agosto 2017: prevalente la presenza di divise bianche (Xinhua). In alto: la cartina mostra i tre progetti di sviluppo finanziati da Pechino sul territorio gibutiano al fine di facilitare la realizzazione della propria base militare: si tratta della ferrovia fra Gibuti e l’Etiopia, di un centro per la raccolta di informazioni governative e delle infrastrutture portuali a Doraleh (OpenStreetMap & ESA Sentinel).
di Doraleh, in cui sono in corso lavori di potenziamento infrastrutturale finalizzati alla creazione di una vera e propria base navale in grado di ospitare anche portaerei: le immagini satellitari mostrano edifici per lo stoccaggio di combustibile, armamenti e munizioni, oltre che officine di manutenzione per unità navali e velivoli, mentre la presenza di altre aree edificabili suggerisce che la base potrebbe ospitare fino a 10.000 militari. La sorveglianza satellitare e diversi elementi provenienti da fonti cinesi
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non classificate evidenziano alcune delle capacità e delle potenzialità della base cinese di Gibuti, per esempio depositi sotterranei di combustibile e munizionamento, una pista lunga 400 metri, diversi hangar e una torre di controllo, una decina di edifici adibiti ad alloggi, due vie d’accesso alla base e un perimetro di sicurezza multiplo. Appare evidente che la base cinese a Gibuti rientra nel quadro del potenziamento infrastrutturale intrapreso da Pechino a partire dal Mar Cinese Meridionale e proseguito lungo l’Oceano Indiano, teatro marittimo di una crescente presenza militare cadenzata lungo il cosiddetto «filo di perle», di cui fanno parte anche strutture in Birmania, Pakistan e Sri Lanka e, potenzialmente, altre nazioni africane, un potenziamento finalizzato a far assurgere la Repubblica Popolare Cinese nel breve-medio termine a potenza marittima interregionale e successivamente globale (9).
Gli Stati Uniti a Camp Lemonnier e altrove Gli Stati Uniti sono calati in forze a Gibuti dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, con l’obiettivo di combattere la minaccia terroristica in prossimità delle possibili aree stanziali del nemico. Proprio al 2001 risale la realizzazione di Camp Lemonnier, diventata una base expeditionary dell’US Navy e successivamente sede della «Combined Joint Task Force-Horn of Africa»,
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CJTF-HOA, avente responsabilità operativa e d’intervento su Gibuti, Eritrea, Etiopia, Kenya, Seychelles, Somalia e Sudan, nonché di operazioni condotte pure nelle isole Comore e Mauritius e in Liberia, Ruanda, Tanzania e Uganda (10). Nel corso della sua esistenza, Camp Lemonnier è stata ampliata e potenziata in relazione al crescente coinvolgimento, anche di natura «covert», di reparti militari statunitensi nella regione del Corno d’Africa e in quelle limitrofe. Situate a ridosso dell’aeroporto internazionale di internazionale di Gibuti-Ambouli (la cui pista è stata adattata per le operazioni dei principali velivoli da trasporto dell’USAF), le infrastrutture sono distribuite in una superficie di 500 acri, estesa fino alla costa orientale di Gibuti e tale da permettere anche le operazioni con i mezzi da sbarco a cuscino d’aria in dotazione a tutte le unità anfibie dell’US Navy. Gli alloggi e le relative sistemazioni logistiche possono accogliere su base permanente circa 4.000 militari inquadrati nel CJTFHOA, anche se è verosimile che in circostanze particolari Camp Lemonnier ospiti un maggior numero di persone, soprattutto quando sono in corso operazioni di natura particolare. In effetti, la base è stata concepita per accogliere un’ampia Foto satellitare di Gibuti in cui sono indicati i perimetri approssimativi di alcune infrastrutture di nazioni straniere, in particolare Stati Uniti (Camp Lemonnier, in giallo), Francia (la base aerea in gamma di reparti terrestri, aerei e navali, prossimità dell’aeroporto internazionale e quella di Chabelley, in viola), il comprensorio giapponese (in verde) e la base militare della Repubblica Militare Cinese (in località Doraleh, in rosso) compreso il rischieramento di velivoli da (Google Earth). In alto: una foto aerea degli hangar e del piazzale principale dell’aeroporto di Chabelley, dove sono visibili numerosi velivoli a controllo remoto; la base è impiegata da Stati combattimento F-15E e F-16, avioci- Uniti, Francia e Italia (SIRPA, FFDJ). sterne e altre risorse impegnate in operadel Joint Special Operations Command, JSOC, e della zioni condotte nello Yemen e nel Sud Sudan. CIA: sorta in poco tempo in un ambiente desertico isoFisicamente separata da Camp Lemonnier e situata lato e perciò facilmente controllabile, la base dispone a sudovest di quest’ultima, ma sempre in territorio gidi una pista lunga circa 2 chilometri e risulterebbe salbutiano, vi è la base aerea di Chabelley, un’infrastruttuariamente utilizzata anche da UAV francesi e italiani, tura aggiuntiva resasi necessaria per soddisfare i ma non sono note le sue capacità logistico-alloggiative. requisiti sempre crescenti di ricognizione e strike conIl collegamento comunque esistente fra Chabelley e tro obiettivi sensibili nella regione. Di conseguenza, la Camp Lemonnier ha reso quest’ultima il fulcro di base è diventata la sede degli UAV «Predator» e «Reaun’architettura operativa di sorveglianza e strike estesa per», spesso impegnati in operazioni sotto il controllo
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I dromedari condividono con un Hover Craft dei Marines statunitensi la spiaggia che funge da confine orientale alla base di Camp Lemonnier, la più grande esistente a Gibuti (US Navy).
in tutto il continente africano, oltreché fungere da hub alternato per le operazioni aeree nel Golfo Persico. Poiché le forze speciali statunitensi operano in tutta la regione del Corno d’Africa, in nazioni prossime a Gibuti sono state realizzate basi operative avanzate, strutture militari con un piccolo contingente statunitense permanente (militari e/o contractors) e attrezzature preposizionate, ma che possono essere rapidamente ampliate per operazioni protratte nel tempo. Distribuite anche in regioni africane lontane dal Corno d’Africa, queste basi sono denominate «Cooperative Security Locations», CSL, e il loro impiego non è ovviamente pubblicizzato come avviene per Camp Lemonnier: in Kenya, esiste da 2004 Camp Simba, una struttura costiera a Manda Bay dotata anche di un aeroporto idoneo alle operazioni dei C-130 e che ospita normalmente circa 250 militari (11). In Somalia, nella zona meridionale del Basso Scebeli, è invece situato Camp Baledogle, 60 miglia a nordovest di Mogadiscio, una base area realizzata per contrastare, con operazioni a cura di UAV, soprattutto le organizzazioni terroristiche fondamentaliste islamiche e per addestrare le forze speciali somale: di conseguenza, la base è stata oggetto di attacchi che sembrano tuttavia non averne scalfito le capacità. Anche in Etiopia vi è una presenza militare statunitense permanente, a Camp Gilbert, a Dire Daua, non distante da Gibuti e anche in questo caso per
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l’impiego di UAV per sorveglianza e strike contro obiettivi legati al terrorismo fondamentalista.
Proiezione nel Mar Rosso e oltre Nella regione del Corno d’Africa non poche sono le nazioni che per motivi di geografia, opportunità politicomilitare e indisponibilità di spazio hanno fatto ricorso a forme di presenza sul campo differenti da una base permanente nell’ormai affollata Gibuti. L’Egitto di al-Sisi si pone come baluardo contro l’estremismo islamico, rafforzando le Forze navali, mantenendo il controllo sul Canale di Suez e inaugurando nel 2017 un nuovo quartier generale per l’aliquota della flotta destinata a operare nel Mar Rosso e a cavallo dello Stretto di Bab-el-Mandeb, d’interesse strategico per Il Cairo. Rilevante anche il coinvolgimento nel conflitto yemenita, a cui la Marina egiziana partecipa con il blocco dei porti dello Yemen, soprattutto per contrastare il contrabbando d’armi via mare di provenienza iraniana. Più discreta rimane la presenza di Israele, con due piccoli distaccamenti della Marina a Massaua (Eritrea), in Etiopia e sulle isole Dhalak, a supporto delle stazioni di ascolto e raccolta d’informazioni che monitorano i movimenti delle forze iraniane nella regione, soprattutto verso le coste yemenite (12). Dopo la rottura delle relazioni diplomatiche con Gibuti (2015), gli Emirati Arabi Uniti hanno costruito una pro-
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La fregata russa ADMIRAL GRIGOROVICH in banchina a Port Sudan. Mosca sta negoziando con il governo sudanese per la realizzazione di una base stanziale sulla sponda occidentale del Mar Rosso (Al-Arabya).
pria base militare ad Assab, in Eritrea, dotandola di un aeroporto, ampliando le infrastrutture portuali e realizzando le infrastrutture logistiche per ospitare reparti terrestri alquanto consistenti nonché velivoli da combattimento con cui operare sul fronte yemenita. Negli ultimi anni, la proiezione militare emiratina si è concretizzata anche attraverso la riattivazione e il potenziamento delle infrastrutture di Berbera, nel Somaliland, a suo tempo costruite dall’ex Unione Sovietica e poi abbandonate. La disponibilità economica e gli accordi politici — avversati dal governo di Mogadiscio — permettono agli EAU di finanziare anche programmi di assistenza alle entità simil-statuali somale che condividono gli obiettivi politici di Abu Dhabi: importante è anche una presenza militare sulle isole di Socotra e di Perim, funzionale alle operazioni nello Yemen, ma di cui non è nota l’entità. Alle infrastrutture sulla costa sudanese sono molto interessate la Turchia e la Russia, con Ankara peraltro già presente a Mogadiscio dal 2017 con una base militare presidiata da 200 militari e formalmente dedicata all’addestramento del personale somalo: un accordo politico fra Turchia e Sudan siglato nel 2017 e di durata venticinquennale prevede fra l’altro la costruzione di un’infrastruttura portuale sull’isola di Sawakin, nei pressi del confine con l’Egitto, utilizzabile da naviglio mercantile e militare e possibilmente associata a capacità aeree. Nonostante An-
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kara neghi le accuse di espansionismo militare, la mossa turca s’inquadra in un processo di proiezione politica extra-mediterranea, in direzione dell’Oceano Indiano e del Golfo Persico, giustificato dalla partecipazione della Marina turca alle operazioni antipirateria nel Golfo di Aden e nelle aree marittime limitrofe. Le rivendicazioni geopolitiche di Ankara sono sgradite all’Egitto, all’Arabia Saudita e agli EAU, nazioni a cui si contrappone un fronte comprendente, oltre alla Turchia, Iran e Qatar (13). A una politica militarmente assertiva nella regione del Corno d’Africa non si poteva ovviamente sottrarre Mosca, ricordando forse il ruolo ivi giocato a cavallo del 1980. Sebbene la presenza navale russa nelle operazioni antipirateria marittima sia stata a carattere non permanente, negli anni scorsi non rare sono state le soste a Gibuti di unità navali russe. Le manovre politiche di Mosca si sono concretizzate nel 2020, con la firma di un accordo generale di cooperazione venticinquennale con il Sudan che, oltre a prevedere massicci interventi di natura «civile», comprende anche la creazione di una base navale a Port Sudan, dove peraltro navi russe hanno sostato in passato durante il trasferimento dal Mar Nero all’Oceano Indiano e viceversa. Tuttavia, nell’estate 2021 sono circolate voci — peraltro minimizzate da Mosca — di una revisione dell’accordo su insistenza delle autorità sudanesi; in attesa di chiarimenti in merito, è possibile soffermarsi su due
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aspetti: il primo riguarda l’urgenza per il Sudan di cospicui aiuti finanziari esterni che ne possano sollevare l’economia e la società, distrutte da anni di tribolazioni e lotte tribali e religiose (14). Il secondo aspetto è relativo alla possibilità per Mosca di seguire un approccio non dissimile da quello usato in Siria, con una base a Port Sudan dapprima utilizzata dalla Marina russa solamente per scopi tecnico-logistici e ricreativi, con una presenza di personale inizialmente limitata a 300 uomini, ma successivamente incrementata in accordo con il potenziamento militare della base stessa, destinata a diventare in prospettiva una bolla A2/AD (Anti Access/Area Denial) non dissimile da strutture similari già esistenti a Tartus, in Crimea e altrove.
La dimensione marittima «allargata» Ormai da vent’anni, le aree marittime che bagnano il Corno d’Africa rappresentano lo scenario d’azione di diverse operazioni aeronavali a livello multinazionale o per iniziativa di determinate nazioni. Si è più volte accennato all’operazione «Atalanta» a guida UE a cui la Marina Militare contribuisce in maniera regolare, così come accadeva con l’operazione «Ocean Shield», a cura della NATO e conclusa nel 2016: l’operazione aeronavale più consistente è la Combined Maritime Forces, CMF, iniziativa a guida statunitense avviata nel 2002 (15) e avente come obiettivi il contrasto al terrorismo, la prevenzione della pirateria marittima, il rafforzamento della cooperazione regionale e la realizzazione di un ambiente marittimo sicuro. La CMF opera tre Gruppi navali multinazionali distinti: la Combined Task Force 150, CTF 150, con compiti antiterrorismo e sicurezza marittima nel Golfo di Aden e al largo dell’Oman; la CTF 151, responsabile dell’antipirateria marittima; e la CTF 152, con compiti analoghi alla CTF 150, ma a cavallo dello Stretto di Hormuz. L’architettura delle CMF è tale che diverse nazioni hanno reso, e rendono, disponibili, numerose unità navali in azione nel Mar Rosso, nel Golfo di Aden e in quello dell’Oman, nel Golfo Persico e nel Mar Arabico settentrionale: fra le Marine collaboratrici maggiormente assidue vi sono quelle di Australia, Corea del Sud, Turchia, Giappone e Pakistan, mentre una menzione a parte è necessaria per la Royal Navy. Oltre ad avere un contingente ospite di Camp Lemonnier, l’attenzione di Londra è maggiormente concentrata nel Golfo Persico,
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mediante la partecipazione alle CMF, l’attivazione di due basi navali in Oman (a Doqum) e Bahrein, la presenza di un Gruppo navale permanente di contromisure mine nel Golfo Persico e la partecipazione all’operazione «Sentinel», iniziativa politico-militare avviata qualche anno fa dagli Stati Uniti per assicurare la protezione del traffico commerciale della regione, ultimamente messo a rischio da manovre apparentemente occulte, ma attribuite da molti osservatori all’Iran. Da parte sua, Teheran ha cercato di ottenere una base navale permanente in Mar Rosso e nel Golfo di Aden, con l’obiettivo di accrescere la sua influenza regionale e aprire un nuovo fronte di «contenzioso navale» con le monarchie filoccidentali sfruttando anche il conflitto nello Yemen: durati fino al 2015, i tentativi non hanno portato a nulla di concreto, con l’eccezione del transito occasionale di naviglio militare nel Mar Rosso e con l’invio, anch’esso occasionale, di un paio di unità navali per le operazioni antipirateria (16). Assai più attiva in tal senso è la Marina indiana, che pur non disponendo di basi permanenti già da tempo dispiegava un’unità navale per missioni antipirateria, una funzione progressivamente ampliata nella qualità e nella quantità con la crescente presenza navale cinese nella regione del Corno d’Africa e che ha portato a un accordo con l’Oman per l’uso del porto di Doqum (17).
Considerazioni conclusive Nell’ultimo decennio, l’incremento della presenza militare a Gibuti, compresa l’apertura della base cinese, ha esaltato la valenza strategica della regione del Corno d’Africa, attirando una considerevole attenzione verso aspetti geopolitici di cui fanno parte anche presenze militari sulle coste del Mar Rosso, della Somalia e del Kenya, in un contesto a spiccata connotazione marittima. Come già accennato, le tendenze in atto nel Corno d’Africa sono strettamente correlate con quelle del Golfo Persico e alle operazioni delle CMF e di EUNAVFOR «Atalanta», tendenze da cui è possibile derivare l’atteggiamento di determinate nazioni: gli Stati Uniti e la Francia sono molto attivi e presenti in entrambe le regioni, con diramazioni importanti in profondità nell’Oceano Indiano quali Mayotte e La Rèunion per Parigi, Seychelles e Diego Garcia per Washington e Londra: quest’ultima mantiene un profilo basso nel Corno d’Africa, ma è molto
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attiva nel Golfo Persico nel quadro della proiezione verso l’Indo-Pacifico manifestata anche con il dispiegamento del Gruppo portaerei incentrato sulla Queen Elizabeth. Importante rimane anche l’azione dell’Italia, con la BMIS e la costante partecipazione ad «Atalanta» quali testimonianze dell’importanza attribuita al mantenimento della stabilità in un’area strategica per gli approvvigionamenti energetici del nostro paese. Alla luce degli eventi più recenti, le minacce prioritarie non sembrano più derivare dalla pirateria marittima, peraltro da non sottovalutare, ma per il cui contrasto e sradicamento più o meno permanente è forse necessario trovare una soluzione diversa dal mantenimento all’infinito nella regione di Forze aeronavali e non di secondo piano. Piuttosto, quello che preoccupa è l’atteggiamento di alcuni attori «turbolenti», statuali e non, che minacciano il regolare flusso dei traffici commerciali marittimi e la stabilità politica della regione: per fortuna e a parte la guerra civile nello Yemen, non vi sono state situazioni conflittuali fra le varie e numerose Forze militari presenti nel Corno d’Africa, anche
perché la realizzazione delle basi e il dispiegamento dei contingenti è avvenuto secondo un approccio cooperativo nei confronti di una gamma di minacce non tradizionali, quali appunto la pirateria marittima, altri crimini legati all’ambiente marittimo, l’evacuazione di connazionali e l’assistenza umanitaria alle popolazioni civili. Tuttavia, l’attenzione sugli sforzi congiunti per promuovere la sicurezza regionale è passata in secondo piano di fronte alla tragedia afghana maturata ad agosto 2021 e all’attivismo manifestato nella regione del Corno d’Africa da soggetti — Cina e Russia in primis — spesso interessati alla competizione geopolitica, commerciale e militare, più volte con effetti negativi per la stabilità regionale. Pertanto, è imperativo migliorare la cooperazione regionale al fine di gestire queste tensioni e concorrenze emergenti, in particolare quelle derivanti dalla presenza di forze straniere, attraverso un’attenta opera di sorveglianza, presenza e dissuasione che riguarda quest’importante porzione del Mediterraneo allargato, scacchiere d’importanza primaria negli scenari strategici del XXI secolo. 8
NOTE (1) Il porto di Gibuti gestisce ogni anno 932 mila TEU (unità di misura per container «twenty-foot equivalent», cioè lunghi 20 piedi, pari a 6 metri), che corrispondono a più di 20 milioni di tonnellate di merce. (2) La consistenza del personale militare spagnolo è mediamente di 50 elementi, a supporto di navi e velivoli delle due nazioni periodicamente impegnati in «Atalanta». (3) Fra esse, la più importante è stata l’operazione «Barkhane», iniziata nel Sahel nel 2014 e in corso di chiusura, con un impegno massimo di circa 5.000 militari francesi. Da ricordare che oltre a Gibuti, la Francia schiera Forze militari nell’Oceano Indiano e nel Golfo Persico. Dall’indipendenza di Gibuti, il numero di militari francesi ivi stazionali è passato da 4.300 nel 1978, a 2.400 negli anni Duemila, giungendo fino agli attuali 1.450 previsti dal trattato stipulato nel 2011 con Parigi. (4) Nel 2013, la base giapponese fu usata per il soccorso ai civili nipponici vittime di un attacco a un giacimento di gas in Algeria, mentre nel 2016 funse da hub operativo per l’evacuazione di cittadini giapponesi dal Sud Sudan. (5) Oltre a supportare l’operazione «Atalanta», i militari tedeschi di stanza a Gibuti operano a sostegno dell’operazione «Enduring Freedom». Il personale militare nipponico presente a Gibuti svolge anche funzioni di supporto alle operazioni antipirateria e di addestramento per forze militari di Nazioni africane nella regione del Corno d’Africa. (6) La missione «Mare sicuro» condotta dal Granatiere nel 2005 non deve essere confusa con l’operazione «Mare sicuro» avviata dalla Marina Militare il 12 marzo 2015 nel Mediterraneo centrale a seguito dell’evolversi della crisi libica e tuttora in corso. (7) Noto anche come «Comandante Diavolo», Amedeo Guillet era un ufficiale di cavalleria del Regio Esercito, distintosi in Africa Orientale. Trasferitosi nello Yemen dopo la resa delle forze militari italiane nell’ex-Africa Orientale Italiana, Guillet riuscì a rientrare in Italia e dopo l’avvento della Repubblica, lasciò l’Esercito Italiano per iniziare una carriera diplomatica che lo avrebbe portato a ricoprire la carica di ambasciatore in Marocco e in India. Il 2 novembre 2000, il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi conferì ad Amedeo Guillet la Gran Croce dell’Ordine Militare d’Italia: il «Comandante Diavolo» si è spento a Roma il 16 giugno 2010, alla veneranda età di 101 anni. (8) https://www.difesa.it/OperazioniMilitari/op_intern_corso/BMIS/Pagine/default.aspx. Attualmente la consistenza massima annuale autorizzata dall’Italia per il contingente nazionale impiegato nella BMIS è di 117 militari e 18 mezzi terrestri. (9) Michele Cosentino, Il Potere Marittimo della Repubblica Popolare Cinese nell’era della globalizzazione, Supplemento Rivista Marittima, novembre 2021. La Cina ha acquisito il 25% del porto multifunzionale e commerciale di Doraleh, con un investimento di 590 milioni di dollari e costruito dalla China State Construction Engineering. Nella base militare cinese è presente una compagnia di fucilieri di Marina e circa ulteriori 400 militari con compiti operativi, tecnici e logistici: tuttavia, la base ha una capacità alloggiativa di circa 2.000 militari. (10) Dal 2008, la CJTF-HOA è subordinata al neo costituito AFRICOM (AFRIcan COMmand), responsabile per le relazioni e le operazioni militari statunitensi che si svolgono in tutto il continente africano ad esclusione del Egitto. AFRICOM ha sede a Stoccarda, in Germania. (11) Le forze statunitensi possono utilizzare anche gli scali portuali e aeroportuali di Mombasa. In generale, i velivoli statunitensi, pilotati e non, presenti nella regione del Corno d’Africa sono impiegati per una panoplia di missioni comprendenti pattugliamento marittimo, ricognizione, sorveglianza, guerra elettronica, attacchi contro obiettivi sensibili, ecc. (12) Anne Ahronheim, Rebel spokesman: Houthi missiles can hit covert Israeli bases in Eritrea, Jerusalem Post, 1o October 2017. (13) In Qatar è stata realizzata una base militare che ospita circa 3.000 militari turchi e dove risulta in corso anche la costruzione di una base navale affacciata sullo Stretto di Hormuz. Middle East Monitor, Qatar signs Turkey naval military base agreement, 14 March 2018. (14) Gli interventi riguardano le telecomunicazioni, l’industria mineraria, l’agricoltura e l’aviazione commerciale. Sergey Sukhankin, Russian Naval Base in Sudan Stays for Now: What Happens Next?, The Jamestown Foundation, 12 May 2021. (15) La guida delle CMF è a cura dell’ammiraglio statunitense alla testa della Fitfh Fleet dell’US Navy, schierata nella regione del Golfo Persico. (16) Di tale contesto fa parte anche il Taviz, un’ex-mercantile iraniano militarizzato, probabilmente gestito dai Guardiani della Rivoluzione e alla fonda nel Mar Rosso, non distante dalle coste yemenite. Danneggiata da un attacco di probabile matrice israeliana condotto nell’aprile 2021, il Taviz è in pratica una base galleggiante per unità sottili veloci in azione a supporto degli Houti. (17) L’India è inoltre impegnata, sempre in chiave anticinese, nella realizzazione di una rete di centri d’ascolto e sorveglianza nel Madagascar settentrionale e nelle Seychelles, nonché in cooperazioni con Giappone e Stati Uniti per un’utilizzazione periodica delle infrastrutture a Gibuti.
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PANORAMICA TECNICO-PROFESSIONALE
Nuove prove sui viaggi di Amerigo Vespucci Piero Carpani
Contrammiraglio del Genio Navale, nella sua carriera ha lungamente operato a bordo delle Unità navali di squadra e formazione e si è occupato di costruzione, allestimento, manutenzione e modifica del naviglio militare. Appassionato di navigazione a vela, è stato lo skipper di Artica II partecipando a decine di regate, a una campagna d’istruzione per gli allievi della 3a classe dell’Accademia navale e alle attività della STA Italia per trasmettere ai giovani l’amore per il mare. Ha pubblicato articoli tecnici sulla Rivista Marittima e articoli attinenti ad argomenti vespucciani nella collana Navigatori Toscani edita dalla Firenze Libri, sulla rivista Universo e sul Notiziario della Lega Navale. Ha pubblicato diversi libri, tra cui Giornale di bordo per l’Istituto Idrografico della Marina e La più bella del mondo, nave scuola Amerigo Vespucci per Grafiche Amadeo.
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Ritratto di Amerigo Vespucci accanto a una mappa delle Americhe e dell'Asia orientale. Dettaglio dalla mappa del mondo della cosmografia universale del cartografo tedesco Martin Waldseemüller, originariamente pubblicata nell'aprile 1507 (wikimedia.com).
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Naturalmente c’erano molte incongruenze ma queste erano addebitate al Vespucci che non avrebbe saputo descrivere bene i luoghi. Anche le testimonianze portate dal Las Casas non fanno che confermare che il secondo viaggio di Vespucci, svoltosi nel 1499 in Paria, fu successivo a quello di Colombo nella stessa zona, ma questo è ben noto: volerci inserire anche il primo sconvolge la sequenza temporale degli accadimenti e rimescola il racconto rendendolo incomprensibile e illogico. Nascita delle critiche Las Casas fu cacciato dagli Indios dell’odierno Venezuela, osteggiato dai Le critiche iniziano agli inizi del coloni spagnoli del Chiapa messicano 1600, cent’anni dopo lo svolgimento e promosso alla scrivania di storico di dei fatti, con la pubblicazione del libro corte dal re Carlo V. In questo incarico Historia de los Hechos de los Castellapreparò il boccone avvelenato della nos en las Mas y Tierra Firme del Mar modifica della sequenza temporale Oceano dello storico della corte spadegli avvenimenti storici (lui causa efgnola Antonio de Herrera y Tordesillas. ficiente, dopo Dio) riportati nell’HistoL’Herrera aveva ripreso quanto scritto ria de Las Indias per riparare all’offesa da Bartolomé de las Casas nel libro Hial Signore e all’ingiustizia nei confronti storia de Las Indias completato nel 1561, secretato per quaranta anni e che di Colombo, meravigliandosi che il fisarà pubblicato solo nel 1875. glio Diego Colombo, pur possedendo Il vescovo Batolomé de las Casas, riuna copia della Lettera al Soderini, non chiamato dal Chiapa e nominato storico fosse dello stesso parere. della corte spagnola, era un fervente Il boccone fu cotto nei quaranta anni idealista, sostenitore della causa degli Copertina del libro di: Las Casas, 1875 di segretezza in cui si dispersero testiMadrid (foto autore). indios e ammiratore dell’impresa di monianze e documenti e servito, alla Cristoforo Colombo. Essendosi ormai cultura europea e spagnola, da Antonio diffuso il nome America per denominare il nuovo conde Herrera y Tordesillas. tinente ritenne che ciò fosse a discapito di Colombo e Infatti, l’opera di Herrera, pubblicata e tradotta in che costituisse anche un’offesa a Dio perpetrata da Vediverse lingue, divenne punto di riferimento per gli stospucci o da chi aveva stampato le sue lettere. rici successivi e così William Robertson diffuse nel Per convalidare questa tesi, prendendo spunto dalla 1777 per il mondo anglosassone una History of Ame«Lettera al Soderini», eliminando i riferimenti geografici rica tratta solo da quelle pagine, senza alcuna verifica. inseriti nel primo viaggio e considerando il nome Paria Tutti ignorarono che Martin Waldseemüller nel 1507, (1) attribuito alle terre esplorate da Vespucci nel 1497, aveva tracciato un mappamondo in cui Parias era diseriferito (perché identico) a quelle terre scoperte da Cognato dove lo aveva trovato Vespucci, cioè in quella lombo nel 1498, trascrisse molti passi del racconto del penisola che si sarebbe chiamata Yucatan. primo viaggio (svolto sulle coste caraibiche dell’AmeDa allora, anche dopo che si era compreso che Larica centro settentrionale) come se fossero appartenenti riab anziché Paria fosse il nome del luogo in cui si era al secondo (sviluppatosi sulla costa caraibica delsvolto il primo viaggio e capito che l’attribuzione del l’America meridionale nel 1499) e da questo tratti e danome America fosse stato proposto per i meriti geogratati nel ’97 con lo scopo d’attribuirsi il merito del primo fici del navigatore fiorentino, alcuni storici hanno consbarco sul continente e giustificarne così il nome. tinuato a insistere su una presunta rivalità tra i due a critica storica ha messo in discussione i suoi viaggi riportati in letteratura come lettere pubblicate agli inizi del 1500 e diffuse prima della sua morte, nel 1512. L’esame della documentazione esistente, ora facilmente consultabile per chi vuole farlo, permette di superare i dubbi espressi nel passato e arrivare a nuove conclusioni.
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Disegno di un vaso Maya: notare le pietre azzurre sulla guancia e al lato delle labbra e l’orecchino circolare (wikimedia commons).
navigatori (Colombo e Vespucci), rivalità che non ha riscontri documentali ma che invece è servita da guida per esprimere valutazioni e giudizi.
Considerazioni sulle lettere Gli unici documenti presi in esame dagli storici sono state le Lettere; su quelle si è cavillato cercando spunti su quanto c’era scritto e su quanto non c’era scritto, interpretando, ipotizzando e deducendo fino a negare i dati in esse riportati pur di validare una tesi contraria. Tutto nasce dal fatto che non ci sono giunte le Lettere originali ma solamente delle copie, alcune manoscritte, relative al secondo e al terzo viaggio, altre stampate, di cui una relativa a tutti e quattro i viaggi e un’altra solo al terzo viaggio. Tutti questi scritti sono sostanzialmente simili tra loro ma presentano differenze, l’uno dall’altro, con valori numerici e date differenti e con frasi poco comprensibili o riportate con evidenti errori di traduzione o d’interpretazione. Quando, all’inizio del 1600, è sorta la questione vespucciana tutte le differenze e le incomprensioni sono
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diventate per alcuni motivo di critica e per altri, quelli che non avendo letto gli scritti si basavano sulle considerazioni altrui, motivo di negazione dei fatti ivi narrati. All’inizio del XX secolo, per superare le polemiche, è stato ipotizzato di ritenere valide solo le copie manoscritte e rigettare, in toto, quelle stampate. Questa soluzione, ancora ritenuta valida da alcuni studiosi contemporanei, ha, secondo un detto popolare, il difetto di «gettare il bambino lavato con l’acqua sporca» come spiegherò più avanti. Le lettere stampate, come pure quelle manoscritte, non sono le originali che probabilmente finirono nell’archivio del destinatario e poi furono disperse dal tempo. Le copie furono fatte preparare, dai destinatari originali, per poterle regalare ad amici e corrispondenti. Per confezionare un dono apprezzabile si rivolsero ad artigiani (amanuensi o tipografi) che produssero un numero molto limitato di copie con i pregi di quel tipo di lavoro (iniziali elaborate, impiego di caratteri ricercati, inserzioni di dediche e, alcune volte, il loro marchio di fabbrica e l’anno di realizzazione) ma anche con i difetti connessi a un lavoro particolare com’è una copia, prima dell’invenzione delle fotocopiatrici. Mentre gli originali erano nell’italiano dell’epoca, le copie erano redatte nella lingua dei nuovi destinatari, in primis in latino, lingua universale di quei tempi, poi in italiano, francese, tedesco ecc. e da queste furono tratte nuove copie con successive traduzioni. Insomma un passaggio a più mani che può giustificare gli errori e le incomprensioni. Non dimentichiamo che molti dei traduttori erano religiosi e il loro codice morale li portava a intervenire sul testo per attenuare quanto riportato in modo troppo esplicito e per valorizzare l’aspetto educativo-informativo. Ricordo però che il mondo di allora era molto diverso da quello odierno e lo spirito religioso aveva degli eccessi quali guerre di religione, stermini di eretici, inquisizione e distruzione di idoli e di culture pagane. Quando Vespucci scrisse le lettere aveva in animo di tornare a Firenze spinto dalla nostalgia dell’emigrante che pensa che quello che lui ha lasciato sia rimasto cristallizzato nella situazione in cui era al momento della sua partenza. Pochi anni più tardi la sua vita fu sconvolta: s’innamorò, si sposò con una donna
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spagnola, prese la cittadinanza spagnola, ricevette un incarico che assorbì tutte le sue energie, il suo mondo e i suoi amici erano a Siviglia mentre quelli che frequentava da giovane, a Firenze, erano ormai persi. Una persona è valutata per come compie il proprio lavoro e a Siviglia era conosciuto e apprezzato. A Firenze avrebbe potuto solo vivere di ricordi. In Spagna sarà impegnato in una vita intensa e con un grande futuro da costruire: s’immergerà nel fare e nell’organizzare e non avrà più la tranquillità necessaria per applicarsi a quello scritto geografico e cosmografico per il quale aveva raccolto, precedentemente, il materiale. La prima lettera, in cui descriveva il primo viaggio, ha avuto poca fortuna, non se ne conoscono specifiche copie, forse perché i Medici, cacciati da Firenze, non la diffusero. Quella riguardante la seconda navigazione e le due che parlano del terzo viaggio ebbero migliore fortuna e le loro copie furono numerose, sia manoscritte sia a stampa. Anche della lettera concernente il quarto viaggio non abbiamo copie specifiche forse perché non fu mai scritta come lettera a se stante: a Firenze, era salito al potere, come gonfaloniere, Piero Soderini ed era opportuno inviargli una lettera che contenesse la relazione su tutti e quattro i viaggi e non solo sull’ultimo, non essendogli state indirizzate precedenti comunicazioni. Questa ebbe, appena stampata, un subitaneo successo e grande diffusione. In genere, quando si copia, la tendenza è di condensare e se si vuole personalizzare uno scritto, s’infioretta con dettagli accessori che diano «colore», che facciano capire come, chi scrive, sia ben informato ma non s’interviene sulla «notizia» che è il vero valore da trasmettere. La critica, invece, ha utilizzato proprio il metodo opposto prendendo i dettagli come discriminante per valutare l’opera e non ha mai valorizzato il minimo comune multiplo tra le varie copie della stessa lettera cioè quello che sta alla base del racconto e ne costituisce l’essenza.
Considerazioni sulla riproduzione delle lettere Copiare un manoscritto, nei secoli passati, non è mai stato un’operazione semplice. Innanzi tutto bisognava saper leggere e scrivere e già questo non era da tutti. L’istruzione era appannaggio di pochi e anche mettere
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una firma su un foglio è stata, per molti, un’impresa ardua che si riduceva a tracciare due linee in croce. Poi era necessario avere del tempo a disposizione, un tavolo dove appoggiarsi, una penna d’uccello (preferibilmente d’oca) d’appuntire e incidere, un calamaio con l’inchiostro, il costoso materiale su cui scrivere (carta o pergamena), qualcosa per asciugare lo scritto e, ovviamente, il testo da copiare. Il lavoro era, a volte, eseguito al lume di candela. Anche l’atto di copiare variava a secondo della persona che lo eseguiva come gesto meccanico e quasi automatico: si leggevano alcune parole, si memorizzavano e si riproducevano. Questi passaggi, così semplici a dirsi, nascondevano alcune difficoltà che si traducevano in errori nella copia. Leggere un manoscritto spesso significava interpretarlo perché la scrittura variava da persona a persona e i numeri non erano rappresentati sempre con lo stesso ideogramma. Se non s’interpretava allora, si copiava quello che si era visto e che non sempre coincideva con lo scritto. Anche la memoria, a volte, giocava brutti scherzi e allora si potevano ripetere parole già scritte o saltarne alcune perché sull’originale quella memorizzata compariva su righe vicine e senza volerlo si saltava dall’una all’altra. Quando poi, per velocizzare il lavoro, le persone impegnate erano due, dove una leggeva e l’altra scriveva, gli errori mnemonici diminuivano ma aumentavano quelli di fedeltà al dettato. In generale, poteva capitare che il testo fosse volutamente modificato: frasi dal significato scontato per il copista omesse, termini incomprensibili sostituiti da altri ritenuti equivalenti, nomi sostituiti da quelli in vigore o presunti tali, tutto ciò che era ritenuto come un errore corretto; in altre parole il testo era riprodotto secondo la sensibilità e le conoscenze del copista. Quanto sopra vale anche per le copie a stampa dove c’era, inoltre, la necessità a limitare l’uso della costosa carta, d’inserire abbreviazioni (articoli attaccati ai sostantivi, cesura di vocali o d’intere sillabe, formattazione delle frasi, assenza di punteggiatura) tutti espedienti adottati per confinare il testo nel rettangolo previsto per la stampa sui fogli. Facendo copia da copia
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anche il tipografo, o il copista, essendo un artigiano, quando non comprendeva il significato degli scritti, poteva inserire la sua correzione esplicativa che sarebbe poi diventata «aggiunta dell’editore» e così troviamo Paria anziché Lariab, Cadice anziché Firenze. Anche oggi una fotografia perde definizione quando è compressa e, se ciò è ripetuto più volte, diventa illeggibile. Le lettere sono documenti molto personalizzati e non sempre è facile leggerli in maniera univoca. Nell’esaminarli non è stato applicato un metodo scientifico ma si è fatto riferimento a pareri di altri studiosi, pareri che furono considerati validi solo per l’autorità di chi li aveva espressi. Ricordate i responsi della Sibilla Cumana? Erano scritti senza punteggiatura e potevano essere letti con significati diametralmente opposti secondo lo spirito con cui s’interpretavano. I valori numerici delle cifre e delle date riportate sulle copie delle lettere hanno costituito motivo di critica di un certo peso perché gli altri motivi addotti nel tempo erano spesso frutto di speculazioni azzardate e inconsistenti espresse senza conoscere gli scritti o, forse, con riferimento a traduzioni molto libere. È da ricordare che i numeri cosiddetti arabi, riportati con valori differenti su copie diverse dello stesso documento, avevano simboli grafici che differivano dagli attuali, lo stesso valore numerico variava nei luoghi e
Esempi d’evoluzione dei numeri «arabi» secondo vari ricercatori (elaborazione autore).
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nel tempo e lo stesso segno poteva indicare valori distinti. Solo dopo il 1536 iniziò una standardizzazione della grafia che è valida ancora oggi. Segni sbiaditi hanno avuto differenti letture e sono stati considerati numeri anche i segni d’interpunzione. Anche le date, riportate con numeri o abbreviazioni poco leggibili, hanno avuto diverse letture, inoltre sono facili da dimenticare e se non si segnano subito, occorre ricostruirle partendo da ricordi di cui si conosce, per certa, la data. Il risultato varia da persona a persona, c’è chi ricorda avvenimenti lontani con dovizia di particolari e persino con i nomi dei presenti e altri che non ricordano neppure la data del loro matrimonio. I numeri vanno compresi, quando il navigatore scrive la lunghezza dei percorsi tra un approdo e un altro, gli studiosi precisano queste distanze differenziandole in funzione della bandiera per cui navigava e non considerano che Amerigo scriveva a Lorenzo o a Piero. Queste persone cos’hanno in comune oltre al fatto d’essere concittadini? Tutto! Stessa lingua, uguale educazione, medesima cultura perciò se non è precisato il tipo di lega, spagnola o portoghese, vuol dire che l’unità di misura è quella comune: la lega italica che era in uso a Firenze. Non mi risulta che ciò sia stato compreso! Nella prima e nelle successive lettere si parla di un libricino in cui ha raccolto i suoi rilievi geografici e anche di aver registrato, con costanza e determinazione, la posizione delle stelle australi, di aver misurato il diametro delle orbite per quelle circumpolari, di aver disegnato le costellazioni australi (2). Osservazioni? Nessuna! Come se fosse qualcosa d’importanza trascurabile. Eppure, guarda caso, a Norimberga nel 1515, Albrecht Dürer pubblicò le mappe dei cieli, boreale e australe, con le relative costellazioni. Se Martin Waldseemüller aveva disegnato gran parte delle coste orientali del Nuovo Mondo con le informazioni di Vespucci, certo non con le lettere, vuol dire che aveva ricevuto qualcosa (bozza, copia, originale?) del libricino «geografico e cosmografico» che Vespucci non trovava il tempo e la tranquillità necessari per pubblicarlo. Dürer non dice chi gli ha fornito i dati per disegnare le costellazioni australi ma lo possiamo immaginare: non c’è nessun altro che affermi di averli raccolti se
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Il cielo australe di Albrecht Dürer 1515 (Wikimedia Commons).
non il Vespucci e ipotizzare un travaso di notizie da St. Dié dei Volgi a Norimberga non è difficile ed ecco valorizzati anche i dati cosmografici di quel libricino.
Considerazioni sulle critiche I primi storici che si sono occupati della scoperta dell’America erano i religiosi. Erano persone in grado di leggere e scrivere, erano dotati della forma mentis adeguata a raccogliere notizie, a ordinarle in maniera sistematica e a comporle organicamente. Avevano una cultura religiosa e una visione della vita umana regolata da norme morali, intenti educativi e una certa rigidezza mentale, tutti fattori che hanno avuto dei riflessi sul loro modo di proporre gli avvenimenti. In seguito il campo degli studiosi si è allargato e ci sono stati storici istituzionali, letterati, scienziati, professori e cultori di quella che ora chiamano «l’inizio dell’età moderna». Quanti hanno scritto su Vespucci sembrano essere incastonati nella loro nicchia spazio-temporale (geografico e culturale). Alcuni esprimono valutazioni condizionate dall’ipotizzata contrapposizione a Colombo, risentono l’influsso delle ricerche bibliografiche precedenti o contemporanee, danno valore a questi scritti
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ma sembra non tener conto che questi sono i frutti delle passioni umane. Altri si perdono nell’esame dei diversi testi dello stesso documento trovando e segnalando gli errori di traduzione, di stampa e d’interpretazione ma non cercano mai il minimo comune multiplo, il fattor comune e cioè l’essenza dello scritto. Anche il modo di scrivere è vario: spesso risente dei sentimenti della società contemporanea e allora si creano situazioni, immaginarie ed emozionanti, coerenti con quello che si vuole trasmettere ma non per questo con validità storica. È ovvio che la critica sia condizionata da molti fattori. Chi si è interessato alla questione aveva una propria cultura di base che presentava la vicenda secondo l’ottica dei predecessori (come noi partiamo dalla cultura ottocentesca). La possibilità di acquisire informazioni era condizionata dal luogo di residenza e dal tipo di società in cui era immerso e ovviamente dai mezzi tecnici di scambio delle notizie. Se penso alle difficoltà e al tempo spesi per trovare gli scritti di tanti autori, pescando nelle biblioteche di mezzo mondo, con l’aiuto d’internet e con il prestito inter-bibliotecario, alle difficoltà per capire quello che sono riuscito a leggere, pur trattandosi di un argomento noto, ho molto apprezzato gli sforzi profusi dai vari autori per esporre i loro pensieri mentre ho disprezzato chi, per cercare notorietà e senza conoscere molto, ha prodotto giudizi a effetto, pieni di vocaboli iperbolici ma, sostanzialmente, conformisti e senza valore critico. La storia soggettiva e quella documentata spesso divergono perché entrambe sono sintesi di uno stesso accadimento fatto da persone diverse, con interessi, punti di vista e cultura differenti, tutti fattori che spesso portano a conclusioni discordanti e, a volte, contrastanti. Per esempio, pensate a un avvenimento di cui siate stati testimoni, la vostra testimonianza sarà diversa da quella degli altri testimoni come pure dalla cronaca scritta del fatto…tutti ritengono d’aver ragione, di sapere cos’è successo e porteranno prove a sostegno con citazioni di resoconti altrui e deduzioni logiche che confermino ciò che affermano. Quando Vespucci scrive che ha calcolato la sua posizione utilizzando l’Almanacco del Regiomontano, misurando le distanze dalla Luna, da stelle o pianeti in
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una precisa data e a una determinata ora, gli studiosi ci avvertono che ha sbagliato perché il punto corrispondente cade troppo a Ovest, nell’Oceano Pacifico. Già, ma hanno fatto riTreccia di tabacco da masticare (Tobacco Reviews). ferimento al meridiano zero dell’epoca, che passa da Gomera (Isole Canarie) oppure al porto di partenza, Cadice. Il Regiomontano però ha fatto le previsioni delle posizioni dei corpi celesti con riferimento al meridiano che passa da Norimberga e, per caso, anche da Firenze; quale sarà stato il meridiano di riferimento per un fiorentino che scrive a un fiorentino? È ovvio! Non serve esplicitarlo, ma sulla lettera si trova scritto Cadice e ciò è considerato errore di Vespucci e non «aggiunta del copista». Il nome del luogo: Lariab è espunto e sostituito nelle trascrizioni con quello noto di Paria o Parias, identico a quello dato all’isola di Trinidad davanti al Venezuela. S’insiste a voler far adattare la lettera alle proprie nozioni e non trovando corrispondenza s’incolpa la lettera. Le difficoltà di una corretta interpretazione di alcuni termini, anche nelle altre lettere, a causa della scarsità d’informazioni: l’erba verde masticata, dagli indigeni di un’isola, corrisponde alle foglie di tabacco, da masticare mescolate alla cenere e non, come invece teorizzato, alla coca e quindi pertinente all’America meridionale. Vespucci, nel 1503, arriva all’arcipelago Fernando de Noronha, approda all’isola maggiore San Lorenzo e partendo annota che era popolata da topi molto grandi e ramarri con la coda doppia. Nel 1999 uno studio sui roditori dell’isola ha individuato dei resti di grandi dimensioni classificati come appartenenti all’Ordine Rodentia, Famiglia Cricetidae, Sottofamiglia Sigmontinas e il nome dato a questa nuova specie è Noronhomys vespuccii. La specie è ormai estinta per la competizione con altri animali introdotti dall’uomo. Per il ramarro avevo ipotizzato potesse trattarsi del Teju ma approfondendo ho trovato che era stato introdotto dall’uomo, in compenso ho visto le foto di una lucertola endemica del-
l’isola con una coda lunghissima (il doppio del corpo), si tratta della Mabuya maculata (trachylepis atlantica). I nativi usano abbellirsi infilando sassi, ossa e anelli nelle guance, nelle labbra e nelle orecchie; questa moda del piercing è riferita ai soli Tupi-Guarani del Brasile come se solo loro la praticassero mentre è diffusa in tutto il mondo. Oggi esiste, in Messico nei pressi della città di Tanpico, il Museo universitario Lariab, testimone della cultura e dei costumi Huaxteci. La descrizione dell’ospitalità e delle cerimonie funebri è sempre motivo di confronto con gli scritti di Colombo, dimenticando che condizioni ambientali similari possono indurre gli abitanti di luoghi lontani geograficamente ad adottare simili, se non le stesse, usanze. Altre osservazioni che gettano una nuova luce sul passato vengono dall’esame delle carte geografiche del tempo. Nel IV viaggio Vespucci è diretto a Est, in India, seguendo la rotta portoghese. Bisogna passare il Capo di Buona Speranza e la rotta migliore prevede d’arrivare quasi in Brasile per fare il bordo che permetta di pas-
Johannes Ruysch dettaglio del planisfero 1507. In alto: Groenlandia,Terranova. In basso: coste sudamericane. Al centro: cartiglio su Antilia. A cavallo della linea rossa del tropico del Capricorno e sopra Spagnola: un promontorio, un golfo, una penisola e un cartiglio che afferma la scoperta spagnola (Wikimedia Commons).
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sare a sud del Capo, del resto è cosi che Cabral ha scoperto la terra di Vera Cruz nel 1500. Nella lettera si cita la Malacca, situata a occidente di Calicut a 35° sud e anche questo è stato considerato un falso perché la Malacca è a oriente di Calicut ma…esaminando il planisfero di Waldseemüller ho trovato un Malac Emporium nel Golfo di Aden, sotto la scritta Sinus Salites ed è a occidente di Calicut e più a sud della città indiana di 3,5° conforme all’indicazione del Vespucci che lo definisce porto di smistamento delle merci. Il mappamondo di Johann Ruysch (1507) riporta, sopra l’isola Spagnola, un promontorio, un golfo, una
penisola e un cartiglio che afferma che quei luoghi erano stati scoperti da navi del re di Spagna, Ferdinando II: non dice né quando né da chi, ma neanche gli storici approfondiscono perché la risposta sarebbe «Vespucci» e allora preferiscono sorvolare. Il planisfero di Waldseemüller rappresenta il continente americano quasi completamente, da nord a sud, tant’è che si riconosce la sua costa atlantica a colpo d’occhio. Terranova e il Labrador sono separati dalla massa continentale ma il rilievo di quelle terre non è del Vespucci. Certo, nella rappresentazione più estesa è diverso da come siamo abituati a vederlo ma se osserviamo com’è stato condensato in piccolo, sotto il titolo e in una proiezione simile a quella ora in uso, il riconoscimento è immediato. Raccogliere e ordinare i dati dei rilievi delle coste e delle posizioni reciproche per un’estensione di territorio così enorme e con i mezzi dell’epoca non è un lavoro improvvisato ma il frutto di un’attività organizzata e protratta nel tempo. La carta, disegnata dal Piloto Mayor Diego Gutierrez a Siviglia nel 1562 per il Re spagnolo Carlo V, col titolo «America quarta parte del Mondo» contiene un cartiglio in cui è scritto: «questa
Diego Gutierrez,1562 Mappa dell’America, quarta parte del mondo (Library of Congress Washington D.C.). A destra il cartiglio nella carta di Diego Guterres 1562. Si conferma il viaggio di Vespucci nel 1497.(Librare of Congressi Washington D.C.).
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è la quarta parte del Mondo che è rimasta sconosciuta a tutti i geografi fino al 1497 epoca in cui, per ordine del Re di Castiglia, fu descritta da Amerigo Vespucci ed ha preso il nome da colui che l’ha fatta conoscere». La copia stampata conservata nella Libreria del Congresso a Washington (Stati Uniti) apparteneva al Duca di Sassonia, acquistata nel 1932 a Monaco, entrò nella collezione di Lessing Julius Rosenwald e da questo donata alla Library of Congress nel 1949. Non è mai nominata dagli storici moderni che scrivono su Vespucci. Molti cartografi antichi hanno utilizzato il nome America: Pietro Apiano (1520), Sim Grynaeus (1539), Sebastian Munster (1540), Guillame le Testu (1555), Gerardo Mercatore (1569), Fernao vaz Dourado (1570), Abraham Ortelius (1578), André Thevet (1580), Pietro Plancio (1584), Cornelius de Jode (1589) senza dimenticare La Sala delle Carte Geografiche, nel Palazzo Vecchio di Firenze, dove Ignazio Danti eseguì trenta dipinti cartografici di cui quattordici dedicati all’America nel periodo 1563-75. Il mappamondo, disegnato su un’intera parete, e la carta geografica dell’America, disegnata ancora più nel dettaglio sulla parete adiacente, nel palazzo Farnese di Caprarola (Viterbo) dipinte assieme ai ritratti di Cristoforo Colombo e di Amerigo Vespucci,
nel 1574 da Giovanni Antonio da Varese, detto Vanosino, e Raffaellino da Reggio, con il nome America che campeggia nella parte settentrionale di quel continente. Quando gli autori denominano «Marina» una loro carta geografica, si è pensato che potesse essere d’aiuto per una navigazione trans-oceanica invece è solo la dichiarazione d’origine dei dati utilizzati: derivano dai rilievi dei marinai contrapposti a quelli d’origine terrestre utilizzati per le carte topografiche del Mondo Antico. Nel 1522 rientrò in Spagna la Vittoria, l’unica nave della flotta di Magellano che, partita nel 1519, portò a termine il giro del mondo. Fatti i calcoli, con il resoconto delle navigazioni compiute negli Oceani Pacifico e Indiano, gli Spagnoli accusarono i Portoghesi d’imbrogliare sulla posizione delle «isole delle spezie» per farle rientrare nella loro zona d’influenza, definita dall’anti-meridiano della raya. Quindici anni più tardi il cartografo portoghese Pedro Nunes dichiara che si è trattato di un errore compiuto dai cartografi portoghesi nel trasferire i dati dalle carte piane dei rilievi, in cui erano state registrate posizioni e distanze, alla carta de marear che copriva l’intero globo terracqueo.
Palazzo Farnese di Caprarola. Il Mappamondo misura circa 7x4 metri (bomarzo.net). a sinistra la rappresentazione dell’America, misura 4x5 metri (foto autore).
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oscure trame sempre per distinguersi dal conformismo, dal convenzionalismo, dalla morale del tempo e del luogo in cui agiscono. Ritengo, però, che i meriti degli storici siano enormi: hanno tramandato gli avvenimenti, hanno permesso di osservare l’accaduto sotto differenti e articolati punti di vista, hanno indicato le fonti e dove cercare notizie. La ricerca è stata appassionante e mi ha portato a cercare Cartiglio nell’angolo alto a sinistra del planisfero di Martin Waldseemüller. Le scoperte sono attribuite a Colombo e Vespucci, grandi e straordinari uomini (Library of Congress Washington D.C.). nelle istituzioni, biblioteche, musei, a leggere libri, a esaminare carte geografiche, a vedere documenti per arrivare a una valutazione dei fatti. A mio modo di vedere, i documenti più indicativi su una vicenda che si è svolta cinquecento anni fa sono due e cioè il Decreto di nomina a Piloto Mayor e il planisfero di Martin Waldseemüller. Il Decreto stabilisce il lavoro che deve essere svolto in un incarico che compare per la prima volta in Spagna. È un incarico Dettaglio del planisfero di Martin Waldseemüller: Malac emporium (Library of Congress Washington D.C.). professionale che richiede conoscenze ed esperienze non comuni, è un incarico che non può essere affidato a Anche di questo non si è tenuto conto nell’esaminare persone della corte perché, anche ammesso che queste le antiche carte geografiche portoghesi in cui compare avessero capacità direttive, sarebbero prive delle speil continente americano come pure non si è tenuto cifiche competenze. Per l’incarico, il re Ferdinando, conto di quanto scritto da Vespucci nella lettera sul sceglie il migliore tra i candidati, quello che ha dimoterzo viaggio quando osservava il «grosso sbaglio» strato con i fatti e anche a giudizio degli altri piloti fatto sulle due navi portoghesi incontrate a Dakar perd’essere il più idoneo. Si tratta di creare e dirigere, in ché a bordo non c’erano né cosmografo né matematico. un mondo d’illetterati, un istituto che insegni la geoSe fossero applicati gli stessi criteri, utilizzati dalla metria sferica, l’astronomia, la navigazione d’altura, critica imparziale su Vespucci, alla storia dell’umal’impiego di strumenti nautici, il rilievo cartografico e nità, dalla preistoria a oggi, questa si ridurrebbe a che sia dotato di un laboratorio cartografico. poche paginette. Se ai due documenti aggiungiamo la mappa del cielo Ci sono anche i negazionisti che rigettano notizie australe disegnata da Dürer, abbiamo un terzo docuconclamate, i complottisti che sospettano, ovunque,
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Nuove prove sui viaggi di Amerigo Vespucci
del lavoro eseguito, le eventuali inesattezze e le beghe conseguenti hanno un valore minimale rispetto al lavoro compiuto dal Vespucci e ben ha fatto Waldseemüller ad accostare il suo ritratto a quello di Tolomeo.
Conclusioni L’esame attento di quanto, copiando dal Casas, raccontato da Herrera (già in parte smentito dagli storici moderni anche su dettagli riguardanti Colombo) dimostra l’artificiosa ricostruzione degli avvenimenti dapprima ipotizzati e poi attribuiti a Vespucci. Le carte geografiche dell’epoca confermano il viaggio del 1497 e anche ricerche moderne trovano riscontro a quanto riportato Dettaglio del planisfero di M. Waldseemüller 1507, ruotato di 45°. Il nome Parias evidenziato nelle lettere. Prendere spunto da ciò che non è in corrispondenza dello Yucatan (Librare of Congress). si è capito per screditare e invalidare gli scritti poteva essere sostenibile solo nel passato e giustificato dalla difficoltà d’accesso alla documento che è la trasposizione artistica di un insieme di mentazione, ora è tempo di riscrivere questa storia. dati rilevati e organizzati in maniera metodica e accuRitengo che le copie delle lettere a noi pervenute, rata e io non ho trovato nessun altro, che il Vespucci, sia quelle copiate a mano sia quelle riprodotte a stampa, cui attribuire la raccolta degli elementi necessari alla riportino quasi fedelmente il resoconto dei viaggi efrealizzazione dell’opera. fettuati dal Vespucci. Quanto differiscano dal vero, non Queste due carte, di Waldseemüller e di Dürer, dolo sapremo finché non troveremo gli scritti originali o vrebbero essere studiate dai tecnici dei rispettivi seti suoi diari di bordo. tori perché ci potranno fornire ulteriori e preziose Dalla consultazione di altri documenti pertinenti ad notizie. Solo dei tecnici potranno tener conto delle ambiti disciplinari diversi ho tratto la convinzione che modifiche dei profili costieri, dei mutati percorsi delle i viaggi furono effettivamente compiuti e che aver reso correnti marine, delle variazioni del magnetismo terpossibile il cartografare buona parte delle coste atlanrestre (locale e generale), del movimento delle stelle tiche, di quel continente che Lui per primo aveva riconel cielo australe e di tutti gli altri fattori intervenuti nosciuto tale, giustifichi ampiamente il nome America in cinquecento anni. attribuito dai cartografi: è e rimane il continente di A fronte di quanto sopra, le lettere sono solo degli Amerigo, anche se non è Lui che l’ha scoperto. scritti che riportano l’aspetto illustrativo e folclorico 8
NOTE (1) Paria sta per el Paraiò, cioè il Paradiso. Yucatan sarebbe la risposta dei nativi alla domanda «Come si chiama questa terra?». Significa: «non capisco!». (2) All’epoca si aveva la visione geocentrica dei moti celesti e si ritenevano circolari le orbite. BIBLIOGRAFIA Sono poco più di duecento gli autori di scritti su Vespucci dal 1500 a oggi; per approfondire basta concentrarsi sulle sue Lettere e su Casas e Nunes, gli altri giocano sulle parole delle lettere, sulla loro interpretazione e criticano i lavori precedenti. Bartolomè de Las Casas Historia de las Indias , prologo e capitoli 140-169. Pedro Nunes Tratado em defensão da carta de marear, 1537 Lisbona; Tratado sobre certas dúvidas da navegação, 1537 Lisbona. Piero Carpani, In rotta per le Americhe Amadeo editore 2011; Un nuovo Mondo in 60 giorni Rivista Marittima 4-2015; La scoperta dell’America settentrionale Rivista Marittima 1-2016; La scoperta dell’America nella cartografia dell’epoca Rivista Marittima 4-2017.
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STORIA E CULTURA MILITARE
I MAS nella Grande Guerra Un’evoluzione tattica vincente Matteo Bucco
Laureato in storia all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Ha proseguito la sua formazione all’Università degli Studi di Siena, presso la quale ha conseguito la laurea magistrale in storia e filosofia, con una tesi sperimentale dedicata alla Grande Guerra nell’Alto Adriatico, meritevole del conferimento della lode. I suoi ambiti di ricerca sono la Prima guerra mondiale e la storia navale.
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Squadriglia MAS (in apertura) e MAS 7 in azione, durante la Prima guerra mondiale (USMM).
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a Grande Guerra del 1915-18 rappresentò la sfida di gran lunga più difficile e complessa affrontata dalla Regia Marina dall’epoca della sua fondazione (1861). Quest’ultima, a seguito della comparsa di nuovi dispositivi bellici come sommergibili, mine subacquee e velivoli, fu chiamata a dare prova fin da subito delle sue capacità di adattamento alla nuova fisionomia assunta dalla guerra marittima (1). In questo arduo contesto, l’elaborazione della «strategia della battaglia in porto» fu tra le principali espressioni di tale processo adattivo; strategia che si concretizzò nella messa a punto di speciali mezzi insidiosi che permettessero di aggirare l’impasse derivata dalla costante minaccia rappresentata dai sommergibili degli imperi centrali (2) (Germania e Austria-Ungheria in primis) che rendevano estremamente rischiosa l’uscita in mare delle grandi navi da battaglia, sulle quali si era basato, fino ad allora, il conseguimento del dominio del mare (Command of the Sea, secondo la definizione di Alfred Thayer Mahan) (3). La «strategia della battaglia in porto» consisteva nel portare la guerra all’interno delle basi nemiche, superando sbarramenti e ostruzioni retali, al fine di colpire direttamente le navi alla fonda (4). Resa possibile soprattutto dal proficuo sviluppo di mezzi insidiosi, rappresentati principalmente dai MAS (motoscafi antisommergibile), questa strategia ebbe un peso determinante nell’economia del conflitto italo-asburgico, permettendo alla Regia Marina di conseguire alcuni dei suoi maggiori successi, ovvero l’affondamento delle corazzate Wien (10 dicembre 1917) e Viribus Unitis (1o novembre 1918, a cui si aggiunsero le imprese compiute dai MAS in mare aperto, come il siluramento della Szent Istvan (10 giugno 1918) a opera del comandante Luigi Rizzo. Pur tenendo conto di questi risultati finali piuttosto eclatanti, non si deve commettere l’errore di adottare una visione semplicistica del fenomeno che portò alla messa a punto dei MAS, che non fu per nulla immediato. A questo proposito, ciò che fin da ora è bene sottolineare è la natura processuale degli sviluppi che condussero al perfezionamento delle caratteristiche tecniche di questi mezzi e, aspetto non meno importante, all’elaborazione di una dottrina d’impiego adeguata alle necessità operative della guerra in corso. Infatti, come ricorda il grande storico militare Basil H. Liddell Hart citando l’esempio
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Liddell Hart 1895-1970, storico, militare e giornalista britannico (wikipedia.it). Accanto: Camillo Corsi, militare e politico italiano, ministro della Marina del Regno d'Italia (senato.it).
dell’introduzione del carro armato nel Primo conflitto mondiale (5), pur essendo disponibile, talvolta, nelle mani di uno dei contendenti, un’arma virtualmente decisiva, non è per niente ovvio che essa venga, poi, impiegata nel modo più proficuo, mettendone a frutto tutte le potenzialità e le caratteristiche. Lo scopo di questo articolo, pertanto, è quello di descrivere le fasi salienti dello sviluppo dei MAS e, soprattutto, le modalità con le quali si giunse alla formulazione di una specifica dottrina d’impiego per questi mezzi insidiosi. Questo consentirà di analizzare l’atteggiamento della Regia Marina di fronte alle innovazioni tecnologiche, per comprendere se essa fu in grado di servirsene nel modo più adeguato, in risposta alle necessità del conflitto. Verranno, inoltre, identificate le principali personalità che ebbero un ruolo chiave in questo processo di sviluppo dei MAS, oltre ai contesti operativi che furono maggiormente decisivi per la loro sperimentazione e per il loro impiego. Nonostante la progettazione dei MAS risalga al periodo prebellico, il primo passo concreto verso l’adozione di imbarcazioni dalle caratteristiche idonee a fronteggiare le nuove minacce subacquee fu la creazione del Corpo Nazionale dei Volontari Motonautici (CNVM). Questo Corpo, istituito mediante il decreto luogotenenziale n.
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908 del 3 giugno 1915, dal punto di vista dell’organico fu composto durante la guerra da un’ottantina di volontari, la maggior parte dei quali in possesso di un motoscafo privato da diporto, incaricati di sorvegliare le acque costiere contro le insidie subacquee rappresentate dalle mine e dai sommergibili avversari (6). Essi vennero, pertanto, dislocati lungo tutte le coste della penisola, dall’alto Adriatico alla Sicilia, precisamente nelle sedi di Grado, Monfalcone, Venezia, Porto Corsini, Rimini, Pesaro, Ancona, Barletta, Brindisi, Taranto, Messina, Trapani, Catania, Napoli, La Spezia, Genova e Rodi. Sulla funzione specifica di questi mezzi, si legge in un documento del 23 aprile 1916 firmato dal ministro della Marina Camillo Corsi: «I motoscafi del Corpo Nazionale dei Volontari Motonauti sono principalmente adibiti alla sorveglianza del litorale loro assegnato, ed eventualmente a dar caccia ai sommergibili, ricuperare mine o idrovolanti, riconoscere sbarramenti fatti dal nemico in vicinanza delle coste, ecc. I motoscafi saranno impiegati solo per servizi militari e usati esclusivamente con il loro equipaggio» (7). Dunque, come si può vedere, il Corpo dei Volontari Motonautici nasceva come risposta immediata alle esigenze imposte dalla nuova guerra marittima, nella quale si erano definitivamente affermati sommergibili, mine e
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idrovolanti, di fronte ai quali non era più sufficiente la quantità di torpediniere e di naviglio leggero allora in uso nella Marina. Pur essendo fondamentalmente dotati di motoscafi civili adibiti a un utilizzo militare (armati con mitragliatrici, fucili, bombe antisommergibile e cannoni da 25 mm), l’esperienza dei Volontari Motonautici fu molto significativa in quanto contribuì a fissare inizialmente i primi criteri d’impiego per l’utilizzo dei motoscafi in contesti bellici. A riprova di ciò, alcuni comandanti (circa una ventina) furono abilitati, successivamente, al comando di un MAS o di una squadriglia MAS, benché questi ultimi fossero mezzi di natura specificatamente bellica e, quindi, differissero da un motoscafo civile per una molteplicità di aspetti. Ben prima dell’istituzione dei Volontari Motonautici (che rappresentò un provvedimento transitorio, indotto dalle contingenze appena successive all’ingresso in guerra) la Regia Marina aveva, inoltre, intrapreso lo sviluppo di un proprio mezzo sottile, studiato specificatamente per rispondere alle esigenze belliche. Non un semplice motoscafo civile adibito a uso bellico, bensì un’imbarcazione più veloce, più strutturata e meglio armata con la quale fosse possibile condurre anche azioni offensive e non soltanto operazioni di pattugliamento delle acque antistanti le principali basi navali. Nasceva così il MAS (acronimo di motoscafo antisommergibile), il cui primo prototipo venne progettato dalla ditta veneziana SVAN (Società veneziana automobili nautiche) e sottoposto all’attenzione del capo di Stato Maggiore della Marina, il viceammiraglio Paolo Thaon di Revel. Questi, in data 28 febbraio 1915, così si esprimeva in merito a tale argomento: «Ritengo che, per la elevata velocità e la notevole capacità offensiva, questi autoscafi potrebbero prestare utili servizi nella difesa mobile delle piazze marittime, e anche di basi eventuali di operazioni» (8). Il progetto della SVAN prevedeva la realizzazione di un motoscafo da 12 t di dislocamento, armato con due tubi lanciasiluri e dotato di quattro motori da 100 cv ciascuno, in grado di sviluppare una velocità di 30 nodi, decisamente elevata rispetto agli standard dell’epoca, con un’autonomia massima di 200 miglia (9). Il primo ordine per questo tipo di motoscafo venne effettuato ufficialmente il 16 aprile 1915 e qualche mese dopo i primi MAS furono pronti per le prove in mare. I primi test effettuati,
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tuttavia, misero in evidenza fin da subito una serie di problematiche, a cominciare proprio dalla velocità dei mezzi, che risultò di gran lunga al di sotto delle aspettative raggiungendo appena i 22 nodi, come testimonia un documento redatto dalla commissione incaricata di collaudare questi primi motoscafi: «La commissione di collaudo per le motobarche antisommergibili ha già iniziato i suoi lavori procedendo alle prove delle prime due motobarche. Dette prove però non sono state mai portate a compimento poiché in ogni uscita si sono verificate piccole avarie ai motori […]. Queste frequenti avarie è a sperare che con un miglior aggiustaggio dei motori abbiano a scomparire; ma tuttavia mettono in evidenza l’assoluta necessità di avere dei motoristi assai abili e pratici […]. Dalle prove finora fatte si può anche stabilire per le prime quattro motobarche quale sia la velocità massima raggiungibile, coll’attuale assetto e con le attuali eliche, giacché col massimo numero di giri consentito dai motori già raggiunto in varie uscite, la velocità massima controllata, è stata di pochi decimi superiore alle 22 miglia» (10). Questa nota è molto significativa in quanto mette in luce le notevoli difficoltà iniziali di messa a punto dei mezzi, sia sul piano della velocità massima sia dell’affidabilità dei motori. Da queste premesse, non proprio incoraggianti, ebbe inizio da quel momento un lungo processo di messa a punto dei MAS, come testimonia l’ampia documentazione conservata presso l’archivio dell’Ufficio Storico della Marina, che vide impegnate a fianco degli ufficiali tecnici anche le massime autorità dell’istituzione, a cominciare dal capo di Stato Maggiore Thaon di Revel, il quale fu tra i primi ad avere fiducia nella bontà del progetto. L’attacco non era, però, l’unica esigenza operativa che si era affermata durante quei primi mesi di guerra. Un altro problema di fondamentale importanza riguardava la difesa del traffico marittimo, che risultava sempre più esposto alle offese degli U-boot tedeschi, dopo che questi, nella primavera del 1915, ebbero fatto il loro ingresso nel Mediterraneo (11). Su ispirazione di quanto stava avvenendo all’estero, soprattutto presso la Royal Navy, dove speciali motoscafi da 40 t erano stati adibiti al servizio di pattuglia in funzione antisommergibile, anche la Regia Marina dispose la progettazione di motoscafi adatti a rispondere a questo tipo di esigenza. Nacquero così i mo-
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«Il luogo maggiormente decisivo per lo sviluppo dei MAS, sia dal punto di vista tecnico sia della dottrina d’impiego, fu la base di Venezia» (USMM).
delli SVAN da 19 t, che dovevano ospitare un cannone da 76 mm, assieme a una ventina di bombe di profondità (torpedini da getto) e torpedini da rimorchio e, per le stesse necessità operative, nel 1916, motoscafi da 40 t (come quelli in servizio nella Royal Navy), furono ordinati alla ditta statunitense Elco, dotati anch’essi di un cannone da 76 mm, di un equipaggio di dieci uomini e di una velocità massima di 19 nodi. I MAS di questa tipologia, essendo stati concepiti per il servizio di difesa del traffico mercantile, furono dislocati principalmente nel Tirreno, mentre l’Adriatico, sotto questo profilo, costituiva un teatro operativo assai differente, in quanto al suo interno la priorità dei MAS non era la difesa dei traffici, bensì l’impiego offensivo contro le unità della Marina asburgica. Proprio in relazione a ciò, va ricordato come questo bacino rappresentasse l’unico spazio marittimo nel Mediterraneo dov’era in corso un confronto effettivo tra le forze dell’Intesa e quelle degli Imperi Centrali. Non c’è da stupirsi, quindi, se fu proprio in tale contesto operativo (e in particolare nell’alto Adriatico, dove la prossimità
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con le basi austroungariche era ancora maggiore) che avvennero gli sviluppi più significativi inerenti i MAS e la loro dottrina d’impiego, che nel loro utilizzo come mezzi d’assalto rappresentarono, nell’ambito del Primo conflitto mondiale, una peculiarità del tutto italiana. L’utilizzo in qualità di mezzi d’assalto, tuttavia, fu una modalità operativa a cui si approdò in seconda istanza, a seguito di esperienze maturate sul campo. Infatti, al momento della loro consegna (nella primavera del 1916), i MAS furono impiegati in Adriatico utilizzando concetti d’impiego mutuati direttamente da quelli validi per i motoscafi del Corpo Nazionale Volontari Motonautici, che consistevano principalmente nella vigilanza nei pressi delle zone portuali, nella segnalazione e nel recupero di torpedini alla deriva, nel fornire appoggio agli idrovolanti e nell’avvistamento di sommergibili avversari. In sintesi, si trattava di compiti essenzialmente litoranei e difensivi (12). Questi criteri d’impiego vennero definitivamente superati nel momento in cui la Marina comprese che i MAS potevano essere utilizzati con successo in qualità di mezzi insidiosi per spingersi all’interno delle basi navali austroungariche, in applicazione a quella che l’ammiraglio
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Giuseppe Fioravanzo (importante pensatore navale nel periodo tra le due guerre) definì «strategia di distruzione di un nemico che rifiuta la battaglia al largo» (13). Fu così che nella notte del 7 giugno 1916 avvenne l’incursione di due MAS all’interno della rada di Durazzo, che portò all’affondamento del piroscafo austroungarico Lokrum, e che costituì la prima di questo genere di imprese (14). Nonostante i due MAS fossero salpati da Brindisi, il luogo maggiormente decisivo per lo sviluppo dei MAS, sia dal punto di vista tecnico sia della dottrina d’impiego, fu la base di Venezia, che dall’ottobre 1915 era stata posta sotto il comando di Thaon di Revel, dimessosi per ragioni politiche dalla carica di capo di Stato Maggiore della Marina. Revel dedicò molta attenzione alla messa a punto dei MAS, dirigendone personalmente i lavori di miglioria, tanto che, come ha scritto Ezio Ferrante nella sua biografia dedicata al Grande Ammiraglio, le sue giornate si alternavano «tra la sede di comando in Arsenale, il canale della Giudecca (base delle unità leggere e sottili) e il campo d’aviazione di Sant’Andrea al Lido» (15). Le ragioni di questo interesse di carattere tecnico, per vari aspetti inusuale (Revel era pur sempre un ufficiale di Stato Maggiore, non certo del Genio Navale), va ricercata nella visione strategica che Revel aveva nei riguardi del conflitto in corso. Egli, infatti, era sempre più convinto della necessità di non esporre le grandi unità da battaglia ai potenziali rischi costituiti dalla presenza di mine e sommergibili, i quali, in un mare ristretto come l’Adriatico avevano già dimostrato tutto il loro potenziale distruttivo. Pertanto, a suo modo di vedere, l’iniziativa doveva essere affidata al naviglio sottile e insidioso, le cui eventuali perdite sarebbero state più facilmente rimpiazzate, in modo da tenere costantemente sotto pressione le Forze navali austroungariche (16). A seguito di queste considerazioni, risulta più comprensibile l’interesse personale manifestato da Revel, che identificò nei MAS le armi ideali per portare a compimento il suo concetto di «guerriglia marittima», che avrebbe consentito alla Regia Marina di ritrovare l’iniziativa sul fronte marittimo senza, tuttavia, correre il rischio di perdere le costosissime corazzate. La base di Venezia divenne, quindi, per usare un’altra espressione di Ezio Ferrante, il «laboratorio della nuova guerra aeronavale nell’Adriatico» essendo fornita di tutte le infrastrutture (Arsenale in primis) e delle maestranze
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MAS 15 e 21. Dall’alto: MAS 2, 9 e 95. Nella pagina accanto la corazzata WIEN, affondata a opera del MAS di Luigi Rizzo (sullo sfondo, assieme a Costanzo Ciano) il 10 dicembre 1917. A pagina 86, sullo sfondo, alcuni membri dell’equipaggio dei MAS 9 E 13 (USMM).
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necessarie allo sviluppo dei MAS e, non a caso, presso la città lagunare fu stabilita la sede dell’Ispettorato MAS, guidato dal capitano di vascello Costanzo Ciano (padre di Galeazzo), che venne incaricato di organizzare le stazioni e i servizi necessari ai motoscafi, oltreché di prendere parte ad alcune importanti incursioni. In virtù di ciò, nel luglio 1916, prese avvio la pianificazione di un’incursione da condurre, questa volta, all’interno del porto austroungarico di Pola (la base principale della flotta asburgica), su ispirazione di quanto era avvenuto la notte del 7 giugno 1916 a Durazzo. L’obiettivo era una grande unità da battaglia ormeggiata presso il canale di Fasana. Prima di procedere con la missione, tuttavia, era necessario risolvere una serie di inconvenienti, come ridurre le emissioni acustiche dal motore del MAS 20, designato per l’operazione, in modo da permettergli di procedere silenziosamente all’interno delle acque della base avversaria. L’altro principale problema tecnico era costituito dalla necessità di superare l’ostruzione che proteggeva l’accesso del porto. Entrambi i problemi vennero risolti con metodi ingegnosi, dopo lunghi mesi di preparativi e di esperimenti condotti nell’Arsenale di Venezia e negli specchi d’acqua lacustre che circondano la città, al fine di mettere a punto ogni singola fase nel modo più realistico. Tutto questo è ben descritto nella relazione che il capitano di vascello Carlo Pignatti di Morano, che fu l’ideatore (e uno degli esecutori) della missione, consegnò a Thaon di Revel il 6 novembre 1916 (17). In particolare, il MAS 20 fu dotato di due motori elettrici, da 5 cv ciascuno, che erano in grado di sviluppare una velocità di 4-5 nodi garantendo, nel contempo, diverse ore di autonomia, mentre una torpediniera (la 9 PN) fu equipaggiata mediante un ingegnoso dispositivo per l’abbassamento dell’ostruzione retale che impediva l’accesso al porto. La missione, che si svolse nella notte del 2 novembre 1916, nonostante avesse mancato l’obiettivo primario di affondare l’unità austroungarica (a causa del malfunzionamento dei siluri imbarcati), fu comunque giudicata un notevole successo, in quanto la sorveglianza del porto venne perfettamente elusa, al punto che gli austroungarici iniziarono a sospettare qualcosa solamente il giorno seguente, quando notarono due siluri inesplosi sul fondo del canale, e si accorsero che l’ostruzione del porto era
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stata abbassata. Per queste ragioni, l’azione nel canale di Fasana divenne una sorta di paradigma per la pianificazione delle incursioni successive, come quella che portò all’affondamento della corazzata Wien da parte del MAS di Luigi Rizzo, il 10 dicembre 1917, all’indomani dei fatti di Caporetto. Il successo nel forzamento del canale di Fasana, tra le altre cose, suggerì di apportare delle modifiche tecniche nello sviluppo dei MAS, alcuni dei quali, su indicazione di Revel, a partire da febbraio 1917 iniziarono a essere dotati di motori elettrici «di serie», al fine di potersi muovere silenziosamente nelle acque pattugliate dalla Marina austro-ungarica (18). Si iniziarono allora a comprendere le reali potenzialità dei MAS che dagli iniziali compiti di perlustrazione furono progressivamente impiegati per una sempre maggiore varietà di azioni. Nel 1917 i MAS furono utilizzati nell’ alto Adriatico anche per compiti di scorta alle navi da battaglia e ai monitor schierati per bombardare dalla costa le posizioni austroungariche sul fronte terrestre. Inoltre, con costanza sempre maggiore, essi fornirono appoggio alle missioni di volo di bombardieri e idrovolanti dirette contro obiettivi strategici sulle coste avversarie, tenendosi pronti per la ricerca e il soccorso dei velivoli abbattuti. Nel frattempo, essendo aumentata la disponibilità di queste unità, nell’aprile del 1917 si dovette provvedere a una riorganizzazione dell’intera flottiglia e delle sue sedi. Fu stabilita la dislocazione di 56 MAS, scelti tra i più veloci, nell’Adriatico, e 18 fra questi furono assegnati alla sola base di Venezia; mentre 114 unità furono destinate alla difesa del traffico nel Tirreno (19). Nei giorni drammatici che seguirono la disfatta di Caporetto (24 ottobre 1917), diversi MAS si addentrarono nella rete di canali interni che collegano la laguna di Grado con quella di Venezia, per cercare di rallentare l’avanzata delle avanguardie austro-tedesche (20), a riprova della loro notevole versatilità. Il 10 dicembre successivo si svolse l’incursione del MAS di Luigi Rizzo nel vallone di Muggia, presso il porto di Trieste, che portò al già citato affondamento della corazzata costiera Wien. Si trattò di un importante successo tattico (la Wien costituiva una minaccia per le postazioni costiere, con i suoi potenti cannoni da 240 mm) che diede una scossa positiva al morale della nazione, duramente provato dai drammatici
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giorni seguiti alla rottura del fronte isontino e al ripiegamento sulla linea del Piave. A seguito di questi avvenimenti, all’inizio del 1918 i tempi erano maturi perché si pensasse a un utilizzo dei MAS in chiave quasi esclusivamente offensiva, a discapito di quell’utilizzo litoraneo e difensivo con cui questi mezzi erano inizialmente entrati in servizio nel 1916. Questa rivoluzione tattica è perfettamente esemplificata dalla circolare riservatissima del 30 luglio 1918, firmata da Revel, che sintetizza in modo efficace la nuova filosofia che fu alla base dell’impiego dei MAS nell’ultimo anno di guerra, la quale si poneva in netto contrasto con i concetti d’impiego iniziali. Per maggiore chiarezza ne riportiamo alcune righe: «[…] l’azione dei MAS deve avere carattere eminentemente offensivo: all’uopo sono assegnati in Adriatico i MAS di velocità più elevata, e occorre che questa sia costantemente molto curata, quale condizione indispensabile affinché le missioni che saranno a essi affidate abbiano le maggiori probabilità di buona riuscita. In Adriatico i MAS sono armi da adoperarsi senza risparmio e senza tema di sacrificarli, quando ricorre il momento bellico opportuno: normalmente devono invece essere tenuti pronti (quasi come il fucile alla rastrelliera) nella massima efficienza, e bisogna risparmiarli quanto più è possibile nei servizi normali […]» (21). I MAS divennero così delle armi prevalentemente offensive, da tenere in serbo per le occasioni propizie, al fine di infliggere il massimo danno alla flotta avversaria, e nel 1918 essi non mancarono di cogliere importanti successi, come il forzamento del porto di Buccari (11 febbraio 1918) ma, soprattutto, il già citato affondamento della corazzata Szent Istvan (10 giugno 1918) compiuto al largo di Premuda da Luigi Rizzo, che divenne così «il siluratore per antonomasia delle corazzate austriache» (22).
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In questo processo di estensione e di successiva ridefinizione delle tipologie d’impiego dei MAS giocò un ruolo fondamentale l’apertura manifestata dagli ufficiali della Regia Marina nei confronti delle innovazioni tecniche, che permise l’utilizzo di questi speciali motoscafi in qualità di mezzi insidiosi per riacquisire una certa capacità offensiva nei confronti dell’avversario. L’atteggiamento degli ufficiali di Stato Maggiore della Regia Marina e, soprattutto, di Thaon di Revel, rivelò con il passare del tempo una progressiva presa di coscienza delle nuove caratteristiche assunte dal conflitto, trasformatosi sempre più, sia sul fronte marittimo sia terrestre, in una guerra di logoramento, da condurre con mezzi economici (ma efficaci), senza più ricercare lo scontro risolutivo tra le rispettive squadre da battaglia, come invece prevedeva il pensiero navale più classico. Certamente non mancarono all’interno della Regia Marina disaccordi sulla condotta strategica da adottare, che videro contrapporsi, soprattutto, il viceammiraglio Thaon di Revel, capo di Stato Maggiore, e Luigi Amedeo di Savoia, Duca degli Abruzzi, Comandante in capo delle Forze navali mobilitate. Tuttavia,
alcuni gravi episodi, che videro la perdita di importanti unità (come gli incrociatori corazzati Amalfi, Garibaldi e la corazzata Regina Margherita), e gli sviluppi successivi del conflitto, videro sempre più accreditata e confermata la condotta strategica professata da Revel, al punto che, dopo le sue dimissioni nell’ottobre del 1915 e la parentesi trascorsa al comando della base di Venezia, nel febbraio del 1917, questi fu nuovamente chiamato a ricoprire la carica di capo di Stato Maggiore della Marina. Un evidente riconoscimento delle sue capacità e dell’esattezza delle sue vedute, anche se tardivo (23). Ciò che garantì il pieno successo dei MAS come mezzi offensivi e della strategia della «battaglia in porto» non fu l’abilità dei comandanti, né il progresso tecnologico, o il favore di alcuni ufficiali, bensì la totalità di questi fattori, che nel loro complesso resero possibile la messa a punto di uno strumento bellico innovativo che, in relazione alle peculiarità del teatro adriatico, permise di cogliere alcuni risultati inaspettati e decisivi per la vittoria morale e materiale della Regia Marina sulla flotta austro-ungarica. 8
NOTE (1) Riguardo ai cambiamenti tecnologici e tattici introdotti dalla Grande Guerra cfr. N. Friedman, Fighting the Great War at Sea, Strategy, Tactics and Technology, Seaforth Publishing, Barnsley 2014. (2) Sull’argomento si veda L. Sondhaus, German Submarine Warfare in World War I: The Onset of Total War at Sea, Rowman & Littlefield, London 2017. (3) Cfr. A.T. Mahan, The Influence of Sea Power Upon History 1660-1783, Methuen & Co. Ltd, London 1965. (4) E. Ferrante, La Grande Guerra in Adriatico, nel LXX anniversario della vittoria, Ufficio Storico della Marina Militare, Roma 1987, pp. 53-55. (5) B.H. Liddell Hart, La Prima guerra mondiale 1914-1918, Bur Rizzoli, Milano 2015, pp. 324-337. (6) Cronistoria documentata della guerra marittima Italo-Austriaca (1915-1918), Ufficio Storico della Regia Marina, Roma 1919, collezione I, fascicolo IX, pp. 109-110. (7) Ivi, p. 111. (8) Ivi, p. 4. (9) Ivi, p. 36. (10) AUSMM, Raccolta di Base, busta 537, fascicolo 3, Informazioni, 22 febbraio 1916. (11) P.G. Halpern, La Grande Guerra nel Mediterraneo, vol. I, LEG, Gorizia 2009, pp. 228-254. (12) Cronistoria documentata della guerra marittima Italo-Austriaca (1915-1918), Ufficio Storico della Regia Marina, Roma 1919, collezione II, fascicolo IX, pp. 7-8. (13) G. Giorgerini, Attacco dal mare. Storia dei mezzi d’assalto della Marina italiana, Mondadori, Milano 2007, p. 30. (14) Cronistoria documentata della guerra marittima Italo-Austriaca (1915-1918), Ufficio Storico della Regia Marina, Roma 1919, collezione II, fascicolo IX, pp. 233-236. (15) E. Ferrante, Il grande ammiraglio Paolo Thaon di Revel, Rivista Marittima, Roma 1989, p. 62. (16) E. Ferrante, La Grande Guerra in Adriatico, nel LXX anniversario della vittoria, Ufficio Storico della Marina Militare, Roma 1987, pp. 32-33. (17) Cfr. Cronistoria documentata della guerra marittima Italo-Austriaca (1915-1918), Ufficio Storico della Regia Marina, Roma 1919, collezione II, fascicolo IX, pp. 29-32. (18) Cronistoria documentata della guerra marittima Italo-Austriaca (1915-1918), Ufficio Storico della Regia Marina, Roma 1919, collezione I, fascicolo IX, p. 99. (19) Ivi, p. 126. (20) P. Alberini, G. Manzari, M. Pagano, F. Prosperini (a cura di), Per Venezia non si passa. Le operazioni della Regia Marina sul fronte terrestre nel 1917, Ufficio Storico della Marina Militare, Roma 2018, p. 17. (21) Cronistoria documentata della guerra marittima Italo-Austriaca (1915-1918), Ufficio Storico della Regia Marina, Roma 1919, collezione II, fascicolo IX, p. 21. (22) E. Ferrante, La Grande Guerra in Adriatico, nel LXX anniversario della vittoria, Ufficio Storico della Marina Militare, Roma 1987, p. 111. (23) Sulla condotta strategica della Regia Marina in Adriatico cfr. P.G. Halpern, La Grande Guerra nel Mediterraneo, vol. I, LEG, Gorizia 2009, pp. 255-299. BIBLIOGRAFIA Cronistoria documentata della guerra marittima Italo-Austriaca (1915-1918), Ufficio Storico della Regia Marina, Roma 1919, collezione I, fascicolo IX. Cronistoria documentata della guerra marittima Italo-Austriaca (1915-1918), Ufficio Storico della Regia Marina, Roma 1919, collezione II, fascicolo IX. De Ninno, F., «La guerra navale nel Mediterraneo» in N. Labanca (a cura di), Dizionario storico della Prima guerra mondiale, Editori Laterza, Bari-Roma 2014. Ferrante, E., Il grande ammiraglio Paolo Thaon di Revel, Rivista Marittima, Roma 1989. Ferrante, E., La Grande Guerra in Adriatico, nel LXX anniversario della vittoria, Ufficio Storico della Marina Militare, Roma 1987. Friedman, N., Fighting the Great War at Sea, Strategy, Tactics and Technology, Seaforth Publishing, Barnsley 2014. Giorgerini, G., Attacco dal mare. Storia dei mezzi d’assalto della Marina italiana, Mondadori, Milano 2007. Halpern, P.G., La Grande Guerra nel Mediterraneo (2 volumi), LEG, Gorizia 2009.
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STORIA E CULTURA MILITARE
Storia di una baleniera Nuovi elementi sull’«impresa di Alessandria», a ottant’anni dalla sua brillante esecuzione (*) Claudio Rizza, (**) Platon Alexiades
(*) Ufficiale superiore di vascello laureato in Scienze marittime e navali e in Scienze politiche. Ha ricoperto, tra gli altri, l’incarico di responsabile degli archivi dell’Ufficio Storico della Marina e collabora, oltre che con la Rivista Marittima, anche con i periodici Storia Militare e Gnosis. È inoltre membro del Comitato editoriale del Bollettino d’Archivio dell’Ufficio Storico della Marina Militare. (**) Consulente informatico. Nato ad Alessandria (Egitto), si è trasferito a Montreal (Canada) all’età di 18 anni. È cultore della storia navale fin dall’adolescenza e ricercatore indipendente presso gli archivi di Roma, Londra, Washington, Parigi e altri. È autore di Target Corinth Canal 1940-1944 (Pen & Sword, 2015) e di vari articoli per il Warship Supplement della World Ship Society. È tra i contributori del sito internet di storia dei sommergibili, uboat.net.
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R. Claudus, Azione dei mezzi navali ad Alessandria il 18-19 dicembre 1941 contro le navi da battaglia VALIANT e QUEEN ELIZABETH, Olio su tela, cm 180x100, Roma - Palazzo Marina.
«(…) la mia nuova nave non è durata poi molto, dopo tutto. Siamo stati attaccati e affondati da bombardieri in picchiata il 19 agosto scorso. Sono stato fortunato a essere tra i sopravvissuti e adesso siamo in Libia. Come prigioniero di guerra ho molto tempo per pensare (…)» (1).
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ll’interno dell’asciutto fascicolo conservato al The National Archives di Kew e intestato al HMS Thorbryn, un’ex baleniera norvegese requisita dalla Royal Navy e trasformata in peschereccio armato antisommergibili, le informazioni sulla drammatica fine di quell’unità ausiliaria sono scarne. Il fascicolo si compone principalmente delle bozze delle lettere con cui l’Ammiragliato comunicava alle famiglie dei caduti la perdita del loro congiunto e di moduli prestampati sui quali i censori della Royal Navy trascrivevano le poche informazioni sulla perdita dell’ex baleniera desunte dalle lettere spedite dai sopravvissuti fatti prigionieri alle proprie famiglie. Poche note, come nel caso della trascrizione riportata in apertura, per descrivere la fine — quasi dimenticata — di un’unità ausiliaria il cui brevissimo periodo d’impiego nel Mediterraneo le fece meritare solo una breve menzione in uno dei tanti volumi che si sono occupati della guerra navale nel corso dell’ultimo conflitto mondiale (2). Eppure, a dispetto della scarsa importanza attribuita dalla storiografia ufficiale alle vicende del Thor-
Una rara immagine del THORBRYN nel 1937 quando la baleniera si chiamava ancora SCOTT (lardex.com). In alto: un’altrettanto rara immagine, purtroppo di scarsa qualità, della baleniera KOS XIX che fu sostituita dal THORBRYN nella sfortunata missione del 14 agosto 1941. Il KOS XIX (rinominato HMS COCKER) non ebbe sorte migliore; fu, infatti, silurata e affondata dall’E-boat tedesca S-57 il 4 giugno 1942 al largo di Tobruk (collezione ing. R. Pinelli).
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bryn, quella piccola ex baleniera — o meglio il suo archivio segreto — contribuì in maniera determinante al successo di una delle azioni più audaci e fortunate che fecero la storia della guerra nel Mediterraneo: l’impresa di Alessandria, magistralmente condotta dai mezzi d’assalto italiani la notte sul 19 dicembre 1941.
Dall’Artico all’Africa Il Thorbryn era una baleniera norvegese di 350 tonnellate di stazza lorda (tsl) realizzata dal cantiere Framnæs Mek di Sandefjord nel 1936 su commissione della società Frango (A/S Thor Dahl di Sandefjord) con il nome originario di Scott. Nel 1939 l’unità fu acquisita dalla società Bryde & Dahl Hvalfangerselskap (A/S Thor Dahl) che ne cambiò il nome in Thorbryn. A gennaio del 1941, la flotta baleniera norvegese, molta attiva nei mari del sud, fu decimata dalla nave corsara tedesca Pinguin (Schiff 33) che catturò non meno di quattordici imbarcazioni, tra navi-stabilimento e baleniere, in quel momento sotto nolo britannico (3). Il Thorbryn e la gemella Thorgrim (4) riuscirono, però, a scampare alla clamorosa cattura di massa poiché nel novembre precedente, mentre si trovavano a Città del Capo, entrambe le unità furono requisite dalla Royal Navy, che le trasformò in pattugliatori antisommergibile armandole, alla bell’e meglio, con dei vetusti cannoni (si trattava di armi realizzate nel 1889!) per andare a costituire il 25th Auxiliary A/S Group (5). Gli equipaggi delle due baleniere furono sostituiti per la maggior parte da marinai britannici, anche se alcuni dei pescatori norvegesi decisero di rimanere a bordo al servizio della Marina britannica.
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Mappa tedesca delle difese di Tobruk IWM (MH5849). Accanto: l’ammiraglio George Hector Creswell, comandante della base di Alessandria nell’agosto del 1941 (National Portrait Gallery).
L’HMS Thorbryn (Temporary Lieutenant della RNR, Francis Albert Seward, capitano di corvetta della RNR, John Francis Hall dal giugno/luglio 1941) e l’HMS Thorgrim (tenente di vascello della RNR Benjamin Sparkes) salparono da Città del Capo il 20 maggio del 1941, e dopo tre soste, rispettivamente a Durban (24-27 maggio), Kilindini (3-12 giugno) e Aden (1720 giugno), giunsero a Suez il 25 giugno per il transito del canale. Il 27 giugno successivo le due unità si unirono alla Mediterranean Fleet ad Alessandria d’Egitto. In quel momento la situazione strategica nel Mediterraneo orientale era per i britannici ben lungi dall’essere soddisfacente. Creta era caduta poche settimane prima e la Royal Navy aveva dovuto subire gravi perdite nel corso dell’evacuazione delle truppe britanniche dall’isola. La Gran Bretagna era stata costretta a combattere le forze francesi fedeli al governo di Vichy in Siria dopo che queste ultime avevano dato accesso ai campi di aviazione alle Forze aeree dell’Asse che erano intervenute a sostegno della rivolta in Iraq. I combattimenti nel deserto
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del Nord Africa non stavano avendo un esito migliore. La Libia era stata evacuata dalle truppe imperiali a eccezione di Tobruk, dove la guarnigione australiana cercava a tutti i costi di resistere, fin dal 9 aprile precedente, grazie ai rifornimenti inviati via mare da Alessandria tramite un sistema di convogli costituito da piccole unità da trasporto costiero, il cosiddetto «Tobruk run». Tali convogli erano coordinati dal contrammiraglio George H. Creswell (comandante della base di Alessandria). Le difese costiere di Tobruk erano invece affidate all’Inshore Squadron, sotto il comando del capitano di vascello della RN Albert Poland, il quale si era distinto al comando dello sloop armato HMS Black Swan durante la campagna di Norvegia del 1940 meritandosi il Distinguished Service Order (DSO). L’Inshore Squadron era
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A sinistra: il porto di Tobruk nel 1941 in una foto aerea della ricognizione britannica (IWM C5496); in basso, sbarco di rifornimenti da alcuni D-Lighter ormeggiati nel porto di Tobruk nel gennaio del 1942 (IWM E8433). Sotto: il D.25 arenato su una spiaggia in vicinanza di Tobruk. L’imbarcazione britannica è usata da alcuni soldati dell’Asse come «stendi panni» in occasione di un bagno di mare (collezione ing. R. Pinelli).
inizialmente costituito dai cacciatorpediniere HMAS Waterhen e HMAS Vendetta (oltre al monitor HMS Terror che fu affondato il 24 febbraio del 1941), dalle cannoniere HMS Aphis, HMS Gnat e HMS Ladybird, dalla corvetta HMS Gloxinia oltre che da vari dragamine (l’HMS Bagshot, due dragamine ausiliari e tre pescherecci armati anti sommergibile) (6), questi ultimi fondamentali per mantenere i corridoi di approccio al porto, liberi dalle mine nemiche. Fino a che Tobruk continuava a resistere, la strada per l’Egitto era di fatto sbarrata per l’armata italo-tedesca. La fortezza era sotto costanti bombardamenti da parte dei velivoli della Regia Aeronautica e della Luftwaffe (7). Per tale motivo i convogli di rifornimenti per la guarnigione australiana dovevano
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essere costituiti da unità di piccolo cabotaggio che dovevano essere velocemente scaricate durante la notte per non essere affondate in porto dai bombardieri in picchiata dell’Asse durante il giorno. I convogli dovevano quindi giungere a Tobruk al tramonto e salpare, scarichi, alla volta di Alessandria alle prime luci dell’alba. Le due piccole ex baleniere erano di dimensioni ideali per essere incorporate nel «Tobruk run», sebbene il loro armamento antiquato ne sconsigliasse l’utilizzo per quel tipo di missione. Si decise quindi di dotare le due unità di armi più moderne. Secondo quanto riportato dai sopravvissuti del Thorbryn durante gli interrogatori condotti dagli italiani, l’armamento delle due ex baleniere era in quel momento costituito da cinque pezzi d’artiglieria, una mitragliera pesante e varie mitragliatrici leggere. Il 1o agosto l’HMS Thorbryn salpò da Alessandria per scortare a Tobruk la piccola nave da carico Lesbos (945 tsl, costruita nel 1910) (8). Il porto di Tobruk era stato appena riaperto dopo essere stato chiuso a causa della presenza di mine lanciate da aerei. Il primo viaggio del Thorbryn nell’ambito del «Tobruk run» ebbe pieno successo e l’unità poté far rientro ad Alessandria senza contrattempi. Il 14 agosto successivo l’unità salpò per una nuova missione: stavolta avrebbe dovuto scortare a Tobruk due mezzi da sbarco del tipo D-Lighter dell’Esercito britannico (9). Il Thorbryn aveva sostituito all’ultimo
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momento la baleniera armata HMS Cocker (ex Kos XIX), la quale non era potuta uscire in mare a causa di un’avaria. Il Thorbryn effettuò la prima tappa a Marsa Matruh, dove recuperò i D-Lighter D.16 e D.25, carichi entrambi di una dozzina di fusti di carburante, quindi, il 17 agosto, riprese il mare alla volta di Tobruk con i due mezzi da sbarco a rimorchio (10). Il suo arrivo nel porto della fortezza assediata era inizialmente previsto per la sera del 18 agosto successivo, ma la rottura di uno dei due cavi di rimorchio per il mare agitato causò un ritardo che si rivelò fatale. A causa del tempo perso nel riprendere il D-Lighter a rimorchio, il Thorbryn fu costretto a compiere l’avvicinamento a Tobruk con la luce del giorno, la mattina del 19 agosto e ciò segnò il suo destino. Alle 08:30, quando l’unità si trovava a circa 8 miglia dalla sua destinazione, la baleniera armata fu avvistata da alcuni bombardieri in picchiata Junkers 87 «Stuka» (11) del Fliegerführer Afrika e subito affondata con due bombe messe a segno con l’unità in posizione 32° 01’ N, 24° 09’ 15’’ E. I sopravvissuti alle deflagrazioni riuscirono ad abbandonare la nave su una scialuppa di salvataggio e furono raccolti dagli equipaggi dei due mezzi da sbarco, i quali furono però a loro volta attaccati ne affondarono uno — il D.16 — e ne danneggiarono gravemente l’altro che finì per arenarsi, privo di propulsioni sul litorale libico a poca distanza dal porto di destinazione. Da Tobruk, dove si era potuto seguire il drammatico attacco aereo nemico, fu inviato in soccorso dei sopravvissuti del piccolo convoglio, lo Schooner armato F.1 il quale fu a sua volta centrato e affondato dai bombardieri in picchiata tedeschi. Alla fine fu fatto uscire anche il dragamine ausiliario Skudd V che poté però prestare soccorso solo ai naufraghi dell’F.1. I sopravvissuti del Thorbryn e dei due D-Lighter riuscirono invece a raggiungere a nuoto la terraferma per finire, però, prigionieri del nemico. L’equipaggio del Thorbryn era composto di cinque ufficiali e ventuno tra sottufficiali e graduati. Due ufficiali e quattro graduati persero la vita nell’attacco aereo, mentre cinque rimasero feriti. Anche tre uomini dell’equipaggio del D.25 mancarono all’appello al termine del bombardamento nemico. I 32 sopravvissuti del convoglio (venti dell’equipaggio del Thorbryn, sette del D.16 e cinque del D.25) furono quindi tra-
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sportati in un campo di concentramento italiano vicino a Bengasi, dove, prima del loro trasferimento in Italia, furono interrogati dagli specialisti dell’Ufficio informazioni del Comando superiore Forze armate in Africa settentrionale. I primi interrogatori ai sopravvissuti del convoglio «Thorbryn» furono condotti il 23 agosto successivo. Da quei colloqui gli uomini del Servizio informazioni del Comando superiore in Africa settentrionale, tra i quali erano sicuramente presenti anche agenti del SIS della Regia Marina, poterono ricostruire le vicende della ex baleniera norvegese dal momento della requisizione in Sud Africa al tragico evento del suo affondamento ma — come risulta dal relativo bollettino informativo (12) — nessuna informazione fu fornita dai naufraghi né sul porto di Alessandria né su quello di Marsa Matruh. Ben più incisivi dovettero essere gli uomini del Servizio informazioni della Regia Marina due giorni dopo poiché, stavolta, riuscirono a estorcere ai prigionieri parecchie informazioni sia sulla presenza delle unità della Mediterranean Fleet nel porto di Alessandria sia sull’ubicazione dei depositi munizioni e torpedini di quella base (13). Ma l’interrogatorio dei prigionieri, sebbene rivelatosi molto utile, non fu il vero «colpo grosso» messo a segno dagli uomini del SIS. Esso fu in realtà realizzato, come vedremo, all’interno del relitto del Thorbryn, probabilmente sulla scorta dell’esperienza maturata dal Servizio segreto della Marina con il recupero dei documenti segreti del cacciatorpediniere britannico Mohawk, affondato sulle secche di Kerkennah la notte sul 15 aprile precedente, durante l’attacco britannico al convoglio «Tarigo» (14).
Il segreto di Alessandria In una lettera dell’ottobre del 1937, indirizzata al ministro della Guerra dell’Egitto (15), il comandante della missione militare britannica in quel paese nordafricano, generale J.H. Marshall-Cornwell, raccomandava al nuovo alleato di dare corso, al più presto, all’impegno preso con l’ex potenza dominatrice, di assumersi l’onere della difesa delle proprie coste, con particolare riguardo alla protezione del porto di Alessandria, ritenuto d’interesse strategico per il governo britannico. Per evitare spreco di tempo e denaro, il capo della mis-
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sione militare britannica suggeriva, inoltre, al ministro egiziano, di richiedere ufficialmente al governo del Regno Unito l’invio in loco di un ispettore alle difese costiere del War Office, in modo che questi potesse fornire all’esercito alleato le raccomandazioni per l’ottimale fortificazione dei porti di Alessandria e Marsa Matruh valutando, inoltre, quantitativi e tipologia di materiali d’artiglieria che il governo di Sua Maestà avrebbe dovuto cedere all’ex colonia per l’esigenza. Contestualmente, secondo quanto caldeggiato dal generale Marshal-Cornwell nella sua missiva, l’Esercito egiziano avrebbe dovuto dar corso all’addestramento del personale destinato all’artiglieria costiera in maniera da rendere operativa la difesa delle proprie coste entro la metà del successivo anno 1938. La visita in Egitto dell’ispettore delle difese costiere del War Office, generale F.W. Barron, ebbe luogo tra la fine di febbraio e la metà di marzo del 1938. Durante l’ispezione, all’alto ufficiale fu affiancato anche un ufficiale della Mediterranean Fleet, con il compito di fargli da consigliere in merito alla protezione dei porti di Alessandria e Marsa Matruh, le cui esigenze difensive erano state riassunte in un memorandum segreto elaborato con il supporto degli specialisti del centro per la guerra anti-sommergibile HMS Vernon di Portsmouth. L’ufficiale della Mediterranean Fleet avrebbe dovuto, in particolare, illustrare al generale Barron le «potenzialità degli “Indicator Loop”, degli idrofoni per la difesa foranea e dei campi minati a brillamento comandato» (16), sistemi anti-sommergibile che la Marina britannica stava mettendo a punto — nel più totale riserbo — fin dalla fine del Primo conflitto mondiale, sulla base degli ammaestramenti ricavati dalla caccia ai battelli tedeschi (17). Il primo a teorizzare un sistema di localizzazione dei sommergibili immersi basato sul fenomeno dell’induzione elettromagnetica fu il professor William Henry Bragg, premio Nobel per la fisica nel 1915 e nominato, nel corso del Primo conflitto mondiale, a capo della sezione per lo sviluppo dei sistemi anti-sommergibile del Board of Investigation and Research dell’Ammiragliato. Bragg ideò un sistema basato su una spira («loop») di cavo elettrico delle dimensioni di 600 per 25 yard la quale, posata sul fondo marino, avrebbe ri-
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velato la presenza di un sommergibile immerso grazie alla corrente generata nella spira dal rapido passaggio dello scafo del battello al di sopra di essa. Gli esperimenti con una versione migliorata del «Bragg Loop», costituita da tre cavi elettrici paralleli distanziati tra loro di 200 m, furono eseguiti, in prossimità del porto della Valletta, a partire dal settembre 1929 per la durata di sei mesi. Sulla base delle risultanze di tale sperimentazione, fu messa a punto una ulteriore versione dell’Indicator Loop costituita da sette cavi elettrici che, connessi tra loro, andavano a costituire una doppia spira larga 400 yard (200 più 200) e lunga 5.000. Tale doppio avvolgimento consentiva di determinare la direzione con la quale lo scafo sommerso passava al disopra dell’Indicator Loop e dunque, poiché la catena di sensori avrebbe dovuto essere disposta su un semicerchio centrato sull’ingresso del porto, di stabilire se il sommergibile attaccante si stava avvicinando oppure si stava allontanando dal sorgitore. Dal 1931 i «loop» erano ormai considerati affidabili dall’Ammiragliato che decise, di conseguenza, di utilizzarli in maniera estensiva per proteggere i principali porti dell’Impero. Nelle intenzioni dell’Ammiragliato gli Indicator Loop sarebbero dovuti essere affiancati, per la difesa dei porti d’interesse strategico dell’Impero, da speciali ecogoniometri posati sul fondo detti HDA (Harbour Defense ASDIC), una variante dei sonar imbarcati, anch’essa sviluppata dalla fine della Prima guerra mondiale. L’affiancamento dei due sensori avrebbe aumentato la possibilità di scoperta dei sommergibili diminuendo, al contempo, la probabilità di falso allarme del singolo apparato. Completavano il sistema difensivo portuale fisso messo a punto dalla Royal Navy gli sbarramenti di mine a detonazione controllata (i cosiddetti gimnoti) le quali dovevano essere fatte brillare a distanza dalla stazione di controllo del sistema, sulla base delle informazioni fornite dai sensori sommersi. Le stazioni di controllo avevano poi il compito di fornire l’informazione della presenza di un sommergibile alle postazioni di artiglieria costiera e alle unità anti sommergibile le quali sarebbero state fatte uscire in mare all’occorrenza. Nella prima settimana di settembre del 1935, a seguito della crisi internazionale causata dalla evidente
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volontà italiana di aggredire l’Etiopia, gli uomini della HMS Vernon realizzarono ad Alessandria alcune infrastrutture propedeutiche all’installazione delle difese anti-sommergibile fisse di quel porto. Furono in quell’occasione realizzati: un sito di assemblaggio dei gimnoti, due stazioni prefabbricate (Huts) di controllo e furono stoccate nei magazzini 192 di quelle armi assieme a 150 miglia di cavi elettrici necessari al funzionamento degli Indicator Loop e gli HDA in attesa della loro posa in opera sul fondale marino (18). In accordo alla policy portata avanti dall’Ammiragliato fino a quel momento, il memorandum segreto consegnato al generale Barron raccomandava la messa in opera, nelle acque prospicenti Alessandria, di un perimetro esterno di scoperta basato su Indicator Loop posizionati su un semicerchio di raggio di 8 miglia centrato sul beacon del Great Pass con l’aggiunta di sensori tipo HDA collocati 1 miglio e mezzo più verso costa. Infine, si proponeva la posa di barriere di gimnoti per difendere la bocca d’ingresso principale del porto dal pericolo costituito dai bastimenti da blocco (block ship) o dai mezzi insidiosi. La posa di campi minati difensivi «tradizionali» (cioè costituiti da mine ancorate con innesco a percussione) era invece sconsigliata poiché la Royal Navy non possedeva nell’intero bacino del Mediterraneo né depositi di tali tipologia di armi né navi posamine per il loro posizionamento. Il costo per la realizzazione dell’intero sistema fisso di difesa subacqueo, comprensivo della relativa stazione di controllo a terra situata presso il forte Agamy, era stimato in 243.500 sterline, mentre il tempo necessario alla realizzazione dell’opera era valutato in 5-6 settimane con condizioni meteo-marine favorevoli. Data la segretezza degli apparati da utilizzare, l’Ammiragliato consigliava infine di non rivelare agli alleati alcun particolare circa quel sistema di difesa portuale, al quale l’ispettore alle difese si sarebbe dovuto riferire, nei confronti degli interlocutori egiziani, solo in termini molto vaghi. Qualche mese dopo il rientro dall’Egitto, nel maggio del 1938, il generale Barron consegnò al War Office il proprio rapporto sulla difesa delle coste egiziane, copia del quale fu inviata anche all’Ammiragliato oltre che al ministro della Guerra egiziano per il tramite della missione militare britannica al Cairo (19). In esso, oltre
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al numero e alla tipologia di batterie costiere che egli riteneva necessario disporre lungo le coste egiziane, l’ispettore faceva proprie le raccomandazioni della Marina per l’installazione di un sistema di difesa portuale fisso per la base di Alessandria basato sulla triade costituita da Indicator Loop, HDA e gimnoti. La messa in opera del sistema di difesa raccomandato dal generale Barron subì però una lunga battuta d’arresto dovuta alla crisi finanziaria in cui versava il giovane governo egiziano, il quale, per tale causa, aveva proposto alla controparte britannica di sospendere per alcuni anni i lavori di realizzazione delle difese costiere. Solo alla fine di febbraio del 1940, a guerra già iniziata e con i rapporti diplomatici con l’Italia sul punto di rottura, il governo egiziano acconsentì a riprendere i lavori di realizzazione delle difese delle proprie coste. Sulla base di tale decisione, nel giugno di quello stesso anno, quasi in concomitanza con la dichiarazione di guerra dell’Italia, i lavori per la posa in opera degli Indicator Loop, degli HDA e dei gimnoti a difesa del porto di Alessandria, divenuto ormai la principale base della Mediterranean Fleet dopo il trasferimento cautelativo da Malta, poté finalmente essere avviata per concludersi, come originariamente previsto, circa un mese dopo. Nel luglio del 1940 il porto di Alessandria aveva finalmente il suo sistema difensivo segreto contro le incursioni di sommergibili e mezzi insidiosi.
La fortuna aiuta gli audaci Il segreto delle difese subacquee fisse del porto di Alessandria restò tale solo per poco più di un anno. Grazie all’affondamento del Thorbryn a poca distanza dalla costa controllata dalle forze dell’Asse, il Reparto informazioni della Regia Marina riuscì infatti a mettere le mani sul piano di operazioni che era stato redatto, il 5 agosto precedente, dal comando della base di Alessandria per la missione di scorta originariamente assegnata alla baleniera armata Kos XIX. Tale documento, a seguito dell’indisponibilità di quest’ultima, era stato fornito, sic et simpliciter, al Thorbryn che la avrebbe sostituita in quella missione. Allegato al piano di operazione vi era anche l’elenco messaggi QBC in vigore in quel momento per il porto di Alessandria (20). Pur-
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La carta delle rotte di sicurezza per l’atterraggio ad Alessandria d’Egitto realizzata dal SIS e acclusa al fascicolo informativo relativo a quel porto. A sinistra: la copertina e la prima pagina del fascicolo informativo del SIS redatto sulla base delle informazioni acquisite grazie alla cattura dell’Ordine di Operazioni originariamente redatto per l’ex baleniera KOS XIX. Nella pagina accanto: carta del SIS con l’indicazione della zona minata a nord di Alessandria e del canale dragato di accesso a tale porto. La zona minata si riferiva quasi certamente agli sbarramenti (o di quanto di essi restava) posati dal sommergibile italiano PIETRO MICCA nel giugno e nell’agosto dell’anno precedente (USMM).
troppo non è dato sapere come tale fondamentale documento riuscì a essere acquisito dal Reparto informazioni della Regia Marina (21), ma è lecito supporre che, anche in quel caso, la cattura sia stata frutto di una accurata ispezione subacquea al relitto della piccola unità ausiliaria britannica.
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Storia di una baleniera
A seguito della già citata missione magistralmente condotta dal comandante Porta sul relitto del cacciatorpediniere britannico Mohawk, si era infatti instaurata una proficua collaborazione tra il Reparto informazioni della Marina e la Scuola sommozzatori della Xa MAS di Livorno. Ne è prova quanto riportato dal tenente di va-
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scello Aldo Cippico nel suo libro di memorie di guerra Dio punisca Anna Tobruk! (22). Nel giugno del 1942, infatti, Cippico, agente operativo del SIS, fu richiamato dalla missione di controspionaggio che egli stava conducendo in Sicilia a caccia di emittenti clandestine e inviato precipitosamente a Tobruk. La piazzaforte era stata da poco riconquistata delle truppe italo-tedesche cosicché l’ammiraglio Maugeri, capo protempore del SIS, pensò di affidare al TV Cippico la missione di recuperare tutti i documenti segreti che la Marina britannica non avesse eventualmente avuto il tempo di distruggere prima di abbandonare il porto di Tobruk. In occasione del suo passaggio al ministero, per ricevere di persona i dettagli della missione da compiere, Cippico ebbe modo d’incontrare nei corridoi di Palazzo il comandante Porta, il quale gli suggerì di esplorare, servendosi del supporto dei sommozzatori della Scuola di Livorno, tutti i relitti delle navi britanniche affondate in porto. È lecito dunque supporre che anche nel caso dei documenti provenienti dal Thorbryn, gli agenti del SIS in Libia abbiano fatto ricorso ai sommozzatori della Xa MAS o a risorse locali per setacciare il relitto della ex baleniera norvegese in cerca di documenti classificati (23). Fatto sta che alla fine settembre del 1941 il Reparto informazioni della Marina fu in grado di estendere il contenuto dei messaggi QBC reperiti sul Thorbryn sia a MARICOSOM — nel cui fondo archivistico sono tutt’oggi consultabili (24) — sia, ovviamente, al Comando della Xa Flottiglia MAS. Ma se la consultazione dei messaggi QBC in vigore aveva consentito al SIS di localizzare sia le aree di posizionamento dei gimnoti sia i campi minati «convenzio-
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Aldo Cippico ripreso in uniforme da allievo della Regia Accademia navale con la madre Margaret Howard McCallum, scozzese (collezione ing. R. Pinelli). In alto: fotografia scattata da un ricognitore tedesco del relitto sommerso del MOHAWK. La sensibilità della pellicola utilizzata dai tedeschi consentiva vedere gli scafi delle navi affondate sui bassi fondali (USMM).
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nali» (25), niente, fino a quel momento, ancora era trapelato circa il segreto degli Indicator Loop e degli HDA, se non un generico «avviso ai naviganti» (QBC n.108) nel quale si riportava la presenza di «zone proibite per la presenza di cavi», le quali erano indicate da una boa rossa e da una boa verde — entrambe sormontate da fanali lampeggianti — posizionate rispettivamente alla distanza di 4 e 7 miglia da Ras el Tin a cavallo del canale dragato d’ingresso al porto. La presenza di quei cavi sommersi fece probabilmente sorgere negli analisti del Reparto informazioni che essi potessero essere un qualche tipo di sistema avvisatore (26), ma la loro esatta disposizione sul fondale marino fuori Alessandria rimaneva purtroppo sconosciuta. Poco più di un mese dopo, però, un inaspettato colpo di fortuna consentì di aggirare quell’ulteriore insidia. Il 2 ottobre del 1941, infatti, lo Stato Maggiore di collegamento tedesco con la Marina italiana a Roma indirizzò a Supermarina un foglio (27) con acclusa la copia fotografica di una carta nautica inglese — definita dai tedeschi «Beutekarte» (carta bottino) (28) — sulla quale erano riportati sia i canali dragati d’accesso al porto, sia — incredibilmente — la disposizione degli Indicator Loop a protezione del porto di Alessandria. Poiché, evidentemente, l’esistenza di tali dispositivi di scoperta era sconosciuta anche ai tedeschi, il Servizio informazioni della Marina germanica aveva ritenuto quelli sbarramenti essere delle linee di «torpedini da osservazione» (in pratica gimnoti) probabilmente a causa
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Carta realizzata dal SIS con i canali dragati, le ostruzioni e le zone minate in prossimità del porto di Alessandria. Come si vede, in essa non figurano né gli HDA né la cintura di Indicator Loop a protezione del porto poiché non riportati da alcun messaggio QBC. In basso: il capitano di corvetta Juno Valerio Borghese, comandante dello SCIRÈ nel corso dell’operazione GA3 (USMM).
Rotta verso la gloria
dei cavi elettrici di collegamento che da ognuno di essi si dipanavano in direzione del forte Aiyana, ritenuto, pertanto, la stazione di controllo di quegli ordigni. Si trattava di una valutazione errata, ma tanto bastava, comunque, per tenersi ben alla larga da quegli sbarramenti in caso di avvicinamento occulto a quella base navale. Tutto era dunque pronto per un nuovo tentativo di forzamento del porto di Alessandria, dopo i due precedenti tentativi che avevano avuto come conseguenza la tragica perdita dei due sommergibili avvicinatori Iride e Gondar. Quei due dolorosi insuccessi, «la mancanza di precise informazioni sulla difesa della base navale britannica in Egitto e le maggiori possibilità di riportare successi contro gli obiettivi di Malta e Gibilterra avevano fatto, fino ad allora, desistere la Xa MAS da ulteriori tentativi» (29). Ma nel novembre del 1941 la situazione era completamente cambiata. La Xa MAS disponeva di un nuovo gruppo di operatori SLC (cosiddetti maiali) addestrati e pronti per essere utilizzati in missione, ma soprattutto, di ottime informazioni sulle difese del porto di Alessandria, queste ultime ricavate principalmente dalla cattura dei documenti segreti del Thorbryn. Un nuovo assalto alla «tana» della Mediterranean Fleet aveva adesso buone garanzie di successo.
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La missione GA3 nacque senza dubbio sotto una buona stella. Il primo pericolo scampato dal sommergibile Scirè fu al traverso di Taormina la notte del 5 dicembre 1941 quando fu avvistato un sommergibile, molto probabilmente nemico, la cui risposta al segnale di riconoscimento fu confusa e contraddittoria. Avendo avuto ordine di non attaccare, il comandante Borghese riprese a quel punto la navigazione di trasferimento verso Lero senza ulteriori contrattempi. Ma, l’episodio che ebbe dell’incredibile fu l’avvistamento dello Scirè da parte di un ricognitore britannico la mattina dell’8 dicembre 1941 a sud di Creta. Il velivolo fu avvistato anche dalle vedette dello Scirè, che in quel momento stava navigando in emersione, alle 10:50. Trattandosi di un aereo non identificato, da bordo del sommergibile fu fatto il segnale di riconoscimento ot-
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Il sommergibile SCIRÈ in navigazione fuori La Spezia nel 194. Accanto: la carta catturata dai tedeschi e la relativa lettera di trasmissione a Supermarina con la disposizione della cintura di Indicator Loop a protezione del porto di Alessandria. Essi furono scambiati dai tedeschi (e di conseguenza anche dagli italiani) per sbarramenti di gimnoti (USMM).
tico valido quel giorno per tutte le navi e i velivoli dell’Asse (30). Pochi istanti dopo, l’aeromobile sconosciuto, come se avesse appurato la correttezza del segnale ricevuto, cambiò rotta senza molestare in alcun modo il sommergibile avvicinatore italiano. Incredibilmente non si trattava di un velivolo dell’Asse, bensì di un aereo britannico, probabilmente un bombardiere Bristol Blenheim in missione di ricognizione (31). Questo incredibile colpo di fortuna fu appurato solo qualche anno dopo la guerra, quando i documenti segreti britannici cominciarono a essere resi pubblici presso l’allora Public Record Office (PRO) di Kew. A pagina 5 del rapporto segreto compilato dalla Naval Intelligence Division dell’Ammiragliato sul disastroso attacco subito ad Alessandria, è infatti riportato il seguente trafiletto: «Un U-Boat simile al Gondar fu avvistato a sud di Creta l’8/12/41 da un ricognitore del 201o gruppo. A quel sommergibile fu fatto il segnale di riconoscimento al quale rispose con un lampo verde che era il segnale corretto per quel giorno. Non fu quindi molestato» (32). Dunque, l’8 dicembre del 1941 i segnali di riconoscimento per le Forze aeronavali italo-tedesche e britanniche erano incredibilmente gli stessi, oppure l’equipaggio del ricognitore britannico sbagliò a riconoscere il segnale trasmessogli dallo Scirè, fatto sta che il sommergibile italiano riuscì a giungere, sano e salvo a Lero da dove, imbarcati gli operatori agli SLC, poté proseguire la sua missione di attacco al porto di Alessandria. La fortuna aiuta gli audaci, lo si è detto. Ma, l’avvicinamento all’obiettivo condotto dal comandante Borghese non fu solo fortunato, bensì un autentico capolavoro di professionalità, sangue freddo, capacità marinaresca e «situational awareness». Nel corso della
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sosta a Lero, al comandante Borghese furono fornite tutte le informazioni acquisite dal Reparto informazioni sulle difese del porto di Alessandria. Forte di quelle notizie Borghese effettuò un avvicinamento all’obiettivo semplicemente perfetto, nonostante esso fosse stato eseguito — per ovvie ragioni — quasi esclusivamente in immersione (33). Evitò i campi minati posati qualche mese prima dal Pietro Micca (o quel che ne restava dopo i ripetuti dragaggi britannici) approcciando l’obiettivo da nord-est, si tenne lontano dai canali d’ingresso che venivano periodicamente minati dai velivoli italo-tedeschi, evitò le aree di presenza dei gimnoti e adagiò il battello sul fondo a poche decine di metri dalla cintura di Indicator Loop che egli riteneva essere altro sbarramento di mine a brillamento remoto. Quel sistema di scoperta, che in seguito si sarebbe dimostrato estremamente efficace nei confronti dello stesso Scirè, in quell’occasione fu messo completamente fuori gioco, poiché incapace di rilevare il passaggio dei piccoli SLC in quanto tarato sulle dimensioni degli scafi dei sommergibili. Anche gli HDA, posizionati alle spalle degli Indicator Loop e spe-
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Una foto di gruppo di ufficiali e marinai britannici insieme alla manovalanza egiziana realizzata durante la stesura degli Indicator Loop e gli HDA sui fondali prospicenti la base di Alessandria nell’estate del 1940. In alto: un esempio di disposizione degli Indicator Loop sul fondo di un passaggio obbligato (indicatorloops.com).
cificatamente utilizzati per scoprire i mezzi insidiosi, fallirono completamente il loro compito nei confronti dei silenziosi motori elettrici dei «maiali». Il resto è storia, e non ci sembra questa la sede opportuna per ripercorrere le vicende che portarono i sei «eroi di Alessandria» a forzare la più munita base della Mediterranean Fleet, anche perché tale analisi è già stata egregiamente fatta più volte da altri autorevoli autori. Ciò che è importante rimarcare è che quell’azione da manuale, che privò il nemico delle due navi da battaglia Valiant e Queen Elizabeth paralizzandone, di fatto, quasi l’attività operativa nel Mediterraneo orientale per mesi, non sarebbe stata possibile senza il coraggio, la professionalità e la determinazione del comandante Borghese, del tenente di vascello Duran de la Penne, dei capitani Marceglia e Martellotta, dei palombari Bianchi, Schergat e Marino, ma anche, last but not the least, degli «uomini ombra» del Reparto informazioni della Regia Marina. Quanto fu importante per il successo dell’Impresa di Alessandria poter disporre delle informazioni sot-
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tratte alla quasi sconosciuta baleniera armata Thorbryn fu chiaro pochi mesi dopo, il 10 agosto del 1942, quando il sommergibile Scirè cadde vittima di quelle difese fisse anti sommergibile che ad Alessandria era riuscito a mettere fuori gioco. Le difese fisse del porto di Haifa, di cui evidentemente il SIS non era riuscito ad acquisire sufficienti informazioni, funzionarono esattamente come la Royal Navy le aveva ideate. Lo Scirè, della cui presenza in area i britannici avevano già avuto notizia grazie ad alcune decrittazioni ULTRA (34), fu, infatti, da prima avvistato da un ricognitore Walrus (11:15), quindi braccato dalle unità anti sommergibile nel frattempo fatte uscire dal porto di Haifa, poi localizzato dagli Indicator Loop (15:09) e infine danneggiato dalle bombe di profondità lanciate, del Trawler HMS Islay (T172). A quel punto lo Scirè, costretto a emergere per i danni subiti (15:45), fu fatto segno del preciso dalle artiglierie della batteria «Stella Maris» che in pochi minuti (15:45-15:50) ne causò l’affondamento con la perdita dell’intero valoroso equipaggio (35). Ma questa è un’altra (triste) storia… 8 101
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Gli autori desiderano ringraziare l’ing. Romano Pinelli per l’importante documentazione d’archivio fornita e per la consulenza fornita in merito alla storia dei mezzi d’assalto.
Uno spezzone di cavo di un Indicator Loop sezionato. Il cavo, recuperato a largo del porto di Haifa, è stato prodotto nel 1940 dalla Siemens di Londra (indicatorloops.com).
La strumentazione necessaria alla gestione operativa degli Indicator Loop nella sala di controllo di uno dei porti protetti con tale dispositivo. I segnali elettrici in entrata al galvanometro (n.3) venivano amplificati (n.5) e quindi registrati su strisce di carta da un apposito registratore-integratore (n.4), i cui rulli erano mossi da un motore elettrico (n.6). Su tali strisce di carta era quindi possibile identificare le variazioni di campo elettromagnetico nel tempo prodotte dal passaggio di uno scafo sommerso sopra le spire di cavi sottomarini (indicatorloops.com).
I due cilindri contenitori per gli SLC poppieri dello SCIRÈ (USMM).
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Il percorso degli SLC e il loro punto di rilascio dallo SCIRÈ in una carta tratta dal volume The Royal Navy and the Mediterranean (op. cit.). Si notino le posizioni dell’Indicator Loop n.1 e l’HDA denominato «A», i quali non riuscirono a rilevare il passaggio dei tre mezzi d’assalto italiani. Rivista Marittima Dicembre 2021
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La nave da battaglia britannica QUEEN ELIZABETH (collezione A. Asta via M. Brescia). Al centro: la nave da battaglia HMS VALIANT. Su tale unità al momento dell’attacco italiano era imbarcato il recentemente scomparso principe Filippo Mountbatten all’epoca in servizio nella Royal Navy. In basso: i danni provocati alla carena della VALIANT dall’esplosione della testa in guerra dell’SLC condotto dalla coppia Durand de la Penne-Bianchi (USMM).
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I sei «Eroi di Alessandria» M.O.V.M. (dall’alto in basso): T.V. Luigi Durand de la Penne e Co palombaro Emilio Bianchi (SLC n.221, bersaglio HMS VALIANT), capitano (GN) Antonio Marceglia e Sc palombaro Spartaco Schergat (SLC n.222, bersaglio HMS QUEEN ELIZABETH), capitano (AN) Vincenzo Martellotta e C° palombaro Mario Marino (SLC n.223, bersaglio petroliera SAGONA) - (USMM).
NOTE (1) The National Archives (TNA), fondo Admiralty (ADM), fasc. 258/3976, «HM Trawler Thorbryn: 19th August 1941; sunk by enemy action, aircraft attack at Tobruk, Libya», modulo di censura per la corrispondenza dei prigionieri di guerra datato 3 marzo 1942 e riguardante la lettera del marinaio J. Waller, uno dei sopravvissuti dell’HMS Thorbryn. (2) La tragica vicenda dell’affondamento del Thorbryn è menzionata solo a pag. 161 del volume The Royal Navy and the Mediterranean, vol. II: November 1940 – December 1941 (London, Routlage, 2002), mentre non trova riscontri né nell’opera di S.W. Roskill The War at Sea (op. cit. in bibliografia), né nell’autobiografia dell’ammiraglio A.B. Cunningham: L’odissea di un marinaio (op. cit.), né nelle Cunningham’s papers (op. cit.), né, infine, nei volumi redatti dal generale Playfair (op. cit). (3) Da: Norwegian Victims of Pinguin - Capture of the Whaling Fleet, Jan. 141941 di Siri Holm Lawson in: http://warsailors.com/raidervictims/pinguin2.html. (4) L’unità gemella del Thorbryn, il Thorgrim, fu affondato nel corso di un attacco aereo condotto su Alessandria da una formazione mista di velivoli italiani e tedeschi l’8 aprile del 1942 (Cfr. TNA, ADM 199/650, «C. in C. Mediterranean War Diaries»). Il Thorgrim fu riportato in superficie nel luglio del 1942 ma gli estesi danni subiti ne sconsigliarono la riparazione. (5) Le informazioni sull’attività operativa del HMS Thorbryn sono state desunte dal fascicolo del TNA: ADM 199/2572. (6) Da Tobruk and Beyond – War Notes from the Mediterranean Station 19411943 del vice ammiraglio Sir Albert Poland, KBE, CB, DSO, DSC. (7) Nel corso del mese di agosto 1941, Tobruk subì 37 attacchi aerei diurni da parte di bombardieri in quota e 31 da parte di bombardamenti notturni. Tali bombardamenti causarono agli italo-tedeschi la perdita, secondo fonte britannica, di 13 velivoli tutti abbattuti dalle difese contraerei della città fortificata (cfr. The Royal Navy and the Mediterranean, vol. II: November 1940 – December 1941, London, Routlage, 2002, pag. 160). (8) Il 23 luglio precedente la Lesbos aveva compiuto il suo primo viaggio da Alessandria a Tobruk scortata dal peschereccio armato Southern Isle. (9) I Landing Craft Tank (LCT), il cui nome in codice era A-Lighter, e i più piccoli Landing Craft Mechanized (LCM), denominati D-Lighter, facevano parte, nell’estate del 1941, della Western Desert Light Flottilla (WDLF). Diciotto LCT giunsero in Egitto nel febbraio del 1941 trasportati via nave smontati in sezioni e riallestiti in loco. Essi furono assemblati nella zona del Canale di Suez per andare a costituire la «Forza Z» con la quale il gabinetto di guerra britannico intendeva invadere l’isola italiana di Rodi. Nell’estate del 1941 alcuni A-Lighter e D-Lighter furono trasferiti ad Alessandria per far fronte all’esigenza del rifornimento della guarnigione britannica a Tobruk. La Western Desert Light Flottilla subì numerose perdite a causa di attacchi aerei italo-tedeschi tanto che gli equipaggi di quei mezzi da sbarco ironizzarono sull’acronimo «WDLF» dipinto sulle fiancate delle loro imbarcazioni attribuendogli il significato di «We Die Like Flies» («Moriamo come mosche»). (10) I D-Lighter, poiché non in grado di compiere navigazioni in mare aperto, venivano rimorchiati dalle unità ausiliarie della Royal Navy che provvedevano anche alla loro scorta. (11) Il capitano di vascello della RN Frank Montem Smith, comandante del porto di Tobruk e testimone oculare dell’attacco, descrisse nel suo rapporto i velivoli attaccanti come bimotori del tipo Junkers 88. (cfr. TNA, ADM 358/3976, messaggio radiotelegrafico n. 1833 del 5 ottobre 1941 dal N.O. Tobruk al C. in C. Mediterranean Fleat al Rear Admiral Alexandria. Si veda anche A. Santoni e F. Mattesini, La Partecipazione Tedesca alla Guerra Aeronavale Nel Mediterraneo (1940-1945), op. cit.). (12) Archivio dell’Ufficio Storico della Marina Militare (AUSMM), fondo Marilibia, b. 17. (13) Ibidem. (14) Sull’argomento di veda l’ottimo volume: E. Porta, La mia guerra tra i codici ed altri scritti (USMM, Roma 2013), nonché l’altrettanto eccellente saggio del compianto Tullio Marcon, I cifrari del Mohawk (Storia Militare, 1994, n. 12, pp. 13-20). (15) TNA, ADM 1/10589, «Egypt, Coast defences at Alexandria & Marsa Matruh», lettera del capo della missione militare britannica in Egitto datata 28 ottobre 1937. (16) Ibidem, lettera del Comandante in capo della Mediterranean Fleet datata 1o febbraio 1938. (17) R. Walding, Indicator Loop and anti-submarine Harbour defences in Australia in WWII, op. cit., pp. 9-10. (18) Fonte: http://indicatorloops.com/alexandria.htm. (19) TNA, ADM 1/10589, «Egypt, Coast defences at Alexandria & Marsa Matruh», lettera del capo della missione militare britannica in Egitto datata 23 giugno 1938. (20) I messaggi QB erano speciali «avvisi ai naviganti» segreti emanati dal Comandante in capo della Mediterranean Fleet inerenti i pericoli alla navigazione (canali dragati, campi minati, relitti sommersi, ecc.) ubicati nel bacino del Medi-
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Storia di una baleniera terraneo. A essi si affiancavano i messaggi QBA, QBB e QBC compilati, rispettivamente, dagli uffici informazioni dei comandi delle basi di Gibilterra, Malta e Alessandria (Cfr. TNA, ADM 199/2207, «Admiralty War Diaries (1940)», rapporto giornaliero del 19 giugno 1940). (21) Com’è noto, l’archivio del Reparto informazioni della Marina ci è pervenuto se non in forma molto frammentaria poiché esso fu probabilmente per gran parte distrutto nelle ore successive all’armistizio (Cfr. M. De Monte, Uomini Ombra. Ricordi di un addetto al servizio segreto navale, op. cit.). (22) Op. cit., pp. 13-14. (23) L’ipotesi alternativa è che l’ordine di operazione del Kos XIX sia stato rinvenuto al momento della perquisizione di uno dei naufraghi del Thorbryn. Quest’ultima ipotesi appare però poco verosimile data l’estrema attenzione posta in essere dai britannici nel distruggere ogni documento che si sarebbe potuto rivelare utile per il nemico in caso di cattura. (24) AUSMM, fondo Maricosom, b. 24, fasc. cit. in bibliografia. (25) I campi minati riportati nel QBC n. 111 non si riferivano a mine britanniche, poiché, come si è visto, la Royal Navy era priva di tali armi in Mediterraneo, bensì agli sbarramenti posati dal sommergibile italiano Pietro Micca nel corso delle due missioni svolte tra il 5 e il 21 giugno 1940 e tra il 4 e il 21 agosto dello stesso anno. La scoperta delle mine posate dagli italiani a grande profondità, avvenuta alcuni giorni dopo grazie alla segnalazione del cacciatorpediniere HMS Stuart, fu una completa sorpresa per gli inglesi. Le mine britanniche Mark XVI utilizzate dai sottomarini della classe «Grampus» potevano essere posate su fondali di massimo di 80 braccia (146 metri). Le mine posate dal Pietro Micca, una delle quali fu recuperata dai britannici nell’agosto 1940, avevano invece un cavo di ormeggio di ben 207 braccia (379 metri). Non è chiaro, poiché l’informativa del SIS basata sui documenti catturati sul Thorbryn è per gran parte una mera traduzione degli stessi, se il Servizio informazioni della Regia Marina avesse o meno desunto che il campo minato indicato nel QBC n. 111 fosse quello posato dal Pietro Micca e, soprattutto, se l’intelligence navale italiana fosse al corrente del fatto che nel Mediterraneo il nemico non disponeva di mine ormeggiate con innesco a contatto. (26) A pag. 139 del volume dell’USMM I mezzi d’assalto nella Seconda guerra mondiale (op. cit.), è riportato: «Le informazioni avute a Lero dal comandante dello Scirè sugli sbarramenti e campi minati esistenti ad Alessandria erano le seguenti: Difese fisse e mobili accertate: a) Zona minata a 20 miglia a nord ovest del porto [si trattava delle mine del Pietro Micca, ndr]; b) linea di gimnoti disposta sul fondale di 30 braccia su di un cerchio avente un raggio di circa 6 miglia [si trattava invece degli Indicator Loop, come vedremo in seguito, ndr]; c) linea di cavi avvisatori in zona più ravvicinata [informazione probabilmente desunta dal QBC n. 108, ndr]; d) gruppi di gimnoti in posizioni conosciute [informazione desunta dal QBC n. 264, ndr], e) sbarramenti retali di non difficile forzamento [informazione desunta dal QBC n. 113, ndr]; f) linea di vigilanza foranea all’esterno della zona minata [informazione ricavata dall’interrogatorio dei sopravvissuti del «convoglio Thorbryn», ndr]. (27) AUSMM, fondo Supermarina – Mezzi d’Assalto, b. «H», fasc. H1, fg. prot. n. 5879/41-A2 in data 2 ottobre 1941 dell’Admiralstab der Kgl Italianischen Marine. (28) Non è stato possibile accertare la provenienza della «carta bottino» inviata dai tedeschi a Supermarina. È comunque probabile che essa sia stata in qualche modo catturata durante l’invasione di Creta del maggio-giugno 1941. (29) C. De Risio, I mezzi d’assalto nella Seconda guerra mondiale, pag. 134. (30) Secondo alcune fonti, il SIS era venuto in possesso dei segnali di riconoscimento britannici per il mese di dicembre 1941, i quali furono forniti al sommergibile Scirè per l’operazione GA3. Gli autori del presente saggio non hanno però trovato alcun riscontro documentale a questa ipotesi, né negli archivi italiani, né in quelli britannici, nonostante entrambi siano stati estesamente consultati per la stesura di queste note. (31) Nonostante le ricerche effettuate non è stato possibile rintracciare il rapporto di missione del ricognitore che avvistò lo Scirè a sud di Creta. (32) TNA, ADM 223/583, «Human torpedo attacks (1940-1944)». L’episodio è menzionato anche nel fascicolo ADM 116/4555, «Defence of Mediterranean harbours against special craft: reports of attacks, defensive measures, ecc.» e nel fascicolo ADM 199/415, «Mediterranean War Diaries», nel rapporto giornaliero relativo al 9 dicembre 1941 (pag. 267). (33) Per meglio comprendere quanto la navigazione occulta dello Scirè fu condotta con precisione attraverso i pericoli conosciuti, si consideri che nel corso della fallita operazione GA4 del 14-15 maggio 1942 il sommergibile Ambra fu rilevato sia dagli Indicator Loop sia dagli HDA del sistema di difesa del porto di Alessandria. Ciò a causa di un errore di navigazione che portò il sommergibile a rilasciare gli operatori su un punto più a ponente rispetto a quello prestabilito e basato, come nel dicembre dell’anno precedente, sulle informazioni note circa le difese fisse di Alessandria. (Cfr. TNA, ADM 223/583, «Human torpedo attacks (1940-1944)», messaggio prot. n. 1352C/20 May del C. in C. della Mediterranean Fleet). (34) Si trattava delle decrittazioni ZTPI/13518, 13687, 13956, 14018, 14032, 14033, 14068, 14410 e 16015 e di quelle CX/MSS/1258/T19, 1265/T3,1271/T23, 1275/T7. Le prime (serie ZTPI) erano decrittazioni di radio dispacci trasmessi della Regia Marina, le seconde (serie CX/MSS) di messaggi radio della Luftwaffe tedesca. (35) Cfr. E. Galili, F. Ruberti, R. Walding, The last battle of the italian submarine Scirè, in Haifa Bay, Israel, and the struggle for control of the Eastern Mediterranean in World War II, in Archeologia marittima mediterranea, n. 10/2013, pp. 95-124. Si veda anche, sempre di F. Ruberti, L’epopea dello Scirè, in Sub, 2010, n. 1/gennaio 2010, pp. 30-44. BIBLIOGRAFIA D. Brown, (edito da), The Royal Navy and the Mediterranean, Vol.2: November 1940 - December 1941, Londra, Whitehall History Publishing & Frank Cass, 2002. A. Cippico, Dio punisca Anna Tobruk! (La guerra di un agente segreto), Roma, Danesi Editore, 1947. A.B. Cunningham, L’odissea di un marinaio, Milano, Garzanti, 1952. A.B. Cunningham, The Cunningham’s Papers – Vol. 1: The Mediterraneanean Fleet 1939-1942, Farnham, Ashgate for the Navy’s Records Society, 1999. M. De Monte. Uomini ombra. Ricordi di un addetto al servizio segreto navale 1939-1943, Roma, N.E.M.I., 1955. C. De Risio, La Marina italiana nella Seconda guerra mondiale, vol. XIV: I Mezzi d’Assalto, Roma, Ufficio Storico della Marina Militare (USMM), 2013 (5a edizione). J. Latimer, Tobruk 1941. Rommel’s opening move, Oxford, Osprey Publishing, 2001. S. Nesi, Scirè. 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RUBRICHE
F OCUS
DIPLOMATICO
La lotta per il clima. G20 di Roma e COP 26 di Glasgow Gli sforzi esperiti con grande autorevolezza dal presidente Draghi e dalla efficientissima delegazione interministeriale al suo fianco guidata dallo sherpa Luigi Mattiolo, dopo una preparazione in cui è stato impegnato praticamente tutto il Governo, così come quelli della Commissione e del Regno Unito per una volta convergenti negli intenti, stanno producendo nella sequenza G20 di Roma e COP 26 di Glasgow positivi risultati parziali, anche se ancora lontani da quanto necessario, sul tema cruciale ed esistenziale per l’umanità del contrasto ai cambiamenti climatici. Gli effetti del riscaldamento globale e i rischi ancora maggiori che questo comporta sono ormai noti a tutti grazie anche alla crescente consapevolezza nell’opinione pubblica e alla spinta proveniente dalle giovani generazioni destinate a subirne più di ogni altro le conseguenze. Il Circolo di Studi Diplomatici ne ha ampiamente dibattuto con due Dialoghi nel 2020 e nel 2021. I termini del problema, mentre è appena iniziata la Conferenza di Glasgow, sono chiari. Le emissioni globali di CO2, secondo i dati consolidati più recenti, sono prodotti per circa il 29% dalla Cina che ha superato quelli dell’Europa nel 2002 (oggi attorno all’8%) e quelli degli Stati Uniti nel 2006 (oggi circa il 16%). La componente del carbone nella produzione di energia elettrica in Cina, nell’ambito di una politica diretta a
Foto di gruppo dei leader presenti al G20 di Roma (giornale.it).
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ridurre l’inquinamento, è scesa dal 71% nel 2008 al 58% nel 2019 mentre è aumentata quella delle fonti rinnovabili, in particolare di quella idroelettrica (18%), solare ed eolica, oltre a un accresciuto uso di idrocarburi per oltre la metà importati soprattutto dal Medio Oriente ma anche dall’Asia Centrale e dalla Russia, con tutte le conseguenze sul piano geopolitico che questo comporta. Limitato è l’impiego di energia nucleare (5%). Nuove aperture di miniere di carbone, in controtendenza con quanto avvenuto negli anni precedenti, è però avvenuto nell’ultimo anno per fare fronte all’impennata della domanda di energia dovuta alla ripresa post Covid-19 e a una ridotta disponibilità di gas. Lo stock di CO2 nell’atmosfera che determina l’effetto serra è tuttavia in grandissima parte frutto di quanto immesso da Nord America, Europa, Giappone e Russia nel corso dei più di due secoli dall’inizio della rivoluzione industriale basata sulle fonti fossili. Tali aree e paesi nel loro insieme sono stati i maggiori inquinatori con una accelerazione a ritmi crescenti fino a quando con il collasso dell’Unione Sovietica, l’avvio della globalizzazione e l’enorme crescita dei paesi asiatici emergenti, a partire dalla Cina, sono stati ampiamente superati da questi ultimi che oggi sono diventati il principale fattore di aggravamento del problema. Si tratta di paesi che hanno però ancora dei tassi di emissione pro-
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capite molto inferiori a quelli occidentali con l’eccezione della Cina che ha ormai raggiunto i livelli europei ma è ancora assai lontana da quelli americani. Secondo questo parametro, ogni americano immette annualmente in media nell’atmosfera 16,4 tonnellate di CO2. Ciò è legato a consolidate modalità di uso dell’energia avuta e mantenuta a buon mercato nei processi produttivi, nei trasporti, nei luoghi di lavoro, nelle abitazioni, nelle modalità di riscaldamento e raffreddamento considerate le dimensioni e le differenziate caratteristiche metereologiche del paese per quanto ora in evoluzione. Le conseguenze dei mutamenti climatici sono state subite con frequenze e intensità crescenti di uragani, incendi e altri fenomeni estremi con danni per miliardi di dollari e centinaia di vittime. Ma settori importanti della popolazione americana hanno anche percepito che il necessario passaggio da fonti fossili a fonti rinnovabili li colpisce nei redditi, nelle prospettive di occupazione, nello status sociale. Assieme ad altre motivazioni e a malcontenti di altra natura condivisi con altre componenti della società, questi aspetti sono stati determinanti per il successo elettorale di Trump nel 2016, la cui piattaforma negazionista è stata per quattro anni pratica di governo, all’interno e nei rapporti internazionali, anche se grazie alla struttura federale del paese diversi Stati hanno continuato le politiche avviate dalla presidenza Obama, così come rilevanti settori industriali hanno continuato a investire in trasformazioni ritenute tra i maggiori fattori di sviluppo nei prossimi decenni. Gli europei nel loro insieme immettono annualmente pro-capite 7,4 tonnellate di CO2. Questo relativamente basso livello, così come quello del valore assoluto, è dovuto, oltre che a una riduzione delle produzioni industriali negli ultimi due decenni, soprattutto alle politiche di efficientamento energetico e di sostegno alle energie alternative praticate con decisione dagli inizi di questo secolo sulla scia dell’attenzione alle questioni ambientali iniziate precedentemente. L’UE ha posto in essere politiche e strumenti regolatori tra i quali quelli contenuti nelle direttive del 2001 e del 2003 sull’energia rinnovabile e i biofuels assieme ad altre sull’efficienza energetica tra cui, in particolare, il primo pacchetto sul clima e l’energia, entrato in vi-
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gore nel 2009, che ha posto ambiziosi obiettivi in questo campo sostanzialmente raggiunti nel 2020: una riduzione del 20% delle emissioni rispetto ai livelli del 1990, una quota delle energie rinnovabili del 20% nella produzione di energia, un miglioramento del 20% dell’efficienza energetica (Programma 20-20-20). Un ampliamento quantitativo e qualitativo degli obiettivi si è avuto con una rinnovata strategia adottata nel 2014 alla vigilia della Conferenza di Parigi e con le ulteriori direttive di dettaglio introdotte in tale ambito i cui risultati sono evidenti. Un grande impulso in questa direzione è stato poi impresso dalla Commissione guidata da Ursula Von der Leyen, con il sostegno del Parlamento europeo e dei maggiori Stati membri, che nel 2019 ha posto la transizione energetica e la lotta ai cambiamenti climatici al vertice delle priorità del suo programma per la crescita nell’UE approvato dal Consiglio europeo. Ha così lanciato il Green Deal il cui obiettivo è il raggiungimento nel 2050 del saldo zero, tra emissioni e cattura di CO2, con la tappa intermedia della riduzione del 55% delle emissioni nel 2030. L’esigenza di fare fronte alle conseguenze economiche della pandemia e il forte impegno in questa direzione soprattutto di Francia, Germania, Italia e Spagna ha portato come noto le istituzioni europee a costituire un fondo per la ripresa («Recovery Fund») nell’ambito del programma «New Generation EU» con lo scopo di sostenere i paesi più colpiti, con un ammontare di 390 miliardi di euro di prestiti fortemente agevolati e 350 miliardi di erogazioni a fondo perduto. Il 37% di tali fondi dovrà finanziare il Green Deal. Al fine di raggiungere gli obiettivi fissati il piano «Fit for 55» è stato adottato nel luglio 2021, contenente la previsione di specifiche misure legislative riguardanti tutti i settori per incidere sull’aumento dell’uso delle risorse rinnovabili, sull’efficientamento energetico e sulla cattura delle emissioni. Tra tali misure vi sono l’arresto della produzione di veicoli con motori a combustione interna a partire dal 2035, l’introduzione di «carbon taxes» interne e sui prodotti importati, incentivi all’uso di rinnovabili e alla piantagione di alberi. È previsto un nuovo Fondo sociale climatico del valore di 72 miliardi di euro per sostenere imprese e famiglie colpite da tali
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costi sociali della transizione che potrebbero avere serie conseguenze politiche se non adeguatamente gestite. Il programma molto ambizioso conferma la posizione di avanguardia dell’Unione europea nella lotta ai cambiamenti climatici. Accanto a questi due gruppi di paesi, quelli di vecchia industrializzazione e gli emergenti, vi sono i paesi meno avanzati che contribuiscono in misura insignificante alle emissioni ma subiscono comparativamente i maggiori danni diretti: inondazioni devastanti, siccità, crisi alimentari, movimenti di popolazioni, conflitti. Essi sono tra coloro che spingono di più affinché sia data concretezza alla transizione energetica chiedendo al tempo stesso aiuti per adattarsi alle conseguenze del riscaldamento globale e affrontare i costi della transizione. Tutti questi elementi sono cruciali nei posizionamenti degli attori nel negoziato che a Roma è stato rilanciato, è stato ripreso a Glasgow, tenendo conto che le decisioni del G20 sono state più precisamente esplicitate affinché poi diventassero effettivamente operative con l’auspicabile definizione delle relative modalità. Gli emergenti non mancheranno di riferirsi al principio affermato da decenni e richiamato anche nelle conclusioni di Roma delle «responsabilità comuni ma differenziate». Il riscaldamento del pianeta colpisce evidentemente tutti. E le sue conseguenze attuali e future sono sempre più evidenti. Lo scioglimento dei ghiacci, l’elevazione del livello dei mari, e quindi in molti casi la stessa sopravvivenza degli insediamenti lungo le coste, gli effetti sui sistemi metereologici e di circolazione delle correnti marine e atmosferiche, e quindi sui crescenti rischi di siccità, alluvioni, uragani e altri fenomeni estremi di cui crescono i segni in molte parti del mondo, alterazioni della biodiversità e degli ecosistemi con le loro conseguenze sulla nascita e sulla diffusione di pandemie, sulle risorse di acqua dolce, sulle produzioni agricole e quindi sulle esigenze alimentari delle popolazioni, sulle loro condizioni di salute e sui fenomeni migratori, nonché su innumerevoli altri fattori economici e sociali con conseguenze sugli equilibri politici, sulla sicurezza globale e sui livelli di conflittualità. La transizione energetica è quindi assolutamente indispensabile, ma vi è anche la consapevolezza degli
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enormi costi che questa comporta se si vogliono realmente raggiungere gli obiettivi quantitativi e temporali posti dalle Conferenze internazionali sul clima e soprattutto dall’Unione europea. Sono costi economici, sociali e politici, per le imprese, per le famiglie e per la società nel suo insieme. È tuttavia vero che lo status quo comporterebbe costi di gran lunga maggiori appena elencati, con disastri climatici sempre più frequenti da gestire e prospettive sempre più cupe per l’umanità e la sua sicurezza in tutti i sensi, incluso quello sanitario. E ciò senza contare che rimanere indietro rispetto a un trend verso il quale la grande politica si è avviata, malgrado le inevitabili resistenze e vischiosità, determinerebbe perdite in termini di competitività complessiva dei sistemi produttivi che dovranno comunque adattarsi ai mutamenti necessari con gli opportuni sostegni e ammortizzatori da parte dei poteri pubblici. I sacrifici che saranno imposti a certi comparti, ai suoi imprenditori e lavoratori, e più in generale a tutti coloro che subiranno svantaggi dalla transizione, andranno compensati. Alle eliminazioni di sussidi ai carburanti fossili dovranno per esempio corrispondere indennizzi di eguale valore mentre andrà favorita la conversione verso le attività su cui la finanza globale e l’economia reale, dei quali il presidente Draghi ha sottolineato a Glasgow il ruolo cruciale, stanno investendo in misura crescente nell’ambito della transizione in corso. Quanto accaduto in Francia lo scorso anno con i gilets jaunes indica quel che occorre evi-
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(eurispes.eu).
tare. E anche questo determinerà costi da ripartire equamente nella collettività con tutti i problemi politici, da gestire, che questo comporta. Da tutto questo deriva la necessità di procedere decisamente sulla via della transizione ma individuando i mix che consentano di mitigare costi, oneri ed effetti negativi di ogni tipo. È vero che l’Europa produce soltanto l’8% delle emissioni di CO2, ma è anche vero che lo stimolo verso i grandi inquinatori (nell’ordine Cina, Stati Uniti e India), che con velocità diverse si sono resi e si stanno sempre più rendendo conto dell’esigenza di agire per ridurre ciò che avrà conseguenze disastrose anche per loro, sarà tanto più efficace quanto più saremo in grado di indicare, praticare e far recepire gli standard di produzione ed efficienza che stiamo sviluppando. Fondamentale è lo sviluppo di nuove tecnologie che riducano gli effetti della discontinuità delle rinnovabili e potenzino quindi le capacità di stoccaggio dell’energia, ne migliorino le modalità di trasmissione e aumentino le capacità di cattura affiancando quelle artificiali a quelle naturali costituite dalle risorse vegetali, da preservare e ampliare. La Cina sta procedendo in questa direzione, nella ricerca e nella produzione di impianti, e ha il vantaggio di avere nel suo territorio i minerali occorrenti, in buona parte gli stessi necessari allo sviluppo dell’economia digitale. L’Europa non dovrà rimanere in questo campo indietro rispetto a quanto si sta facendo lì e negli Stati Uniti. Lo sviluppo e la gestione di questi processi saranno una grande sfida dei
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prossimi decenni. Si tratterà di vedere se e in quale misura vi prevarranno gli aspetti cooperativi o conflittuali nell’azione dei principali attori. Da perseguire è anche la ricerca e lo sviluppo di nuove tecnologie in campo nucleare che azzerino o riducano al punto di rendere efficacemente gestibili i problemi posti dalle scorie radioattive e dai rischi di sicurezza degli impianti. E questo sia nel campo di nuove forme di fissione in piccoli impianti, dette di quarta generazione, sia della fusione di atomi di materiali non radioattivi. Per il loro uso industriale sono tuttavia previsti più decenni. La quantità di energia da rinnovabili che dovremo produrre è enorme. In Europa e in particolare in Italia dovremmo concentrarci sulle installazioni nelle aree già costruite e in quelle industriali dismesse, non essendo ipotizzabile estendere oltre misure ragionevoli l’ulteriore utilizzo di suoli agricoli o forestali. Per l’eolico andranno sempre più sviluppati gli impianti off-shore dove vi sono le condizioni di massimo utilizzo del vento. Ma tutto questo non potrà certamente bastare, tenuto conto dei fabbisogni di energia e di movimentazione di quella che viene prodotta. È vero che sotto quest’ultimo profilo può soccorrerci l’idrogeno, ma va considerato che i processi elettrolitici per la sua produzione richiedono a loro volta grandi quantità di energia. Occorre quindi considerare, nell’ambito del necessario mix da realizzare, anche le aree in cui l’energia rinnovabile, soprattutto solare, può essere prodotta essendovi gli spazi e le condizioni naturali necessarie. Grandi investimenti sono in corso per l’energia solare in Medio Oriente e in particolare nei paesi che come quelli del Golfo hanno le maggiori capacità finanziarie e potenzialità naturali per uscire gradualmente dalla monocultura degli idrocarburi. Per quanto vi siano, come nella fase attuale, aumenti di prezzi dovuti anche alla transizione a causa dei minori investimenti nel settore, essi sono nel lungo periodo destinati a vedere ridotta la loro domanda. E questo malgrado il fatto che soprattutto il gas accompagnerà necessariamente per alcuni decenni la transizione, sia per compensare le discontinuità fin quando non avremo tecnologie che, come accennato, ne riducano al massimo l’impatto, sia per fornire energia meno inquinante
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di altre fonti fossili fin quando questa non sarà interamente fornita da rinnovabili. Oltre ai governi locali, con gradazioni differenziate (l’Arabia Saudita è invitata a fare di più), sono impegnate in modo crescente in tali attività grandi imprese internazionali del settore oil and gas che si stanno progressivamente orientando verso le rinnovabili. In tal senso, con l’impulso dell’Agenzia Internazionale dell’Energia, si stanno del resto muovendo le istituzioni finanziarie e di sostegno allo sviluppo che stanno fortemente riducendo i finanziamenti e le coperture assicurative agli investimenti negli idrocarburi. A Roma si è intanto concordato di porre fine nel 2022 ai finanziamenti alla produzione di carbone. Analogamente si stanno avviando iniziative nel Nord Africa per produrre con fonti rinnovabili energia diretta sia a soddisfare i consumi locali (e nei paesi produttori di idrocarburi a rendere disponibile più gas per l’esportazione durante la transizione), sia a destinarne una parte alla produzione di idrogeno per trasportarla in Europa. Imprese italiane sono già impegnate in questa direzione. Sappiamo quali sono le condizioni del Nord Africa in termini di sicurezza e di dinamiche geopolitiche. Diventano quindi sempre più rilevanti, anche sotto questo profilo, le azioni per la stabilizzazione di quell’area rendendo così una politica estera e di gestione delle
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crisi con questa finalità (e con l’avallo, per quanto può valere, dato a Roma da Biden a Macron sulla difesa europea), anche una componente importante per la transizione energetica. Questo nesso sembra d’altra parte sempre più compreso dalle istituzioni europee. Quanto verrà dalle importazioni di energia dal nostro vicinato (non dimenticando le potenzialità nei Balcani dell’idroelettrico) sarà comunque limitato rispetto all’insieme dei fabbisogni, ma potrà contribuire in modo non trascurabile al mix che andrà costruito. Alla Conferenza di Parigi del 2015 e nell’accordo che ne è uscito, era stato assunto l’impegno di mantenere l’aumento del riscaldamento dell’atmosfera alla fine del secolo a meno di 2 gradi rispetto all’era pre-industriale con l’esortazione di abbassarlo a 1,5. Ma su questo vi erano le riserve della Cina, dell’India, della Russia e di altri, anche se il successo relativo della Conferenza fu dovuto all’impegno congiunto dei presidenti Obama e Xi Jinping e dell’Unione europea nel cui ambito un’azione di stimolo era stata svolta dall’Italia. Il G20, e da qui la soddisfazione del presidente Draghi, ha fatto registrare, con fatica, l’accettazione di tutti, Cina, India e Arabia Saudita comprese, dell’obiettivo di 1,5 gradi. Un risultato raggiunto a metà è poi l’impegno comune a che la neutralità climatica (saldo zero tra emissioni di CO2 e loro cattura), sia raggiunta «entro o attorno alla metà del secolo». L’Europa, e poi gli Stati Uniti, hanno assunto l’impegno a raggiungerla nel 2050. La Cina e la Russia (quest’ultima peraltro tra gli inquinatori storici) se lo sono dato per il 2060 ritenendo di poter raggiungere il picco delle emissioni nel 2035. Il compromesso trovato a Roma per avere un testo condiviso è stato quello sopraindicato. Nell’apertura della Conferenza di Glasgow il primo ministro indiano Modi ha però subito annunciato che il suo paese non potrà farlo prima del 2070. L’India produce il 7% delle emissioni globali di CO2, poco meno dell’Unione europea. È stato inoltre ribadito l’impegno a fornire 100 miliardi di dollari l’anno, da parte dei paesi più ricchi per sostenere la transizione, le mitigazioni e gli adatta-
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menti che si rendono necessari nei paesi meno avanzati che come abbiamo visto avranno i maggiori danni dal riscaldamento climatico. È un obiettivo molto ambizioso e molti dubitano che possa essere raggiunto. Lo potrà forse essere, o ci si potrà avvicinare, se i paesi sviluppati rientreranno in una fase di crescita stabile che consenta anche questi necessari stanziamenti. Alcuni risultati raggiunti ai margini del G20 potranno favoI presidenti Putin e Xi Jinping collegati in remoto al G20 di roma (ilfoglio.it). rirlo. L’accordo sull’eliminazione dei dazi introdotti dall’ammininei loro paesi, avrebbe probabilmente facilitato il ragstrazione Trump su acciaio, alluminio e altri prodotti, giungimento di accordi come era avvenuto a Parigi. Ma e delle reciproche contromisure europee, dovrebbe i loro ministri degli Esteri hanno alla fine contribuito ai contribuire a tale auspicata crescita sulle due rive risultati parziali rivendicati dal presidente Draghi, risuldell’Atlantico. Anche l’impegno sui vaccini diretto a tati che hanno trovato approfondimento a Glasgow. Sacoprire l’immunizzazione del 40% della popolazione rebbe da auspicare che una collaborazione in questo mondiale per la fine dell’anno in corso e del 70% per campo possa facilitare una riduzione delle tensioni anche la metà del prossimo potrebbe contribuire alla crescita in altri settori, benché non lasci ben sperare il contemin quei paesi se effettivamente attuato, malgrado le poraneo aumento di quelle su Taiwan ove hanno avuto enormi difficoltà soprattutto logistiche, con effetti poluogo nuovi sorvoli cinesi, peraltro subito dopo l’inconsitivi anche sui paesi sviluppati, così come i 650 mitro a Roma del segretario di stato Blinken con il suo liardi di nuovi diritti speciali di prelievo del FMI in omologo Wang Yi definiti «costruttivi» dalle due parti. loro favore. Nella stessa direzione va la decisione sulla In conclusione dobbiamo essere sempre più consatassazione delle multinazionali di almeno il 15% dei pevoli, facendoci carico di tutte le conseguenze, che la profitti laddove sono prodotti. Non irrilevanti, anche transizione energetica sarà molto costosa, difficile, ma ai fini della crescita globale, sono infine gli impegni assolutamente ineludibile e che tutti gli strumenti per sull’uguaglianza di genere e l’empowerment femmirenderla sostenibile andranno posti in essere con il reanile in un testo sul quale si è dovuto trovare l’accordo lismo e la determinazione che le circostanze richiedono. anche dell’Arabia Saudita. La presenza effettiva dei presidenti Xi Jinping e Putin, collegati in remoto con la motivazione da loro addotta Maurizio Melani, delle restrizioni per la pandemia che ha ripreso a crescere Circolo di Studi Diplomatici L’ambasciatore Maurizio Melani è stato direttore generale per la Promozione del sistema paese del ministero degli Esteri, ambasciatore in Iraq, rappresentante italiano nel Comitato politico e di sicurezza dell’UE, direttore generale per l’Africa, ambasciatore in Etiopia, capo dell’Ufficio per i rapporti con il parlamento nel Gabinetto del ministro degli Esteri, capo della Segreteria del sottosegretario di Stato delegato alla cooperazione. Ha prestato servizio nella Rappresentanza permanente presso la CEE, nelle ambasciate ad Addis Abeba, Londra e Dar es Salaam e nelle Direzioni generali dell’Emigrazione, degli Affari politici e degli Affari economici. Docente di Relazioni internazionali e autore di libri, saggi e articoli su temi politici ed economici internazionali. Il Circolo di Studi Diplomatici è un’associazione fondata nel 1968 su iniziativa di un ristretto gruppo di ambasciatori con l’obiettivo di non disperdere le esperienze e le competenze dopo la cessazione dal servizio attivo. Il Circolo si è poi nel tempo rinnovato e ampliato attraverso la cooptazione di funzionari diplomatici giunti all’apice della carriera nello svolgimento di incarichi di alta responsabilità, a Roma e all’estero.
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cooperazione tra Iran e Azerbaigian, che condividono un confine di 700 chilometri ma ha anche sottolineato, in un incontro con il nuovo ambasciatore dell’Azerbaigian, il 30 settembre scorso, che Teheran non tollera la presenza e l’attività contro la sua sicurezza nazionale da parte di Israele (definito «regime sionista») vicino ai propri confini e che prenderà tutte le misure necessarie al riguardo. Teheran ha accusato Israele di aver sabotato il suo programma nucleare e di aver assassinato diversi suoi scienziati nucleari, incluso Mohsen Fakhrizadeh (a cui è stato attribuita la paternità di un programma nucleare iraniano segreto che l’intelligence statunitense e l’Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica delle Nazioni Unite ritengono sia stato abbandonato nel 2003) il quale è stato ucciso in un agguato stradale telecomandato nel 2020 attribuito a Israele. Separatamente l’ambasciatore iraniano a Baku, Abbas Musavi, ha giocato alla distensione dichiarando che le manovre militari erano state pianificate da molto tempo e che non erano una minaccia per l’Azerbaigian. Ma in questo gioco di specchi, parlando durante le esercitazioni, anche il generale Kioumars Heydari, comandante delle Forze di terra dell’esercito iraniano, ha fatto pesanti allusioni ai legami israeliani con l’Azerbaigian, aggiungendo che Teheran era anche preoccupata per la presenza di forze terroristiche arrivate nella regione dalla Siria, con un non mascherato riferimento ai rapporti secondo cui la Turchia l’anno scorso ha reclutato combattenti islamici per aiutare Baku nella sua guerra contro gli armeni nel Nagorno-Karabakh. Heydari ha detto che Teheran non era sicura che i combattenti avessero lasciato la regione. L’Iran, che è accusato di condurre guerre per procura in Yemen, Siria, Iraq, lo scorso anno aveva espresso preoccupazione per i presunti tentativi di portare terroristi dalla Siria vicino ai suoi confini. L’obiettivo dichiarato dell’esercitazione «Three Brothers-2021», ha avuto il fine di rafforzare i legami esistenti tra gli eserciti di Turchia, Pakistan «Al centro del contrasto troviamo l’Azerbaigian e l’Iran. Le tensioni sono aumentate di recente e Azerbaigian, nazioni che hanno relatra Teheran e Baku (...)» (twitter.com). zioni difficili con Teheran. Secondo al-
Al centro del contrasto troviamo l’Azerbaigian e l’Iran. Le tensioni sono aumentate di recente tra Teheran e Baku a causa di tre questioni: un’esercitazione militare congiunta che le truppe azere hanno condotto insieme alle loro controparti turche e pakistane vicino al confine iraniano; le restrizioni dell’Azerbaigian all’accesso dei camionisti iraniani in Armenia e la detenzione di due conducenti; i legami dell’Azerbaigian con il nemico dell’Iran, Israele. Il 1° ottobre, Teheran ha risposto organizzando esercitazioni militari vicino al confine con l’Azerbaigian, pochi giorni dopo che il Corpo delle guardie rivoluzionarie (IRGC) aveva dispiegato grandi quantità di personale e mezzi nell’area. La mossa è stata accolta con espressioni di preoccupazione da parte del presidente dell’Azerbaigian Ilham Aliyev, che ha commentato dicendo: «Ogni paese può svolgere qualsiasi esercitazione militare sul proprio territorio. È un loro diritto sovrano. Ma perché ora, e perché al nostro confine?» Aliyev ha detto che era la prima volta dalla caduta dell’Unione Sovietica, 30 anni fa, che l’Iran aveva pianificato una tale dimostrazione di forza così vicino al suo confine. I funzionari iraniani hanno reagito affermando che la decisione di organizzare esercitazioni è una questione di sovranità, ma altri l’hanno collegata alla presenza israeliana in Azerbaigian. Il ministro degli Esteri iraniano Hossein AmirAbdollahian ha affermato che Teheran ha il diritto di tenere esercitazioni e ha sottolineato l’importanza della
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«L’obiettivo dichiarato dell’esercitazione “Three Brothers-2021” ha avuto il fine di rafforzare i legami esistenti tra gli eserciti di Turchia, Pakistan e Azerbaigian (...)» (nation.com.pk).
burante nella vicina Armenia (che ha relazioni assai buone con Teheran) attraversando territori di cui Baku ha ripreso il controllo lo scorso anno durante sei settimane di intensi combattimenti contro le forze di Yerevan in una drammatica escalation del decennale «conflitto congelato» del Nagorno-Karabakh. L’Azerbaigian ha anche arrestato due camionisti, il che ha portato a una richiesta di rilascio immediato da parte del ministero degli Esteri iraniano.
Five Eyes cuni analisti, Teheran si sente insicura per diverse ragioni, di cui una, può essere il timore che la presenza israeliana e l’attivismo di Baku possano essere elemento catalizzatore per la numerosa comunità azera residente nel nord dell’Iran, che conta diversi milioni di persone (i dati, di cui non vi è certezza, oscillano tra gli otto e i venti milioni) e che sebbene leali al governo centrale potrebbero essere sensibili alle sirene di un paese sciita, ma più liberale e aperto. Gli altri timori sono quelli del timore iraniano dell’accerchiamento e dell’assedio. Accanto all’Azerbaigian (con alle spalle Israele) vi sono la Turchia, che ha il secondo esercito della NATO (per Teheran, NATO è sinonimo di Washington) e il Pakistan che è una potenza nucleare nella regione; anche con questo paese vi sono forti tensioni soprattutto nei riguardi del Balucistan. Quando questi due paesi si uniscono all’Azerbaigian nelle manovre militari, si preoccupa la Russia (che cerca di tenere insieme Turchia e Iran nell’ambito dei dialoghi di Astana e soci per la Siria), che ha rapporti difficili con l’Azerbaigian in quanto Mosca sostiene l’Armenia. In un quadro così difficile non potevano mancare dichiarazioni forti: alla vigilia delle esercitazioni, il quotidiano turco Yeni Safak, considerato prossimo alle posizioni del Governo e del presidente Erdogan, ha pubblicato il seguente titolo per un’intervista con un deputato del parlamento azero: «L’Iran scomparirà dalla mappa». Inoltre l’Azerbaigian ha imposto una tassa di circolazione ai camionisti iraniani che trasportano merci e car-
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La posizione sempre più assertiva della Cina in Asia sta impattando sulla comunità internazionale. Il QUAD, AUKUS, ANZUS, FPDA, ASEAN, ASEANARF, ShanGriLa Dialogue (manca solo l’idea di riattivare la SEATO) ne sono gli esempi più visibili. In questi ambiti si starebbe lavorando sempre più intensamente al rafforzamento delle intese relative a intelligence, cyberwarfare, sorveglianza elettronica e satellitare. Questo settore, elemento sempre assai delicato nelle relazioni tra gli Stati soffre particolarmente a causa dell’offensiva di Pechino, che vuole prendere il vantaggio tecnologico, mantenerlo e ampliarlo il più possibile rispetto alle nazioni potenzialmente ostili ai suoi progetti egemonici. In maniera inusuale in quanto si tratta di temi che dovrebbero restare confidenziali, si è acceso un vasto ma complesso dibattito sulla opportunità di allargare la cosiddetta comunità dei Five Eyes, che riunisce l’intelligence di USA, Gran Bretagna, Canada, Australia e Nuova Zelanda. Alcuni aderenti potenziali potrebbero essere India, Corea del Sud, Germania e Giappone. Sull’adesione di questi Stati si è molto speculato a causa
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di alcuni paragrafi redatti dal sottocomitato per l’Intelligence e le operazioni speciali della Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti. Il testo, che ha reso nota l’opzione, è all’interno del disegno di Legge di autorizzazione della Difesa nazionale per il 2022 (pp. 32-33) e in esso si chiede al Director of National Intelligence, in coordinamento con il Segretario alla Difesa, di riferire entro il 20 maggio 2022 sull’efficacia del meccansimo dei Five Eyes e di considerare i vantaggi dell’espansione dell’accordo per includere appunto la Corea del Sud, il Giappone, l’India e la Germania, fatto questo che richiede livelli straordinari di fiducia in quanto a condivisione delle informazioni classificate. Il Five Eyes è unico in quanto la maggior parte dei rapporti sono condivisi tra cinque alleati, mentre altri accordi multilaterali, come quelli all’interno della NATO, sono molto più cauti nello scambio di informazioni. Attualmente i cinque paesi valutano i potenziali pericoli dell’ascesa della Cina. Nonostante le attrattive politiche dell’allargamento dei Five Eyes di fronte alla crescente assertività della Cina, è probabile che diversi tra i cinque i paesi e (soprattutto) le loro agenzie di intelligence vi si opporranno. Gli argomenti chiave saranno incentrati sulla qualità dei servizi di intelligence da un lato e su allineamento, continuità e priorità delle politiche estera e di sicurezza dei potenziali aderenti. Nessuno dei quattro potenziali aderenti condivide in toto le opinioni degli alleati dei Five Eyes sulle minacce globali e su come affrontarle (senza contare, che al di là di una sostan-
Mappa del gasdotto Nord Stream 2 (meteoweek.com).
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ziale unanimità, anche i Five Eyes hanno le loro divergenze). Tecnicamente, i quattro potenziali candidati offrono una buona qualità in quanto ai loro servizi di intelligence ma, come accennato, le priorità strategiche sono differenti. Dei quattro paesi inclusi nel disegno di legge, solo l’India ha strutture simili a quelle dei Five Eyes (grazie alla matrice britannica), ma una parte significativa della loro attività è orientato a contrastare il Pakistan e solo recentemente Pechino sta equivalendo Islamabad come livello di percezione della minaccia. Ma le vere differenze sono nelle politiche generali. La Germania ha mantenuto stretti legami commerciali con la Russia nonostante le vicende ucraine e ha resistito a tutti i tentativi di cancellare il progetto Nord Stream 2. Anche l’India ha voluto mantenere le sue strette relazioni con Mosca, soprattutto nel campo dell’approvvigionamento dei sistemi d’arma, ed è stata attenta a non permettere che il Quadrilatero si trasformasse in un’alleanza strategica contro la Cina. Il suo ministro degli Esteri ha parlato del desiderio indiano di sostituire il suo precedente «non allineamento» con un «multiallineamento». La Corea del Sud non desidera una relazione conflittuale con Pechino sia per ragioni commerciali sia per il ruolo moderatore svolto a fronte delle ricorrenti intemperanze della Corea del Nord; vi sono poi poche prospettive di un rafforzamento delle relazioni con Tokyo, che Seoul considera come un pericoloso rivale commerciale. Anche la Germania potrebbe essere tiepida verso un’intesa che potrebbe trasformarsi in uno strumento per esercitare pressioni nei confronti di Mosca e Pechino danneggiando le relazioni commerciali ed energetiche. In termini assoluti, sia di qualità che di mezzi, un credibile aderente potrebbe essere la Francia, i cui servizi, anche se fortemente sbilanciati verso l’Africa, rappresentano un elemento di tutto rispetto. Tuttavia anche per Parigi le necessità di mantenere fluide relazioni commerciali, specialmente con la Cina, potrebbero essere un elemento di fragilità nella sua adesione ai Five Eyes. Bisogna ricordare tuttavia che gli stessi
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Stati Uniti, che hanno identificato come competitor globale Pechino, hanno importanti relazioni commerciali con la Cina e vogliono comunque tenere aperta la porta del dialogo, riproponendo le stesse dinamiche che temono di vedere applicate dai loro partners (potenziali o presenti) in quel contesto.
Una nuova missione UE Il 3 novembre scorso la EUTM MOZ (European Union Training Mission in Mozambique) è stata attivata ufficialmente a Katembe (località prossima alla capitale Maputo). Il personale della UE si unisce a migliaia di soldati stranieri schierati prevalentemente nella provincia settentrionale mozambicana di Cabo Delgado per sconfiggere i militanti legati allo Stato islamico che hanno scatenato il caos nell’area dal 2017, facendo irruzione in villaggi e città con violenze che hanno causato almeno 5.000 vittime e più di 800.000 sfollati. Il compito principale della missione è quella di migliorare la capacità operativa delle Addestramento con le armi, pronto soccorso, tecnica di combattimento, navigazione terrestre, informazioni e contro-intel, antiterrorismo, comunicazioni, sorveglianza del campo di battaglia ed esercizio fisico militare (twitter.com/EUTMMozambique).
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Forze armate mozambicane nel rispetto del diritto dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario. EUTM MOZ sosterrà le forze armate mozambicane nella costituzione di una forza di reazione rapida. In dettaglio, la missione sosterrà lo sviluppo delle capacità delle Forze armate del Mozambico nei seguenti settori: addestramento militare, compresa la preparazione operativa; formazione specialistica, anche in materia di antiterrorismo; formazione ed educazione sulla protezione dei civili e sul rispetto del diritto internazionale umanitario. La EUTM, con un nucleo di Comando a Bruxelles, formerà undici compagnie: cinque compagnie di fucilieri anfibi della Marina mozambicana a Katembe e sei compagnie di Forze speciali dell’Esercito, a Chimoio (Mozambico centro-merdionale). Tale forza si baserà sull’addestramento già impartito dall’esercito portoghese e sarà in stretto collegamento con altri partner internazionali (Spagna, Portogallo - che fornisce circa la metà del personale, Italia, Austria, Belgio, Estonia, Romania, Grecia, Lituania, Finlandia). La missione il cui mandato iniziale è di due anni, ha un bilancio annuale di poco più di 15 milioni di euro e ha il suo QG a Maputo. L’UE fornirà inoltre all’esercito mozambicano armi non letali, nello spirito «train and equip» della missione. La EUTMM MOZ arriva buona ultima, nonostante il dispiegamento fosse stata definito come urgente. La SAMIM (la missione della SADC, Southern Africa Development Community, Military Mission in Mozambique), forte di oltre 3.000 combattenti ha incontrato molte difficoltà nello schieramento e nelle attività operative al fianco delle truppe mozambicane. Oggettivamente, solo grazie al loro arrivo e al sollecito inizio delle operazioni da parte di un migliaio di soldati ruandesi, è stato possibile fronteggiare e poi disperdere i militanti islamici e stabilizzare la regione. Come accennato, in Mozambico vi sono anche istruttori militari statunitensi e portoghesi (questi ultimi poi transitati nella EUTMM MOZ) inviati sulla base di accordi bilaterali.
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Quid pro quo tra Sahel e Pacifico «Gli Stati Uniti hanno destinato risorse aggiuntive al Sahel per sostenere l’azione antiterrorismo della Francia»; è quanto hanno annunciato in un comunicato stampa congiunto il Presidente americano e il Presidente francese, dopo il loro incontro a Roma venerdì 29 ottobre, a margine del G20. Il 22 settembre, Joe Biden aveva promesso a Emmanuel Macron di aumentare la cooperazione con la Francia nel Sahel. Il Presidente americano ha poi voluto placare il contenzioso causato dalla crisi dei sottomarini francesi, la cui vendita all’Australia è stata vanificata da Washington, firmando una partnership con Canberra. Joe Biden sembra mantenere la sua promessa anche sotto l’aspetto del ribadito sostegno finanziario. «La Francia e gli Stati Uniti cercheranno modi per aumentare il sostegno multilaterale al G5 Sahel, ai suoi Stati membri e alla MINUSMA», continua il testo. In ogni caso, questi annunci di maggiore cooperazione contrastano con il desiderio dell’ex presidente Donald Trump, di ritirare le truppe americane dal Sahel, e tranquillizzano la Francia che, obbligata a ridurre la sua operazione «Barkhane», temeva che si creasse un vuoto pericoloso. La minaccia del rafforzamento della presenza russa nel Sahel non è sfuggita all’amministrazione Biden. Gli Stati Uniti continueranno dunque a fornire supporto logistico, di intelligence e di addestramento alle Forze di difesa e sicurezza africane e a sostenere l’impegno francese; inoltre gli Stati Uniti sembrano orientati ad appoggiare le necessarie modifiche del mandato della MINUSMA, rafforzandone capacità operative e finanziarie per permettere alla forza ONU di rilevare i soldati francesi in partenza. Infine i Presidenti americano e francese hanno sottolineato, nel loro comunicato congiunto, «l’importanza della Conferenza internazionale sulla Libia del 12 novembre, nella prospettiva delle elezioni che si terranno in questo paese il 24 dicembre».
operare tra novembre e maggio con missioni di sorveglianza, ricognizione, protezione dell’area, scorta, nonché ricerca e soccorso. A bordo un totale di 175 persone, marinai, piloti, supporto medico rinforzato, Forze speciali e polizia militare. L’Esbern Snare ha un elicottero Seahawk SH-60 per estendere la sua area di azione. Per il ministro della Difesa danese Trine Bramsen c’è una logica di interesse per la presenza in mare: «La Danimarca è una delle principali nazioni marittime del mondo». Ha poi sottolineato l’importanza che le navi danesi possano operare in sicurezza ovunque. In media, ogni anno da 30 a 40 navi gestite da società danesi navigano nel Golfo di Guinea, trasportando merci (tra queste i containers della Maersk) per un valore di quasi 10 miliardi di corone danesi. Ma gli interessi economici non sono ovviamente limitati a quelli danesi. Il Golfo di Guinea è noto per essere l’area marittima più infestata da pirati e pericolosa al mondo, superando anche le acque somale. Secondo l’International Maritime Bureau, più del 95% dei rapimenti e degli attacchi dei pirati registrati in mare sono avvenuti nel Golfo di Guinea. La pirateria in mare costa all’economia globale quasi un miliardo di dollari. Nel Golfo di Guinea la nave danese coopera con navi italiane e francesi, nell’ambito della Presenza Marittima Coordinata, il nuovo concetto di intervento marittimo europeo. Nella zona sono presenti da tempo anche navi britanniche e americane. Anche la Danimarca fa parte della logica europea di costruzione delle capacità locali e gli incursori navali danesi dovrebbero quindi ad-
Mari caldi Alla fine di ottobre la fregata danese Esbern Snare (F-342) ha lasciato la sua base navale a Frederikshavn con destinazione Golfo di Guinea. La fregata dovrà
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La fregata MARCEGLIA al passaggio con l’HDMS ESBERN SNARE, fregata della marina Danese; durante le operazioni di maritime security in Golfo di Guinea.
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destrare i loro commilitoni del Ghana Navy Special Boat Services. Copenaghen fornisce anche supporto consultivo al Centro di coordinamento marittimo del Ghana. Ma la lotta al fenomeno della pirateria, per essere efficace, non può limitarsi al contrasto in mare ed è in questa ottica che si può leggere la recente decisione della Nigeria di inviare, nel quadro dell’ECOWAS (organizzazione regionale nella quale Abuja svolge un ruolo preponderante) 1.500 militari, 13 unità navali costiere e due elicotteri per assistere le Forze armate di quei paesi e cooperare con le operazioni condotte dalle flotte internazionali. L’impegno della Nigeria è rimarchevole, visto che il contrasto a Boko Haram nel Nord resta una sfida importante per Abuja. Ma l’impegno antipirateria della Nigeria ha una importante ricaduta interna, a causa dei legami che vi sarebbero tra attività di questo tipo e legami con la regione del Biafra.
Mosca, seguita dal capo dell’importantissimo Dipartimento per gli affari africani del ministero degli Esteri di Parigi, Christophe Bigot, che si era recato personalmente nella capitale russa a settembre per discutere l’argomento con il vicepresidente del ministero della Difesa russo, Mikhail Bogdanov. In ciascuna di queste occasioni, Macron e i suoi inviati hanno ricevuto la stessa logora risposta che Mosca dà dal 2018: «la Wagner è una società di diritto privato senza legami con lo Stato russo». Risposta contestata ampiamente da Parigi, che ha messo in luce i numerosi legami tra la compagnia di sicurezza e i servizi di sicurezza russi. Ma il Mali stesso (o meglio, la giunta militare al potere) ha dei problemi con la Wagner, i cui rappresentanti erano a Bamako alla fine del mese scorso per incontrare i funzionari della giunta. Ma un accordo definitivo è ancora lontano dall’essere raggiunto, con il prezzo proposto da Wagner uno dei principali punti critici. L’estrazione mi-
Situazione in Mali Mentre i negoziati tra la giunta militare che governa il Mali e la società di Sicurezza russa Wagner si intensificano, Parigi sta moltiplicando gli sforzi per impedire l’arrivo dei contractors russi a Bamako. Emmanuel Macron ha lanciato a Vladimir Putin un severo avvertimento durante una telefonata il mese scorso. L’UE, seguendo le sollecitazioni di Parigi, nel frattempo ha seguito l’esempio della Francia e ha sospeso il sostegno finanziario al Mali finchè la giunta militare non cederà le redini del potere a un go«Il dispiegamento dei contractors russi nel Nord del paese (...)» (askanews.it). verno civile eletto democraticamente. La conversazione telefonica dell’11 ottobre neraria è un’altra questione spinosa. La Wagner inizialtra Angela Merkel, Emmanuel Macron e Vladimir Putin mente ha chiesto tre permessi di sfruttamento ha riguardato ufficialmente l’Ucraina e gli accordi di minerario, al fine di salvaguardare le proprie fonti di Minsk del 2019, ma è stato affrontato anche il tema del reddito senza dover fare affidamento sul bilancio statale Mali. Macron ha colto l’occasione per dire alla sua controparte russa che l’arrivo del personale della Wagner del Mali, adottando una strategia simile nella Repubnell’ex colonia francese sarebbe stato considerato da blica Centrafricana (e mettere una pesante ipoteca sul Parigi alla stregua di una aggressione. L’avvertimento futuro di Bangui). Ma i principali siti minerari del Mali è stato ripetuto pochi giorni dopo da una delegazione sono già gestiti da operatori internazionali e gli unici del ministero delle Forze armate francesi in visita a permessi disponibili riguardano le zone esplorative che
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sostegno di 70 milioni di euro al bilancio, seguendo le orme di Parigi, che all’indomani del secondo colpo di Stato, ha congelato le sue linee di credito dirette a Bamako, pari a 40 milioni di euro. Le capitali europee vogliono far sentire la loro insoddisfazione e mostrare la loro solidarietà a Parigi. Si tratta di un preludio a possibili sanzioni da parte di Bruxelles nei confronti di politici maliani accusati in particolare di ostruzione al corretto svolgimento delle elezioni presidenziali previste per febbraio prossimo. I ministri degli Esteri UE, che dovrebbero incontrarsi di nuovo a metà novembre per discutere la questione, dovranno anche considerare comunque un ulteriore elemento disfunzionale. Infatti, la rinnovata tensione tra Bruxelles, Parigi (senza contare Washignton e New York, parimenti irritate, soprattutto dall’inconcludente viaggio di una delegazione del Consiglio di sicurezza) arriva in un momento in cui la cooperazione militare tra la restante operazione «Barkhane», la missione multilaterale europea «Takuba», l’operazione addestrative della UE, EUTM-Mali, la missione ONU MINUSMA, la forza regionale G5S e le Forze Armate maliane (FAMa) sul terreno sta ripredendo dopo settimane di funzionamento al minimo, seguito al colpo di Stato. Ma Parigi sembra non risparmiare le iniziative per ridurre lo spazio di manovra della giunta e cercare di riportare il Mali nell’ambito della «France Afrique», anche l’ECOWAS (Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale) sta valutando sanzioni individuali contro i leaders della giunta e — dopo alcune resistenze interne — sanzioni economiche contro lo Stato maliano e sono in corso discussioni a livello dell’Unione Economica e Monetaria dell’Africa Occidentale (WAEMU). I Capi di Stato di ECOWAS discuteranno nuovamente la questione in un vertice il 7 novembre. L’ultimo sviluppo, che fa intendere che la situazione a Bamako è «fluida», afferisce al 5 novembre quando sarebbe stato sventato un tentativo di colpo di Stato e diversi ufficiali della gendarmeria nazionale locale sarebbero stati Il primo ministro ad interim Choguel Kokalla Maïga all’Assemblea generale dell’ONU, il 25 set- arrestati.
richiedono investimenti e sviluppo. Nonostante queste incertezze, la Wagner, che si sta rivelando di essere qualcosa di ben di più di una semplice società di sicurezza, ha svolto operazioni di prospezione nei siti di estrazione di oro e magnesio. Ma il quadro resta poco chiaro, infatti la giunta al Governo non ha ancora deciso il ruolo esatto che vorrebbe che la Wagner assumesse, non avendo chiesto il dispiegamento dei contractors russi nel Nord del paese, contrariamente alle dichiarazioni pubbliche dei leader del Mali negli ultimi due mesi: «Di fronte al ritiro (delle forze francesi), abbiamo l’obbligo di cercare soluzioni», secondo quanto detto dal primo ministro ad interim Choguel Kokalla Maïga all’Assemblea generale dell’ONU, il 25 settembre scorso. Gli scenari di dispiegamento attualmente allo studio da Wagner si concentrano esclusivamente sulla protezione di aree in cui la minaccia jihadista rimane contenuta. Alcune di queste zone distano meno di 50 km dalla capitale Bamako. Ma uno schieramento lontano dalle zone di crisi potrebbe infastidire la popolazione, che vede l’arrivo di un contingente russo come un ulteriore baluardo contro i gruppi jihadisti e minerebbe anche la narrativa ufficiale di Bamako, che si nasconde dietro la presenza russa per giustificare l’abbandono francese. Per non deludere le aspettative che essi stessi hanno suscitato, i leader del Mali stanno valutando l’invio di elementi della Wagner nel Nord. Sollecitata dalla Francia, ma anche applicando i suoi principi istituzionali, la UE non ha aspettato l’esito dei negoziati della giunta con Wagner per sospendere il suo
tembre scorso (africa-express.info).
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Enrico Magnani
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RUBRICHE
S CIENZA
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T ECNICA
I grandi tecnici della Marina Militare: il professor Nello Carrara, dalle microonde ai primi radar italiani e alle comunicazioni via satellite Negli scorsi numeri di questa rubrica abbiamo iniziato una serie di articoli dedicati ai grandi tecnici e scienziati della Marina Militare, trattando le figure di Benedetto Brin, Giancarlo Vallauri, Giuseppe Rota, Domenico Chiodo, Umberto Pugliese, Vittorio Emanuele Cuniberti, Edoardo Masdea, Ugo Tiberio, Giovan Battista Magnaghi, UmNello Carrara nel 1921, in divisa da ufficiale dell’Esercito (foto berto Cagni, Angelo Scrid’epoca, g.c. Fabio Nuti). banti, Gioacchino Russo e Francesco Rotundi. In quest’articolo proseguiremo il percorso dedicato ai pionieri dell’ingegneria elettrica e delle telecomunicazioni, percorso iniziato con Giancarlo Vallauri e proseguito con Ugo Tiberio, trattando ora del professor Nello Carrara, che come Tiberio, di cui fu contemporaneo e con il quale collaborò, fu ufficiale delle Armi Navali, ingegnere e professore, e fornì un indispensabile contributo al gruppo che realizzò il radar italiano. Carrara ha legato il suo nome a importanti studi sulle microonde (fu lui a introdurre il loro nome), oltre che sulla tecnica radar e sulla radiolocalizzazione. Così come per il professor Tiberio, anche nel caso del professor Carrara, gran parte delle notizie e della documentazione d’epoca impiegata mi è stata gentilmente fornita dal signor Fabio Nuti, dipendente del CSSN/ITE (Centro Supporto e Sperimentazione Navale - Istituto per le Telecomunicazione e l’Elettronica) e precedentemente di Mariteleradar Livorno, cui va la mia profonda gratitudine. Nello Carrara nacque a Firenze nel 1900; conseguì nel 1917 la Licenza liceale d’onore e quindi frequentò la Scuola Normale Superiore di Pisa, laureandosi in Fisica nel 1921 con una tesi sulla diffrazione dei raggi X, alla presenza di Enrico Fermi, suo compagno di studi
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Da sinistra, Enrico Fermi, Nello Carrara, Franco Rasetti e Rita Brunetti nel 1930 ad Arcetri, dove nel 1921 era stato inaugurato il laboratorio di fisica dell’università (foto d’epoca).
che si laureò l’anno seguente con una tesi sullo stesso argomento, realizzata impiegando parte della strumentazione ideata da Carrara. Nel 1918 era stato chiamato alle armi nel corpo del Genio Militare del Regio Esercito, prestando servizio inizialmente a Fano dove, come amava raccontare, «se la scapolò con la spagnola» (1); nel 1919 venne nominato sottotenente di complemento, per essere congedato nel 1922. Ricoprì l’incarico di assistente effettivo di fisica sperimentale presso l’Università di Pisa dal 16 ottobre 1921 al 1o novembre 1924, per essere poi nominato professore di ruolo di fisica generale dell’Accademia navale di Livorno, incarico che ricoprì dal 1° Novembre 1924 al 16 gennaio 1954; successivamente, fino al
Nello Carrara in moto a Piazzale Michelangelo a Firenze nel 1925 (foto d’epoca, g.c. Fabio Nuti).
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1970, proseguì la collaborazione con l’Accademia navale come incaricato del corso di specializzazione superiore «microonde». Partecipò, come insegnante, alle campagne estive a bordo della nave scuola Francesco Ferruccio (2) nel 1927, 1928, 1929 e nel 1933 a bordo della nuovissima Cristoforo Colombo (3).
L’incrociatore FRANCESCO FERRUCCIO, della classe «Garibaldi» progettata dal generale del Genio Navale Edoardo Masdea, venne impiegato dal 1923 al 1929 come nave scuola per gli allievi dell’Accademia navale; alle campagne estive degli anni 1927, 28 e 29 partecipò anche il professor Nello Carrara nella sua veste di professore ordinario di fisica generale in Accademia navale (immagine d’epoca).
Il professor Carrara (al centro) nel 1933 a bordo della nuovissima nave scuola CRISTOFORO COLOMBO (foto d’epoca, g.c. Fabio Nuti).
Nel 1935 ottenne la libera docenza in radiocomunicazioni. Dal 1955 al 1975 ha ricoperto l’incarico di professore di onde elettromagnetiche presso l’Università di Firenze, venendo da questa nominato nel 1975 professore emerito. Tra gli altri suoi incarichi accademici, fu incaricato del Corso di Fisica sperimentale e teorica presso l’Università di Bari nel 1945-46 (quando l’Accademia navale aveva sede a Brindisi), incaricato del Corso di Fisica e Direzione Istituto di Fisica presso
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l’Università di Pisa nel 1947-50 e professore di Teoria e Tecnica delle onde elettromagnetiche presso l’Istituto universitario navale di Napoli, dal 16 gennaio 1954 al 31 ottobre 1955. Nel 1934 gli venne assegnata la Medaglia d’argento di 1a classe della Marina Militare per lavori utili alla Marina, e nel 1935 fu trasferito dai ruoli degli ufficiali di complemento dell’Esercito a quelli della Marina, venendo nominato capitano delle Armi Navali. Conseguì il grado di tenente colonnello di complemento delle Armi Navali e venne promosso, per eccezionali meriti scientifici, sino al grado di maggior generale dello stesso Corpo. I suoi esperimenti di radiocomunicazione con le microonde interessarono anche Guglielmo Marconi che nell’ottobre 1931 gli fece visita a Livorno per potervi assistere. Tali esperimenti consistettero nei primi collegamenti radiotelefonici tra il suddetto Istituto e una villa sull’adiacente collina di Montenero, utilizzando lunghezze d’onda di 18 cm con apparati molto compatti e maneggevoli. Seguirono altri esperimenti con le Stazioni telegrafiche della Marina Militare site sulle isole Gorgona e Palmaria. Nel marzo del 1932 nasce la rivista Alta Frequenza, fondata dal professor Vallauri, patrocinata dal Consiglio nazionale delle ricerche, dall’Associazione elettronica italiana e dalla Società italiana di Fisica. Nel primo numero della rivista venne pubblicato un articolo, dal titolo: La Rivelazione delle Microonde, a firma del professor Carrara, nel quale compare per la prima volta nella letteratura scientifica mondiale il termine «microonde» (assegnato alle oscillazioni della banda Prima pagina dell’articolo di Nello centimetrica); in partico- Carrara su Alta Frequenza (n. 1, anno - 1932) dove viene introdotto per la lare l’articolo riporta la se- Iprima volta al mondo il termine «miguente frase: «un triodo, croonde» (documento d’epoca, g.c. Fabio Nuti). ad elettrodi cilindrici, con
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tensione di placca nulla o negativa e con tensione di griglia fortemente positiva, può emettere onde elettromagnetiche di frequenza elevatissima (microonde)». Nello stesso anno, nell’articolo The Detection of Microwaves, pubblicato sempre dal professor Carrara, sulla rivista Proceedings of the Institute of Radio Engineers, compare per la prima volta anche la versione in lingua inglese «microwaves». Il professor Carrara collaborò fattivamente all’attività di progettazione e realizzazione di primi radar italiani effettuata dal professor Ugo Tiberio, mandato dalla Regia Marina a Livorno nel 1936 per realizzare concretamente la sua idea di radio localizzatore; in particolare Carrara progettò una valvola, realizzata dall’industria italiana FIVRE (Fabbrica Italiana Valvole Radio Elettriche) di Pavia nello stabilimento di Firenze, che permise di raggiungere una potenza di picco di 10 KW e che, inserita in un risonatore a cavità ad alto fattore di merito (Q), anch’esso di sua progettazione, permise di superare la difficoltà di ottenere potenze elevate su onde centimetriche (70 cm). Da ricordare anche gli studi sui tubi elettronici, atti a generare e ricevere microonde, che il Carrara progettò a partire dal 1932 presso l’Istituto. Questi tubi, come il magnetron monoanodico e la cosiddetta «pentola del Carrara», un oscillatore a cavità risonante, così scherzosamente chiamato per la sua forma arrotondata, si rivelarono decisivi per lo sviluppo del radar italiano. Fino all’entrata
La cosiddetta «pentola del Carrara» era un oscillatore a cavità risonante concepito da Nello Carrara presso il RIEC di Livorno negli anni Trenta, così scherzosamente chiamato per la sua forma arrotondata (foto d’epoca, g.c. Fabio Nuti).
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Schema elettrico della «pentola del Carrara» (foto d’epoca, g.c. Fabio Nuti).
in guerra degli Stati Uniti contro l’Italia, attraverso il canale diplomatico e l’addetto navale a Washington, vennero acquistate e spedite all’Istituto, per essere studiate, valvole per microonde che permisero una approfondita conoscenza di tali componenti, non militari, ma
Schema del dispositivo impiegato da Nello Carrara nel 1932 per la rivelazione delle microonde (foto d’epoca, dalla Rivista Marittima del 1996).
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derivati da questi e sviluppati per l’industria statunitense. La collaborazione con Tiberio per questa attività durò fino all’armistizio del settembre 1943. Nel 1946 ha pubblicato sulla Rivista Marittima un articolo dal titolo I magnetron dei radar; nell’articolo Carrara descrive il principio di funzionamento teorico del radar e cosa sia e a cosa serva il magnetron, compo-
nente elettronico che genera impulsi di durata estremamente breve e potenza molto elevata, impulsi utilizzati appunto per la parte trasmittente del radar. In particolare, il professor Carrara, basandosi sulle più recenti pubblicazioni anglosassoni, ma anche sulle esperienze compiute in Italia prima e durante la guerra, descrive il principio di funzionamento del magnetron associato a risonatori a cavità, ancora oggi impiegato per la generazione di impulsi a microonde. Nello stesso anno ha fondato a Firenze il «Centro Microonde» del Consiglio nazionale delle ricerche, poi divenuto nel 1968 IROE (Istituto di Ricerca sulle Onde Elettromagnetiche), assumendone la presidenza; nel 1994 l’Istituto assunse il nome del suo fondatore «Nello Carrara»; dal 2002 l’Istituto è stato fuso con l’IEQ (Istituto di Elettronica Quantistica, nato nel 1970 come Laboratorio di Elettronica Quantistica) dando vita all’IFAC (Istituto di Fisica Applicata) «Nello Carrara». L’Istituto, inizialmente ubicato presso l’Università di Firenze in viale Morgagni, fu trasferito nel 1958 in un nuovo edificio in via Panciatichi,
Il professor Carrara nel 1935 tra gli apparati a microonde (foto d’epoca, g.c. Fabio Nuti).
Prove radar su unità navale (1937). In primo piano il professor Carrara (immagine d’epoca, g.c. Fabio Nuti).
Magnetron ad anodo sezionato con potenza di 10 watt (tubo progettato dal professor Carrara, 1934) - (foto d’epoca, g.c. Fabio Nuti).
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Un’immagine (schema di principio di un magnetron) dell’articolo sui magnetron dei radar pubblicato dal professor Nello Carrara sulla Rivista Marittima nel 1946.
Un’immagine (magnetron tra le scarpe polari del suo elettromagnete) dell’articolo sui magnetron dei radar pubblicato dal professor Nello Carrara sulla Rivista Marittima nel 1946.
costruito grazie all’impegno del CNR e al sostanziale contributo della Magneti Marelli S.p.A. Nel 1959, nell’ambito della cerimonia di inaugurazione del salone della tecnica di Torino, è stato consegnato il premio «Fondazione Vallauri» al professor Carrara, per premiarne l’attività teorica e pratica nello studio delle onde elettromagnetiche e delle loro applicazioni al campo dell’elettronica e delle telecomunicazioni. Altri premi, riconoscimenti e decorazioni attribuitigli sono i seguenti: — 1935, Medaglia d’oro dell’AEI (Associazione Elettronica Italiana) per l’attività scientifica nel biennio 1933-34 (premio Righi); — 1937, Medaglia d’oro per l’attività scientifica nel quadriennio 1933-36 (Premio Brezza); — 1966, Grande Medaglia d’oro dell’Istituto internazionale delle comunicazioni di Genova «per i suoi Studi di fama mondiale nelle Telecomunicazioni e in astronautica»; — 1967, Medaglia d’oro per le Scienze della International Columbus Association (Premio Columbus); — 1970, Medaglia d’oro per i benemeriti della cultura e dell’arte del ministero della Pubblica istruzione; — 1978, Premio internazionale «Le Muse», nel simbolo della Musa Urania; — 1981, Premio «S. Giuseppe» - Piero Bargellini, per la scienza;
— 1984, Medaglia associazione internazionale Toscani nel Mondo, «per gli alti meriti nel campo della cultura»; — 1989, Premio «Meridiana d’Argento», dell’Istituto italiano di navigazione, per i grandi meriti scientifici. È stato membro del Comitato per la Fisica, dell’Unione Radio-scientifica internazionale (URSI), del COSPAR e di vari altri comitati del Consiglio nazionale delle ricerche, presidente del Consiglio scientifico dell’IROE, presidente del Consiglio scientifico del Centro di studio dispositivi e metodi radiotrasmissioni, Pisa (CNR) e presidente del «Joint Satellite Studies Group». Il professor Carrara ha coniugato alla sua attività scientifica un ruolo imprenditoriale, in società attive
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Nello Carrara all’inizio degli anni Cinquanta, quando era direttore della FIVRE (Fabbrica Italiana Valvole Radio Elettriche) - (foto d’epoca, g.c. Fabio Nuti).
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Il professor Nello Carrara vicino al CFL3, primo radar di progettazione e produzione interamente italiana, realizzato dalla SMA (Segnalamento Marittimo e Aereo) in collaborazione con il Centro microonde, interamente progettato e realizzato a Firenze nel 1950, destinato a naviglio militare per scoperta e navigazione (immagine d’epoca, ifac.cnr.it).
nella produzione di componenti e sistemi attinenti ai suoi campi di studio; è stato per diversi anni il direttore della società FIVRE S.p.A. di Pavia, specializzata nella costruzione di tubi a vuoto. Il suo ruolo imprenditoriale è però legato in particolare alle vicende della SMA (Segnalamento Marittimo e Aereo) di Firenze, di cui fu direttore dal 1947 al 1970, poi presidente dal 1977 al 1984 e infine presidente onorario, portando la società ad assumere un ruolo da protagonista nel settore della produzione in Italia di radar, in particolare per le esigenze della Marina Militare (navi ed elicotteri). Ricordiamo il radar CFL3, primo radar di progettazione e produzione interamente italiana, realizzato dalla SMA e nato dalla collaborazione tra il Centro microonde di Firenze, l’istituto di ricerca che sviluppò un prototipo del radar nel 1949, e la SMA, una piccola società fiorentina che produceva ottiche per il segnalamento, boe luminose e fari, principalmente per la Marina Militare. La sigla CFL3
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deriva dai cognomi dei suoi ideatori: Nello Carrara, direttore del Centro microonde; Lorenzo Fernandez, fondatore e amministratore delegato della SMA; Pietro Lombardini, progettista del radar. Il 3 indica la lunghezza d’onda impiegata (3 cm). Ha anche collaborato con le società Officine Galileo di Firenze (che nel 1994, dopo la morte di Carrara, ha incorporato la SMA), Magneti Marelli S.p.A. di Milano, Pignone S.p.A. di Firenze ed è stato presidente della Selesmar dal 1982 e vice-presidente del gruppo Spazio e comunicazioni di Firenze fino al 1990. Il professor Carrara vanta una produzione scientifica di oltre 100 pubblicazioni, le quali, oltre alle citate tematiche delle microonde, dei radar e delle radiocomunicazioni, hanno riguardato anche studi sui raggi X, sull’assorbimento molecolare delle microonde e, al termine della sua carriera, sulla sincronizzazione di orologi atomici e sugli esperimenti con la sonda Giotto e con il satellite Tethered (il satellite al «guinzaglio» rilasciato nello spazio dallo Space Shuttle). Carrara, infatti, si è anche occupato di ricerche spaziali, in collaborazione con centri di ricerca statunitensi ed europei. Tra le sue pubblicazioni si citano in particolare le seguenti: — Sulla riflessione dei raggi X, Nuovo Cimento, vol.1, p.107, (1924); — The detection of microwaves, Proceedings of the Institute of Radio Engineers, vol.20, [10], p.1615-1625, (1932) (pubblicazione per la quale gli si riconobbe la paternità del termine «microonde»); — Microonde, Alta Frequenza, vol.5, p.691, (1936) e vol.6, p.104-209, (1937); — Il magnetron come resistenza negativa, Alta Frequenza, vol.4, [1], p.1-8, (1935); — Resistenze differenziali negative e oscillatori di rilasciamento, Alta Frequenza, vol.7, [3], p.3-26, (1938); — Torque and Angular momentum of centimetre Electromagnetic Wave, Nature, vol.164, p.882-885, (1949); — Spettro di assorbimento delle molecole di ossigeno della gamma delle microonde, Annali dell’Istituto Universitario di Napoli, vol.24, p.1-36, (1955); — Radiométéores, in Meteorological and Astronomical Influences on Radio Waves Propagation, Pergamon Press, New York, Chapter 13, p.281-312, (1963);
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Immagine di apertura dell’articolo sulle comunicazioni via satellite pubblicato dal professor Nello Carrara sulla Rivista Marittima nel 1979.
— A Synoptic Study of Scintillations of Ionospheric origin in Satellite Signals, in Space Research V, NorthHolland, Amsterdam (1965); — Present Developmentes of Digital Telemetry from Un’immagine (parti che compongono il satellite Marisat) dell’articolo sulle comunicazioni via satellite, pubblicato dal professor Nello Carrara sulla Space Vehicles, XVI Convegno internazionale delle coRivista Marittima nel 1979. municazioni, Genova, ottobre 1968. Nel 1979 Carrara ha pubblicato sulla Rivista Marittima un articolo dal titolo Le comunicazioni via satellite, nel quale descrive lo sviluppo dei satelliti per telecomunicazioni (4), individuando i satelliti da comunicazione come tecnologia abilitante per l’impiego dell’informatica a bordo delle navi e descrive le prime applicazioni allora in fase iniziale, con i satelliti MARISAT e la firma, avvenuta nel 1976, della convenzione internazionale INMARSAT. Carrara affronta anche l’attività nel settore delle comunicazioni via satellite dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA) e dell’Italia, e le particolarità delle comunicazioni a fini militari. Nel 1980 ha ricevuto la Laurea Honoris Causa in Ingegneria presso l’Università di La cerimonia della Laurea Honoris Causa in ingegneria concessa al professor Nello Carrara nel 1980 (g.c. Fabio Nuti). Firenze. Durante la cerimonia di laurea ha
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discusso di un progetto per la cattura dell’energia solare, frutto di una collaborazione tra un’agenzia americana e una europea, che prevedeva l’installazione di 40 satelliti in orbita intorno alla terra, i quali, da 37.000 chilometri di altezza avrebbero dovuto catturare quanta più energia solare possibile e convogliarla mediante generatori di microonde verso la terra. Ha inoltre trattato di come sincronizzare esattamente due orologi mettendoli in comunicazione mediante un satellite. Il professor Nello Carrara ha rappresentato un chiaro esempio di geniale scienziato che ha saputo coniugare alla carriera accademica e scientifica l’impegno nell’industria a elevata tecnologia; è rimasto profondamente legato alla Marina Militare, che ha avuto la fortuna di averlo come insegnate in Accademia navale per quasi 45 anni, dal 1924 al 1970. Numerosi suoi ex allievi, alcuni dei quali arrivati poi a ricoprire l’incarico
di Capo di Stato Maggiore Marina, ne ricordano le grandi capacità didattiche, che rendevano chiara e interessante la fisica a tutti suoi allievi. Da ricordare anche il suo ruolo fondamentale, accanto al professor Tiberio, nello sviluppo del radar italiano presso il RIEC di Livorno subito prima e durante la Seconda guerra mondiale, e l’attività di sviluppo e produzione di radar per impiego navale nel dopoguerra, quando era ai vertici della società SMA. Nello Carrara è stato insignito delle onorificenze di Grande Ufficiale al merito della Repubblica e di Cavaliere dei SS. Maurizio e Lazzaro. È morto a Firenze il 5 giugno 1993. Claudio Boccalatte
NOTE (1) Tra il 1918 e il 1921 la pandemia influenzale conosciuta come «spagnola» fece decine di milioni di vittime in tutto il mondo, e circa 600.000 in Italia. (2) Il Francesco Ferruccio fu un incrociatore corazzato della Regia Marina della classe «Garibaldi», progettata dal generale del Genio Navale Edoardo Masdea. Impostato nel 1899 presso il Regio Arsenale di Venezia, fu varato nel 1902 e consegnato nel 1905. Dal 1923 venne impiegato come nave scuola per gli allievi dell’Accademia navale di Livorno. Dopo aver svolto l’ultima crociera addestrativa nell’estate del 1929, con l’entrata in servizio dei grandi velieri Amerigo Vespucci e Cristoforo Colombo, il Ferruccio venne posto in disarmo e dopo essere stato radiato il 1º aprile 1930 venne definitivamente demolito. (3) Il Cristoforo Colombo venne realizzato nel Regio Cantiere di Castellammare di Stabia dal 1926 al 1928. Come la quasi gemella Amerigo Vespucci, era basato su di un progetto dell’allora tenente colonnello del Genio Navale Francesco Rotundi, che riprendeva esternamente le linee del vascello a vela Re Galantuomo (ex Monarca della Marina borbonica). Le due navi andarono a costituire nel 1931 la Divisione navi scuola ed effettuarono diverse serie di Campagne di istruzione. All’atto dell’armistizio, le due unità che si trovavano a Venezia, raggiunsero Brindisi. Nel dopoguerra, in ottemperanza alle clausole del trattato di pace firmato a Parigi, la Cristoforo Colombo venne ceduta all’Unione Sovietica, che la utilizzò nel Mar Nero fino al tragico incendio del 1963 che la distrusse. (4) All’epoca, l’impiego dei satelliti per la trasmissione a grandi distanze di dati era notevolmente più conveniente rispetto all’impiego dei cavi sottomarini, assicurando comunque un’altissima affidabilità; oggi la situazione si è invertita, e per l’enorme quantità di dati necessaria al funzionamento di internet (fenomeno inimmaginabile nel 1979) si preferisce l’impiego dei cavi sottomarini ai satelliti. BIBLIOGRAFIA Fabio Nuti, Istituto per le telecomunicazioni e l’elettronica della Marina Militare «Giancarlo Vallauri» – una storia lunga un secolo 1916-2016, Pisa 2017. Rivista Marittima, maggio 1946: I magnetron dei radar, di Nello Carrara. Rivista Marittima, dicembre 1959: Assegnato al prof. Nello Carrara il premio Vallauri per il 1959. Rivista Marittima, febbraio 1979: Le comunicazioni via satellite, di Nello Carrara. Rivista marittima, marzo 1996: Le microonde di Nello Carrara, di M. De Paolo e G. Pelosile. Rivista Marittima, settembre 2008: Nello Carrara, di M. Cavicchi. AA.VV., Ancora e gladio - Il corpo delle Armi Navali, Genova 2008. Un Istituto eccellente di ricerca a Livorno. L’Istituto per le Telecomunicazioni e l’Elettronica «Giancarlo Vallauri», di Miranda Cavicchi, 2008. ifac.cnr.it. treccani.it/enciclopedia/nello-carrara. it.wikipedia.org/wiki/Nello_Carrara. USMM, Tutte le navi militari d’Italia 1861-2011, di Franco Bargoni, Roma 2012. USMM, Uomini della Marina 1861-1946. Rivista Marittima, settembre 2015 - Rubrica Scienza e Tecnica: I grandi tecnici della Marina Militare: il generale Benedetto Brin, di Claudio Boccalatte. Rivista Marittima, dicembre 2015 - Rubrica Scienza e Tecnica: I grandi tecnici della Marina Militare: l’ammiraglio Giancarlo Vallauri, di C. Boccalatte. Rivista Marittima, febbraio 2016 - Rubrica Scienza e Tecnica: I grandi tecnici della Marina Militare: il generale Giuseppe Rota, di C. Boccalatte. Rivista Marittima, marzo 2016 - Rubrica Scienza e Tecnica: I grandi tecnici della Marina Militare: il generale Domenico Chiodo, di C. Boccalatte. Rivista Marittima, maggio 2016 - Rubrica Scienza e Tecnica: I grandi tecnici della Marina Militare: il generale Umberto Pugliese, di C. Boccalatte. Rivista Marittima, novembre 2016 - Rubrica Scienza e Tecnica: I grandi tecnici della Marina Militare: il generale Vittorio Cuniberti, di C. Boccalatte. Rivista Marittima, febbraio 2017 - Rubrica Scienza e Tecnica: I grandi tecnici della Marina Militare: il generale Edoardo Masdea, di C. Boccalatte. Rivista Marittima, maggio 2017 - Rubrica Scienza e Tecnica: I grandi tecnici della Marina Militare: il professor Ugo Tiberio, ideatore del radar italiano, di C. Boccalatte. Rivista Marittima, novembre 2017 - Rubrica Scienza e Tecnica: I grandi tecnici della Marina Militare: l’ammiraglio Gian Battista Magnaghi, artefice dell’Istituto idrografico di Genova, di C. Boccalatte. Rivista Marittima, gennaio 2019 - Rubrica Scienza e Tecnica: I grandi tecnici della Marina Militare: l’ammiraglio Umberto Cagni, di C. Boccalatte. Rivista Marittima, aprile 2019 - Rubrica Scienza e Tecnica: I grandi tecnici della Marina Militare: il professor Angelo Scribanti, di C. Boccalatte. Rivista Marittima, maggio 2021 - Rubrica Scienza e Tecnica: I grandi tecnici della Marina Militare: il generale Gioacchino Russo, di C. Boccalatte. Rivista Marittima, ottobre 2021 - Rubrica Scienza e Tecnica: I grandi tecnici della Marina Militare: il generale Francesco Rotundi, di C. Boccalatte.
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RUBRICHE
C HE
COSA SCRIVONO GLI ALTRI
«Sea Power Makes Great Powers» FOREIGN POLICY, FALL 2021.
«Il numero di navi che un paese possiede non è mai stato l’unica misura del suo potere in mare. Altri fattori, ovviamente, giocano un ruolo importante: i tipi di navi che possiede — sottomarini, portaerei, cacciatorpediniere — il modo in cui sono schierati, la sofisticazione dei loro sensori, la portata e la letalità delle loro armi contribuiscono tutti a fare la differenza. Still, on the high seas, quantity has a quality all its own», esordisce il Navy Captain (ret.) Jerry J. Hendrix, autore del volume To Provide and Maintain a Navy (2020), lamentando subito come negli ultimi decenni, il numero delle navi statunitensi abbia visto un drammatico declino complessivo. Dalla fine della Guerra Fredda in poi, i politici hanno sistematicamente tagliato i finanziamenti alla Marina degli Stati Uniti per creare «un dividendo di pace miope» e ai nostri giorni, con i bilanci della Difesa piatti o in declino, i principali funzionari del dipartimento della Difesa stanno spingendo una strategia di «disinvestimento per investire», in base alla quale la Marina dovrebbe smantellare un gran numero di navi più antiquate per liberare fondi per acquistare meno piattaforme, più sofisticate e presumibilmente più letali. In altre parole, «ridurre drasticamente la flotta per pagare la modernizzazione». La Cina, nel frattempo, sta espandendo aggressivamente la sua impronta navale e aspira a mettere insieme la più grande flotta del mondo. Le voci più autorevoli da un lato riconoscono la crescente minaccia cinese, mentre dall’altro sostengono che gli Stati Uniti devono ridurre la loro attuale flotta per modernizzarsi. L’ammiraglio Philip Davidson, che ha guidato il Comando Indo-Pacifico degli Stati Uniti fino al suo pensionamento la scorsa primavera, ha osservato a marzo che la Cina potrebbe inva-
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dere Taiwan nei prossimi sei anni, presumibilmente preparando il terreno per una grande resa dei conti militare con gli Stati Uniti. L’ammiraglio Michael Gilday, capo delle operazioni navali, a sua volta ha sostenuto che la Marina ha bisogno di accelerare la disattivazione dei suoi vecchi incrociatori e navi da combattimento litorali per liberare denaro per navi e armi che saranno fondamentali in futuro. Nel loro insieme, questi punti di vista si sommano «alla confusione strategica e all’oblio della storia», non esita a denunciare l’Autore. «Secoli di rivalità globale mostrano come il potere di un paese — e il suo declino — sia direttamente correlato alle dimensioni e alle capacità delle sue forze navali e marittime». Di qui un rapido ma pregnante excursus storico: da Atene a Cartagine, da Venezia alle Province Unite d’Olanda, all’impero del mare della Gran Bretagna nel XIX secolo basato sulla politica del two-power-standard, cioè possedere un flotta che fosse sotto il profilo quantitativo pari alle due principali flotte mondiali, paradigma messo in crisi agli inizi del XX secolo dalla corsa agli armamenti navali della Germania, dal raddoppio della forza di battaglia della Marina degli Stati Uniti sotto il presidente Theodore Roosevelt nonché dalla politica di riduzione della flotta inglese voluta dal primo lord del mare, ammiraglio John «Jackie» Fisher, proprio in nome della «dismissione per investire», come vogliono fare oggi gli Stati Uniti. La successiva espansione della flotta statunitense attraverso due guerre mondiali — con più di 6.000 navi — catapultò gli Stati Uniti al potere e alla prominenza globale. Infine, la Marina di Ronald Reagan con 600 navi, tanto una campagna di pubbliche relazioni quanto un piano di costruzione navale, contribuì a convincere l’Unione
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Che cosa scrivono gli altri
una volta — come altri hanno fatto prima di loro — che sugli oceani del mondo, la quantità ha una qualità tutta sua».
«Degrading Campaign»
China’s
Integrated
Maritime
JOINT FORCE QUARTERLY, N. 103, 4th QUARTER 2021.
Sovietica che non avrebbe mai vinto la Guerra Fredda. Quindi l’Autore passa alla fase propositiva imperniata su tre capisaldi: per evitare gli errori del passato, il Congresso dovrebbe stanziare fondi sufficienti sia per fornire una flotta più nuova e più moderna a lungo termine, sia per mantenere la Marina che deve misurarsi oggi contro la minaccia reale e prossima della Cina. Tale allocazione richiede un aumento annuale del 3-5% del budget della Marina per il prossimo futuro, come peraltro raccomandato dalla Commissione bipartisan per la strategia di Difesa nazionale del 2018. Nemmeno una flotta di 355 navi, il numero avanzato dall’amministrazione Obama nei suoi giorni di chiusura, sarà sufficiente a ristabilire la deterrenza convenzionale in alto mare. Invece, gli Stati Uniti dovrebbero puntare, secondo l’Autore, a una flotta di 456 navi, comprendente «a balance between high-end, high-tech ships such as nuclear attack submarines and low-end, cheaper small surface combatants». Dovrebbe nel contempo anche cercare di prolungare la vita delle navi che ha ora nel suo inventario per coprire la minaccia a breve termine. In conclusione, «in questo terzo decennio del XXI secolo, gli Stati Uniti non devono ignorare le rime della storia», ripetendo gli errori della potenza marittima che l’ha preceduta — la Gran Bretagna — cullandosi nella falsa convinzione di poter «disinvestire per investire» in un futuro più luminoso, mentre la Cina manovra per superarla. Deve avere budget per la Difesa più grandi che consentano una strategia di sicurezza nazionale incentrata sulla potenza marittima di fronte alle crescenti sfide e minacce in corso. «Gli Stati Uniti devono riconoscere ancora
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L’Irregular Warfare (IW) è un metodo disponibile per le Grandi Potenze per modellare o controllare l’architettura globale consentendo a uno stato di «influenzare le popolazioni e influenzare la legittimità» senza incorrere nelle perdite più pesanti tipicamente associate ai conflitti armati veri e propri. Gli ultimi decenni hanno visto l’ascesa della Repubblica Popolare Cinese (RPC) come Grande Potenza e la sua orchestrazione di una campagna marittima integrata che utilizza l’IW — per esempio, coercizione economica, intimidazione diplomatica, lawfare (distorsione degli usi giuridici) e hacking dei sistemi informatici — per controllare il Mar Cinese Meridionale (SCS) nel contesto degli spazi rivendicati da Pechino con la nota «linea dei 10 trattini». Nel presente saggio, il maggiore dei Marines Douglas J. Verblaauw esamina le tattiche e gli strumenti di IW di questa campagna marittima surrettizia e descrive come gli Stati Uniti possono lanciare un’efficace contro-campagna per ristabilire l’ordine nel SCS creando una rete di sorveglianza e rafforzando le istituzioni di Sicurezza regionali. Tre sono Servizi marittimi della RPC che svolgono un ruolo importante nella campagna di controllo e presidio del SCS da parte di Pechino: innanzitutto la Marina Militare (PLA Navy), poi la Guardia costiera e infine la Milizia Marittima delle Forze Armate del Popolo (People’s Armed Forces Maritime Militia-PAFMM), le cui unità, mancando dei segni distintivi nazionali delle navi PLAN o CCG appaiono come normali pescherecci, i cui equipaggi, «indossando uniformi mimetiche, si qualificano come militari, mentre togliendosele, diventano innocui pescatori rispettosi della legge». E proprio l’incertezza su come trattare la flotta PAFMM (le cui unità, secondo le stime più accreditate, assommano a ventimila sotto le 50 t), ha lasciato le Forze marittime di altri paesi incapaci di rispondere in modo appropriato. «Se agiscono con la forza perché credono che le navi PAFMM siano veri e propri ausiliari navali, rischiano l’escalation verso un
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Che cosa scrivono gli altri
curezza internazionale del Sud-Est asiatico e dell’esperienza nelle principali organizzazioni internazionali. All’interno della panoplia statunitense, il tipo di organizzazione più adatta a questo ruolo è una Combined Joint Interagency Task Force (CJIATF). In ogni caso, gli Stati Uniti potrebbero assumere il ruolo di «abilitatorechiave» del sistema di sorveglianza, se la direzione del CJIATF venisse assunta da uno degli altri due candidati plausibili, cioè Indonesia o Singapore. Come «istituzione regionale» la scelta più ovvia andrebbe subito all’ASEAN, cioè al Forum regionale dell’Associazione delle nazioni del Sud-Est asiatico composta da 27 paesi, se non fosse per il fatto che l’ASEAN è un Forum decisionale di consenso, il che significa che nessuna scelta viene fatta «contro la volontà di un individuo o di una minoranza» e, poiché la Cina è membro del Forum, potrebbe ritardare o impedire qualsiasi decisione che non sia a suo favore! Si dovrebbe puntare allora su di un «forum alternativo sulla sicurezza» composto solo da Stati membri dell’ASEAN che prenderebbero decisioni basate su una maggioranza qualificata, anche se questo tipo di organo decisionale non includerebbe né gli Stati Uniti né la Cina. Queste sono le proposte che l’Autore pone sul tavolo al fine di verificarne da fattibilità, e nel frattempo? Gli Stati Uniti devono aumentare la propria presenza nel SCS in nome e in difesa della libertà di navigazione, mentre Pechino dovrebbe rispolverare le massime dei suoi classici maestri, come Zuo Qiuming per il quale «le buone relazioni non devono essere trascurate; l’inimicizia non L’air carrier strike group RONALD REAGAN in transito nello Stretto di Malacca alla volta del deve essere nutrita».
conflitto armato e la condanna per aver attaccato un peschereccio “innocente” [come negli esordi del romanzo strategico 2034, di cui abbiamo parlato nella rubrica di ottobre]. Se, invece, agiscono con moderazione e trattano le navi PAFMM come normali pescherecci, mettono a rischio la sicurezza delle proprie navi». Gli Stati Uniti e i paesi del Sud-Est asiatico hanno aspettato abbastanza a lungo che la Cina agisse nel SCS come «potenza responsabile», è tempo che inizino una contro-campagna lungo due obiettivi di sforzo, sottolinea il nostro Autore: la creazione di una rete di sorveglianza (in grado di rilevare, identificare e monitorare le navi PAFMM che minacciano la sicurezza regionale e le rivendicazioni di sovranità al fine di facilitare la segnalazione e l’interdizione internazionale) e il rafforzamento delle istituzioni di Sicurezza regionali, al fine del ripristino di un processo decisionale tempestivo e la celerità dell’azione in scenari di crisi. La rete di sorveglianza dovrebbe quindi designare un «attore principale» per costruire, mantenere e proteggere la rete di sorveglianza. La scelta immediata sono gli Stati Uniti a causa delle storiche posizioni di si-
Mar Cinese Meridionale (ndupress.ndu.edu/JFQ).
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Ezio Ferrante
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RUBRICHE
R ECENSIONI
E SEGNALAZIONI
Mirko Mussetti (a cura di) (prefazione di Lucio Caracciolo)
La rosa geopolitica Economia, strategia e cultura nelle relazioni internazionali Paesi Edizioni Ottobre 2021 pp. 128 Euro 15,00
Mirko Mussetti, collaboratore di Limes e già vincitore di premi per la saggistica, non è nuovo a uscite editoriali di pregio, lo testimoniano Axeinos! Geopolitica del Mar Nero e Nemein. Ma ne La rosa geopolitica riesce a offrire il meglio, una teoria innovativa espressa in forma sintetica e gradevole, di immediata e completa fruizione, che ricorre a un uso corretto e pieno dell’astrazione. Specialmente in questi tempi di pandemia e di scontri economici asimmetrici e globali, il lemma «geopolitica» è stato oggetto di rivisitazioni e, spesso, anche di utilizzi poco appropriati, perché ispiratore di mode non sostenute però da alcun indispensabile supporto dottrinario. Il dottor Mussetti, analista geopolitico e di geostrategia, riordina lo studio della disciplina, complessa proprio perché trasversale, partendo da un’analisi che investe geoeconomia, geostrategia e geocultura, e che stigmatizza in queste branche la mancanza di politiche incisive tale da determinare il crepuscolo delle nazioni. Il saggio non cita nomi e riferimenti degli egemoni che esercitano i rapporti di forza su scala planetaria, ma fornisce gli strumenti per interpretare e declinare le definizioni generali, stigmatizzate con originalità e profondità concettuale in una realizzazione grafica che, simbolicamente, esplica e introduce alla triplice manifestazione di geoeconomia, geostrategia e geocultura, ritenuta tuttavia imperfetta, tanto che dalla sovrapposizione di questi macro ambiti si determinano i tre tipi di conflitto ibrido, che hanno segnato e segneranno tutte le epoche e che rendono, come sostiene l’autore, «la rosa geopolitica è perenne». Il libro aiuta a leggere i principi sottesi tra le righe, coniuga sintesi, simboli e metafore che ampliano l’orizzonte partendo dal mondo classico, da cui trarre spunto e lezione. Logica e razionalità si coniugano all’astrazione, e in un contesto dialettico ricco di spunti, lasciano la possibilità di ra130
gionare e di controbattere aprendo ulteriori scenari. Il campo entro cui si profilano i nuovi equilibri tra le potenze, non è solo quello ristretto allo scontro convenzionale, ma anche a quello asimmetrico, al confronto ibrido che spazia dalla guerra economica a quella cognitiva. La geopolitica, così declinata, assurge al ruolo di molteplice strumento in grado di stimolare sensibilità e contatti volti alla comprensione delle dinamiche globali. Mussetti ha il merito di ricordarci come la politica sia sempre condizionata dalla conoscenza della storia, della geografia, della sociologia, della filosofia nel senso più esteso e lato possibile, senza porsi particolari confini. Ai leader del nostro tempo è richiesto il possesso di tutte queste competenze utili, nel pubblico come nel privato, per la comprensione delle dinamiche geopolitiche. Le connessioni economiche globali e i fattori capaci di influenzare gli equilibri internazionali determinano situazioni per cui ogni evento non può non avere una risonanza più che estesa. Il libro del dottor Mussetti aiuta a fornire e promuovere cultura e comprensione globali di scenari globali, e si propone quale base concettuale per dare ausilio a politici e imprenditori a comprendere le dinamiche che, con le loro conseguenze, caratterizzano la realtà quotidiana. Gino Lanzara Renato Caputo, Vittorfranco Pisano (a cura di)
I come Intelligence Indispensabilità & limiti
ilmiolibro self publishing (GEDI) Roma 2021 pp. 164 Euro 25,50
Il nuovo testo steso da Renato Caputo e Vittorfranco Pisano, affronta una tematica di fatto mai passata di moda, quella dell’intelligence, secondo uno schema organico e comprensibile, utile sia al neofita della materia per cominciare a esplorare una realtà quanto mai complessa, sia all’edotto, che potrà sicuramente approfondire i numerosi argomenti affrontati. Il libro si propone come un’analisi scorrevole, e tale da fornire un’adeguata strutturazione inerente sia Rivista Marittima Dicembre 2021
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Recensioni e segnalazioni
alla raccolta delle informazioni sia al loro utilizzo relativamente alla sicurezza dello Stato. L’intelligence afferisce ad ambiti estesi, dove cultura, preparazione e flessibilità mentale non attengono esclusivamente all’ambito pubblico, ma anche a procedure adottate da gruppi industriali, centri studi e di ricerca privati, connotando così nel modo più esteso possibile un’attività sempre più fondamentale. Caputo e Pisano nel loro testo si soffermano sulle attività di interesse degli organismi statali a cui è demandata la sicurezza collettiva, una sicurezza che non pertiene più all’ambito strettamente militare o agli aspetti interni, ma che si estende a settori strategici connessi all’informatica e alle risorse energetiche, alle comunicazioni, ai brevetti e, non da ultimo, in considerazione della pandemia in corso, anche al settore farmaceutico. Gli autori nel libro affrontano organicamente problemi, procedure e limiti dell’attività di intelligence, individuandone le funzioni basilari, ovvero la ricerca e l’analisi delle informazioni necessarie al perseguimento della propria strategia districandosi tra big data e ambienti all source; la contro-intelligence difensiva e offensiva; le operazioni coperte, anche se rappresentano solo un settore interessante i servizi d’istituto; gli aspetti tecnologici posti al servizio delle attività securitarie finalizzati al perseguimento della superiorità informativa non disgiunta dall’effettuazione di forti investimenti; le attività di controllo dei flussi finanziari volti a sostenere il terrorismo. Gli autori approfondiscono poi gli aspetti collegati alla struttura e al capitale umano investito, alla suddivisione binaria (interni ed esteri) dei servizi e alla loro più o meno variegata articolazione nazionale, con la necessità di procedere alle attività di copertura e alle dinamiche operative necessarie all’effettuazione delle operazioni. Trova spazio anche l’interessante disamina dei rapporti intercorrenti tra i servizi d’intelligence, ovvero sull’analisi basata sulla necessità di collaborazione con gli omologhi alleati pur se talvolta condizionata da differenze gerarchiche e diffidenze, capaci di condizionare e rallentare lo scambio di informazioni. Come ogni attività, anche l’intelligence conosce condizionamenti e limiti; sotto questo punto di vista ci si indirizza più sulla sicurezza che non sulla difesa, oltrepassando così una visione rigidamente militare del concetto di potenza nazionale per estenderla anche ad altri ambiti; un’evoluzione, senz’altro, che, tuttavia, data l’estensione e il numero
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dei fattori interessati, che spaziano dall’economia alla sicurezza interna, rischia di relativizzare il concetto stesso di intelligence. Il rischio fondato è che se la politica non è più in grado di individuare quali siano priorità e interessi nazionali, l’intelligence potrebbe non ricevere risorse adeguate per lo svolgimento dei propri compiti, resi già complessi dalle crescenti difficoltà tecniche e da valorizzazione e comprensione del limite costituito dall’elemento umano, come accaduto per gli eventi relativi all’11 settembre, dove un’analisi a posteriori ha dimostrato che l’insieme degli elementi costitutivi degli attentati ha costituito un unicum che un’attenta analisi portata sul singolo fattore avrebbe potuto evitare o, quanto meno, limitare. Proprio in merito a questo evento sorgono le domande circa cosa non abbia convenientemente funzionato, tra il coordinamento fra troppi enti diversi, e una sopravvalutata fiducia nell’ELINT a discapito dell’HUMINT. Insomma, tra le competenze da valorizzare, oltre alla digitale e alla cibernetica, trovano spazio anche le attività di intelligence in ogni ambito, e in ogni caso ovunque sia necessario reperire e analizzare informazioni e analisi rapide, esaurienti e aggiornate, affidate a professionisti colti, privi di pregiudizi, razionali, e in grado di cogliere dettagli, correlare dati e sintesi parziali per delineare gli scenari più realistici in funzione dei target affidati all’istituzione per cui opera. La presenza di rischi consolidati in quanto a valutazione delle conoscenze dei rischi a esse associati, e delle più recenti asimmetrie ibride, suggerisce che il professionista dell’intelligence più evoluto, sia dotato di una cultura superiore e di un approccio olistico ed esteso, un approccio per cui il testo contribuisce a individuare i mezzi migliori utili all’inserimento delle attività in un contesto multidisciplinare. Anche in Italia, attualmente, il sistema della sicurezza coltiva numerose collaborazioni accademiche che supportano le peculiarità professionali caratteristiche, e che richiedono una scientificità su cui indirizzare le varie competenze. Caputo e Pisano permettono di approfondire la realtà dell’intelligence che coltiva i propri successi sulla base di pianificazione e metodologia, fornendo schemi consolidati e testati. Il volume è, in sintesi, un testo tecnico-scientifico in grado di porre in simbiosi concrete esperienze maturate sul campo con i più astratti aspetti accademici. Gino Lanzara
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